di Ennio Abate
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24 novembre 1998
Mangano presenta alla Libreria Tikkun di Milano il mio «Congedo di prof Samizdat dall’ITIS Molinari» in occasione del mio pensionamento.
Tutto abbastanza scontato. Pochissimi quelli che sono venuti. C’erano – ma per un incontro successivo – Romanò e Majorino e si sono fermati ad ascoltare. Attilio ha fatto una presentazione attenta e persino affettuosa. Ha ricordato come sia crescita negli anni la nostra amicizia, malgrado l’inalterata inimicizia politica e ideologica; parlato di una mia aggressività difensiva che maschererebbe una dolcezza d’animo; trovato improprio il termine “samizdat” per questi miei scritti, convinto che la situazione in Italia non sia paragonabile a quella dell’ex-Urss ( ma io non ho pensato a questo usandolo soprattutto come segnale di dissenso…); riconosciuto persino la verità delle mie denunce, ma senza riconoscergli valore politico. Poi ha contrapposto un suo elogio degli insegnanti “normali” contro il mio sprezzo verso “la palude” dell’ambiente scolastico. Secondo lui, non mi sarei accorto del positivo contenuto nei silenzi, nelle sofferenze e nelle pratiche (foucaultiane) di resistenza dei miei colleghi. Perché troppo preso dalla polemica contro il ceto politico di sinistra. Mi ha definito «fortiniano appassionato», «oppositore sovversivo» e comunque testimone malgrado tutto non del degrado della scuola ma della sua ricchezza. Majorino, intervenendo inaspettatamente, si è come al solito messo su una sponda un po’ più in alto della mia o dei presenti. Ha trovato, infatti, un po’ gergale i discorsi di Mangano e miei. Per lui saremmo ancora ingabbiati dentro una “problematica di sinistra”. E ha esposto la sua visione, che a me pare rimuovere ogni discorso puntuale sul contesto istituzionale e politico: l’insegnante dovrebbe avere delle passioni e riversarle nella scuola. Deve “godersela”. Ha aggiunto: ogni «voglia trasformativa è rischiosa». E – suppongo – paventando l’ ombra di Fortini, che lui pure vede incombente su di me, ha parlato di evitare l’ «incubo della seriosità». Gli altri interventi non sono stati molto più incoraggianti. Una mia collega, M. ha trovato “troppo personale” la testimonianza del mio libretto. Oggi non ci sarebbe più nessuna possibilità di far politica nella scuola. E, proprio per questo, io assumerei il ruolo del moralizzatore, dell’accusatore, finendo per volere imporre agli altri una “verità irraggiungibile”. Un’altra collega, P. ha giudicato che il mio intervento non politico, perché non avrei costruito alleanze e sarei rimasto isolato. M. ha visto solo una mia nostalgia per una scuola aperta e democratica, ormai anacronistica, vista la caduta dell’utopia e il prevalere del corporativismo. F. nella mia scrittura ha colto il segno di una grossa solitudine. La mia sarebbe una «scrittura come spreco, come dono» (donchisciottesca insomma).
25 novembre 1998
Ripensando alla serata alla Tikkun.
Gli interlocutori sono questi. E le loro reazioni scontate si distaccano di poco da quelle che già conoscevo. Mi “ripeto” io, si “ripetono” loro. Non sarebbe stato meglio alla Libreria Utopia. O al Leoncavallo. Ci sono altri interlocutori più vicini a me? Non credo. L’intellettualità che frequento è attraversata in tutte le sue frange da una crisi che la fa omogenea e corporativa al di là delle sfumature ideologiche. La solitudine non mi deriva per imitazione inconsapevole di Fortini. Semmai è preesistente e ha spinto al riconoscimento delle analogie fra la mia condizione di periferico e (almeno in parte) quella che lui viveva.
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19 gen. 1999
Fra Tikkun, Inoltre e Samizdat Colognom
La rivista «Inoltre» edita dalla Jaca Book e i numeri fotocopiati di «Samizdat Colognom », che ormai scrivo da solo, sono le due precarie barchette con cui tento di navigare in mezzo all’area di amici e amiche che ancora frequento. Ma ci sono sotterranei fermenti competitivi che rendono la comunicazione tra noi intricata. Attilio ha ora trovato nella libreria Tikkun il suo laboratorio e in Tritto, che la gestisce, uno sponsor politicamente a lui affine. Il suo «Movimenti Storia» ha ricostituito una redazione e marcia deciso su un programma culturale che si richiama al “socialismo libertario”. M., F. e L. sembrano attratti da quest’altra possibilità di lavoro culturale promosso dalla Tikkun. E temo che potrebbe ridursi ancor più la loro partecipazione alla rivista «Inoltre». Che è già tiepida. A volte poi mi sento costretto a marcare certe differenze tra noi. Con L., ad esempio, su Elvio Fachinelli. Lui lo tira verso Nietzsche, mentre io vorrei spingerlo più verso Freud o addirittura Fortini, pur sapendo che litigarono ferocemente. Ma anche F. ieri sera ha reagito con un rifiuto viscerale alla relazione che avevo preparato su «Il tramonto della politica » di Tronti: «Non sono d’accordo su nulla di quanto dice. C’è una crescente sordità al tema del comunismo. Anche se io pongo soltanto l’esigenza di una riflessione storica su quella esperienza. Non se ne vogliono più occupare. E fosse soltanto F. Anche gli altri sono ostili. A. ha concluso un suo intervento dichiarando:«Il capitalismo è invincibile, lo dice Tronti». E ha aggiunto: «Con un armamentario concettuale così pesante si rischia di non cogliere neppure i fermenti del nuovo comunismo che potrebbero venire». G. l’ha liquidato: «E’ un nostalgico del Partito e della classe operaia. Non spiega la sconfitta ed è eurocentrico. Non parla degli immigrati, svaluta tutte le lotte prodotte nel Terzo Mondo». Battuta finale di D.:«Ormai neppure l’operaismo passa!». Insomma, devo riconoscere che le posizioni di Attilio attirano di più diversi degli attuali redattori di «Inoltre». Ed io che cerco di districarmi con grande dispendio di tempo e energia in questa rete di rapporti che fanno capo a lui e a Luciano Della Mea mi sento a disagio e isolato. Anche perché i miei tentativi di collaborare con l’*area fortiniana* del Centro Studi F. Fortini di Siena non sono meno deludenti.
28 ott. 1999
Presentazione di «Inoltre» n. 2 su «della violenza e altro» alla Tikkun.
Siamo come al solito “fra noi”: io, Z., N., F., T., P., A., G.. Piacevole imprevisto: c’è anche Pa.. Più tardi si aggiunge anche la F.. Ci sono poi quattro frequentatori della Tikkun che conosco solo di vista. La discussione s’incentra sulla guerra nella ex-Jugoslavia e l’atteggiamento degli intellettuali. La rimozione della guerra è totale sui mass media. Solo alcune riviste ne parlano. Chiamo alla ribalta la rivista “virtuale”(perché ancora in fase di rodaggio) di Pa. e lo invito a intervenire. Pa. mi sorprende perché chiede di tener conto anche delle ragioni “buone” degli interventisti. Attilio ascolta in silenzio tutti quelli che intervengono, ma non parla. Tutti sono genericamente contro la guerra in Kosovo. Con varie sfumature. Uno che conosco di vista dichiara di parlare dal punto di vista dell’*uomo della strada*, ma alla fine arriva ad approvare il consenso passivo alla guerra («Che cosa può fare l’uomo della strada? Nulla»).
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Nel settembre 2009 ebbi uno scambio mail con Attilio a proposito di socialismo e comunismo. L’occasione fu offerta dal fatto che in quel periodo avevo cominciato a leggere con una certa attenzione gli scritti che Gianfranco La Grassa pubblicava su «Ripensare Marx» (poi «Conflitti e strategie»). Attilio aveva collaborato in passato con lui e credevo che fosse ancora interessato a confrontarsi criticamente, come a me pareva doveroso fare provenendo entrambi da Avanguardia Operaia, sulla storia del comunismo. Non era così. Sul piano storico-politico eravamo sempre più distanti. [E. A.]
