di Alessandro Scuro
Sostenitore della prima ora, Machado si era nel tempo dimostrato scettico a proposito dell’operato della Società delle Nazioni, dopo che le potenze firmatarie avevano tacitamente permesso a quel «facchino presuntuoso» di Mussolini l’invasione dell’Abissinia[1]. I suoi attacchi si erano fatti più frequenti negli anni della guerra, poiché trovava inaccettabile il comportamento delle grandi potenze, Inghilterra in primis, che si erano mostrate indifferenti agli appelli della repubblica spagnola. Machado si era sempre dimostrato un attivo sostenitore della pace (fondatore, nel 1920, della sezione segoviana della Lega dei Diritti dell’Uomo e firmatario del manifesto dell’Unione Universale per la Pace nel 1936, pochi mesi prima dell’inizio del conflitto), ma la trovava ora svuotata delle sue ragioni, che la detta Società rappresentava in tutta la loro ipocrisia, mero strumento nelle mani dei potenti.
In una nota scritta il 12 settembre del 1935, in un dialogo immaginario, Mairena discute con un certo don Cosme sul difficile fallimento della Società delle Nazioni. Quest’ultimo interroga il maestro a proposito dell’evenienza in cui una grande potenza decidesse di inghiottirne una più piccola. «In prima battuta – risponde Mairena – la società farebbe di tutto per impedirlo; ma c’è da stare certi che, esauriti gli argomenti persuasivi, non solo si farebbe complice della grande potenza invaditrice, ma le ordinerebbe di inghiottire la potenza offesa in nome dell’intera Società. E, nel caso in cui schierate per lo scontro si disponessero su fronti opposti le potenze firmatarie, la società cesserebbe senza dubbio d’esistere, senza discredito, poiché non sarebbe possibile attribuire il fallimento a un’entità inesistente, sopraffatta dagli eventi».
Una buona iniziativa – la descriveva Machado sempre più confuso con il suo eteronimo – fallita per l’inerzia dei suoi esecutori, che difendevano la pace per garantire il mantenimento dell’impero dell’iniquità, in un momento in cui essa non rappresentava altro che il mantenimento del fragile equilibrio sul quale si fondava l’autorità delle potenze sostenitrici. Machado non riconosceva allora più alcun valore al pacifismo e, dal mirador de la guerra, amaro, scriveva:
[…] prima che questa istituzione possa rispondere al suo fine pacifista, sarà necessario disfare il già fatto, anche violentemente, cosicché la Società pro pace universale avrà a Ginevra una riduzione all’assurdo veramente grottesca e disorientante. Solo il ben fatto – in questo caso la primitiva concezione di Wilson – può perdurare; l’opera dei malfattori è sempre negativa e abominevole.
Nell’istante del pericolo, quale quello in cui Machado si trovava all’epoca di redarre le note maireniane, solo la fiducia nella reversibilità ideale del passato e, pertanto, nella plasticità del futuro, poteva indurre ad immaginare un cammino diverso da quello della storia autentica, della tradizione imposta; una deviazione verso una realtà apocrifa, la manifestazione di incontro fulmineo con una speranza del passato. Il segnale è il grido, l’allarme della conoscenza nell’istante in cui rischia di essere perduta, se non se ne afferra il ricordo. Afferma Mairena, che «non esiste inconveniente nel convertire la storia in racconto, senza che, per questo, perda la storia niente di essenziale, come lo specchio più o meno netto della vita umana. Solo così è possibile scuotere la tirannia dell’aneddotico e del circostanziale».
Per comprendere quanto le idee di Machado, le riflessioni su tradizione e folklore, che attraversano per intero la sua opera (fondamentali per interpretare le parole di Mairena), riportino inevitabilmente agli scritti di Walter Benjamin e alle sue tesi sul concetto di storia, è sufficiente confrontare le parole sopra citate con quelle del filosofo tedesco quando spiega che, in ogni epoca, il dovere dello storico è quello di strappare la tradizione al conformismo che è sul punto di soggiogarla. La visione catastrofica che appare agli occhi dell’angelo della storia, quella dell’inarrestabile tragedia umana, è la stessa immagine che si mostra allo sguardo dell’apocrifo machadiano dal mirador della guerra. Pur se i due, contemporanei, non si sono mai conosciuti, né mai hanno dato cenno di conoscere l’uno l’opera dell’altro, Machado e Benjamin sono uniti da un tragico e beffardo destino che li ha condotti alla morte in terra straniera, a pochi chilometri di distanza.
