di Lucio Mayoor Tosi
Cosa si nasconde nella testa del pazzo che svolta l’angolo
uscendo dal bar?
Ha due metri di fucile nella spina dorsale, un cappotto
marrone e l’aria
di chi ama osservare da lontano, con le sopracciglia in su
perché ha già visto:
è tutto sotto controllo, tranne per le auto che mancano
nel parcheggio.
Tutti a lavorare, o se ne stanno in casa a travasare bottiglie
e ricamare insalate?
Capitasse un pazzo potrebbe tenere il paese su una mano
e soffiarci sopra
spostando le cime degli alberi e l’erba alta sul corso del fiume
in cerca di galline recintate
di appartamenti invenduti, di camini accesi e cani che abbaiano.
Al loro posto
lungo quella via e quell’altra piena di gatti che scappano lesti
come topi.
Il ladro professore che ufficialmente viene chiamato dottore
ma che di fatto
trascorre il tempo a cercare di fare quanto più denaro
gli riesce
per farne altro denaro, naturalmente, e per scoparsi
la segretaria.
Ormai ha una certa età e preferisce andare sul sicuro
che il tempo è poco.
Non vuole sorprese. Effetti del potere che in un battito di ciglio
cambia pensiero.
A sera chiude gli occhi sulla tarantola che gli sale dalle gambe
e la medusa
che vorrebbe abbracciarlo per il collo. Ma lui chiude gli occhi
e alza le spalle.
Domani si dovrà comandare al bar tabacchi e bisognerà farlo
con tanto charm.
“Tenete, vi regalo il mio tempo. Non si dica che il dottore pazzo
non è generoso”.
Ma tutto sommato è un clown, uno che spera di essere ricordato
perché divertente.
Non è di quel genere di pazzi che puoi trovare sulla grondaia
intenti a leggere
il Vangelo posto sul manuale per le armi automatiche. Di fianco
un cellulare di prima
della guerra; che lui ha scampato, te lo dico io, perché sapeva
fare amicizia
parlando male degli altri: un po’ comunista e un po’ figlio
di puttana.
Qui non si capisce chi sia uno e chi l’altro. Se dottore
è piccolo e tarchiato
se in cima, alla grondaia, finge di leggere ma tiene d’occhio
le bambine
che escono da scuola, o quelle che scendono dal bus, purtroppo
vestite.
Se ha il fucile nella schiena e volesse sparare al dottore che sta
sulla grondaia
così, per il desiderio di mandare tutto in rovina. Non per vendetta
ma perché disturbato…
probabilmente ha nostalgia di quando lì c’erano solo campi
quella volta che si era perso.
Tra l’erba alta aveva visto un topo morto, le ceneri di un bivacco
e una serpe
che gli parlò nelle orecchie – chissà perché con voce femminile –
del suo dovere
di non fare come gli altri, ‘sti barboni, che vivono nella povertà
e nella sporcizia
credendosi padroni del mondo solo perché ci stanno sopra
e possono
calpestarlo. Il dominio dell’aria comporta altri intendimenti:
bisogna leggere la Bibbia
tanto per cominciare, o averla almeno nella testa. Mosè, Noè,
chi erano?
Con la merda che c’è intorno, possibile che uno non voglia aspirare
al cielo
e da lì, magari soffocare con un salasso terrestre tutti quei finti
padroni e tutte
quelle mignotte che si tirano la figa all’alba dei settant’anni.
Per non dire
dei bambini che calpestano le aiuole e dei vigili che aspettano
Natale per la mancia.
Se sparo mi sparo, se gli sparo soltanto farei il bene dell’umanità.
Quella d’oltre confine
America o Siberia. Via, sciò! Lo vuole l’arcangelo Gabriele
che sta seduto
in bagno: mio fratello nel dolore e grande chiavatore di femmine.
Lui sì.
Mi volesse la Vergine incoronata, anche solo per lucidarle i pavimenti
dove bela il serpente
e la gente lecca tutto il santo giorno- schiavo! – che se non rendi soldi
e gloria al signore
– mio amico, anzi fratello – ti faccio frustare dal bancario di turno
con il mare di cambiali
che mi devi dal momento in cui sei nato. E adesso diamoci ai negri
e ai vucumprà.
Non sono io, l’essere. Io faccio soltanto la MIA volontà. Vuoi metterti
a discutere, eh?
Il canto del gallo bagna la sotterranea. La resina del respiro si secca.
E’ tempo di matrimoni.
La voglia sul culo del tenente puntava a nord. Sulla minestra una pera?
Fantasie del catrame
e altre dopomorti. Sui comignoli danza l’airone tatuato che si volta
e scende dal letto.
Caro Ennio,
sembra teatro, sì. Oppure una sequenza cinematografica. A dire la verità, la ragione per cui l’ho inviato è che mi sento incerto (e ora colpevole perché vedo qui parecchi errori semantici, sparsi come refusi. Colpa mia sicuramente, ora controllo). Incerto sull’esito di questa poesia-racconto, quindi sul suo valore (esperimento di niente lirica e tentato realismo). Anche se scritta con a capo e metrica costante (anche se imperfetta), è solo prosa? Se poesia, e fosse brutta – ma poesia non può essere bella o brutta (?) – avrei mancato l’obiettivo. Nel finale mi discosto dal mio stesso linguaggio in cerca di una via d’uscita. Mi vengono in mente immagini di Niccolò Ammaniti, quella durezza.
Il punto che vorrei qui osservare è il rapporto tra poesia e prosa. E’ vero che leggiamo molta poesia tradotta, perdendo così buona sostanza del linguaggio originale del testo, e che da lungo tempo la poesia tradotta quasi sempre si stempera nella prosa, ma questo fatto può condizionarci?
Per rimettere le cose a posto vi mando quest’altra poesia, più in linea, come si dice, con le cose che scrivo ultimamente:
Ladro.
Pianoforte e carillon per cuori di plastica posti sul dentifricio in serate di riso, gote arrossate e facce di molti ex. Poi uomini che corrono come cavalli sul verdeprato. Foto in assenza di luna. Almeno tre ombre a persona. Il piccolo universo incravattato visto da più angolazioni, un fatterello sportivo. Ma non è ancora presepe: saremmo in pizzeria. Senza l’intero cielo ma una scollata notte, questo sì.
Disegnando quel che non c’è. Mentre sbadigliano ombre terribili, sul letto una bambola che profuma di saponetta. Direi che qui non c’è. Rimetto le cose a posto e affronto l’armadio. Tracce di vita: ci sono scarpe, sciarpe e cappelli. Fuori nessuno. Alcune serate guardando il traffico di pianura, molte altre dimenticate. Difficile indovinare il futuro, se di una cena in buona compagnia oppure a lutto. Le stelle in giardino d’un tratto si spengono. Non si ruba un pensiero.