11 settembre 2009
*Ennio ad Attilio
Caro Attilio,
capisco solo in parte la tristezza del tuo amico storico. Dietro c’è dell’altro. Coglie certamente (ma lo facciamo anche noi) i limiti di visceralità, i tic da “compagno deluso” di La Grassa, ma quando pone le domande: «Come e perché l’esperienza comunista in URSS è così imprevedibilmente collassata. Che genere di regime esiste ora in Russia. Che cosa è il capitalismo neoliberista di oggi e quali sono le sue dinamiche reali. Se è giusto ed onesto rilanciare contro di esso un comunismo fatto di sole idee, e che non ha fatto i conti con la sua crisi dell”89», mi pare che egli ignori gli spunti per una rilettura storica di quella esperienza presenti negli scritti di La Grassa. (Io ne ho trovati parecchi). E travisa le sue posizioni, perché La Grassa non sostiene un “comunismo fatto di sole idee”, ma prudentemente (o elusivamente o alla Wittgenstein) vuole che si taccia di ciò che “in questa fase” a suo parere non si può parlare.
Secondo me sia tu che il tuo amico storico avete un rifiuto per la tesi di fondo di La Grassa. Tu l’hai scritto esplicitamente: si può fare «la critica di riformismo e liberalismo», ma non vedi perché «il percorso debba essere di nuovo quello del comunismo». Ora, secondo me, il percorso non deve essere quello, ma perché escluderlo dal novero delle ipotesi?
11 settembre 2009
*Attilio ad Ennio
Non credo si tratti di censurare l’ipotesi comunista ma più semplicemente di prendere atto che questa non è riuscita a fare i conti con se stessa e con la propria storia, dando inizio a quella interminabile querelle sul neo (neo marxismo, neo comunismo, etc.) e su quanto il nuovo comunismo dovesse recuperare storicisticamente il passato o liberarsene come da un peso.
In termini etico-filosofici non c’ è niente che impedisca al singolo o al gruppo di dichiararsi comunista; ma questo vale per tutti, compresi coloro che si dichiarano cattolici, islamici, mazziniani, proudhoniani, anarchici, etc. Quello che è giusto chiedere, anzi pretendere, è una lettura critica storica degli errori e della sconfitta del comunismo, tale da far capire se si tratta di un incidente di percorso che basta correggere o se, come si suol dire, il difetto sta nel manico. Per ciò che mi riguarda, avendo scelto il movimento operaio e la sua storia vera, fatta di associazioni e gruppi, culture, aree, scambi continui, sono stato costretto come tutti a fare i conti con la pretesa comunista di autodefinirsi verità superiore sconfessando tutto il resto come destro, borghese, capitalista etc. E ho scelto di stare con quelli che sbagliano e si ricredono, che perdono e ricominciano, che commettono errori e cercano di riflettere sulle ragioni e i limiti dei loro modelli. Per me essere e definirmi riformista, socialdemocratico etc. è un onore proprio perché ho appreso una lezione di metodo e non una verità religiosa, sapendo che posso rivendicare una continuità in cui ci sono errori e sconfitte e gente che riflette di continuo su come superare questi errori : in questo senso non esiste contraddizione tra essere socialista liberale ed essere per una nuova sinistra. Se questa affermerà la sua verità pratica superando gli eventuali limiti del socialismo liberale e libertario, vorrà dire che ha fatto quel passo avanti decisivo per segnare una fase storica nuova. Del resto sono stati proprio i socialisti degli ultimi trent’anni a indicare la distinzione tra riformismo storico, classico, e riformismo ” moderno”.
Mi si può rispondere che, appunto per questo, si può applicare alla storia del comunismo la stessa procedura e dar luogo alla distinzione tra comunismo storico e comunismo moderno. Per me va bene, del resto io vengo da una lezione merli-morandi-panzieri, in cui il punto di partenza è il giudizio di fondo sullo STATALISMO come tratto comune di seconda e terza Internazionale.
A questo punto però il problema è un altro: è lo schema leniniano di La Grassa, il suo richiamo alle teorie dell’imperialismo, che lo spinge a leggere l’intero ciclo storico come scontro fra capitalismo e anticapitalismo, imperialismo e popoli oppressi, Usa dominatori e indipendenze nazionali. E’ la riproposizione del bene contro il male, in cui il male è la storia degli Usa e del loro impero. Si tratta di una lettura patetica e grossolana che non riesce a riconoscere la funzione ” democratica” del modello americano e la democrazia politica occidentale e che cerca sempre un qualunque figlio di puttana che faccia un po’ di voce grossa, poco importa se vuole lo sterminio degli ebrei o la ripresa del potere imperiale dell’Urss ( vedi Chavez che appoggia la Russia sulla Georgia). La sconfitta e il fallimento delle politiche no global viene a misurarsi qui. ( In questo infine La Grassa, che prende in giro ecologisti e no global come idealisti, ripropone il modello della potenza da contrapporre alla potenza Usa)
Cosa ha a che fare tutto ciò col comunismo?
*Ennio ad Attilio
Caro Attilio,
visto che altri non intervengono su La Grassa, discutiamo seriamente tra noi.
Scrivi: “Quello che è giusto chiedere, anzi pretendere, è una lettura critica storica degli errori e della sconfitta del comunismo tale da far capire se si tratta di un incidente di percorso che basta correggere o se, come si suol dire, il difetto sta nel manico”. Bene.
Ma perché non interrogarsi allo stesso modo (alle radici, a tutto campo) per il riformismo e il liberalismo?
E’ forse escluso che, anche per loro, il difetto non stia nel manico? Hanno queste tradizioni fatto i conti con se stesse e con la propria storia?
Non sono impelagate pur esse interminabilmente in versioni “neo”?
Su La Grassa mi pare che anche tu travisi o giudichi a spanne e magari basandoti solo sulle sue prese di posizioni più di polemica spicciola a volte davvero tagliate con l’accetta e anche ambivalenti su alcuni aspetti.
Perché lui parla di scontro tra capitalismi (tra dominanti) e vede “in questa fase” l’anticapitalismo solo come posizione critica etica e di testimonianza («Per questa fase storica… è inutile illudersi circa consistenti successi nella radicale critica anticapitalistica; perfino quella semplicemente teorica non sarà facile né molto seguita» (Gli strateghi del capitale, pag. 184).
Oppure:«È a mio avviso lecito e doveroso un atteggiamento fortemente anticapitalistico; non solo per motivi morali, ma per la consapevolezza delle conseguenze sempre più gravi che il conflitto interdominanti (intercapitalistico) comporta, sia pur ricorsivamente, per ampi periodi storici» ( Idem, p. 182).
Non vedo, dunque, vedo questa sua «riproposizione del bene contro il male» né uno «schema leniniano» rigido.
O almeno, fino a prova contraria, dò credito a uno che scrive:
«Ancora una volta si tratterà… di partire da Lenin, senza seguirlo fino in fondo; ma anzi andando in una direzione affatto differente pur se non contrastante, a mio avviso, con alcuni suoi principi di fondo» (Idem, p.87).
Dove sta poi questo «schema leniniano» (rigido) o questo suo «richiamo alle teorie dell’imperialismo» o privilegiamento dello scontro terzomondista tra «imperialismo e popoli oppressi» in uno che scrive:
a ) «tutto i terzomondismo dei decenni trascorsi è stato inficiato da un grezzo economicismo o da un altrettanto rozzo politicismo. Le varie tesi circo lo scambio ineguale […] sono poco convincenti. […] Lo stesso dicasi per le concezioni alla Gunder Frank o dell’economia-mondo, con distinzioni tra centro e periferia (e semiperiferia) che fissano in modo troppo statico le differenze tra le varie aree, e immaginano spesso un continuo trasferimento di risorse (o di plusprodotto) dalla periferia al centro, con progressiva e irreversibile concentrazione della ricchezza, ad un polo del mondo, e della miseria, all’altro polo» (Idem, p. 100);
b)« È invalsa oggi l’opinione, à la page, della fine degli Stati nazionali; o meglio, delle loro funzioni precipue. Essi verrebbero superati… da organizzazioni sopranazionali in fase di continuo ampliamento e rafforzamento. Questa tesi è analoga, in campo politico, a quella di Kautsky relativa all’affermarsi dell’ultraimperialismo» (Idem, p. 137);
c) «Mi ha fatto piacere constatare recentemente che anche in settori culturali, fino a poco tempo fa convinti delle tesi circa la transnazionalizzazione delle grandi imprese e l’esaurimento delle funzioni degli Stati, è iniziata una netta revisione di questa idea mistificante … e nel numero di settembre ( in «Insoummission») si afferma esplicitamente che non sta emergendo alcun «supra-imperialisme» poiché si accentuano le rivalità tra i paesi e, a parte la schiacciante supremazia militare statunitense, non si sta andando all’omologazione globale né in senso economico né politico e nemmeno culturale come si temeva fino a pochi anni fa» (Idem, p. 140);
d)«[Lenin] difese una pretesa ortodossia teorica, senza accorgersi che era in fondo proprio quella di Kautsky […] Da un simile colossale equivoco, difficilmente comprensibile e superabile all’epoca, derivò la debolezza congenita del marxismo-leninismo… etc» (Idem, p. 142).