Durante la guerra civile, che lo colse a Madrid insieme alla famiglia, Machado, con la madre e il fratello José [2] (autore dell’unico ritratto di Mairena), percorse in breve tempo l’intera penisola: dalla capitale a Valencia; da lì, con l’avanzare delle truppe franchiste, in Catalogna, a Barcellona e, infine, a Portbou, alla frontiera francese. Sul finire del gennaio 1939, quando le sorti del conflitto, con la presa di Barcellona, sembravano ormai irrimediabilmente segnate, Machado e i suoi compagni di viaggio attraversarono il confine dei Pirenei, insieme alla moltitudine umana che, a piedi o con ogni altro mezzo disponibile, si riversava allora oltre il confine catalano. L’esodo, noto come Retirada, colse inaspettatamente alla sprovvista il governo francese che non aveva voluto prendere ufficialmente parte al conflitto. (Questo in base alla politica non interventista voluta dalla Gran Bretagna, non rispettata dalla Germania nazista e dall’Italia fascista, i cui cacciabombardieri bersagliarono gli esuli durante la fuga). Il governo francese si mostrava diffidente verso i rifugiati repubblicani, spaventato dal pericolo rosso della rivoluzione bolscevica e dalle ritorsioni di Hitler e Mussolini. Dopo qualche tentennamento iniziale però, di fronte al numero enorme di spagnoli (si stimano intorno ai cinquecentomila le persone che attraversarono il confine), le autorità francesi aprirono i confini. Disarmati e spesso spogliati dei loro averi, in pegno per l’accoglienza, i rifugiati vennero rinchiusi in campi provvisori, talvolta costruiti con le loro stesse mani su spiagge battute dal vento, che si trasformarono per molti in una inesplicabile prigionia, durata anni e spesso conclusa, dopo l’occupazione, nei campi di concentramento nazisti. Buona parte di quelli che attraversarono il confine si imbarcarono oltreoceano, o lasciarono la Francia per altri paesi; ma furono circa un terzo quelli che restarono nel paese esagonale. Per molti l’unica salvezza fu arruolarsi nella resistenza francese, per proseguire la battaglia abbandonata in patria.
Antonio Machado, con la madre e il fratello, si arrestò poco oltre il confine, nella località balneare di Collioure [3], dove morì il 22 febbraio del 1939, poche settimane prima dell’inizio della dittatura franchista, e dove ancora oggi è seppellito. Un anno e mezzo più tardi, appena oltre il confine, nella piccola baia di Portbou, dove per l’ultima volta il poeta aveva camminato sul suolo spagnolo, terminerà i suoi giorni Walter Benjamin. Giunto sulla costa francese negli ultimi giorni di settembre del 1940, il filosofo tedesco morirà in una pensione della località catalana, dove, dopo aver attraversato clandestinamente la frontiera, era stato arrestato dalla polizia, in attesa di verifiche ai documenti. Temendo di venire respinto e di essere consegnato nelle mani dei nazisti, si suicidò la notte del 26 settembre[4].
[1] Il 3 ottobre del 1935, le truppe fasciste, comandate dal generale Del Bono invasero il paese africano senza previa dichiarazione di guerra. L’Italia, accusata di aver usato anche armi chimiche durante il conflitto, subì delle sanzioni pecuniarie da parte della Società delle Nazioni, ma nessuna delle altre potenze, in funzione delle alleanze pre-belliche intervenne in favore dell’Abissinia (l’attuale Etiopia), abbandonandola alla sconfitta.
[2] Considerato al pari di Antonio (con il quale collaborò a numerose opere teatrali e lavorò a Parigi come traduttore per l’editore Garnier) il maggiore poeta della Generación del 98, Manuel (1874-1947) è stato spesso rilegato in secondo piano e la sua opera, di stampo modernista, meno approfondita. Come afferma John Beevor, la guerra di Spagna è uno dei pochi conflitti dei quali, ad oggi, la storia è stata scritta più dai vinti che dai vincitori, e a Manuel, come ad altri, le simpatie franchiste e il suo schieramento a fianco del Caudillo (ricoprì anche alcune cariche pubbliche durante la dittatura) sono costate una certa riluttanza degli studiosi nell’affrontare la sua opera. La discussione sulla memoria storica e sul ruolo da attribuire a chi collaborò con il regime franchista, sull’eventualità di rimuovere targhe commemorative e monumenti ad essi dedicati come in parte è già stato fatto in anni recenti, è più che mai viva nella Spagna attuale.