Mi sembra una via di mezzo tra “realismo” (socialista?) e poesia americana (Beat generation ma non solo) del secolo scorso.
Sia chiaro che non è una battuta, né voglia di sminuire: è solo quello che ho pensato alla prima lettura. Voglio dire che se da parte tua c’è questo tentativo di fondere due modi di esprimersi parecchio diversi, ben venga: sui risultati non saprei, nel senso che una poesia è troppo poca.
Sempre a primo impatto, potrei dire che c’è evidentemente indignazione, si percepiscono la denuncia e la voglia di cambiare; ma anche – nemmeno troppo sotto sotto – quell’impotenza di chi ha provato, ma non è riuscito a raggiungere, quanto a cambiamenti, gli obiettivi che sperava.
L’altra che hai inserito nel commento – prosa poetica, a mio parere – è molto bella, sia per immagini che per loro associazione. Sul fatto che le traduzioni (col loro stacco dal linguaggio, e quindi dalla musicalità originari) ci possano influenzare non c’è dubbio. Quanto, dipende però dal singolo. E se tali traduzioni si stemperino sempre più spesso nella prosa, non saprei dirti. A me non sembra, per quel che leggo sulle riviste, ma non mi sento di dare un giudizio preciso.
Ah, la poesia non può essere “bella” o “brutta”; prima di tutto, o è poesia o non lo è: nel qual caso il problema nemmeno si pone. Se è poesia, può essere più o meno riuscita, ma anche questo discorso può essere relativo: soprattutto con le traduzioni, si possono perdere elementi fondamentali per giudicare un parametro del genere, sia in positivo che in negativo.
Grazie per questo inatteso rimando alla poesia americana della Beat generation. Davvero non ci pensavo; e sì che iniziai a scrivere, giovanissimo, proprio per l’emozione che mi davano quegli autori. So per certo che anche poeti noti, oggi ultra sessantenni, iniziarono così a scrivere: non è vero che tutti partirono da Dante e Petrarca; salvo che poi, come inevitabilmente accade, per studio e frequentazioni, si torna all’italian style – che non esisterebbe ma esiste se l’intendiamo come tradizione -.
Caro Myoor,
Questa poesia mi ha come al solito molto colpita.
Realismo direi “pazzesco”, pazzesco nel senso dello spostamento delle parole su ogni cosa che dovrebbe stare statica, triste quasi inutile . Tu sconvolgi con il tuo scrivere libero e rivoluzionario. Rendi le cose e le situazioni ad uno stato di ribellione e la costruzione del testo regge molto bene . Forte come una scossa di terremoto riesci a buttar per aria anche la situazione più banale.
Complimenti. Ciao
@ Ennio
rispondo qui perché mi sembra il posto giusto.
Realismo pazzesco: già spiegato nel commento precedente
Libero e rivoluzionario: Mayoor stravolge e capovolge il senso comune delle cose intese anche come oggetti e dà all’esistere la libertà del suo pensiero. Che sia paura, abbandono, amore ,rabbia,non ha importanza per lui, l’importante è fotografare la sua immaginazione , la sua caparbietà ed anche la sua (lasciatemelo dire) spiritualità.
Della prima “poesia-prosa” mi piacciono alcune immagini efficaci come quella del pazzo che svolta l’angolo con due metri di fucile nella spina dorsale (un tipo molto alto!). Altre le trovo più artificiose come “il Vangelo posto sul manuale per le armi automatiche” pour épater le bourgeois. Per il resto ho carpito qualche significato qua e là ma mi sfugge il senso completo e forse qualche significato più recondito. Personalmente ritengo che una poesia debba possedere più ritmo. Quando la metrica, perfetta o imperfetta che sia, si dilata ad un numero eccessivo di sillabe il ritmo non è più avvertibile. E’ un fatto musicale. E ciò non dipende se si va a capo o meno in modo ritmato. A suo tempo feci un esperimento con il solito “Infinito” di Leopardi. L’ho trascritto di seguito senza andare a capo su un foglio A4 in senso longitudinale. Ebbene la poesia non ha perso nulla della sua musicalità in quanto gli endecasillabi sciolti continuavano a cantare anche in questa forma geometrica. Analogamente ho letto delle prose che in realtà erano poesie camuffate a causa dell’esistenza di un ritmo interno chiaramente avvertibile. Naturalmente è giusto sperimentare per cercare di allargare il significato di poesia e di prosa ma bisogna chiedersi fino a che punto ci si può spingere senza finire per distruggere le loro peculiarità. Un problema simile, almeno per me, si pone con la comprensibilità, in particolare, della poesia. Ad esempio, l’Infinito di Leopardi lo trovo perfettamente comprensibile senza che nessuno me ne debba spiegare il significato. Naturalmente l’analisi critica può estrarre qualche altro significato ma che non aggiunge elementi davvero rilevanti. Tutte le poesie di Leopardi che ho letto le ho capite. E così di tanti altri poeti. Mentre di altri ne capisco qualcuna ma non la maggior parte (Ungaretti, Seamus Heaney, citando a caso). Di altri ancora non capisco nulla (e sono per lo più poeti contemporanei anche celebrati). E’ come per la musica contemporanea. Ci sarà una ragione?
Sono del parere che il poeta, in quanto produttore di significati, non debba avere verso questi un rapporto subalterno. A volte le poesie si chiudono quando il significato si svela, per un’epifania. A volte non lo si scopre facilmente. Altre ancora non ne hanno, né sembra ne vogliano avere. In questo mio tentativo il significato è nell’immagine “l’airone tatuato che si volta / e scende dal letto”. Un’immagine, non un significato.
Valeva la pena di scrivere un testo tanto lungo per arrivare a questa sola immagine? Probabilmente no, ma senza di essa non si può proprio parlare di poesia. Transtroemer è un poeta che scrive immagini, il suo esempio mi accompagna spesso ma qui ho tentato di evitarlo. Volutamente. Del racconto in sé, della poesia che narra, non mi importa molto.
… certo, poi uno pensa a Dante e si vergogna di aver scritto che non gliene importa, del racconto. Ma è così.
…il ladro professore, nella poesia di Mayoor, non compie certo imprese lodevoli, ma con il beneficio della pazzia, e, a seguirlo, viene il capogiro, proprio come capita di leggere nel finale dissacrante di questa poesia (o teatro?) dell’assurdo: “Sui comignoli danza l’airone tatuato che si volta/ e scende ( o cade?) dal letto”…In vari altri testi di Mayoor mi è sembrato di osservare l’intento di uscire dal””umano”, per cercare altre visioni meno incasellate e partigiane, fosse anche quela di un pennuto…Sarà vero?