Faccio queste precisazioni senza dire per ora quanto io condivida o meno le sue tesi. Mi piace, infatti, discutere partendo da precise affermazioni dell’amico o avversario che si vuol criticare. Anche nel caso di La Grassa si ha il dovere di una lettura filologica dei suoi (numerosi e complessi) testi. Il che non deve impedire che si critichino certe sue cantonate. Ma salvando gli aspetti preziosi della sua critica.
*Attilio ad Ennio
Non so rispondere seriamente, tutte le teorie possono avere il difetto nel manico, forse la differenza sta nel fatto che riformisti e liberali lo ammettono in partenza. Perché dovrei negare il tuo diritto di credere in una possibile nuova ripresa ed elaborazione del comunismo? Alla fin fine tutto si riduce a un tipo di pregiudiziale, quella anticapitalista e antimperialista , tipica della storia novecentesca. Ti interessa discutere seriamente della validità oggi delle teorie dell’imperialismo? Non capisco perché devo impegnarmi a prendere sul serio il concetto di comunismo, anche questo è un problema che può avere una sua importanza filosofica generale ( il concetto di comunità, di individuo sociale, il rapporto fra libertà e necessità etc.), ma si può prescindere davvero dal giudizio storico? Avevo detto a suo tempo a Costanzo Preve, quando lo avevo incontrato, che per me ridefinirsi comunisti o definirsi seguaci di Napoleone aveva lo stesso significato, nessuno oggi si definisce seguace di Napoleone consapevole che la vicenda si è conclusa da sé.
12 settembre 2009
* Attilio ad Ennio
Caro Ennio, spero vivamente che non ti sia risentito per la mia risposta sulle questioni La Grassa-comunismo, sono davvero così lontane da me che non riesco ad appassionarmici , se dovesse comunque proseguire una discussione su questi temi con altri interlocutori tienimi al corrente.
*Ennio ad Attilio
Risentito poco. Soprattutto deluso. Mi avevi invitato a collaborare e, visto che con La Grassa interloquisci tu pure, mi pareva una buona occasione. Ma il tuo pluralismo è “leggero”. A te basta tenerti “al corrente”. Ma se, quando risenti parlare di comunismo, non solo non t’appassioni, ma metti il cartello «hic sunt leones», che senso ha tenerti al corrente di altri eventuali interventi?
Ne prendo ancora una volta atto.
Speriamo di trovare cose più vicine che appassionino entrambi.
14 settembre 2009
*Ennio ad Attilio
Caro Attilio,
come altri tuoi interlocutori (a quanto vedo) posso esserti amico sul piano dell’esistenza ma non su quello della politica.
Tu non riesci ad appassionarti alle meditate e serie (anche se discutibili) tesi di La Grassa; ed io dovrei “misurarmi”con queste propagandistiche [di Andreé Glucksmann] che con una faccia tosta e i paraocchi del peggior idealismo inanella alla rinfusa (decontestualizzati storicamente) Berlino Est 1953, Poznan e Budapest 1956, Praga ’68 etc. per costruire il pedigrée di un astratto “uomo antitotalitario”?
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21 settembre 2009
SULLA PROPOSTA DI UN SITO/RIVISTA INTITOLATO «ITALIA ANTIMODERATA»
Caro Attilio,
è il concetto di «antimoderatismo» che per me non regge; e mai sceglierei per un sito o rivista il titolo di «Italia antimoderata» ( e neppure per la collana che dovrebbe raccogliere dei profili d’intellettuali significativi e oggi dimenticati).
A suo tempo ( ma non trovo più la e-mail) credo di averti già scritto che la lista dei nomi (tutti importanti; e diversi di loro a me cari) era eterogenea. Il denominatore comune tra loro è che sono stati degli intellettuali, non che siano stati tutti degli «antimoderati».
Perciò mi pare arduo o una vera forzatura (ma dalla ricerca – ammetto – possono derivare sempre sorprese…) affermare, come tu fai, che «se si va ad analizzare con attenzione quanto hanno prodotto, al di là dei pregiudizi di collocazione e di schieramento, si vedrà che una o più di quelle caratteristiche sta proprio come elemento qualificante, anche in personaggi che sembrano lontani dall’antimoderatismo».
Fortini e Montaldi (i nomi che ho fatto quando l’idea della collana ha cominciato a circolare) non ci sono più, ma non penso che sarebbero contenti di essere messi – da me in particolare – in un calderone di «antimoderati».
E che significa poi, in sostanza, essere «antimoderati»? Significa presupporre che ci siano posizioni culturali e politiche «moderate». Nella storia d’Italia o del mondo non ne vedo. O, quando tali si dichiarano, appaiono secondarie e fanno da contorno a quelle principali impegnate ferocemente nei conflitti. Che per me sono innanzitutto tra le posizioni di dominio e le posizioni che contrastano il dominio. Certo, tra quelle che contrastano il dominio per me rientrano anche le posizioni dei riformisti, che credono possibile “moderare” un sistema di sfruttamento, di imbrigliare gli “spiriti animali” dei veri dominatori. Ma ce ne sono state però altre – socialiste, comuniste – che non hanno voluto limitarsi ad essere «anti». Hanno proposto una rivoluzione del sistema capitalistico e cercato di costruire il «comunismo», una prospettiva sconfitta – lo ammetto – e che oggi fa sorridere più della parola «riformismo»; e di cui nessuno (neppure La Grassa, che pur ammiro per la spietatezza di certe sue analisi) più vuole occuparsene.
Proporre come titolo della vostra collana «Italia antimoderata» a me non va. Non capisco, tra l’altro, perché un lavoro da storici debba ritagliarsi una parte delle posizioni politiche e farne una bandiera, pur se terrà conto (spero) delle altre differenti o contrapposte posizioni. Se vuoi/volete confrontarvi davvero con tutte le differenze, non dovreste cancellare dalla vostra riflessione la storia dei comunismi. Tanto più che alcuni dei presunti «antimoderati» presenti nella lista con il comunismo ci hanno veramente bazzicato.
Quale messaggio manderà, invece, questo titolo ai lettori? Quello che, come hai scritto tu, citando Mieli, non bisogna più rompersi la testa contro il *muro* (Ah, il muro fortiniano!); e che bisogna limitarsi con “buon senso” ad essere «antimoderati».
In più: cos’è questo nome dell’Italia in primo piano, come se fossimo al Risorgimento? Cos’è questa riesumazione dei «contrasti tra Destra e Sinistra storica», come se potessero dirci qualcosa dell’Italia o del mondo d’oggi?
Ho l’impressione, infine, rileggendo ora la proposta a firma di Antonio Schina, che ci sia una imbarazzante convivenza – altra cosa sarebbe un vero confronto! – tra la tua posizione, da decenni inossidabilmente riformista, e quella di altri che, accogliendo secondo me con leggerezza il termine «antimoderati», si appellano a «la fedeltà di classe, il primato del soggetto-classe sul predicato-partito, mai fine e semmai mezzo, conoscenza concreta attraverso la pratica dell’inchiesta, lavoro dentro-e-fuori le organizzazioni» o addirittura al «cambiamento dei modi di produzione». Cose che, a mio parere, hanno ben poco a che fare con l’antimoderatismo, se i termini ‘classe’, ‘partito’, ‘inchiesta’ avessero ancora, per chi li usa, una precisa connotazione storica e matrice ideale.
