Riprendo volentieri dalla sezione “Mattinale” del sito di Velio Abati questa discussione a tre fra gli amici Velio Abati, Donatello Santarone e Walter Lorenzoni non tanto perché trae spunto da una mia amara constatazione per gli scarsi commenti a due recenti post “lunghi” di Poliscritture (“Sulle prode di “Domani”” dello stesso Abati e “Parole beate” di Sagredo) ma soprattutto perché essa s’intreccia con la discussione su “Per chi scrive Poliscritture?” e più indirettamente anche con quella su “Pornolandia.La morte della sessualità” e mette a fuoco un disagio diffuso tra quanti vedono con allarme e quasi sgomenti lo scarto crescente tra modi sempre più divaricati di rapportarsi al “mondo” o alla “realtà”: i nostri e quelli delle generazioni più giovani. I dialoganti accennano anche al problema che da decenni ci logora sul che fare o sul come reagire (e persino se sia ancora possibile reagire). Mi auguro che il senso di impotenza, certamente da riconoscere, non ci paralizzi e che qualcosa ci spinga sia a interrogarci con coraggio e rigore sulla storia da cui proveniamo sia, come suggerisce Abati, a «scrutare luci nella notte». [E. A.]
Mattinale
SUL LETTORE
Velio Abati
Tre domande
“Purtroppo (oggi) -scrive Ennio Abate- è così: i post più impegnativi (e lunghi) non ricevono commenti. […] Non è detto che non siano letti, ma è come se non si sentisse più l’esigenza di affrontare tematiche complesse. Non è un problema da sottovalutare: non ci sono più i destinatari che noi ci aspetteremmo. E anche i più ben disposti faticano a stare sul piano di un discorso razionalmente esigente o di una ricerca letteraria non accomodante […] riflettiamo sulle ragioni di queste “resistenze” e sui modi migliori con cui potremmo reagire noi a questa situazione di crisi”
Posto che la rilevazione del fenomeno compiuta da Ennio sia corretta (si manifesta come un dato di fatto):
1) è questo vero in modo onnicomprensivo, o solo per certi ambiti della cultura e della sua circolazione?
2) quali sono le cause e gli effetti?
3) quale risposta dare, ossia quale atteggiamento pratico assumere?
Donatello Santarone
Caro Velio,
le domande che poni sono cruciali. Credo che quel che scrive Ennio sia la prassi più diffusa in relazione a questioni che richiedono sforzo, studio, concentrazione. Insomma, quello scavo verticale che Hegel definiva “la fatica del concetto”. Non mi meraviglia più di tanto quando abbiamo un partito-movimento, i 5 stelle, che fondano il loro consenso su un click “mi piace”/”non mi piace”. Ultimi di un lungo processo di imbarbarimento della società italiana iniziato negli anni Ottanta e oggi arrivato a compimento.
D’altronde le nostre verità – poetiche, storiche, politiche, educative… – sono oggi in Italia caricaturizzate o semplicemente ignorate. Per nostre verità intendo quelle del marxismo, del socialismo, del comunismo. Ma continuo comunque a pensare che di queste verità ci sia bisogno e che pertanto, in ogni sede dove ci sia consentito agire, vadano dette. Se in un blog non c’è risposta, in un’aula scolastica o universitaria, in un piccolo centro sociale, in una biblioteca comunale, in un’associazione di volontariato, ancora esiste la possibilità di uno scambio, di una reciprocità, di una relazione non mercantile. Questa per me è una speranza.
La cosa tragica è che questa indifferenza e ostilità e fango vengono propinate in quella che l’economista Vladimiro Giacché, in bel libro dedicato al suo maestro alla Normale di Pisa, Nicola Badaloni, definisce La fabbrica del falso (Imprimatur Editore 2016). Menzogne scientificamente organizzate per nascondere gli orrendi crimini – le guerre imperialiste per nominare esattamente le cose – che i nostri paesi vanno compiendo in tante parti del mondo per imporre la civiltà del denaro, unica ammessa dal Capitale. Le recenti menzogne sulla Siria e su Aleppo sono in questo clamorose: gli artefici della distruzione di un paese sovrano e laico, cioè gli Usa e l’Europa occidentale finanziatori e istruttori del terrorismo islamico insieme ai fedeli alleati di Israele, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Ucraina, Ungheria, Romania, Paesi baltici ecc. ecc.,, ora attribuiscono al governo siriano e alla Russia la responsabilità di quanto sta accadendo. E’ sconcertante! Ed è solo uno dei mille esempi che possiamo fare (vedere per tutto quello che ci viene taciuto il sempre aggiornatissimo sito di Noam Chomsky).
