di Alessandro Salvi
E’ un universo pieno di ombra e solitudine quello in cui Alessandro Salvi si aggira. La sua parola giunge come da un isolamento doloroso e comunica sofferenza e insofferenza. A volte urla, talora sussurra. Rari lampi di tenue chiarore di tanto in tanto interrompono il grigio.Con forza trattenuta i suoi versi sembrano voler chiedere un soccorso, senza troppa speranza, alla natura e agli uomini e, insieme, dare a tutti l’allerta per la sciagura incombente.[S.Dell’A.]
Da Santuario del transitorio
*
Io vi parlo da questa
inospitale zona del sentire.
Sì, questo scrivere pare mi annienti
a poco a poco, ma
mentre mi invento un vivere migliore
m’abituo a questo fuoco con cui gioco
da tempo ormai. Noi siamo solo ostaggi
del provvisorio.
Non è una fuga nell’irrazionale
bensì si tratta solo di guardare
l’invisibile che si spoglia e addita
lì dove vita e morte si coagulano
in un tutt’uno.
Io dentro queste parole ci vivo.
E muoio, a volte.
In quest’antro mi nascondo dal mondo,
venite a prendermi se ci riuscite.
Promemoria
Occorre negoziare con l’orrore del nulla.
Con la debita distanza e cautela
avvicinarla e rendersela amica
questa fanciulla fascinosa, immensa.
Invitarla una volta tanto, dirle
una bella parola. Non la solita
amara, cinica
folgore che stride strazia corrode.
Scrivere con una piuma di struzzo
Scrivere al buio.
Fatto strano, non credi?
Così è forse più onesto, sorpreso
da un’emergenza
che non dà il tempo
di staccarsi dal foglio
e dalla penna;
anche se privo d’illuminazione,
anche senza vedere
quel che si scrive, e come.
E solo al gesto vigile e concreto
è dato pieno credito,
all’attimo preciso
in cui ciò avviene
affidata l’assoluta attenzione.
*
La bianca quiete della neve innerva
nuova linfa all’inverno. Come pagine
– densi si formano ai nostri occhi – spazi
lisci e lividi contorni di fredda
impassibilità di sguardi. Gelido
il crepitare ovunque del silenzio.
Aspetto e osservo
la geometria impeccabile del gelo,
lo zelo del sidereo suo corteo:
algidi fiocchi di stupore nevicano.
Naufragò in alto mare e poi s’annegò il cielo.
Non una macchina, non un passante:
solo orme, immobili e precarie.
Bianchi gli istanti dove i passi luccicano
e le parole tacciono o raggelano.
Da Madrigali eroici
3.
Questo silenzio smagrito, d’assenzio…
Mi auguro proprio
che non sian come… come una farfalla
queste parole inchiodate nel nulla
di inevasi silenzi
ai cui margini sostammo spossati.
Ora come ora mai così presenti
tuonano inconcludenti
e reclamano d’esserci:
mi sgridano, mi pregano, mi stregano…
5.
Non ce la faccio a subire ulteriori
sconfitte, sempre le solite scene…
Non posso tollerare più le vostre
parole polveriere, che in agguato
minacciano di esplodere.
Questi sguardi caudati non mi piacciono
per niente,
manco le vostre mani frigorifere.
Via dalle vostre grinfie e dalle vostre
graffianti smorfie amorfe.
Ora sono di un’altra specie, dicono.
E non mi è dato essere che questo:
cinico osservatore di me stesso,
allegro affossatore del non detto.
7.
Con nella testa treni deragliati
e una manciata di buoni propositi,
avverto una stanchezza – sempre più
subdola – come polvere si posa
su ogni cosa rimasta troppo a lungo
ferma. Immobile. Come un’automobile
cui sono state rubate le ruote.
Oggi come oggi non è più possibile
– non più come una volta, almeno – ridere.
Nella miseria è una cosa assai seria…
e rara.
Ma io rido lo stesso e me ne infischio.
Voglio ridere di me, di te, di
chiunque mi si presenti di fronte.