Ciao
Ennio
*Nota
Notizie più dettagliate su questa proposta di Attilio del 2009, che poi ha dato luogo ad una collana e ad un sito, si trovano a questo link:http://www.antimoderati.it/htm/?page_id=397
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2 novembre 09
Fare gruppo
Caro Attilio,
le risposte dei tuoi amici e delle tue amiche mi paiono poco sintonizzate sulla tua esigenza di fare gruppo. Tutti t’incoraggiano, ti consigliano, ti fanno i complimenti, ma restano chiusi nei loro bozzoli. Svolgono il ruolo a volte utile del confessore o del confidente, ma nulla di più.
Parto allora da questa tua affermazione un po’ sconsolata ma sincera:«Si, c’è in me un senso di insoddisfazione latente, un bisogno di riconoscimento e di approvazione, non nel senso di primeggiare e di essere lodato ma in quello del socializzare sempre, del credere che gli altri siano come te (cosa che non è affatto vera), rimango un battitore libero cui magari si vuol bene ma di cui diffidare».
La correggerei così: si può/si deve ‘fare gruppo’ ma senza credere che gli altri siano come noi; “volere bene” (virgoletto per prudenza) e, allo stesso tempo, anche diffidare un po’ (in maniera non paranoica, se no tutto va all’aria); frenare le spinte a primeggiare; sottoporre il giusto bisogno di riconoscimento ad una critica seria e rigorosa.
La mia esperienza non è molto diversa dalla tua: “faccio gruppo”, “socializzo” (ancora virgolette prudenziali) ma noto limitazioni simili. Comunque, a dirla tutta e avendomi tu messo spesso a disposizione gli scambi con alcuni dei tuoi interlocutori, ti faccio frateranamente due rilievi:
– la tua gestione dei rapporti con loro (e con me) mi è parsa spesso troppo disinvolta e un po’ arruffona: hai, ad esempio, messo “in piazza” cose che, invece, andavano maturate in un dialogo con uno o due di loro; e, mi pare, solo negli ultimi tempi hai adottato la forma dell’invio “riservato”;
– molti dei tuoi amici non hanno, a mio parere, vera disponibilità a ‘fare gruppo’, perché mi paiono individualisti incalliti, pronti ad esibire le loro ultime pensate ma non a costruirne di nuove assieme ad altri, assumendosi tutta la fatica di un confronto/scontro serio.
Un’ ultima cosa. Non so se queste difficoltà dipendano anche dallo schema “libertario” (io te l’ho definito “pluralismo zoppo”), al quale impronti il tuo lavoro intellettuale, e cioè da una tua scelta che esclude ormai confronti approfonditi su temi politici per me ancora spinosi e attuali e per te ormai invecchiati. È certo, però, che almeno in due occasioni (quando ti proposi di confrontarci con le posizioni di La Grassa; la discussione sugli “antimoderati”) tu ti sei sottratto, motivando il rifiuto con una tua assenza di passione per certe questioni. Spero che queste mie osservazioni ti possano giovare.
Ciao
Ennio
APPENDICE
Aggiungo alla lettera ad Attilio del 2 novembre 2009 questa a Massimo Parizzi su un tema simile, quello del ‘fare rivista’ e che sfiora i medesimi problemi.
24 novembre 2009
Caro Massimo,
vorrei aiutare la tua riflessione sull’attuale difficoltà di ‘fare rivista’, confrontando la tua – di «Qui. Appunti dal presente» – con le mie esperienze più o meno simili («Laboratorio Samizdat», «Inoltre», «Il Monte Analogo» e, adesso, «Poliscritture»). Terrei presente anche esperienze che ho seguito con la coda dell’occhio, come quelle del ‘fare gruppo’ sul Web di Attilio Mangano. Tutte, secondo me, soffrono di una cesura storica, che ha costretto i loro promotori ad agire da isolati. E l’isolamento si è mantenuto, anche quando hanno essi hanno potuto raggruppare attorno a sé altri amici e collaboratori o hanno ottenuto persino il sostegno di un editore (è il caso della Jaca Book per «Inoltre»). Ci siamo ritrovati nell’ambigua e difficile condizione degli epigoni di una fase storica precedente e conclusa (quella dei movimenti in cui ci siamo formati) e dei pionieri (ma solo potenziali) di una nuova fase.
Se poi guardo all’area milanese (un po’ perché è quella che più conosco, un po’ perché credo che i rapporti faccia a faccia contano ancora molto, anche se oggi si prolungano in una ragnatela virtuale attraverso la posta elettronica), posso dire che «Manocomete» fu, negli anni Novanta, l’ultimo tentativo che avrebbe potuto traghettare un bel blocco di ricerca politico-culturale – quella della cultura di Sinistra (critica) – dalla fase che si andava esaurendo alla nuova incerta fase che viene vagamente indicata col termine di ‘postmoderno’.
Non è un caso che da quel fallimento, come schegge da una deflagrazione, siano schizzati i vari promotori di iniziative che ancora animano la vita culturale di Milano (Fantato, Vaccaro, Romanò, Accame, noi , etc.) . Il coagulo allora non ci fu. Dopo ognuno si scelse un campo suo più circoscritto e cercò di salvare le rovine che gli parevano da salvare e di proiettarsi su “qualcosa” che pareva potesse alimentare la propria passione conoscitiva; mai più incrociandosi o confrontandosi sul serio con gli altri incontratisi a «Manocomete».
Tu scrivi oggi che il principio ispiratore di «Qui. Appunti dal presente» è stato quello di «mettere in primo piano vite di singoli e singole vite; “aprirle” attraverso la poesia, la letteratura, il pensiero, e mettere poesia, letteratura e pensiero di fronte a esse; contribuire a creare un rapporto di “intimità” con il mondo».
Io già, agli inizi della rivista, cercai fraternamente di indicare (e ancora mi sento di indicare) il limite di quella impostazione. Sulla carta delle nostre riviste possiamo ben mettere in primo piano vite di singoli e singole vite. Ma resta il fatto che poesia, letteratura, pensiero (io ci aggiungerei politica, economia e ideologia) continuano ad essere campi strutturati in modo da cancellare, accomodare, sublimare, deformare e anche distruggere le vite dei singoli e le singole vite. Oltre che a negare ogni «intimità» col mondo per (invece) «padroneggiarlo» e sfruttarlo.
Da questo peggioramento del contesto generale dipende, a mio avviso, anche la difficoltà di risolvere i «problemi pratici» in cui ci dibattiamo. Che sono ancora più pesanti per riviste, siti o blog, quando, non potendosi rivolgere «in primo luogo a intellettuali o politici»( operare, cioè, a livello delle università o dei partiti o delle loro fondazioni o associazioni culturali), devono rivolgersi a «uomini e donne di “buona volontà”» o – per dirla dal punto di vista degli intellettuali universitari e di partito che pur ha un suo realismo – al «volontariato».
Se andassimo a guardare, evitando gli idealismi, chi sono questi «uomini e donne di “buona volonta”», dovremmo dirci che fanno parte (anche quando criticano, si oppongono, si lamentano) di un magma sociale (“gente”, “cetomedio”) fortemente condizionato – e spesso ben più degli stessi intellettuali universitari o di partito ai quali tendono a contrapporsi con sprezzo – dai grandi apparati che oggi indirizzano i consumi culturali, le scelte degli spettacoli, le opinioni, il voto alle elezioni.
Le «nuove forze di pensiero e di sensibilità», le «nuove energie» vanno, dunque, strappate quasi una ad una da questo magma. E – questa è la mia esperienza – anche quando ti pare di averne aggregate alcune attorno a una sigla, a un «progetto», devi sapere che possono essere d’improvviso disperse. Basta una proposta meglio strutturata o più gratificante o proveniente da una autorità più conosciuta e “di successo” e vedrai scomparire il collaboratore, l’amico, l’amica, l’uomo o la donna «di buona volontà» a cui avevi dato fiducia o su cui puntavi. Lavoriamo con la sabbia e sempre sotto la minaccia di ondate. Ed è bene sapere che, purtroppo, è per lo più un singolo che, mettendoci tempo, energie, denaro, passione, può tenere in alto per un po’ di tempo una bandierina. Con la speranza che altri la vedano e si avvicinino e diano una mano. Quando questo singolo si stanca, comincia a dubitare, non si accontenta più del mezzo plauso o dell’incoraggiamento vago o non trova più nemmeno nella sua memoria o in nuovi altri/e (fino a quel momento sconosciuti o solo intravisti) una spinta o un sostegno (minimo), non può che fermarsi, come mi pare accada a te in questo momento .