Walter Lorenzoni
Caro Velio,
mi sono venute in mente tante discussioni che avevamo fatto su questi temi ai tempi della Fondazione Luciano Bianciardi e del “Gabellino”. Mi sono andato a rivedere alcuni di questi vecchi materiali e, dopo circa vent’anni, certe analisi che lì erano solo abbozzate, perché rivolte a fenomeni in fieri, ora risultano ancora più valide di allora, perché i processi in atto si sono compiutamente dispiegati. Nell’Introduzione agli atti del convegno sulle riviste provai a sintetizzare queste pluriennali riflessioni del nostro gruppo di lavoro. D’altra parte, proprio in quel convegno, volendo guardare più lontano, decidemmo, con non poche titubanze iniziali, di inserire proprio un intervento sulle riviste di cultura telematiche.
Non sto quindi qui a ripetere quali sono le conseguenze di un eccesso di informazioni, di una spasmodica ricerca della velocità (Paul Virilio paragona la troppa velocità alla troppa luce: non si vede nulla), di una frammentazione dei dati e della loro separazione in rigidi comparti, della rapidità di consumo dei “prodotti” delle diverse possibilità di accesso ecc. ecc.
Nello specifico, quello che più mi sollecita, e al tempo stesso mi inquieta, non sono tanto le domande che fai, ma la premessa: “Posto che la rilevazione del fenomeno compiuta da Ennio sia corretta”.
Il mio sospetto è che non si tratti tanto di lettori per qualche ragione “intimiditi”, che sicuramente ci sono, ma soprattutto di non-lettori. Ormai diversi anni fa, uscì un libro di questo mediattivista olandese, Geert Lovink, intitolato Zero comment, in cui si diceva che, in oltre il 90% dei più di cento milioni di blog allora esistenti, compariva, immancabilmente, un tassativo “zero comment”, alla faccia dell’interattività promessa dal cyberspazio ed esaltata dai cantori delle magnifiche sorti progressive della rete. Su questo, ormai, credo che ci siano analisi sociologiche abbastanza consolidate, che rendono ragione anche di quel mutamento antropologico che sta coinvolgendo sicuramente le nuove generazioni (a scuola abbiamo modo di osservare da vicino il fenomeno), ma che riguarda anche chi nativo digitale non è (mi capita di seguire superficialmente questo dibattito leggendo le pagine culturali del “Manifesto”, in particolare Benedetto Vecchi, che, tra le infinite altre cose, si occupa anche di questo).
Sui pochi lettori, che credo, comunque, ci siano, visto che “Poliscritture” è una rivista di cultura sulle cui pagine si va solo se si hanno certi interessi, penso siano giuste le osservazioni di Ennio Abate: difficoltà ad affrontare la complessità e progressivo slittamento verso un interlocutore che non è più il nostro e non sappiamo riconoscere.
Cosa fare sul piano pratico (dici tu), per capire queste resistenze e reagirvi (dice Ennio)? Non so proporre niente oltre il riflettere, il parlare e il confrontarmi su questi problemi: alla fine quello che stiamo facendo (penso, tra le altre cose, ai tuoi Colloqui del Tonale). Volendo rimproverarmi qualcosa che non sto facendo, non riesco a trovarlo. Non che non mi venga in mente niente in termini di possibilità, ma non riesce, realisticamente, a convincermi. Di questi tempi, scorciatoie volontaristiche non ne vedo.
Velio Abati
Il primo elemento a colpirmi delle vostre sollecite risposte è la loro disposizione non complanare. Donatello si sofferma sulla capacità mistificatrice degli apparati ideologici di massa e quindi sulla corrosione, in Italia, della teoria critica identificata con il marxismo.
