di Donato Salzarulo
Di lui e della sua poesia avevo sentito parlare. Forse addirittura avevo letto qualcosa. Distrattamente come spesso capita. Poi nel secolo scorso – poteva essere il mese di maggio del Novantasei -, in una di quelle mie periodiche incursioni in libreria, adocchiai un volumetto bianco della collezione Einaudi di poesia: «Di soglia in soglia».
Il titolo mi attirò. Soglia è parola che sento mia. Rima con voglia, foglia. E l’esistenza non è un vagare di soglia in soglia con in testa il sogno della casa-identità? E tante volte non si rimane sulla porta a bussare?
In aggiunta, mi stupivano i sei versi riportati, per scelta editoriale, in prima di copertina:
«Riunito è tutto ciò che vedemmo,
a prender congedo da te e da me:
il mare, che scagliò notti alla nostra spiaggia,
la sabbia, che con noi l’attraversò di volo,
l’erica rugginosa lassù,
tra cui accadde il mondo.»
C’era questo “riunire” e “prendere congedo” – un doppio e contraddittorio movimento che mi perlustrava –. Il mare che scagliava notti – immagine stupenda di forza invasiva e quasi devastante – e la sabbia “di volo”. “L’erica rugginosa” (ruggine, altra parola spontaneamente mia) e quel mondo che “ci accadde” (sintagma struggente nella sua verità – come a dire: non siamo noi a farlo il mondo! Esso semplicemente o purtroppo “ci accadde”, magari addosso -). Sentivo dentro i versi un vitalità intensa e profonda e, nello stesso tempo, un congedo, una sorta di addio tra il caso, la fatalità e la necessità.
Mi venne voglia di capire di più. In metropolitana diedi una scorsa vorace al libretto. Ad un certo punto, si formò un’invisibile barriera interna. Difficile, pensai. Oscuro.
A casa lo posai sul tavolo. Dovevo concedermi condizioni migliori, di maggiore impegno, per leggerlo. Condizioni non facili a prodursi.
Così, dopo qualche giorno, il libretto migrò in un angolo dello scaffale, sopraffatto da altri titoli portati dal mio nevrotico consumismo culturale. Devo leggerlo, mi ripetevo, devo leggerlo. Tutto per tenere a bada un’ansia strana e il senso di colpa di lasciare opere importanti ad ammuffire.
15 Aprile 2004. Paginone culturale del Manifesto. Incontro-intervista di Stefano Catucci con Jean Bollack: «Ritorno alla verginità della parola». Titolo-programma. Al centro una foto di Paul Celan: viso girato e spalla in primo piano. Mento sulla mano sinistra aperta all’indietro. Labbra chiuse, sguardo amaro e perplesso, fronte spaziosa. Bell’uomo. Sotto: la solita foto di Martin Heidegger sulla sedia a sdraio, col basco e l’espressione da campagnolo furbo.
All’inizio, Catucci presenta al lettore Jean Bollack come «uno dei maestri contemporanei, il cui nome è caro a coloro che cercano di percorrere le strade di un pensiero rigoroso ed eretico, consapevole della tradizione ma refrattario ad ogni ortodossia». Rigore, eresia sono marchi di qualità. Poi il riconoscimento di “maestro”. E dire che ogni tanto qualcuno si lamenta per la scomparsa dei maestri! Per chi ne ha bisogno, ci sono, invece. Occorre soltanto scovarli. Sicuramente, al di fuori dei salotti televisivi.