Ma questa è, in fondo, una visione da realismo individualista. Non disprezzabile, ma limitata.
In effetti il singolo, oltre a «tirare la carretta», caricandola spesso di «uomini e donne di buona volontà» ( spesso un po’ troppo pigri e distratti), può e deve dialogare-polemizzare-criticare gli altri/e. Non basta cioè dare solo «il buon esempio» o concludere, come mi pare tu faccia, che «quello che “Qui”, quale è stata finora, aveva da dire l’ha detto». È un atteggiamento – scusami – troppo signorile. Gli altri vanno anche rimproverati, criticati, messi di fronte a certe responsabilità.
Per ora mi fermo qui. Sono le cose che mi sono venute in mente stasera.
Ciao
Ennio
(11)
Mangano e i conti con il marxismo. Una lettera del 20 gennaio 2010
Caro Ennio,
ho inviato in giro il tuo testo (http://www.backupoli.altervista.org/IMG/ABATE_gen._2010_Ripensare_Marx_per_abbandonarlo.pdf) con questa mia nota di accompagnamento, se qualcuno dovesse rispondere ti terrò al corrente, grazie
Attilio
«Forse può interessare un poco anche te, io personalmente credo di aver fatto i conti da tempo con la fine del comunismo, la questione del rapporto scienza-ideologia nel marxismo, il problema storico di un fallimento che consente in ogni caso di ritornare alla fase della separazione tra riformisti e rivoluzionari etc. E non sono tra coloro che si appassionano ancora a tutto ciò, convinto da tempo che la stessa questione di come leggere il capitalismo e di come superarlo appartenga a una fase conclusa (cosa che non toglie nulla all’importanza di come pensare ancora oggi alla trasformazione sociale) ma credo che non serva molto riproporre una distinzione fra credenti e non credenti. In tutta sincerità sono combattuto fra il rispetto dovuto a chi comunque continua a parlare di comunismo e l’invito a ragionare diversamente, anche la citazione iniziale di Fortini che dice si, forse le proposizioni del marxismo non sono attendibili ma non ne possono fare a meno i proletari, propone una angolazione che non condivido. Ti segnalo tutto questo perché aspetto sempre risposte insieme intelligenti ma critiche. Certo ripercorrere un secolo di discussioni e querelles sul marxismo non mi sembra il massimo, però mi piace credere che altri siano più aggiornati del sottoscritto nelle loro stesse ricerche .
Attilio Mangano»
Mi affascinano i resoconti di segmenti di vita di altre persone, con date, nomi, incontri, scontri, elaborazioni intellettuali. Non conosco gli attori, gli ambienti e le specifiche problematiche che vengono illustrate, le apprendo dallo scritto, ma lungi dall’essere “scrittura come spreco” per me è fonte di ispirazione e di insegnamenti. Ci sono dei dibattiti, delle idee che travalicano il particolare contesto. Crisi delle ideologie, della scuola, dissolvimento e diaspora di gruppi di persone una volta amici, solitudine di chi non abdica ai propri valori, vite che si muovono sullo sfondo di una contraddittoria storia del mondo. Sulle questioni dibattute non c’è teorema che possa risolverle in un senso o nell’altro perché sono dilemmi che l’umanità si trascina da sempre. Sorgono, scompaiono e poi ritornano e intanto le nostre vite trascorrono.
Trovo interessantissimi i commenti sulla scuola, che aprono questo post; e che ritengo (da insegnante con esperienza trentennale e purtroppo ancor lontano dalla pensione…)attualissimi ancora oggi, per mostrare quali sono i modi di approcciarsi a questo ambiente che molti – anche “addetti ai lavori” – hanno. E non mi sembra che le cose siano cambiate.
Dal mio punto di vista fare meritocrazia (anzi, tentare di farla, coi tempi che corrono e l’ambiente che ormai c’è), è la cosa più rivoluzionaria possibile. Mettere davanti ai propri limiti gli studenti, oltre che ai loro punti di forza, credo sia il sistema migliore per responsabilizzarli; in un sistema che è stato pensato per ottenere il contrario, facendo loro credere di essere comunque bravissimi, in vista del modello di Stato (a)sociale, che i poteri finanziari si sforzano di imporci.
Ovvio che agendo in questo modo si diventa antipatici e che – essendo la qualità sempre minoritaria – è difficile ottenere risultati immediati sulla qualità di una classe e meno che mai sulla testa di molti colleghi o su quella di molti genitori; ma “il tempo è galantuomo” e sono sicuro che, sul lungo periodo, questo atteggiamento paga. Chiaro che molto dipende poi dal ragazzo, dall’uomo che verrà: se uno ha deciso di vivere con le fette di prosciutto sugli occhi, per poter dare a qualcun altro la responsabilità dei suoi errori, non c’è nulla da fare. Ma tentare è d’obbligo, proprio specie se si è insegnanti.
Concordo infine con l’uso che hai fatto del termine “samizdat”: non siamo in Russia, ma il degrado culturale non è minore, anche se per cause differenti. Così che il risultato è lo stesso e solo “arrangiandoci editorialmente”, si può avere un minimo di visibilità. Chiaro che, vista la specificità del termine, a molti può venire in mente di fare un parallelo simile; ma anch’io uso questa parola al tuo stesso modo.
Grazie a Ennio per queste testimonianze che generosamente ci mette a disposizione. Spaccati di Storia visti ‘dal di dentro’, nel loro movimento, mostrando tutte le difficoltà che si incontrano nel passaggio dalla teoria alla prassi. Scenari che, nello stesso tempo, trattano di ‘uomini’ portatori a loro volta di storie personali e di investimenti a fronte dei quali mettono in gioco se stessi. E’ un importante, utile, affresco che ci dà da pensare.
R.S.
Il disorientamento e lo stato di sospensione del ventennio seguito al crollo dell’URSS e a un mondo pensato finora come diviso tra due forze contrapposte, emergono bene da questo scambio di lettere. Le questioni intorno a cui avviene lo scambio sono due: il comunismo, e il lavoro intellettuale in comune.
I due piani divergono per Attilio Mangano, che suscita nuovi progetti collettivi di lavoro intellettuale su temi sociali e politici ma considera un cane morto il comunismo, che pure aveva finora rappresentato il contenitore elettivo per trattare complessivamente quei temi.
I due punti del comunismo e del lavoro intellettuale comune sono invece collegati in modo critico da Ennio Abate, che vorrebbe almeno interrogare l’idea del comunismo accanto ad altre analisi sociali, politiche e storiche.
(A me pare che questa operazione: accostare il comunismo come uno fra altri oggetti di indagine -mentre aveva funzionato come quadro complessivo, contenitore, oltre che come chiave di lettura e visione del mondo- non fosse logicamente lecita.
I vari ritorni a Marx o hanno privilegiato l’aspetto scientifico -chiave di lettura- del suo pensiero, che fosse ritenuto poi ancora valido o no; o ne hanno mantenuto la carica utopica, di visione filosofica generale. Quando EA pone “l’esigenza di una riflessione storica su quella esperienza” e chiede a AM perché non interrogarsi sul comunismo come sul liberalismo o la democrazia, mi sembra che assuma del comunismo l’aspetto di filosofia generale.)
E però Ennio collega il lavoro intellettuale comune al comunismo, intende che nel lavorare insieme si realizzi qualcosa che nell’idea di comunismo è compresa, la libertà come risultato, la correttezza, la franchezza di rapporti, la verità come processo, come concretizzazione. (Per Hegel e Marx, come per il cristianesimo, nella storia umana si realizza il vero, un po’ zigzagando però si riconosce.)
Ma ecco che a questo comunismo già prefigurato nel comune lavoro intellettuale si collega un altro aspetto fondamentale che emerge dallo scambio di lettere, quello dolente, etico, della natura umana, del carattere, della educazione di se stessi, dell’autocontrollo, della volontà. E segnalo i rimproveri di EA a AM “il tuo pluralismo è leggero – non ti appassioni – posso esserti amico sul piano dell’esistenza ma non su quello della politica” e i consigli “voler bene … ma anche diffidare un po’”. Così come colpiscono le ammissioni di AM sulla sua debolezza e bisognosità.