Walter si concentra sull’enorme massa di non lettori e sul mutamento ‘antropologico’ del ristretto campo di lettori, tale da renderli irriconoscibili e inavvicinabili alla nostra ‘lunghezza d’onda’.
Io credo che i due discorsi siano nel loro ambito perfettamente condivisibili. Al contempo credo che la loro non incidenza mostri quanto labile sia diventata la griglia concettuale in grado di rendere comprensibile il nostro mondo, almeno per chi voglia cambiarlo.
Io – tanto per complicare le cose – mi soffermo su un aspetto ulteriore, ovvero sulla drammatica verticalizzazione economica, sociale, culturale e politica prodotta dal finanzcapitalismo. Dico “drammatica” perché tale processo di spoliazione avviene con fenomeni di distruzione dei corpi intermedi – in termini di organismi sociali – e di impoverimento ora relativo, ora assoluto di ceti e classi sociali. Io credo che sia tale metamorfosi penetrata nel tessuto quotidiano della nostra vita a connotare il mutamento ‘antropologico’ visibile nell’uso dei media, piuttosto che essere principalmente questi ultimi a determinare il resto. Credo, in altre parole, che la lettura distesa, la ricchezza concettuale e argomentativa non siano – come del resto avviene per la ricchezza economica – affatto scomparse, ma piuttosto sequestrate in ambiti specialissimi. Lo credo, perché il mondo, dietro il caos capitalistico, è oggi più che mai governato dal centro: questo nessun click, nessun cinguettio può farlo. Ciò sia detto, beninteso, senza togliere il fatto che tale requisizione al vertice comporta danni mortali anche all’intero genere umano, a causa dell’autoinganno prodotto dal violento specialismo e separazione in cui vive. Se già Keynes diceva che il capitalismo si preoccupa dei tempi brevi, figuriamoci se non lo faccia oggi, quando la durata è misurata dal click.
Su un punto le vostre due riflessioni convergono, a cui anch’io mi unisco: la pochezza, vicina all’impotenza, della nostra possibilità pratica. Intanto che le nostre vite passano, ci affidiamo ai movimenti tellurici della storia. Tuttavia si continui a scrivere, a cercare, a scrutare luci nella notte.
4 ottobre 2016
Fin dove arriva lo sguardo
dalle cose nessun’eco si leva.
È notte alta.
Severi, tenerissimi impugnano
incerti
la penna.
5 luglio 2016
La “…drammatica verticalizzazione economica, sociale, culturale e politica prodotta dal finanzcapitalismo ” (Velio Abati)..si può immaginare come una torre che cresce a dismisura verso il cielo, destinata a generare una Babele comunicativa e a sgretolarsi inesorabilmente…Ma per quanto ancora ne saremo prigionieri? Negli scritti di V. Abati ( ho letto solo stralci del romanzo “Domani” sul blog e il testo teatrale “Sera di primavera”) ho sempre ammirato la dimostrazione di una speranza testarda, quasi un sport estremo, da praticare senza soluzione di continuità proprio quando tutto sembra essere perduto, verso un domani che avrà le sue radici nel passato, quella civiltà contadina che ci ha cullato per secoli….e se ci fosse una raccolta di firme, metterei anche la mia.
Sottoscrivo anche l’idea di pochezza che oggi contraddistingue il panorama dei lettori e non mi sottraggo alla critica…Posso trovare degli alibi, ma tali rimangono
“Intanto che le nostre vite passano, ci affidiamo ai movimenti tellurici della storia.”
E non solo a quelli tellurici: anche ad altri aspetti dei movimenti di lungo periodo. E’ in corso un radicale mutamento culturale, ed è la crescente leggerezza della scrittura rispetto ad altre forme di acculturazione. I libri, la loro forma organica di “leggere” il mondo e di restituire un sapere, perdono forza e spazio. Invece noi tutti qua siamo dentro il sapere, ormai specialistico, dei libri. Accettare questo ruolo minoritario che da ora in avanti spetterà ai libri, cioè alla scrittura, sarà indispensabile per sopravvivere.