La prima risposta di Bollack è relativa all’imparare a leggere. Troppo importante per non riportarla:
«La lettura non è un atto semplice, immediato. Non lo è mai, e a maggior ragione non lo è quando ci si trova di fronte a qualcosa che chiamiamo “testo”, organismo costituito, fra l’altro, da una stratificazione di letture accumulatesi nel tempo. Leggere, perciò, diventa un lavoro specializzato, una disciplina posta a metà strada fra la scienza e l’arte. Bisogna imparare a ricostruire una tradizione e a filtrarla, a smontare e a rimontare i frammenti, a far riapparire il contesto nel quale le parole sono state pronunciate o scritte, a riconoscere la resistenza che la lingua ci oppone. Leggere è una maniera di misurare la distanza con il passato e il rapporto con il nostro presente, non importa se si tratti di Omero o di Joyce, di Sofocle o di Proust. Ogni parola enunciata, oggi come nel passato, ha potuto apparire sulla scena del pensiero obbedendo a condizioni di possibilità ideali e materiali, che dobbiamo imparare a decifrare insieme alle singole frasi e attraverso di esse. Il senso delle parole non può essere colto senza riferirsi all’insieme di quelle condizioni di possibilità, perché è a partire o contro di esse che il pensiero vi si è potuto incidere. La lettura, perciò, è un esercizio critico, ed è qualcosa che si apprende.»
Bollack è filologo. Si capisce perché abbia una concezione così rigorosa della lettura: lavoro specializzato, disciplina…Meglio, comunque, di chi ci vende l’illusione di letture, magari di poeti di qualsiasi epoca, a quattro euro e novanta e a portata di edicola. Letture, cioè, offerte direttamente alla vista-coscienza, che non avrebbero bisogno di una metodologia storico-critica, di conoscenze utili a collocare opere in versi o romanzi all’interno di una tradizione. O, ancora, come se questa fosse un blocco compatto e non quel continuo processo di fratture e spostamenti col quale fare i conti coi piedi conficcati inevitabilmente nell’oggi. Tra autore e lettore c’è distanza, scarto più o meno ampio. Ecco perché leggere non è atto semplice; è esercizio critico; è misurare la distanza fra presente e passato; è decifrare le condizioni ideali e materiali che hanno reso possibile quei versi, quelle frasi, quei periodi; è riconoscere la resistenza opposta dalla lingua alla nostra curiosità e pulsione conoscitiva. Questa concezione del leggere è in aperto conflitto con altre tradizioni: quella, ad esempio, di Heidegger che commenta i poemi di Holderlin, Trakl o Rilke; quella di Gadamer che legge Celan a partire da una conoscenza esistenziale immediata, assumendo una posizione fondamentalmente teologica e servendosi di categorie trans-storiche o astoriche (tipo: l’ascolto, l’empatia, l’unità del sapere garantita dall’unità dell’essere, la svalutazione metodica della riflessione dell’autore sulla propria opera perché gli sfuggirebbe o ne è dominato, ecc.). Questo dice Bollack e questo sa.
Nel 1959, quando insieme a Peter Szondi, fa visita a Celan, diventandone poi amico, così descrive questa amicizia:
«Fu un’amicizia su un doppio binario. Da un lato era fatta di cose comunissime: conversazioni, passeggiate in montagna, partite a tennis. Da un altro è rimasta legata a una sorta di incompiutezza. Spesso Celan mi faceva leggere le sue poesie dopo averle scritte e mi sollecitava a parlarne insieme. Penso, però, che lui avrebbe voluto da me qualcosa che allora non ho fatto e, forse, non potevo fare. Io ero assorbito dal mio lavoro, da Empedocle e da Epicuro. Lui avrebbe voluto che lavorassi sui suoi versi. Ma questo avrebbe richiesto che io abbandonassi la mia vita per calarmi completamente nella sua. Non me la sentivo. Dopo la sua morte, e dopo quella di Szondi, sentii però quasi l’appello di un debito con il quale faccio i conti ormai da quasi un quarto di secolo, lavorando instancabilmente sull’opera poetica di Celan. Non dico di aver fatto oggi quel che lui si aspettava allora, ma senz’altro è il mio modo di coltivare la memoria di un’amicizia.»
In questo accorato ricordo, colpisce la confessione del che cosa avrebbe significato per Bollack leggere i versi di Celan: avrebbe richiesto un abbandono della sua vita (studi, impegni professionali, ecc.) per calarsi completamente nella sua. Per questo molte nostre letture sono quel che sono: un’occhiata distratta, un annusamento, un prender congedo da te e da me ancor prima di aver riunito tutto ciò che vedemmo. Anzi, quel poco o nulla che vedemmo. Molto, infatti, subimmo. Il mondo ci accadde.