Sempre meglio che piangere per niente
e solo.
Da Ladro di tamerici
*
prova a percorrere le mie parole
i polverosi sentieri cosparsi
di fonemi blasfemi ed altri sibili
ogni tanto ci trovi qualche lucciola
sdrucciola invero che nel buio luccica
amica… ride, si nasconde; ammicca…
sta a dirti che non tutto è come sembra:
ancora vale la pena sperare…
*
di piombo e inchiostro ti dimostro adesso
come si squarcia il vetro zigrinato
del silenzio assoluto del mio tempio
del sonno che riposa nella polvere
che mai osammo percorrere scalzi
ché nelle vene s’addensa la neve
fammi da eco ecco quel che voglio
non un monologo non un delirio
*
quell’incudine incute un gran timore
quando il ferro sprigiona le sue fiamme
il fabbro rischia a volte di bruciare
perciò meglio stare attenti col maglio
passeggi la prudenza per la stanza
si stanzi l’ira allora oltre la porta
sul dorso di uno scarafaggio in corsa
pazientemente la morte ti aspetta
* Le 10 poesie sono tratte da “Santuario del transitorio” (L’arcolaio, Forlì 2014). La raccolta è suddivisa in 3 sezioni e da ciascuna l’autore ho estrapolato alcune poesie.
Alessandro Salvi (Pola, 1976) vive da sempre a Rovigno. Ha pubblicato Piovono formiche carnivore e altre inezie (Aletti, 2008); Eserciziario di metafisica per principianti, silloge inclusa nel volume collettivo Creare mondi (a cura di Alessandro Ramberti; Rimini, Fara, 2011). Del 2011 è la plaquette I fori nel mare (Pistoia, En Avant! Produzioni). Nello stesso anno viene ripubblicata Piovono formiche carnivore e altre inezie (Rovigno, Apeiron; con la traduzione in croato delle poesie a fronte). Nel 2014 esce la raccolta di versi Santuario del transitorio (L’arcolaio, Forlì).
Belle. Soprattutto quelle della prima e della terza sezione.
Ci trovo note di disincanto, che per me non è (quasi) mai positivo (il disincanto in sé; non necessariamente quello di questi scritti), ma anche un’attenta riflessione sul mestiere di scrivere, sul rapporto con le parole.
Dieci poesie non sono molte, per un parere preciso sulla raccolta, ma mi sembra davvero un buon lavoro.
Non è facile lavorare poeticamente sul ‘disincanto’ che è una nota che spesso ci accompagna, soprattutto se ci siamo lasciati prendere dagli incantamenti di qualsiasi natura. (Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io/ fossimo presi per incantamento/ e messi in un vasel, ch’ad ogni vento/ per mare andasse al voler vostro e mio;/).
E’ facile cadere nel ‘birignao’, mentre in questi versi mi sembra che il poeta sappia davvero *scrivere con una piuma di struzzo*, esprimendo il sentire con forza di parola e delicatezza di immagine.
R.S.
…sì, delle belle poesie dove il poeta esprime un suo ritirarsi dalla scena, in una sorta di grotta buia in cui, senza la distrazione della vista, resta solo il gesto in sè della parola (scrivere con una piuma di struzzo)…o il suo passare dal nero al bianco della neve, un rifugio ovattato che allontana i rumori del mondo…Descrive, è vero, uno stato iniziale di oziosità disperante per una realtà che non ama, ma la parola poetica ha un ruolo niente affatto remissivo. rischiara il buio con la luce discreta di una lucciola oppoure si apre in una risata liberatoria sul non senso delle cose (voglio ridere di me di te di/ chiunque mi si presenti di fronte./ sempre meglio che piangere per niente e solo)
Grande disincanto in un bella spirale di parole che parte e ritorna su se stessa. Intendo dire una forza per non soffrire ma che riporta al pensiero che nulla è sogno.
Le metafore non perdono mai la freddezza necessaria.
Non mi emozionano ma mi colpiscono fortemente . Il poeta riesce nel suo intento.