Un altro aspetto di lungo periodo a cui rivolgere le forze è mantenere viva la consistenza personale, la ricchezza emotiva, il serbatoio di energie in grande parte ignote che ci costituisce. A questa linea di sviluppo storico umano si rivolgono elitariamente altri linguaggi, come la musica e i filmati (e si pensi all’uso che sa farne Isis).
Specializzazione in scrittura, e ruolo minoritario, partiamo da questa ridotta (termine appropriato, no?), da questo posizionamento, per ripensare l’intera situazione.
PER QUANTO MI RIGUARDA, RILEGGEREI “AL LETTORE “ DI BAUDELAIRE
1. Chi sono i nostri lettori? Sono diversi da noi? Oppure, come diceva Baudelaire, sono i nostri simili, i nostri fratelli e presentano, magari, i nostri stessi rimorsi e vizi? I rimorsi nella poesia di Baudelaire hanno a che fare con la Stupidità, l’Errore, il Peccato, la Taccagneria; i vizi sono, invece, un serraglio, più o meno allegorico, rappresentati da animali come gli sciacalli, le pantere, le cagne, le scimmie, gli scorpioni, gli avvoltoi, le serpi…Ma, fra tutti questi vizi, ve n’è uno che è il più laido, perverso e immondo: è la Noia…
2. La “fatica del concetto”?…Ma, certo!…Il nostro ipocrita lettore, il nostro simile, il nostro fratello può anche provare a concentrarsi e studiare (fra mille tentazioni e distrazioni connesse al condurre una semivita sempre online: eccesso d’informazioni, frammentazione di pensieri, ecc…), ma se, al termine, della fatica ha la sensazione di lasciarsi nella scatola cranica nulla o quasi nulla, come la mettiamo?…Le verità, come i principi, non sono “caciocavalli appesi”, per usare un’espressione di Labriola o di Croce (non ricordo bene). O vengono quotidianamente masticate, assimilate, digerite e mettono in moto processi nutritivi (e non) o sono litanie che favoriscono la Noia, il mostro schifiltoso. D’accordo, quindi, con Donatello Santarone: «Continuo comunque a pensare che di queste verità ci sia bisogno e che pertanto, in ogni sede dove ci sia consentito agire, vadano dette. Se in un blog non c’è risposta, in un’aula scolastica o universitaria, in un piccolo centro sociale, in una biblioteca comunale, in un’associazione di volontariato, ancora esiste la possibilità di uno scambio, di una reciprocità, di una relazione non mercantile. Questa per me è una speranza.» Il che vuol dire che occorre anche spostarsi in diversi ambienti o ricominciare a spostarsi, non affidandosi ad un unico mezzo (il blog o la rivista). È bene, ad esempio, che la conversazione faccia a faccia, lasciando a casa i cellulari o gli smartphone, torni ad alimentare le nostre esistenze.
3. L’ambiente che ci circonda è una “fabbrica del falso” ?… L’aria che respiriamo è inquinata?… Esodiamo, come da anni, sostiene l’amico Abate. Esodiamo, almeno mentalmente. Invitiamo all’esodo i nostri lettori, facendogli toccare con mano la bontà dell’aria di montagna, il benessere di una respirazione ossigenata, la necessità e la verità di un altro mondo possibile.
4. Sono fenomeni di cui abbiamo abbozzato l’analisi da decenni e che ora vediamo compiutamente dispiegarsi?…Meglio. Dovremmo essere in grado di dialogare con lettori di cui conosciamo “la mente incantata” e la “volontà vaporizzata” dal quel sapiente chimico che è Satana Trimegisto (il Capitale?…). Il fatto è che certe volte ho l’impressione che questo sapere produca una certa Noia in noi stessi. Figurarsi nel lettore!…Mi viene in mente mio padre, quando avevo vent’anni, cominciava i suoi racconti sempre con la frase tipica: “Ai miei tempi!…” Ecco, evitiamo che il mostro della Noia s’installi nei nostri corpi. Il sapere da “trasmettere” dobbiamo un po’ scoprirlo coi nostri lettori. Le verità da proteggere sono, comunque, processuali.