L’ultima lettera a Parizzi è una summa di ciò che occorre fare per tenere insieme un progetto di molti, come correggerli, motivarli, spronarli e… prepararsi a perderli. Entrano quindi, nelle lettere ma in qualche modo anche nei temi generali di critica politica, le note minori (di accordo in minore) della vita personale, del carattere, dei rapporti, delle debolezze e della natura a cui siamo legati con il corpo della mente e della vita che abbiamo avuta.
Questi aspetti hanno un tono di verità indiscutibile, e anche struggente per la consapevolezza di concreti rischi di perdita. Sono però una base di materialità da cui non si può prescindere.
Si può pensare a rimettere sui piedi tutta la costruzione progettuale del lavoro critico in comune, risistemato su quella base umana, senza farla scorrere a lato, presente e muta, “dispetta e scura” (Francesco e povertà) eppure inallontanabile?
EA scrive che si deve contare su donne e uomini di buona volontà, che facilmente vanno a disperdersi “è per lo più un singolo che, mettendoci tempo, energie, denaro, passione, può tenere in alto per un po’ di tempo una bandierina”. Subentrano dei toni di moralismo: “Gli altri vanno anche rimproverati, criticati, messi di fronte a certe responsabilità”. Discorsi simili Ennio li ha ripetuti su Poliscritture sito e rivista: non c’è lavoro comune, si seguono percorsi individuali…
Occorre quindi altro lavoro per collocare donne e uomini di buona volontà in un lavoro comune, ma non lo rapporto al comunismo, o meglio non a un comunismo distributivo: a ciascuno secondo i suoi bisogni, se mai produttivo: ciascuno secondo le proprie possibilità. I lavoratori precari intellettuali li sento vicini, e credo che lo siano davvero, in forza dello stesso bisogno di stare al mondo da svegli. Intanto, per ora e non so fino a quando, ci si può confrontare in un mondo comune di pensieri, ed è di interesse comune anche il compito di non lasciare che si esaurisca e disperda.
…queste lettere pubblicate da Ennio sono davvero molto interessanti per varie ragioni: testimoniano il dibattito critico seguito al fallimento dei movimenti dopo il ’68 da parte di alcuni protagonisti come A. Mangano e lo stesso Ennio Abate che, dalla comune matrice marxista di pensiero, imboccarono strade diverse e a volte divergenti…le difficoltà di oggi di “fare gruppo” e di “fare rivista” per la componente troppo personalistica e individualistica che riflette la nostra società…lo scambio di fraterni consigli sul metodo da adottare e la prudenza nei rapporti di gruppo…parlano infine di un’amicizia, tra Attilio Mangano e Ennio Abate, che si è mantenuta salda nel tempo (e oltre) pur nelle divergenze di pensiero, forse per una comune sensibilità…
@A. Rizzi: non mi sembra che si parli positivamente di meritocrazia nella scuola in queste lettere e personalmente non penso che vi sia niente di rivoluzionerio nella riforma recente, se mai in linea con lo spirito dei nostri tempi
Infatti, Sig.ra Locatelli.
Da trent’anni si è voluto svuotare di significato la scuola italiana, con una serie di riforme(?) che son servite per deresponsabilizzare e togliere capacità di (auto)critica ai ragazzi.
Non capire che solo tentare di mantenere un profilo meritocratico nell’insegnamento, per quanto questo significasse per forza di cosa mettersi contro anche ad quella parte di colleghi desiderosi di fare gli “yes-man” della situazione, è stato forse l’errore più grande che noi insegnanti abbiamo potuto fare in tutti quegli anni.
Sulla scuola mi sembrano interessanti tutte le proposte di Claudio Cereda e tra quelle, in particolare, di rendere flessibile la scelta delle materie da parte dello studente. Mi pare che almeno nelle scuole statunitensi ci sia un sistema del genere. Dico ciò perché ho constatato, come studente di un liceo scientifico negli anni ’60, che mi sarebbe piaciuto studiare molta più matematica, fisica, chimica, scienze in generale, e magari fare tanta attività di laboratorio. Altri saranno, allo stesso modo, più interessati alle materie umanistiche e artistiche. Insomma bisogna dare, anche nelle scuole secondarie, la possibilità di configurare il proprio piano di studi e di poterlo modificare strada facendo. È chiaro che strutturare la scuola nel modo anzidetto è dispendioso per cui il nodo principale del problema è che ci sia la volontà di investire molto di più di quel che si fa adesso in istruzione.
E’ noto, Angelo, che il sistema statunitense (al quale, non a caso, quello italiano si sforza d’uniformarsi) faccia pena e sia sotto accusa in quel Paese. E’ noto che i giovani americani sono andati a combattere in Iraq, senza nemmeno sapere dove si trovasse Baghdad. I giovani italiani si avvicinano a grandi passi a questi livelli: all’ultimo esame, una candidata ci ha spiegato che le bombe di Hiroshima e Nagasaki le avevano sganciate i giapponesi, per por fine alla guerra. Promossa, naturalmente. E non è stata l’unica perla di saggezza proposta dagli scrutinati, con qualche tuffo nell’analfabetismo di ritorno, in Italiano, mica da ridere. Ma si sa che è colpa degli insegnanti, certamente non all’altezza…
Tornando alla proposta del piano flessibile per gli studenti delle superiori, tecnicamente la cosa sarebbe fattibile: col rischio, però, però, che ne venga fuori una sorta di Scuola Superiore indistinta, nella quale, per forza, si debba trovare a disposizione dello studente una miriade di materie.
Temo però che solo una minoranza dei giovani liceali abbia le idee chiare, su quali materie convenga fare, per incamminarsi in una determinata strada; e – non so se mi crederai – ma era così anche per noi, quaranta-cinquant’anni fa, quando cioè il sistema scolastico poteva avere tanti difetti, ma almeno responsabilizzava. Ci sono studenti, nel mio Liceo Artistico, che si rifiutano di studiare Storia dell’Arte, perché non capiscono a cosa serva; anche qui è di sicuro colpa degli insegnanti, che non riescono a spiegarglielo…
Molto meglio, secondo me, sensibilizzare l’alunno in modo tale che aggiunga di suo e in maniera extracurricolare altre materie e altri interessi al suo piano di studio: ti assicuro che, in questo caso, gli insegnanti non si tirano indietro nel valutare positivamente (anche come ricaduta sulle proprie materie), l’apparire di queste curiosità nei loro allievi e il loro coltivarle. O almeno lo fanno quelli che insegnano sul serio.
..ricordo come attraverso l’insegnamento cosidetto individualizzato l’insegnante cercava di promuovere talenti e interessi, ma sempre sullo sfondo dei valori comuni al gruppo classe. Un riconoscimento del merito che non creasse gerarchie o discriminasse…Oggi è sempre più difficile, le spinte dispersive e confuse sono pesanti..La scuola non sa quale società promuovere: adeguarsi a quella presente è distruttivo dell’essere umano, non adeguarsi è perdente…
@ Alberto Rizzi
Gli americani che tu citi non so se siano mai andati a scuola e in quale scuola. Comunque se fai le stesse domande ai nostri “di pari categoria” non credo che i risultati sarebbero molto differenti. C’è però un indice abbastanza oggettivo di valutazione globale di un sistema di istruzione: il numero dei premi Nobel e delle medaglie Fields (per la matematica non essendoci il Nobel). Di Nobel gli USA ne hanno totalizzati finora 289 contro i 10 dell’Italia e di Fields USA 13 e Italia 1. Non mi pare che le riforme della nostra scuola stiano andando nella stessa direzione degli USA.
@ Annamaria Locatelli
Non credo che la mia proposta di far in modo che agli studenti sia consentito di coltivare i loro naturali talenti coincida con “l’adeguarsi alla società presente” anzi mi sembra antitetica. Le proposte che sento piovere dall’alto parlano di orientare l’istruzione in funzione della domanda industriale o comunque del mercato. Cosa che non succede neanche negli USA che è la patria del liberismo.