Ringrazio tutti per i commenti e la collaborazione. Avrete capito che io considero la pubblicazione un fatto episodico, non definitivo. Questo lo fanno tutti. Io invece tasto, sperimento, sfrutto l’interattività del web perché non è come un libro, che come lo lasci lo ritrovi per sempre. Non ho un’immagine da offrire, decorosa e coerente. Nel mio blog personale pubblico poesie che puntualmente ritocco, anche a distanza di mesi. E’ la testimonianza, resa pubblica, di un work in progress.
“Personalmente ritengo che una poesia debba possedere più ritmo”, scrive Angelo Ricotta. In questo caso sono d’accordo: dove il ritmo cade ( perché il ritmo non è dato dal semplice a capo) traspare la prosa. E’ un difetto, dovrei lavorarci ancora; probabilmente con l’obiettivo di abbandonare il binomio ritmo-poesia. Per ritrovarlo nell’immagine, più che nella parola.
https://mayoorblog.wordpress.com/
Un approfondimento su quanto ho suggerito riguardo alla poesia della Beat Generation, visto che – in parte e indirettamente – anch’io iniziai da lì: fra i miei “modelli” Morrison, Dylan e Cohen c’erano vicini; Cohen un po’ meno, ma “Suzanne” mi pare non sfiguri affatto al confronto con i testi degli altri due, da questo punto di vista.
Dunque, la scarsa musicalità sulla quale concordo con Angelo Ricotta. Il problema secondo me sta nella lingua: questi versi lunghi e costruiti per sequenze (più o meno automatiche) di immagini, tipici di tanti autori americani (non solo Beat), hanno una loro musicalità grazie alle peculiarità della lingua; che non è facile rendere in una traduzione italiana, o scrivendo in italiano “alla maniera di”.
Io ho cercato di risolvere il problema giocando sulla costruzione sintattica della frase (per esempio usando insistentemente una costruzione con “posso + verbo”, anziché coi nostri tradizionali “vorrei”, “potrei” o le forme condizionali semplici); e col terminare il verso al termine della frase, badando solo in un secondo momento a ridurli a endecasillabi o altre misure.
Quanto ci sia riuscito, dovrebbe essere però materia di dibattito fra i miei lettori; posto il fatto che io ne sono nel complesso soddisfatto.
Dunque tu sei per il verso libero. Io no, a me stanca. Lo trovo troppo impegnativo, da scrivere e da leggere. Non è per niente libero. Sono a favore del verso didascalico. Un giorno non vedrete immagine che non sia commentata da poesia.
Pensa un po’: per me è il contrario…
Ma questo che hai scritto (“Un giorno non vedrete immagine che non sia commentata da poesia.”), è bellissimo. Magari accadesse…
Stuzzica questo ‘modo poetico’ di Mayoor. E’ una poesia danzante.
C’è una musicalità (non sempre ‘ritmo’ che, a volte, cade e costringe il lettore a tornare indietro) che lo guida nella ricerca di sgranare immagini. Che a loro volta sono immagini di immagini, invece che essere immagini di realtà.
E quindi campi caleidoscopici che si aprono all’infinito.
Che cosa tenga in relazione questi ‘frammenti’ non è dato sapere: non mi sembra abbia a che fare con la ricerca di un senso (sarebbe in un certo qual modo più strutturato) quanto di rappresentare un inizio magmatico in cui suono, immagine e parola si incontrano. Un po’ come la scena dell’astronave del film “2001: Odissea nello spazio” quando è proiettata nell’Universo.
R.S.
Linguaglossa ha definito questo procedimento come costruzione di ologramma. A me interessa molto, mi riesce facilmente e forse è un modo nuovo di fare poesia. Se non nuovo, è comunque un modo su cui vale la pena di porre la massima attenzione. La ragione è ancora da scoprire, la tecnica poi è affidata a chi ci prova. Si parla molto di uso del frammento e di immagini, più di punteggiatura che di parole. Qui ho voluto strafare utilizzando la prosa. Faccio esperimenti. Per questo l’ho postata: come te, per raccogliere suggestioni e altri punti di vista. Al momento non so nemmeno se la conserverò. Parlo ovviamente della poesia lunga. Quella che ho inserito nel commento precedente va bene così.
Le parole nell’etere.
Il verso si distende roteando simile alla punta di un trapano
scavando.
Quel che era sopra ora è sotto, e poi nuovamente ma in altro
aspetto.
Le parole nell’etere non hanno accenti, a stento una metrica
quantistica.
Semplicemente connesse, le parole si sentono meccanicamente
perfette. Ed escono.
(agosto 2015)
COMMENTI DI MAYOOR E ABATE INSERITI PER ERRORE SOTTO UN ALTRO POST
mayoor
10 maggio 2016 alle 10:41
Io sono soltanto un operatore dedito alla frantumazione della scrittura e della lettura, in qualche modo consapevole di voler agire per una ridefinizione del sistema culturale. Che poi ci riesca o meno, questo è da vedere. La tua critica, per la quale ti ringrazio con tutto il cuore, oltre che avermi sinceramente divertito, mi fa capire dove ho sbagliato: non sono stato abbastanza pazzo, non ho destrutturato abbastanza; mi sono tenuto a metà strada. Imbavagliato dai generi (prosa e poesia) ho prodotto una scritto immaturo. Lo sapevo già ma confusamente, per questo ti ho chiesto di pubblicarlo. Eh sì, temo di essere davvero pazzo, o di stare per, quindi ho bisogno di sostegno. Posso saltare l’ostacolo solo grazie ad uno sforzo di estrema lucidità. Ma non voglio essere ricondotto verso soluzioni collaudate che non mi appartengono o che non corrispondono a quel che sono e sento. Oltre tutto, come si sarà ampiamente capito dal linguaggio, io opero con poveri mezzi; poveri perché il mio rapporto con la letteratura, e in generale con la cultura, è sempre stato in qualche modo allucinato, istintivo, lacunoso, sprovvisto di metodo: ma dove speri di andare, Mayoor, con quella giacchetta?
Forse dovrei decidermi a leggere Composita solvantur, di Franco Fortini, per vedere se riesco a connettermi al passaggio delle sue ultime parole. Stamattina, esplorando dopo aver letto su LPLC ( (altri) Personaggi precari, sul sito di Lietocolle ho trovato una interessante recensione di Ulisse n.19, dove leggo: “Luca Lenzini mette in luce anzitutto come l’uso del computer non sia solo un aspetto della biografia dell’autore ma sia significativo anche per la ricostruzione della genesi di alcuni testi del tardo Fortini, per quanto riguarda aspetti materiali, formali e ideologici. In particolare, in Composita solvantur, l’acquisizione di un lessico derivato dall’informatica, e la riflessione su alcune procedure quali l’inizializzazione – nella tensione tra cancellazione della memoria e inizio assoluto – testimonierebbero uno sforzo estremo di assumere dialetticamente i linguaggi contemporanei nella lotta contro l’ideologia del nuovo ordine di cui sono peraltro anche espressione”.