[3] Se la Generación del 27 sembrava aver ignorato completamente gli insegnamenti di Machado, la sua figura fu ampiamente rivalutata nel dopoguerra e, anche se la sua fama e la sua indole erano già più che sufficienti, la sua morte in esilio ne ha fatto per sempre un simbolo della resistenza antifranchista. Come Machado, molti furono quelli che non arrivarono a conoscere le sorti del conflitto. Ancora maggiore fu il numero di quelli che lasciarono il paese, spesso verso l’America Latina, per ritornare (quelli che sopravvissero abbastanza a lungo) solo dopo la morte del Caudillo, avvenuta nel 1975. I superstiti furono a lungo ridotti al silenzio e solo a partire dal 1944, con la pubblicazione di Hijos de la ira di Dámaso Alonso, si registra una tendenza diffusa, culminata nel decennio successivo ed estendibile a tutti i poeti che si schierarono nel fronte repubblicano, la cui evoluzione e il cui linguaggio sono inscindibili dalla realtà spagnola dell’epoca. La stesse caratteristiche sono riscontrabili anche nell’opera dei poeti nati durante la guerra o la cui infanzia fu bruscamente interrotta dallo scoppio del conflitto. Tra loro José Agustín Goytisolo, Ángel González, Jaime Gil de Biedma e gli altri che, accompagnati da Blas de Otero (autore nel 1955 di Pido la Paz y la Palabra), si recarono a Collioure, nel ventesimo anniversario della scomparsa del poeta.
[4] La morte di quel tedesco sconosciuto fu archiviata come un’overdose di morfina e il suo corpo, scaduta dopo alcuni anni la concessione che gli amici erano riusciti a pagare, seppellito in una fossa comune. Della morte di Benjamin sono state ricostruite diverse versioni ( si veda ad esempio il documentario Who killed Walter Benjamin di David Mauas) e più volte alimentato il mistero di una presunta valigetta, contente i suoi ultimi scritti (una versione più ampia delle Tesi sul concetto di storia?), mai ritrovata.
“La visione catastrofica che appare agli occhi dell’angelo della storia, quella dell’inarrestabile tragedia umana, è la stessa immagine che si mostra allo sguardo dell’apocrifo machadiano dal mirador della guerra”. Con una differenza, credo. Che l’angelus novus della riflessione beniaminiana, ispirata all’acquerello di Paul Klee, “ha il viso rivolto al passato”: “dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe” (Tesi IX), mentre lo sguardo dell'”aprocrifo machadiano” dal mirador della guerra è diretto, centrato sull’evento.
Altre voci sul contenuto della valigetta che portava con sé Benjamin lo identificano in una versione dei “Passages”.
..suggestiva questa narrazione di Alessamdro Scuro, che traccia le analogie tra due destini, di Machado e di W. Benjamin…I due contemporanei non solo si schierarono entrambi contro le dittature dei loro rispettivi paesi, morirono esuli in uno spazio molto ravvicinato, tra Spagna e Francia e a breve distanza di tempo, un anno e mezzo, ma sembra quasi che pensassero in sintonia o. forse, in sequenza… In tempo di guerra, Machado a cogliere l’istante di una memoria del passato nella tradizione e nel folklore, perchè non si disperda (“Il segnale è il grido…” )e possa costituire per l’uomo una speranza e Beniaminn a raccoglierla nelle mani dell’angelo che volge le spalle alla totale catastrofdella storia passata per consegnarla al futuro…Quasi una staffetta…
Interessante come sempre la nuova Lezione di Alessandro Scuro.
Ulteriori aspetti avvincenti del pensiero e della vita di Machado sono qui posti all’attenzione. Su tutti lo scetticismo del poeta spagnolo sull’operato della Società delle Nazioni, svuotato delle sue ragioni sociali, umanitarie.
Fruttuosi i punti di contatto di Machado con Walter Benjamin sul concetto di Storia, e importante il richiamo di Roberto Bugliani all’ acquerello: “Angelus Novus” di Klee, sull’aspetto che ha l’angelo della storia con il viso rivolto al passato. Benjamin parla di “spazzolare la storia contropelo”, strappandola al conformismo delle classi dominanti, spinti dalla visione del passato fatto di “rovine su rovine”. Voltarsi a guardare il passato per esortare un futuro diverso.
Purtroppo quasi mai il presente sa interrogare il tempo che è stato.
Ubaldo de Robertis