5. Interattività della Rete?… “La Rete è piena di vampiri. / Gli algoritmi in agguato sono pronti / a succhiare il nostro sangue, / i nostri respiri.” Per quanto mi riguarda, cerco di non esagerare e di farne un uso moderato. Spero che lo facciano anche i lettori di Poliscritture. Occorre, in ogni caso, rassegnarsi all’idea che ogni testo ha i lettori che le sue parole, le sue frasi, la sua sintassi, i suoi pensieri e le sue trame implicitamente disegnano. Non si scrive per tutti, ma per il nostro simile, il nostro fratello. Di certi autori – non è il caso di fare nomi – mi onoro di non aver letto neanche una parola.
6. Sono comunque un cacciatore di frasi, un esploratore di pensieri, un raccoglitore, un collezionista. Stamattina, mi è capitato di leggere un brano di un romanziere norvegese, Karl Ove Knausgard. Lo riporto di seguito:
«Se ho imparato una cosa, in questi anni, che ritengo di infinita importanza soprattutto nel nostro tempo, che trabocca di tanta mediocrità, è questa:
Non devi credere di essere qualcuno.
Non devi credere di essere qualcuno, cazzo.
Perché non lo sei. Sei solo una piccola merda mediocre buona solo per se stessa. (…) Quindi abbassa la testa e lavora, piccola merda. Così per lo meno, ottieni qualcosa. Chiudi il becco, china il capo, sgobba e sappi che non vali un cazzo. Questo era più o meno quello che avevo imparato. Era l’unica verità, cazzo, a cui fossi mai giunto.
Quello era un lato della questione. L’altro era che mi preoccupavo in modo assolutamente esagerato di piacere agli altri, e lo facevo fin da quando ero piccolo.»
Non so dire cosa c’entri con la discussione in corso sui lettori o non lettori di Poliscritture o di questo o quel post. Posso soltanto dire che mi ha ricordato la poesia di Baudelaire “Al Lettore”. Mi propongo di rileggerla, commentarla e cercare di attualizzarla. Ho l’impressione che possa aiutarci ad affrontare i nostri problemi. Perché non provate a rileggerla anche voi?
“Non so dire cosa c’entri con la discussione in corso sui lettori o non lettori di Poliscritture o di questo o quel post”…
Te lo dico io, Donato, cosa c’entra con me, lettrice e scrittrice di post e di poesie e di altri testi. Che non credo di essere qualcuna, ma neanche una merda. E lavoro perché sono piccola, ma non piccola merda. E se lui Ove Knausgard aveva imparato di essere piccolo e sgobbone “in quanto” merda, bene: non aveva imparato niente. Non aveva imparato l’essenziale. Che non c’è niente altro che ognuno di noi. Che sono merda per qualcuno di noi – purtroppo per lui che merda si considera (o no? perché, sai, quelli che danno della merda agli altri magari hanno dei retropensieri su di sé…)
Due sono i problemi principali, entrambi della stessa importanza.
1) Gli argomenti sono poco interessanti per i più in quanto non li aiutano ad orientarsi nel mondo che essi esperimentano.
2) Non c’è dialogo. I commenti di certuni non vengono quasi mai presi in considerazione e le rare volte che lo sono vengono trattati con sufficienza o addirittura in modo ostile e spesso insultante da parte di autori e di altri commentatori.
APPUNTI A FRAMMENTI
1.