Interessante vero? Lo è anche per me. Spiace per il copia incolla, che non amo, ma almeno serve quando si vorrebbe ricorrere alla dialettica, l’indomita disciplina che governava il mondoRispondi
mayoor
10 maggio 2016 alle 11:10
… lo scritto di Jan Brzechwa, se va bene è degli anni ’60. Credo abbiano già risposto poeti come Balestrini e Corrado Costa. Allora ero in quel pubblico. A volte m’incazzavo ma ne valeva sempre la pena. Quella rottura di schemi mi portò a considerare il mio linguaggio ( era davvero mio quel linguaggio?) e mi incoraggiò ad esplorare. Ma, grazie al cielo, davvero non ci so fare con l’imitazione.
Ennio Abate
10 maggio 2016 alle 10:54
“ma dove speri di andare, Mayoor, con quella giacchetta?”
Un’espressione di questo tipo, sprezzante e svalutante, non uscirà mai dalla mia bocca.
Ho posto precise domande. Sarebbe bene tentare di rispondere a ciascuna di esse. Onestamente, come meglio si crede..
mayoor
10 maggio 2016 alle 11:51
Sì, lo dicevo ironicamente a me stesso, un po’ commiserandomi. Credo di averti risposto qui: “non sono stato abbastanza pazzo, non ho destrutturato abbastanza; mi sono tenuto a metà strada. Imbavagliato dai generi (prosa e poesia) ho prodotto una scritto immaturo”. Ma va bene, cercherò di rispondere punto su punto alle tue domande. Spero di poterlo fare in giornata.
1. Dove starebbe qui la «fusione» di poesia e di prosa?
Se poesia è quel lampo che accade mentre non ci sei, e poeta colui che pur senza esserci riesce tenere gli occhi aperti (mentre il grande poeta è colui/lei che riesce a farsi lampo), allora dico subito che poesia qui non c’è. Siccome però gli occhi li ho tenuto aperti, è quasi poesia (senza trattino).
Se prosa è racconto scritto con linguaggio che abbia capo e coda, con un plot che si possa seguire, allora questo mio scritto non è da considerarsi nemmeno prosa. E non è racconto breve perché scritto con modalità che appartengono al versificare. Dunque è un nuovo genere “tra”, probabilmente sorto e favorito dai tempi, che consente all’una e all’altra cosa di poter coesistere.
2. Si può individuare nei versi un po’ d’indignazione e di denuncia (generica), ma dove sarebbe la voglia di cambiare? e in che direzione?
Non vi è denuncia. Non vi è alcuna direzione. Il poeta-operatore agisce in diretta, in qualche modo partecipando. Però visione e fantasia tengono conto della realtà: vi sono dirette. Nello specchio ( nel testo riflettente) si mostra un volto grottesco.
Questo per rispondere anche al punto 3, sul realismo pazzesco ( ottima definizione).
4. Perché questo di Mayoor sarebbe uno «scrivere libero e rivoluzionario»?
Ah, questo non lo so. La mia rivoluzione è iniziata nel 1.990, mese di novembre, ed è tutt’ora in corso. Procede ascoltando, osservando, e per contaminazione.
5. Dove starebbero oggi – non nel Cinquecento o nel Settecento o nell’Ottocento – l e cose “statiche” a cui questa poesia reagirebbe? O la «scossa di terremoto», che butterebbe all’aria «la situazione più banale»?
Nella psicanalisi e nella meditazione ( che non è pensamento ma sono tecniche ben precise che hanno effetti benefici per il de-condizionamento. Non so come si possa vivere senza). Questo nel racconto non viene detto: è il volo radente di una rondine agli ordini di qualche extraterrestre.
6. Cos’è questa esaltazione (unilaterale per me) della musicalità e del ritmo in poesia?
Su questo sono perfettamente d’accordo. Probabilmente si crede così di poter dare una definizione di poesia. Io mi sono costruito un metro, variazioni dell’endecasillabo, perché mi consentono numerose ripartenze. Tutto qui. Solo che stavolta ho provato ad applicarle alla prosa. Come vestire un maschio da femmina o viceversa: terapia di maschile e femminile che, però, a me non porta nulla. Non è tra i miei obiettivi quello di modificare le forme già collaudate.
7. Che tipo di *oscurità* (attiva, dinamica, che fa pensare o ambigua, evasiva, che vuole stupire e sorprendere ma nulla più?) troviamo in questa poesia?
L’evento della scrittura in avanzamento sul nulla. Serve fiducia.
8. In che senso il procedimento adottato da questa poesia sarebbe o somiglierebbe alla costruzione di un «ologramma» (cioè, se capisco bene, la poesia o le sue immagini sarebbero trdimensionali)?
Sì, le immagini concorrono a formare l’insieme. Qualcuno potrebbe dire: come i pianeti e le stelle fanno l’universo. L’importante però è sapere di farlo.
9. Cosa comporta (per la poesia) puntare ad «immagini di immagini» invece che a « immagini di realtà»?
Non ne sono certo, ma penso siano risonanze: non si muove nulla senza che l’intorno non ne risenta. Se ci pensi questa è ricchezza (di suoni). Però alla realtà io ci resto attaccato: è il mio gate, senza sarei perduto. E’ anche questione d’amore. Perfino in questo racconto sgangherato.
Dicevo “è anche questione d’amore”
non per cercare un finale romantico, ma perché amore è dire le cose come stanno. Amore è come la verità viene detta, nei limiti della consapevolezza che ciascuno ha. Purtroppo mandando sempre le parole alle stelle, verso gli assoluti, finisce che le perdiamo.
Ancora sull’ologramma: non dimenticarti che io sono pittore. Probabilmente scrivo da pittore. E sai che in pittura l’immagine, qualunque essa sia, si presenta con la sua “faccia” ancor prima di essere compresa.
@ Mayoor
Provo ad insistere. Le domande che ho posto partendo da «Sulla collina» sono nate da una mia ostilità cresciuta nel tempo, a causa anche delle poesie che vado leggendo su vari blog ma soprattutto dei commenti fumosi o pieni di enfasi iperletteraria che li accompagnano. Troppi nei loro discorsi sulla poesia d’oggi non fanno che appellarsi all’Oscurità, al Mistero, all’Inconoscibile. E anzi ad esaltarlo per esaltarsi. In più brandiscono queste parole/concetti contro i poveretti, i profani, gli “incompetenti”, che, secondo loro, sono irrimediabilmente esclusi da questi Regni a Pochi riservati; e in cui, solo loro – coraggiosamente, eroicamente, pionieristicamente – s’inoltrano. Con quale lasciapassare, non viene spiegato. Anche perché nessuno o pochissimi osano chieder conto a tali Sacerdoti di quel che scrivono e analizzarlo attentamente. Tu non sei del tutto dentro questa Compagnia che si bea dell’ ombra delle parole, ma mi pare ci bazzichi volentieri. E ci metti del tuo e da tempo. Come provano numerosi altri nostri duetti più o meno polemici reperibili sui vecchi blog «Moltinpoesia» e «Poesia e Moltinpoesia».