Al momento dell’intervista, Jean Bollack si trovava in Italia per tenere un seminario all’ateneo di Ascoli Piceno sul tema «Celan sulla memoria. Lo statuto della persona nell’opera di Paul Celan.»
Il suo intervento si sarebbe incentrato, in particolare, su due poesie: la prima ‘Rimembranza’ dalla raccolta «Di soglia in soglia», la seconda ‘Occhi di ardesia’ dalla raccolta «Svolta del respiro».
Riprendo in mano il libretto Einaudi e cerco la poesia. E’ l’ultima della seconda sezione:
«Sia cibato di fichi il cuore
in cui l’ora si sovviene
dell’occhio di mandorla del Morto.
Cibato di fichi.
Erta, dentro l’alito del mare,
la naufragata
fronte,
sorella agli scogli.
Ed arricchito dei tuoi capelli bianchi
il vello
dell’estivante nube.»
Cibato di fichi…cibato di fichi. Anafora. Perché il cuore deve essere cibato di fichi?…Dolcezza, desiderio di appartenenza. L’ora si sovviene. Riflessivo. E’ il momento del ricordo. Il Morto, con lettera maiuscola, come nome proprio. Ha l’occhio a mandorla come un ebreo, se non sbaglio. Il Morto, dunque, è uno di famiglia? L’alito del mare. Ancora il mare. La naufragata / fronte. Enjambement dinamicissimo… La nube che, avendo assunto forse la forma di agnello o di qualche altro animale, ha il vello. La nube estivante, non estiva. Un aggettivo formato col suffisso in “ante” come se ci fosse un verbo “estivare”. E non si pensi soltanto al farsi nuvola d’estate ma anche allo stivare…Il mantello animalesco della nube “arricchito dei tuoi capelli bianchi”. Chi è questo tu? Ha i capelli bianchi. E’ un anziano?… Morto-naufragata fronte- nube …E’ il ciclo?…Il corpo del Morto diventato acqua e poi vaporizzato?…Allusione allo sterminio del padre?
Non mi stupisce che Bollack dedichi a questa poesia un seminario. L’altra poesia, la seconda, non la conosco. Vengo invaso dal desiderio di recuperarla. Lo faccio qualche giorno dopo, entrando in libreria e comperando il Meridiano Mondadori «Poesie» di Paul Celan, a cura di Giuseppe Bevilacqua:
«OCCHI-DI-ARDESIA, raggiunta
dall’avanzante antiscrittura il
giorno dopo l’acciecamento.
Leggibile Messaggera di grumi di sangue,
venuta a morire qui, nonostante tutto,
portata da consapevoli ali di fil spinato
al di sopra dell’inderogabile
muro dei mille.
Tu qui, tu: ravvivata
dallo spirar dei nomi rimasti
impigliati nei bronchi dei polmoni
riportati dalla pala alla luce.
Tu,
che sei da decifrare.
Con te,
sul ponte delle corde vocali, nel
Grande Intervallo,
per tutta la notte.
Fucilata con impulsi cardiaci,
da tutti i pulpiti del mondo.»
Sconvolgente. Ci sono questi occhi-di-ardesia, tutti in lettere maiuscole ad iniziare il verso e a nominare l’intera poesia che vogliono ricomporsi in un’unica parola; c’è quest’ardesia raggiunta dall’avanzante “antiscrittura” e di nuovo, non detti, gli occhi “il – enjambement fortissimo – giorno dopo l’acciecamento”. C’è o c’è stata una violenza inaudita che la “leggibile Messaggera” fa leggere nei suoi “grumi di sangue”, la leggibile Messaggera venuta qui – su questa carta – a morire…Tu qui, tu …Tu, / che sei da decifrare…Fucilata con impulsi cardiaci.
Una poesia oscura, densa, sul ponte delle corde vocali, una poesia da decifrare, da ravvivare coi propri respiri, ma concreta, precisa, piena di dettagli, tutt’altro che di tradizione mallarméana. Una poesia vissuta sul corpo, nei bronchi dei polmoni.