Complimenti.
Un po’ ingabbiato nell’io… d’altra parte non è facile estraniarsi nel mondo che sentiamo ostile. Ma l’inviterei ad uscire. Oppure a trattarsi come un fuori luogo, un fuori di sé, a mettere distanza, per osservare-osservarsi meglio. A dispetto del piombo e di altre durezze, a mio parere svolge un discorso calmo e con pochi imprevisti.
Segnalo un verso:
fammi da eco ecco quel che voglio
non un monologo non un delirio.
L’uscita è teatrale ma funziona.
Le poesie stanno in uno spazio ” vi parlo da questa/ inospitale zona”, “Non è una fuga … addita lì dove … io dentro… in quest’antro”, e poi distanza, spazi, geometria, orme, nei testi della prima sezione. Nel luogo tutelato da margini, luogo peraltro senza colori, chi scrive si guarda da sgrinfie e smorfie. Nella terza sezione il luogo -da fuori è un tempio- appare percorso, tra neve e polvere, da fonemi e scintille, l’ira però si stanzi fuori la porta, dentro, come un piccolo ributtante insetto, ti può invece raggiungere solo la morte.
La scrittura è parca di aggettivi, quasi ogni verso ha senso compiuto, il lessico è colloquiale ma preciso., il tutto a indicare padroneggiamento di poetica e di posizionamento. Un sobrio poetare senza compiangersi, con vertici lirici nell’autoriconoscimento.
Sommessamente dissento dai pareri encomiastici o comunque positivi che mi precedono. Ho cominciato a leggere i versi dell’ultimo testo per arrivare, a ritroso, al primo. Sono stato subito colpito (non positivamente) da quello che a me pare un gioco allitteratorio-paronomastico troppo scoperto, voluto, esibito. Vòlto alla superficie, non alla profondità. L’impressione che ricavo dalla lettura è che l’autore cerchi (con un certo accanimento) l’attenzione e il coinvolgimento del lettore soprattutto affidandosi a richiami fonici ( “incudine incute”, “meglio … maglio”, “prudenza… stanza…. stanzi”, “dorso … corsa”, giusto per soffermarci ad alcuni esempi tratti dall’ultima poesia, con un picco -“lucciola sdrucciola … luccica “- nella terzultima composizione) che alludono, ammiccano e che, a mio parere, non aiutano a dar vita alla vera poesia, configurandosi piuttosto come supplemento di esercitazione letteraria. Potrei sbagliarmi, certo. Ma confido su quel po’ di esperienza in cose di poesia di cui m’hanno dotato i (purtroppo) tanti anni di vita, di studio, d’insegnamento, di scrittura. E tuttavia “homo sum”.
Pasquale Balestriere
Sì, io pure, come Balestriere, sento un appesantimento letterario nell’uso ( non so se incontrollato o ricercato) di allitterrazioni e insistiti richiami fonici e penso che Alessandro Salvi dovrebbe rinunciare a passeggiare tra quei ” polverosi sentieri cosparsi/ di fonemi blasfemi ed altri sibili”. E anche quando trovasse “qualche lucciola”, meglio sarebbe se non fosse “sdrucciola”. Se poi “nel buio luccica”, mi pare esagerato che, allo stesso tempo, sia “amica” e… “ammicca”.
Qui l’autoascultazione – il dispiegamento dell’autoreferenzialità – si fa accettare perché riscattata dal linguaggio che dribbla l’autocompiacimento , cosa rara in un “giovane”; linguaggio che ha qualche caduta – come è stato fatto osservare – qualche ridondanza , ma se non altro rinuncia , per scelta , all’armamentario retorico per giocarsi tutto sul significato , e si sa che rischio si corre quando la parola “è la sola padrona dell’ora”: si gioca con poche munizioni ; decide l’intrinseca espressività e non la “valenza”.
Credo – mi auguro – che Salvi ne sia consapevole e nel prosieguo gestisca al meglio la sua “misura”sicuramente pregevole .