Ogni tanto, solo quando trovo il tempo per farlo, mi sento di mettere i puntini sulle i, di marcare le distanze, sviluppando dei commenti critici come li intendo io. Per non ridurre Poliscritture a effimera vetrina dei poeti che mandano anche qui i loro testi. Testi che vanno certamente ospitati così come sono, ma che andrebbero anche letti con più attenzione e commentati in profondità. Spero sempre che anche altri sentano questa esigenza. Ma non ho nessun potere per imporla o trasmetterla. Posso solo praticarla con qualche esempio, quando mi riesce. Quindi non con tutti quelli che vengono qui pubblicati . Dovrebbe anche essere chiaro, da precedenti discussioni su comprensibilità/incomprensibilità, su oscurità autentica/oscurità decorativa in poesia ma anche sul tema della *realtà* (conoscibile/inconoscibile) che non sono il fautore di una poesia razionale o illuministica o che crede che la *realtà* stia là a portata di mano e che basterebbe togliersi le fette di salame dagli occhi per afferrarla. Questa premessa la sento doverosa per non sembrare che io mi accanisca o voglia fare un dispetto a un collaboratore di lunga data di Poliscritture.
Sulle tue risposte alle mie domande ribadisco quanto segue:
– No, per me la poesia non è «quel lampo che accade mentre non ci sei». Non è solo o soprattutto o esclusivamente “illuminazione”. Le definizioni di cosa sia la poesia si sprecano e si contraddicono, ma bisogna pur sceglierne qualcuna. Ebbene, una delle definizioni cui mi sento più vicino – e non è una sorpresa – è quella contenuta nell’intervista del solito Fortini, più volte da me citata e che mi pare in netto contrasto con quella che tu nei dai, perché non mette affatto l’accento sul “non esserci” (razionalmente parlando) di chi la scrive:
«Qualcuno alla fine del Settecento, scrisse che la poesia era un sogno fatto in presenza della ragione; forse sarebbe più esatto dire invece che la poesia è un ragionamento fatto in presenza di un sogno, cioè un discorso che in apparenza è un discorso come un altro cioè un discorso di amore, di dolore, di descrizione, di esortazione, di sapere, di sapienza che è fatto sotto lo sguardo di un fantasma sotto uno sguardo che tutto tramuta, tutto apparentemente lasciando intatto come accade appunto nei sogni»;
– Resto del parere che, in «Sulla collina», non ci sia «fusione» di poesia e prosa (o di ‘quasi poesia’ e ‘quasi prosa’). C’è, secondo me, giustapposizione, incastro, in un tessuto narrativo abbastanza prosastico (quello che ho cercato di rendere con la parafrasi esplicativa, operazione che i fautori della “poesia-lampo” purtroppo disprezzano) con varie “immagini poetiche” (quelle che io ho estratto e non ho analizzato). Si tratta di immagini più o meno surrealiste o assurde. Ma a me preme direi che ad esse ci siamo ormai abbastanza abituati. Sorprendono, sì, ma non mi paiono esperimenti così innovativi (ammesso che l’innovazione debba essere l’unica preoccupazione del poeta). Andrebbero indagate analiticamente e criticamente. E senza alcun timore che farebbero “morire” la poesia. Questa a me è parsa sempre una bella scusa per lasciare le cose in sospeso o nell’incertezza. E azzittire il ragazzino-critico che potrebbe esclamare: ma signori, vedete che il re è nudo! Sento parlare spesso di prosa-poesia, di poesia in prosa, di prosa-prosa, di poesia di ricerca, ecc. Mi ero anche ripromesso (per scrupolo, non per obbligo ad essere aggiornato) di sorbirmi dei lunghissimi saggi apparsi su «L’Ulisse», la rivista on line, o certe discussioni per addetti ai lavori su «Nazione Indiana», ma un po’ non ho trovato il tempo per farlo e un po’ la curiosità è scemata. Questo per dire che tu sembri muoverti in questo ambito di ricerche. Che appunto, sono ricerche, tentativi da non snobbare. Quello che mi sento di dire per ora è che, comunque, in «Sulla collina» non vedo questa “fusione” tra i due generi. E che non vedo un loro superamento in tempi stretti, malgrado queste sperimentazioni.
– Se in Sulla collina» non vi è «denuncia» e non vi è «alcuna direzione», la differenza fra me e te starebbe in questo: io me ne preoccuperei, tu sembri quasi vantartene. Ora non capisco per quale miracolo « visione e fantasia tengono conto della realtà: vi sono dirette». È un’affermazione che contraddice la precedente: non vi è «alcuna direzione». Né capisco cosa garantisca alla visione o alla fantasia di muoversi verso la realtà, quanto manco la ragione oggi può essere sicura di andare in direzione della realtà. Ancor meno capisco perché sarebbe un’ottima definizione quella di «realismo pazzesco» (da te ora usato senza neppure più le virgolette dubitatative all’aggettivo).
– Se non sai perché il tuo sarebbe uno «scrivere libero e rivoluzionario», perché dici che la tua «rivoluzione è iniziata nel 1.990, mese di novembre, ed è tutt’ora in corso»? Se ascoltare, osservare è “rivoluzionario”, direi che allora un po’ lo siamo tutti perché tutti un po’ ascoltiamo e osserviamo. Insomma, non userei il termine ‘rivoluzionario’, visto che non distingue attività veramente eccezionali da attività molto comuni che facciamo in tanti.
– Sorvolo su quanto dici su psicanalisi e meditazione. « Non so come si possa vivere senza» mi pare un atto di fede. Lo rispetto.
– Il tuo metro basato, come dici, su delle variazioni dell’endecasillabo può essere una buona ginnastica. Ma anche questa non mi pare una grande novità. Sono tante le prose che contengono nel loro corpaccione una serie di endecasillabi. Non vedo perché applicare (se capisco bene) queste « variazioni dell’endecasillabo» equivarrebbe a « vestire un maschio da femmina o viceversa». E a me la questione che preme non è fare una “ginnastica per poeti”, una specie di allenamento decontestualizzato, come quelli che si fanno in tutti i regimi scolastici, ma far venir fuori le forme metriche dal “corpo a corpo” con le situazioni “reali” (eventi, sentimenti, problemi che angosciano o esaltano) in cui chi scrive vive. Non nego che tra “addetti ai lavori poetici” eventi, sentimenti e problemi che angosciano o esaltano siano assenti, ma preferisco quelli vissuti dalla “gente comune”, da chi non se ne sta nell’ambiente protetto di “soli poeti”.