Avessi potuto, avrei partecipato volentieri al seminario di Bollack
Tornando all’intervista, Catucci chiede al filologo e studioso della poesia di Celan, in cosa consiste la tecnica della Um-formung, ri-formazione che appare carattere centrale di questa poesia:
«E’ un modo di rifare la lingua partendo dal suo interno: “von innen her”, per usare una sua espressione. Com’ è possibile, si chiede Celan, usare una parola come se fosse vergine, ignorando che è stata usata prima di noi in mille modi diversi? E, in poesia, com’è possibile dare alle parole un valore di verità dopo che sono state usate da Holderlin, Goethe e da tanti altri? La tecnica consiste nel rovesciare una parola e le sue possibilità espressive per ripristinarle subito dopo.»
A questo punto, Bollack fa un confronto col suo lavoro teso a riportare l’atto della produzione di un enunciato (riga per riga, parola per parola) al valore che esso aveva nel momento storico in cui ha avuto luogo; in altre parole, alle condizioni di possibilità delle tali o tal’altre affermazioni per concludere che la poetica di Celan appartiene a pieno diritto «alla linea di un pensiero critico». L’obiettivo di queste tesi è strappare il poeta e non soltanto lui alla tradizione platonizzante, cristiana. Sotto questo profilo è di estremo interesse la risposta data da Bollack sull’incontro fra Celan e Heidegger. Esso avvenne il 25 luglio 1967, all’indomani di una lettura di poesie fatte dal poeta a Friburgo. I due fanno una lunga escursione nella Foresta Nera e arrivano fino alla baita del filosofo a Todtnauberg. Il poeta, che aveva patito personalmente con la condanna ai lavori forzati la violenza nazista e che aveva avuto i genitori annientati nei campi di concentramento, si aspettava che il filosofo rompesse il silenzio sullo sterminio di milioni di ebrei. Invece, continuò a tacere.
Dopo l’incontro, Celan scrisse la poesia TODTNAUBERG:
«Arnica, eufrasia, il
sorso dalla fonte con sopra
il dado stellato,
nella
malga,
la riga nel libro
– quali nomi accolse
prima del mio? -,
la riga, in quel libro
inscritta,
d’una speranza, oggi,
dentro il cuore,
per la parola
ventura
di un uomo di pensiero,
umidi prati silvestri, non spianati,
orchidee selvatiche, sparsamente,
più tardi, in viaggio, parole crude,
senza veli,
chi guida, l’uomo,
che anche lui ascolta,
percorsi a
mezzo, i viottoli
di tronchi sulla torbiera gonfia,
umidore,
forte.»
Ed ecco la risposta di Bollack contenuta nell’intervista; una risposta che funziona anche come spiegazione della poesia e interpretazione:
«Si parla di un fiore, l’arnica, giallo come la stella di David che contrassegnava gli ebrei. Poi di una stella che decora la fontana accanto alla baita [della Foresta Nera dove viveva Heidegger]e che rinvia, appunto, alla memoria dello sterminio. Infine si parla di una passeggiata in un terreno paludoso poco distante dalla casa e che Celan aveva espressamente chiesto di andare a visitare con il filosofo. Le notizie biografiche su quell’incontro, piuttosto dettagliate, non valgono di per sé come una spiegazione,[qui Bollak sta polemizzando, come dirà più avanti, con Gadamer per il quale un ‘testo’ è autosufficiente e autoreferente] ma devono essere messe in rapporto con il contenuto profondo della poesia, o meglio con l’operazione poetica che Celan architettò in quell’occasione. L’idea della visita alle paludi, infatti, era uno stratagemma preparato: i terreni paludosi sono per antica tradizione luoghi dei morti, cimiteri, luoghi di fosse comuni e di tortura. Molti campi di concentramento erano stati edificati in terreni simili. Celan, dunque, non si arrese al silenzio di Heidegger e volle essere accompagnato da lui in una discesa agli inferi alla presenza di un testimone, un giovane assistente dell’università di Friburgo che li accompagnò in automobile e che nella poesia viene chiamato semplicemente “l’uomo”. La passeggiata venne interrotta quasi subito, il terreno era melmoso e Celan non aveva le scarpe adatte. Ma la strategia, ai suoi occhi, aveva funzionato: di fronte al persistere del silenzio sull’inumanità dello sterminio, accompagnava il filosofo in visita al regno dei morti sotto gli occhi di un sopravvissuto della specie umana. Questa interpretazione, che ho proposto per la prima volta più di dieci anni fa, è molto osteggiata da quei critici che, sulla scia di Gadamer, si sono preoccupati di difendere Heidegger o di conciliare i due autori. Se si vogliono edulcorare o rendere eufemistiche le parole di Celan, lo si può fare. Anzi, lo si fa continuamente: l’opera di Celan mi sembra esposta più di altre a forme di appropriazione che definirei elusive. Ma Celan non edulcora e non addolcisce nulla, lo spirito della riconciliazione è del tutto estraneo alla sua poesia. Le sue sono parole dure, che occorre non solo imparare, ma avere il coraggio di leggere.»