@ Alberto Rizzi
Volevo aggiungere a proposito delle domande-risposte incriminate che ricordo bene che cinquanta-sessanta anni fa da noi era molto peggio di oggi rispetto alle conoscenze di carattere internazionale. C’era molto più provincialismo e anzi i più non conoscevano neanche l’Italia fuori dal proprio paesello, perciò non colpevolizzerei più di tanto i giovani di adesso.
Grazie a quanti hanno commentato.
Sul tema scuola. Era solo un accenno nel primo brano del 24 novembre 1998, secondario nel carteggio con Attilio (Mangano). E tuttavia soprattutto ad Alberto (Rizzi), che l’ha ripreso per le risonanze con la sua attuale esperienza d’insegnante, devo dire che non sono favorevole (neppure adesso che non insegno più) a «fare meritocrazia». In breve, ho sempre pensato che, dopo la sconfitta del ’68, si si stia ancora pagando un duro prezzo per l’abbandono di una vera riforma e per aver accettato di studiare/lavorare in una “scuola di massa” (numericamente e sociologicamente) senza aver ottenuto dai governanti le strutture basilari (risorse economiche, edifici, organigrammi, programmi) che permettessero di far fronte decentemente alle *inedite* esigenze di conoscenza di studenti “non Pierini” e di insegnanti “intellettuali di massa” (non più “tradizionali”),. Per rendere la mia idea, ricorro a un’immagine: si pensi a un corpo (sociale), gigantesco e in crescita, costretto a stare in un abito o in una corazza predisposta (dai tempi di Gentile!) sulle misure di un corpo (sociale) ancora abbastanza stabile e d’élite. Da qui la crisi devastante e irrisolta con i fenomeni su cui tante chiacchiere si fanno: disaffezione allo studio e (per i docenti) al proprio lavoro, degrado culturale, clima psicologico depresso o isterico che prevale negli ambienti scolastici. Ma anche i palliativi inventati sia per adattamento alla “buona scuola” dei “vincitori” (a partire da Luigi Berlinguer, intendiamoci) sia per sopravvivere. Tra essi metto anche il «fare meritocrazia». Lo considero, infatti, un artificio idealistico: sì, mette «davanti ai propri limiti gli studenti», ma non può far leva sui «loro punti di forza» né può “responsabilizzarli”. Proprio perché studenti e insegnanti sono imprigionati « in un sistema che è stato pensato per ottenere il contrario». E che o li illude di poter « essere comunque bravissimi» (individualmente) malgrado il degrado dell’habitat sociale in cui operano o li spinge ad emarginarsi, ad abbandonare, a lasciarsi andare, a vegetare. Mi fermo qui. È un tema da riprendere in altra occasione su una base meno “esperienziale”.
Il commento di Cristiana (Fischer) va al cuore delle questioni affrontate nel carteggio tra me ed Attilio (Mangano): «comunismo» e «lavoro intellettuale comune». Devo però fare delle precisazioni. Non intendevo (o intendo) interrogarmi sull’«idea del comunismo». Pensavo (e penso), appunto, ad «una riflessione storica su quella esperienza», cosa un po’ diversa.
Dopo il ’68-’69 – data spartiacque anche nel mio percorso esistenziale – ho , sì,seguito, per quanto mi è stato possibileil dibattito teorico spesso scolastico, iperspecialistico e in fondo elitario: dai vari “ritorni a Marx” alla “crisi del marxismo”. Mi sono documentato su chi, ad esempio, come La Grassa, ha «privilegiato l’aspetto scientifico» di quel pensatore comunista e chi, come Preve (o Negri o Finelli e prima ancora Adorno, Fortini), ha tentato di mantenere o riapprofondire «la carica utopica, di visione filosofica generale». Ma con una profonda insoddisfazione (non so se “generazionale” o “autobiografica”) soprattutto per i risultati (o le ricadute politiche) di queste ricerche. Non sono riuscito, cioè, a ritrovarmi in una di queste posizioni, a scegliere tra questi epigonismi. Siano essi della “corrente fredda” (leninista-stalinista-lukacciana-operaista) o della “corrente calda” (luxemburghiana, blochiana). Per limiti miei o dei vari teorici? Non so dire. A volte mi chiedo se non mi sia bloccato per nostalgia “sessantottina” di una ormai impossibile “quadratura del cerchio” tra le due correnti. È certo però che mi sono trovato più a mio agio a pensare ecletticamente (a prendere, cioè, in considerazione le “varie campane”) piuttosto che fare mia l’una o l’altra impostazione teorica. Da qui una inquietudine della ricerca che in parte confluisce in ”Poliscritture”, una rivista non a caso a più voci e non “autoriale” o con “una linea”. Inquietudine che, però, mi pare presente non solo in me, ma in vari amici. E, ad analizzare attentamente, negli stessi teorici che pur hanno tentato “oltrepassamenti” di Marx di vario tipo (“caldi e “freddi”), coniugandolo, come si dice, ora con Foucault/Nietzsche, ora con Deleuze, ora con Schmitt, ora con Hegel ora con Freud.
Pertanto non penso di collegare, come pare a Cristiana, « il lavoro intellettuale comune al comunismo». Non posso farlo, proprio perché non è «l’idea di comunismo» a guidare la mia ricerca. E non vedo neppure «nel lavorare insieme» una “prefigurazione” di questa idea del comunismo, come accadeva in alcune esperienze di riviste degli anni ’60-‘70. Volere «una riflessione storica su quella esperienza» equivale a dire proprio che non conosco, come ogni ricercatore onesto, l’esito di tale riflessione, che non ho più un punto fermo per il mio *esodo”. Del resto anche Fortini ai suoi tempi parlava del socialismo/comunismo solo come “possibilità”. E altri, ad esempio, Luperini hanno parlato di “allegoria vuota” che è un termine che dà il senso di un inabissarsi di uno scopo saldo e relativamente chiaro per i nostri antenati. E lo stesso Althusser parlava del processo della storia come di un treno di cui si sa la stazione di partenza ma non la destinazione. Dunque, in questo atteggiamento di ricerca (di esodo) potrei arrivare alla conclusione che quella comunista sia ormai un’esperienza chiusa, morta (conclusione a cui è arrivato La Grassa). O che quella *storia* (e non *idea*) contenga ancora, come pensava Fortini (ma negli anni ’90 del Novecento!) delle verità da “proteggere” e dei fili da riprendere. Può parere un atteggiamento solo ambivalente o incerto, ma ha – mi dico – le sue buone ragioni e non vedo perché dismetterlo. Ne discende, infine, pure che i miei rimproveri ad Attilio (Mangano) o il mio ”moralismo” non derivano da un attaccamento all’«idea di comunismo», che altri avrebbero abbandonato o tradito e alla quale io sarei fedele. Nascono semmai da – chiamiamola così – un’”etica della ricerca”. Per me, idee e comportamenti cambiano e devono/possono cambiare. Ma decisivo mi pare il *modo* in cui noi ci poniamo di fronte al cambiamento. Adattandoci in modi opportunistici o calcolati sul proprio “particolare” alla pressione esterna di forze politico-sociali-culturali che hanno trovato il modo di prevalere e dominarci ancora di più. Ed ho sempre diffidato della disinvoltura con cui molti hanno “cambiato idea” sul comunismo o la democrazia con ripensamenti che, quando ci sono stati, mi sono parsi arraffazzonati. O per uno scavo e un ripensamento della storia da cui proveniamo, che può durare un’intera vita. Perché si tratta di un’operazione complessa che va condotta sia a livello del noi che dell’io. E perciò parlo di “io/noi”. Dando, cioè, importanza sia ai dilemmi dell’io (quelli che Cristiana chiama « note minori (di accordo in minore) della vita personale, del carattere, dei rapporti, delle debolezze e della natura a cui siamo legati con il corpo della mente e della vita che abbiamo avuta») sia ai dilemmi del noi (politico, culturale). E perciò mi chiedo: se il noi è stato in un certo periodo cattolico, comunista, socialista, anarchico, com’era allora l’io? E quando il noi è diventato democratico com’è diventato l’io? E anche su questo punto preferisco l’inquietudine. Perché non ho mai pensato alla piena coincidenza tra io e noi, ma a una loro dinamica tensione e, in casi drammatici, a una loro scissione persino tragica. A me, dunque, interessa riflettere e lavorare proprio su questi scarti tra io e noi. Evitando, se possibile, la polarizzazione. Perché se ti sposti tutto dalla parte dell’io, rischi l’individualismo più rigido (signorile o anarcoide) e, se ti sposti tutto dalla parte del noi, fai tuo il collettivismo o comunitarismo o populismo spesso “fondamentalista”. Dunque, sia il « lavoro critico in comune» (mettiamo la rivista, il blog) sia quello in solitudine (poetico, filosofico, teorico, ecc.) sono percorsi da continue tensioni e rischiano sempre o la cristallizzazione o la contrapposizione.