– « L’evento della scrittura in avanzamento sul nulla». Ecco qui vedo il fumo…
– «In che senso il procedimento adottato da questa poesia sarebbe o somiglierebbe alla costruzione di un «ologramma» (cioè, se capisco bene, la poesia o le sue immagini sarebbero tridimensionali)?». Questa la mia domanda.
Sì, «le immagini concorrono a formare l’insieme» e non hanno una loro «faccia» immediatamente comprensibile ,ma ambigua e appunto da scoprire, da caire, da afferrare. É certo anche che le immagini entrino nella poesia (sotto forma di parola che evocano immagini). Mi chiedevo però, molto più semplicenete, perché si parla di «ologramma». La definizione di ‘ologramma’ che trovo sullo Zingarelli è : ‘lastra fotografica che può dare immagini tridimensionali’. Applicando il termine a certe poesie o a questa tua, si vuol dire che le immagini che vi appaiono siano da considerarsi tridimensionali? E perché?
– Chiedendo :«Cosa comporta (per la poesia) puntare ad «immagini di immagini» invece che a « immagini di realtà»?», intendevo riportare l’attenzione proprio sulla distinzione tra un tipo di poesia che si nutre di «immagini di immagini» ( in genere la “seconda natura” massmediale e industrial-capitalistica) e un tipo di poesia che mira a fare i conti con « immagini di realtà», sfuggendo cioè per quanto possibile alle fantasmagorie, ai miraggi, alle spettacolarizzazioni da cui siamo posseduti e invasi. Dire « alla realtà io ci resto attaccato» a me pare oggi più che mai problematico, se non si riesce a capire bene cosa intendiamo per realtà; e se ci riferiamo al primo tipo o al secondo tipo di poesia. Quanto all’amore (sia pur nella definizione che tu ne dai: « amore è dire le cose come stanno.»), esso mi pare che ci possa entrare in poesia solo come spinta esterna, come intenzione, ma che non garantisca per niente l’avvicinarsi alla realtà.
La realtà
non è reale
reale è lo sguardo.
Emy
Chiedo scusa se rispondo velocemente solo a questo post di Ennio (11.05, h. 13.03)trascurando le comunicazioni precedenti a loro volta meritevoli di attenzione (ho ancora degli arretrati per Rizzi e Ennio stesso su altri post … speriamo di farcela!).
Il fatto è che, non essendomi ancora abituata al regime della risposta ‘viscerale’, affido ancora alla parola, pur con i vizi e le lungaggini che essa comporta, la possibilità di esprimere il mio pensiero e avendo poco tempo e innumerevoli casini -come immagino che, purtroppo, abbiamo tutti – devo posporre delle risposte più complesse a un momento di maggiore calma.
Ennio, a mio parere, fa bene a sospettare di tutta quella congerie di persone che chiama in causa l’Indicibile, ecc. ecc.. (il più delle volte con gli intenti sopraffattori di chi amministra il sacro ai danni del profano), però rischia di fare di ogni erba un fascio con il risultato di farne un Totem che ha la doppia funzione, in quanto portatore di un tabù, di creare adoratori e detrattori. Che ci sia la sagra di coloro che ci navigano e si esaltano rispetto *all’Oscurità, al Mistero, all’Inconoscibile* è fuori discussione, ma non per questo dobbiamo negare che siamo impastati con qualcosa che fa parte della nostra esistenza più o meno consapevole (per amor di patria lasciamo fuori la psicoanalisi).
Che poi esista l’intuizione (che preferirei al termine ‘illuminazione’ che mi sa tanto di religioso) è un dato sperimentato: c’è la capacità da parte di alcuni di intuire, lo diceva anche Poincarè, delle connessioni significative tra eventi e che portano ad una nuova visione degli elementi messi in gioco; il che, tradotto, significherebbe una lettura nuova della realtà. Che poi su questo si voglia costituire un sistema, allora entriamo nell’ambito, appunto, di tutto un pensiero New Age del quale io stessa diffido.
Quando, rispetto al lavoro di Mayoor, – che, sia chiaro, è fonte di stuzzicamenti e non di ‘soluzioni’ – ho parlato di “immagini di immagini” piuttosto che di immagini di realtà, ne notavo l’aspetto auto generativo (in ogni caso, a mio parere, molto lontano dall’ologramma di cui parla Linguaglossa, proprio perché l’ologramma ha tutta un’altra struttura! L’auto generatività non implica necessariamente la tridimensionalità). A me aveva fatto pensare a ‘Blob’, quel programma di satira di Rai 3 a cui aveva dato inizio Ghezzi nel 1989 e dove il montaggio dei vari spezzoni di ‘realtà’ avrebbe dovuto servire ad una interpretazione diversa della realtà stessa.
Quindi si tratta di ‘montaggio’, di relazione (di senso, per Ghezzi) e, forse, musicale o pittorica, per Mayoor.
Ritorniamo dunque alle domande classiche:
– la sperimentazione sul linguaggio – e l’ars poetica è un luogo di sperimentazione – in che modo si rapporta con il ‘reale’ (che sappiamo essere ‘parvenza’ ecc. ecc.) e con le sue trasformazioni? Usare ‘operatore ecologico’ al posto di ‘spazzino’ che cosa cambia? E’ solo una questione ‘estetica’?
– la poesia ha dei ‘compiti’ nella relazione con il suddetto reale, oppure è soltanto un ‘amusement’ personale che, invece di stimolare la curiosità di ‘molti’, recluta solo un cenacolo di pochi?
R.S.
@ Simonitto e tutti/e
Solo per dire di non farsi nessun problema nell’intervenire anche dopo vari giorni. Meglio per tutti/e evitare le risposte o le battute “viscerali”. Al massimo tenerle al caldo e vedere poi se vale la pena di aggiungerle ancora, come contorno, nelle risposte meditate.
Leggo e rileggo questa poesia (e quella mandata sempre da Mayoor subito dopo, più vicina – così dice – alle sue ultime cose) e più lo faccio, più mi sembra un esperimento che va valutato come tale: cioè dare troppo peso a eventuali fantasmi, o paure, o cose del genere in ambito tecnico-compositivo, che lo scritto stesso può evocare.
Scrivo questo – senza alcuna volontà di polemizzare – soprattutto per Ennio; le cui considerazioni sono forse non giuste, ma perlomeno sensate; ma che vengono smussate, se si pensa appunto a questo modo di scrivere, come al modo di una persona che sta cercando una strada. Eventuali fumosità, ecc. spariranno col tempo; oppure gli prenderanno la mano, se dovesse ritrovarsi a far compagnia al già buon numero di scrittori che, innamorati delle loro parole dalle Avanguardie in poi, hanno perso di vista il contenuto di ciò che scrivono.