Ammesso che non siamo “nativi digitali” e che « tutti qua siamo dentro il sapere, ormai specialistico, dei libri», non mi pare una soluzione quella di sopravvivere o crearsi una nicchia o rinchiudersi in una ridotta. Meglio giocare le nostre (residue?) carte. Anche (o persino soprattutto) nella comunicazione sul Web. Mi pare di vedere tra gli amici troppe resistenze a sporcarsi le mani con blog, siti e FB. Come se si desse per scontato che, a frequentarli, finiremmo inevitabilmente per fare chiacchiera stupida, pubblicare anche noi selfie, scambiarci auguri ad ogni compleanno o aforismi paraintelligenti. Non si tratta di «non esagerare e di farne un uso moderato ». E perché mai solo della Rete e non dei libri o di altro? La vera questione per me è conoscerla meglio questa Rete (almeno quanto la letteratura, che crediamo di conoscer un po’ di più) e perseguire anche sulla Rete lo stesso progetto che perseguiamo leggendo certi libri e non altri, frequentando certe persone e non altre, ecc. Se la troviamo troppo volgare, dispersiva, satanica, piena di “caciocavalli appesi”, si può e si deve tentare di “grammaticalizzare” questo “volgare”, introdurre pensieri *pesanti e seri* dove prevale la chiacchiera, contrastare gli stereotipi con l’intelligenza (che sembriamo ancora avere, no?). «La consistenza personale, la ricchezza emotiva, il serbatoio di energie in gran parte ignote» va messo alla prova. Non solo *inter nos* ma anche *extra nos*. Verranno fuori scintille, litigate, incidenti come quello con Barbetta? E che c’è di male?
2.
La stupidità la troviamo sia nei libri che sul Web. Non è esclusiva del Web. Il tempo? Manca sia per leggere i libri (buoni) e sceglierli è un problema; sia per esplorare le cose (buone) che si trovano sul Web ) e sceglierle è un problema. La fatica del concetto non si fa solo sui libri. C’è anche quando *ci studiamo* un film o un’opera musicale. (Su You Tube ce ne sono in abbondanza). Invece di scorrere velocemente i post, i commenti, i saggi (ce ne sono di insperati), possiamo archiviarli; e rileggerli a distanza di tempo, traendone riflessioni « masticate, assimilate, digerite e [che] mettono in moto processi nutritivi». Non vedo differenza dalla lettura con tanto di sottolineature che facevo ai tempi in cui leggevo solo libri e giornali.
3.
Le verità che crediamo importanti da dire è bene che vadano dette, quando possiamo, « in un’aula scolastica o universitaria, in un piccolo centro sociale, in una biblioteca comunale, in un’associazione di volontariato»: Ma cosa impedisce di dirle in un blog, commentando un articolo sui siti di Poliscritture, Le parole e le cose, Sinistra in rete, etc.? Forse in noi più vecchi soprattutto una sorta di autocensura o riserva mentale o nostalgia per un passato che un po’ mitizziamo. Persino su FB è facile inserirsi in uno scambio, da cui può venir fuori uno scazzo ma anche una riflessione “in pillole “ niente male. E possiamo dirle anche in una rivista cartacea. Il cui limite (e mi riferisco anche a Poliscritture) è quello di rimanere ingabbiata nella comunicazione con lettori forse troppo simili a quelli che noi *avremmo voluto essere*. O di non riuscire a fare i passi giusti dalla discussione *inter nos* a quella *extra nos*. Perché è rischiosa (vedi ancora l’”incidente Barbetta”) e richiede sì una rimodulazione delle nostre idee e degli stili abituali. E comunque io proprio non riesco a trovare risolutiva « la conversazione faccia a faccia». Non è un toccasana. A parte il contesto diverso, più “fisico”, che sembra permetterci di stare coi piedi per terra, i problemi che pone sono gli stessi della comunicazione virtuale. La fatica per raggiungere in tale tipo di conversazione un buon risultato ( una certa intesa, se non proprio « la bontà dell’aria di montagna, il benessere di una respirazione ossigenata, la necessità e la verità di un altro mondo possibile») non mi pare minore di quella che dobbiamo fare scrivendo un buon commento su un blog o su FB o parlando al cellulare o al telefono. E poi – diciamocelo – non essendoci più veri luoghi di ricerca *politici* forse le conversazioni virtuali intrecciate per mail, su Fb o sul Web in generale, pur con tutte le difficoltà che sappiamo, riescono ancora a mantenerne in vita, sia pur a frammenti, l’esigenza. Che può certamente essere perseguita anche in una conversazione faccia a faccia o in un incontro sempre faccia a faccia in libreria o in qualche residuo incontro per qualche inziativa politica, ma guarda caso preparato proprio attraverso il Web.