Qualcosa ancora sulla ”idea di comunismo”.
Due modi di intendere la parola “idea”: 1) un nucleo di contenuto identificabile; 2) il modo in cui la uso io corrisponde a un quadro generale, una forma in cui vanno a sistemarsi contenuti diversi, trovando -eventualmente- lì la loro composizione.
In questo senso ho usato la parola “idea” a proposito del comunismo, anche una ricerca storica su cosa il comunismo sia stato, o possa essere, non può avvenire se non in riferimento a un’ipotesi, generica quanto basta, magari un desiderio, una risposta a propri bisogni etici, spirituali, o altri.
E non è stato così per l’ideale del comunismo a livello di massa, geograficamente diffuso dalla Cina agli Usa, partendo dal cuore dell’Europa per oltre un secolo? Chi poteva dire cosa intendeva per comunismo un comunardo, un bracciante meridionale italiano o un operaio torinese, o un emigrante in Francia o un militante in Spagna, i soldati russi, e poi i filosofi (teorici-politici) del primo e secondo novecento in occidente, insieme ai rivoltosi anticolonialisti in Africa e in Asia, l’esercito di Mao in Cina e quello del Vietnam durante la guerra? Eppure comunismo era la parola ombrello che teneva tutti sotto, ognuno col suo tesoro di ideali, ragioni, ragionamenti, spiegazioni.
Come si può fare ricerca storica di una ondata ideologica così massiccia duratura e complessa?
Per questo non credo sufficiente la in apparenza semplice dichiarazione di Ennio “riflessione storica su quella esperienza”.
Credo invece, come lui stesso richiama, a quell’idea (nel senso che ho esposto prima) di comunismo detta da Fortini e Luporini “socialismo-comunismo come possibilità” e “allegoria vuota” che, non a caso, rimanda a “un inabissarsi di uno scopo saldo e relativamente chiaro per i nostri antenati”. Possibilità e allegoria sono appunto un quadro, cioè una forma vaga (che la ricerca storica per Ennio avrebbe riempito…).
Una ricerca storica comunque, è sempre guidata da quelle ipotesi in via di precisazione e migliore formulazione di cui parlava Ginzburg a proposito della propria ricerca storica (vedi pagina di alfabeta 2 citata da Ennio su fb il 17/7). Anche se Ennio pensa a una ricerca storica che sia “scavo e un ripensamento della storia da cui proveniamo … che va condotta sia a livello del noi che dell’io. E perciò parlo di “io/noi””
Ma allora, tornando all’ipotesi di lavoro intellettuale comune che prefigurerebbe, secondo me, in parte e in piccolo, una figurazione possibile di comunismo – in particolare, come ho scritto “la libertà come risultato, la correttezza, la franchezza di rapporti, la verità come processo e come concretizzazione” – si può escludere che vi sia un’intenzione di una società migliore, anche di una umanità migliore?
E come si configura? Un’isola nel contesto più ampio? Un modellino? Una scialuppa di salvataggio? Un laboratorio volante che si applica dove è richiesto? Bisognerebbe chiederlo a chi ne fa parte, cosa intendono loro, quale è la loro idea di ciò che stanno facendo e delle ragioni per cui lo fanno, che devono avere qualcosa in comune, se si lavora appunto in comune. Quanto al rapporto tra io noi in inquietudine, solo l’intensità del lavoro comune, ove intensità=libertà, può darne conto.
Qui ora stendo una immaginazione.
Ogni e qualunque costruzione dal basso, di un nucleo di comunità formale/informale, lasca ma possibile, fondata sul desiderio e non sul solo bisogno, in viva comunicazione interna/esterna, insomma un investimento nel miglioramento sociale a partire da sé, una specie di “convento” mentale in collegamento con altri conventi sparsi, raccolti in “ordini” diversi ma non così estranei…
Ricorda qualcosa? Una fine e un reinizio, una resistenza e una ripartenza, una distruzione e un salvare qualcosa… chissà quello che noi chiamiamo monachesimo oggi come lo chiamavano e se lo rappresentavano quelli che lo creavano inventandoselo allora.
Alla fine allora: quale il collegamento tra lavoro in comune e il comunismo? Che si fa nell’interesse di tutti e di ciascuno, e non per l’arricchimento di pochi grazie allo sfruttamento dei molti. Se è poca cosa, questa “idea” qui…
Mi pare che tra ‘idea di comunismo’ ( sia pure come « forma in cui vanno a sistemarsi contenuti diversi») e « ricerca storica su cosa il comunismo sia stato» ci sia uno scarto notevole e non difficile da cogliere. ( Del resto questo vale per ogni altro termine-valore o «parola ombrello», come : amore, pace, cristianesimo, ecc.).
Non so se «si può fare ricerca storica di una ondata ideologica così massiccia duratura e complessa», ma il lavoro degli storici – bene o male – cerca di soddisfare tale esigenza e sistemare/rappresentare la mole di eventi e personaggi che man mano entrano nel cono d’ombra del passato. Perché c’è bisogno di trasmettere a una società (o almeno alla sua classe dirigente o pensante) un’immagine sintetica (e mai neutra) del passato. Che è indispensabile a un ‘noi’ per riconoscervisi e sapere da dove si viene e possibilmente capire meglio dove si va o si dovrebbe andare.
La mia sottolineatura dell’importanza della «riflessione storica» rispetto all’idea (di comunismo, in questo caso) vorrebbe tener conto proprio della non coincidenza tra idea (o ideale) e eventi (o fatti). Evidentissima quando andiamo a vedere cosa il comunismo sia stato in Urss, Cina, ecc. (Ma ripeto vale anche per il cristianeismo, il liberalismo, ecc.). Nessuno può parlare oggi di comunismo saltando gli esperimenti storici che si son fatti sotto questa “parola ombrello”. Non possiamo più leggere il «Manifesto del partito comunista» come fossimo gli aderenti alla Prima Internazionale. Quindi, non nego l’importanza di partire da una definizione di comunismo (ad es. nei suoi scritti Preve ne ha parlato in abbondanza distinguendo le varie forme di comunismo pensate o più o meno documentate nella storia dell’umanità) ma – ripeto – non possiamo saltare cosa hanno fatto i comunisti ( o i cristiani, ecc).
Quanto alla prefigurazione o figurazione possibile del comunismo nel lavoro intellettuale, resto scettico. Non escludo che ci sia in molti che vi si impegnano «un’intenzione di una società migliore, anche di una umanità migliore». Ma il detto che le strade che portano all’inferno sono lastricate di buone intenzioni è un avvertimento che non possiamo trascurare. Certo bisogna presupporre o scommettere su «qualcosa in comune, se si lavora appunto in comune», ma tra comune e comunismo non vedo nessun filo diretto. Specie oggi nella società liquida…
P.s.
Su “Le parole e le cose” tempo fa ebbi una discussione con Eros Barone, che a me pare una prova della differenza tra uno sguardo “filosofico” , a cui a cui a volte pare sfuggire il modo “storto” in cui le idee di Marx siano diventate fatti storici (o sembrano spiegare/dar conto dei fatti storici), e lo sguardo ”storico” che, stando addosso ai fatti, mostra lo scarto ( o, come si dice in linguaggio più colto, l’eterogenesi dei fini).
Indico a chi avesse curiosità per tale tema i link dei post in cui si svolse il nostro confronto, avvertendo però che quelli miei e di Barone sono interventi immersi in altri di diverso argomento, che non sono “leggeri” (specie quelli di Barone!) e che per individuarli più facilmente è bene scrivere in ‘trova’ di Google i nostri due cognomi:
– http://www.leparoleelecose.it/?p=10931
– http://www.leparoleelecose.it/?p=15957