Sì, tutti questi rischi (o dubbi), ci sono ed Ennio fa bene a metterli in risalto; anche se in certi casi (per esempio col dilemma “immagini di immagini” / “immagini di realtà”), mi sembra che cerchi il pelo nell’uovo.
@ Rizzi
Cercateli pure voi i peli nell’uovo (della poesia). Ce ne sono tanti…
P.s.
Comunque ho chiarito che non ce l’ho con Mayoor.
Riflessioni sul reale: forse dovremmo prima dirci, chiaramente, cosa intendiamo per reale.
Comunque, anche chi avesse a cuore unicamente le sorti sociali e politiche della mondità dovrebbe porsi il problema di aggiornare il COME.
I molti: vi faccio notare che una volta si usava dire “masse”. Il COME è stato aggiornato (guarda caso da un poeta).
Realtà: In una famosa poesia Attilio Bertolucci descrisse le rose bianche del suo giardino; il figlio Bernardo ha dichiarato di una intervista la sua emozione nel ricordare che quelle rose esistevano veramente. Copia e verità della poesia.
Queste cose valgono anche per me, ma io faccio come Van Gogh: dipingeva iris, non incoraggiava la gente a suicidarsi.
Per il resto tento di rompere schemi mentali, che poi è quel che faccio ogni giorno anche nella vita.
Rizzi ha visto bene: il mio “racconto” è un esperimento. Credo di averlo detto apertamente, anche a Ennio quando glielo proposi con una mail.
Forse non è ologramma, per le ragioni esposte da Rita e perché, malgrado i molti salti, conserva nel tono l’andamento lineare con cui sono fatte tante poesie e racconti. L’ologramma è pensato per rompere questa linearità. Non mi sembra una cosa da poco.
Può essere composto da elementi tra loro assai distanti. Non è detto perciò che sia, o debba essere, copia della realtà per come la si conosce e percepisce normalmente.
Ho come l’impressione che, volendo tentare un esperimento di “poesia ologramma”, si dovrebbe tentare con la poesia visiva; e non solo perché con essa si può in qualche modo replicare la tridimensionalità pura e semplice.
Fornire un qualcosa di una dimensione superiore a quella che si ha a disposizione, è sempre stato piuttosto complicato: vedi i Cubisti con la sfida della rappresentazione del tempo. La poesia è “bidimensionale”, fisicamente parlando; certo, vive di immagini e tali immagini suggerisce – anche con molta forza – al lettore. Se ci si limita a questo punto, allora qualunque poesia costruita con l’associazione di immagini è “olografica”: dopotutto nemmeno l’ologramma è realmente tridimensionale.
Almeno, questo è quel che posso dire (anche in mancanza di contatti con Linguaglossa), per ragionare dell’argomento: in effetti vedere una poesia lineare nell’ottica di una qualche tridimensionalità, non mi è mai passato per la testa… Se guardo visivamente ai miei scritti, lo svergolamento dei versi (che uso per motivi di ritmica), mi fa venire in mente più i frattali, che la terza dimensione.
E – dopo alcune letture di questo tuo esperimento compositivo – potrei tirare in ballo (aspetto conferme o smentite) anche la giustapposizione surrealista delle frasi (in questo caso delle immagini); pur se temperata dalla logica di un discorso “razionale”.
…a me, Mayoor, interesserebbe davvero sapere qual è il tuo punto di osservazione, percezione della realtà, la tua certo…perchè nei tuoi scritti ti sposti così repentinamente nello spazio e nel tempo che non riesco a seguirti, o è proprio il tuo intento quello di spezzare la linearietà delle sequenze, dei criteri umani comuni? Di disorientare? La ricerca comporta necessariamente questo? A volte ti sento parlare di etere, a volte di mondi sotterranei, a volte di primordiali tracce fossili, a volte di ipotetici futuri…a volte i tuoi personaggi e gli ambienti sono quelli di poveri cristi pazzi o barboni, a volte di laccati borghesi…a volte sei nel sovrumano, altre nel subumano…ma tu dove sei? Scherzavo: so che sei tra noi…
Cara Annamaria,
ho letto e riletto questo tuo commento (domanda), ho tentato più volte di risponderti finché ho desistito.
Mi hai fatto pensare a quando anni fa partecipai a un gruppo di lavoro zen basato sulla domanda “Who is in” (chi è dentro). E’ un koan, una domanda a cui non si può rispondere che viene posta allo scopo di creare trasformazione. Di solito ci riesce l’80 % dei partecipanti, io ebbi la fortuna di essere tra questi ( mi ci volle una settimana!). Ti prego di credermi se dico che non esiste risposta: esiste solo il rispondere come atto creativo in fieri. Se realizzi l'”Who is in” sei nel satori (verità, piccola illuminazione), la tua mente si è trasformata. Quindi non ci casco, so già come andrà a finire 🙂
Per aver letto molti tuoi commenti posso capire che il mio modo di scrivere possa mettere a soqquadro il tuo sistema interpretativo, che parte dalla decodifica del testo per poi passare a qualche utile considerazione. A me sembra che i poeti dicano sempre qualcosa di vero e qualcosa di sé. Sei un’esperta di vini? io no ma ci sono state volte in cui sono riuscito a vedere perfino il colore dei muri della cantina. Provaci anche tu (però se proprio non mi vedi può anche essere che io non sia riuscito nell’intento).
Comunque sì, ho trasformato certe mie caratteristiche in atti volontari con l’intento di “spezzare la linearietà delle sequenze, dei criteri umani comuni”. Ma non sono la stessa cosa, il voler spezzare la linearità è una scelta estetica.
@ Mayoor
L’ho visto ieri mattina, il mio amico Lucio, correre sul muretto ,inseguire una lucertola.
Il rettile si nascose sotto una tegola e lui cadde fra le rose.
Mi vide, fuggì saltando la cancellata , fuori l’aspettava una Vespa 50 con le ali, lasciò nell’aria mille colori e una pioggia di messaggi.
L’ho visto ieri mattina , il mio amico Lucio, correre sul muretto, inseguire una lucertola.
Fra le rose tante macchie gialle, verdi, rosse, blu.
Il famoso Lucio gatto 🙂
Caro Mayoor,
mi chiedi “Sei un’esperta di vini?”, no purtroppo anche se sono nata in una osteria…In quella cantina, buia caverna che neanche immagini, ci sono stata anch’io e aveva il suo fascino, ti ci posso vedere nella penombra rosso-rubino…I contorni sono sfocati e per smarrirsi basta un passo…Non che non sia attraente la cosa, ma non lo voglio fare e mi tengo ancorata a sostegni, a terreni fragili, provvisori si intende e che possono sempre franare sotto ai piedi…nella sfera delle tante persone comuni. A quella domanda “Chi è dentro?” neppure saprei risponderti e mi tengo alla larga, parlo solo di me, dai grandi quesiti. Comunque ammiro la tua instancabile ricerca in più campi dell’arte, ma ti invito (è solo un invito!) a ritornare tra noi quando vuoi…
Anche per me la poesia “è un ragionamento fatto in presenza di un sogno.” Chi scrive deve esserci! Razionalmente! In poesia assegno molto valore all’intuizione che è fondamentale, come ben ribadisce Rita Simonitto, a fornire una nuova, originale, lettura della realtà.
Lucio Mayoor Tosi si sente incerto e confuso per ciò che ha scritto in questa composizione/ esperimento, dove leggo:
/una
via piena di gatti che scappano lesti
come topi./
/perché sapeva
fare amicizia
parlando male degli altri: un po’ comunista e un po’ figlio
di puttana.
Qui non si capisce chi sia uno e chi l’altro. /
/quelle mignotte che si tirano la figa all’alba dei settant’anni./
Caro Lucio, io non mi preoccuperei se sia poesia, prosa o che altro, contano, come scrive il Rizzi, le immagini e le loro associazioni. Ce ne sono di icastiche, con assoluta efficacia rappresentativa, altre meno. Nell’insieme una interessante composizione.
Ubaldo de Robertis
Grazie Ubaldo.
Come ho detto, ho chiesto di pubblicare questo scritto su Poliscritture perché, che io sappia, è l’unico blog dove puoi sperimentare potendo contare sulla solidarietà dei lettori, piuttosto che ricevere subito giudizi tranchant ( che comunque non mancano), fare un test oppure esporre un’incertezza. Insomma, per la poesia, Poliscritture non ha perso l’anima laboratoriale che aveva quand’era Moltinpoesia. E’ un merito.
Forse io sono un poeta atipico, non solo perché ho studiato e faccio pittura, ma anche perché non posso e non voglio contare sulla razionalità; per poter scrivere mi sono letteralmente sdoppiato, anzi triplicato: c’è un bambino che scrive e un’entità che sorveglia. Io, che sarei il terzo, mi occupo solo dell’approvvigionamento, sigarette, pipì eccetera. Non so chi sia il sorvegliante, ho però il sospetto che non sia tanto razionale. Dice solo se una cosa se va bene oppure no. E’ molto coraggioso, quando constata un’incertezza preferisce dire: perché no, proviamo. Ma questo scritto è proprio un errore: è un allenamento, l’incontro con la poesia è rimandato. Però, però…
@ Mayoor
“non posso e non voglio contare sulla razionalità; per poter scrivere mi sono letteralmente sdoppiato, anzi triplicato: c’è un bambino che scrive e un’entità che sorveglia. Io, che sarei il terzo, mi occupo solo dell’approvvigionamento, sigarette, pipì eccetera. Non so chi sia il sorvegliante, ho però il sospetto che non sia tanto razionale. Dice solo se una cosa se va bene oppure no. E’ molto coraggioso, quando constata un’incertezza preferisce dire: perché no, proviamo”
Correggerei ( ma non ce ne sarebbe neppure bisogno): non voglio contare *soltanto/soprattutto/esclusivamente* sulla razionalità. Perché non è vero che « c’è un bambino che scrive e un’entità che sorveglia». Quella del *fanciullino* alla Pascoli è forse soltanto una metafora per dire che, scrivendo poesia, ci si addentra in un campo dell’esperienza dove le regole si danno e non si danno, i passi che si tentano per esplorarlo (partendo dal linguaggio che uno ha maturato fino a quel momento) o i risultati non sono prestabiliti e possono procurarci delle sorprese. Come non accade, invece, in condizioni normali, nelle operazioni fisse di una macchina o quando batto una lettera sulla tastiera del PC o nelle operazioni che tu dici affidate al «terzo»: approvvigionamento, sigarette, pipì eccetera. Né a me pare vero che quello che tu chiami «il sorvegliante», per essere «coraggioso», come tu ami presentarlo, «non sia tanto razionale»; se appunto, davanti ad un’incertezza, ti suggerisce: proviamo. Del resto le incertezze che s’incontrano facendo poesia – proprio perché è nell’istituto stesso del fare poetico una sospensione del rapporto con la realtà (almeno quella assodata, abituale, normalizzata) – non sono paragonabili ad altre incertezze: se in poesia scrivi: « mi sto buttando dal grattacielo Pirelli», è abbastanza scontato che non ti rompi, no?
Per concludere, davvero non capisco questo insistente (tuo e non solo tuo, perché è una moda dilagante e ovviamente “rivoluzionaria”) e continuo strapazzare – a parole – la ragione, la razionalità; o, altre volte, questa sorta di elogio unilaterale della follia. Ma anche Erasmo da Rotterdam, quando scrisse il suo, aveva buone facoltà d’intendere e volere. Se no, non scriveva un bel nulla. Faceva il pazzo e basta. Insomma, non bleffiamo. (È un invito… non una “stroncatura”). Follia e ragione sono vicine di casa e si frequentano:in poesia, nelle scienze e nella vita comune.
In teoria posso essere d’accordo, Ennio; non fosse che ho l’abitudine di interiorizzarle (teorie nello stomaco per verifiche ontologiche) nel qual caso ci si può aspettare di tutto. Le emozioni sono segnali indistinti che la ragione può decodificare, ma se il sintomo permane significa che non si è trovata verità. Quale tra le molteplici ragioni più s’avvicina al sintomo, come capirlo? Dalla quiete che segue. Possiamo scegliere dove volgere la nostra attenzione: chi vede le cose con raziocinio e chi guarda alla follia ( la propria e l’altrui). Come poeta sto con la seconda. Confido come te in un mondo migliore.
Forse è l’idea della pazzia che sta cambiando significato.
Forse la pazzia non è più infermità mentale, malattia.
Forse ….e se così fosse ,saremmo un po’ tutti pazzi, beh….ma non facciamola rientrare nell’originalità delle idee , sarebbe davvero un insulto all’intelligenza.
…che “nessuno visto da vicino è normale”, questo è vero quanto assodato, ma ciò non esclude il desiderio di ragionevolezza…la follia può esser un tratto creativo spontaneo, quanto simulato o coltivato, nel campo dell’arte come nel quotidiano…la pazzia, ecco, può comprendere la follia, la ragionevolezza e qualcosa in più, in dosi assolutamente variabili: ci spaventa e ci sorprende…Oggi da chi possiamo imparare qualcosa?