Mi interessa richiamare l’attenzione sull’affermazione relativa allo “spirito di riconciliazione” del tutto estraneo alla poesia di quest’autore che merita certamente di essere letto e studiato. Oggi più di ieri. Oggi che i figli di quei padri assassini e torturatori hanno rialzato la testa in tutta Europa e che ben pagati propagandisti sbandierano oblio e riconciliazione fra vittime e carnefici.
Questo spirito di riconciliazione Celan lo combatté, innanzi tutto, in se stesso, minando parole elegiache o consunte e ri-creando parole vergini e/o silenzi che, attraverso il piacere del “bello estetico”, non rendessero umano l’orrore:
«A ciascuno la sua parola.
A ciascuno la parola che gli si fece canto,
allorché la muta lo giunse alle spalle,
a ciascuno la parola che si fece canto e impietrì.»
E così che questo grande poeta, morto suicida a 50 anni, è entrato piano piano nella mia esistenza.
Non l’ha modificata. Ho ancora capito pochissimo di lui. Forse quasi niente. Ma quanto basta per non accettare le parole «corteggiate dalle orecchie puttane dei boia.»
8 Giugno 2005
Nota
L’articolo è stato pubblicato per la prima volta sul numero 6 (2005) della rivista “Smerilliana. Semestrale di civiltà poetiche”.
…Donato Salzaruolo, come spesso nei suoi scritti, ci immette in un suo percorso di ricerca ed esistenziale che, come un filo di Arianna, sfocia in sorprendenti “scoperte”, non a caso tempo fa ci parlò di spirito di “avventura”. In questo caso è l’incontro (casuale?) con il poeta Paul Celan e del suo critico, il filologo Bollack, a innescare tutta una serie di riflessioni…Prima di tutto sul valore della parola nella lettura, la sua presunta verginità, la stratificazione di significati che l’hanno attraversata nel tempo. Non facile. E’ la storia, e gli orrori che l’hanno attraversata, ad entrare di peso nella parola, da “riposizionare”, se non si vuole farla diventare complice dell’obblio che non rende giustizia…Sì, c’è un nesso con “I poeti, in tempo di guerra, non pensano (tremano)abbastanza”
DI FRONTE ALLA POESIA “OSCURA”.
Con Celan è in gioco l’atteggiamento di un lettore nei confronti della poesia “oscura”. Ne abbiamo parlato diverse volte qui su Poliscritture, ad esempio a proposito delle poesie di Marina Pizzi (https://www.poliscritture.it/2015/01/29/cantico-di-stasi-2011-2014/) e, di recente, di Antonio Sagredo (https://www.poliscritture.it/2016/09/26/parole-beate/).
Ora io mi chiederei perché l’ottimo e onesto metodo impiegato da Donato (Salzarulo) per approssimarsi a “Di soglia in soglia” – scatto di un minimo d’interesse personale per un titolo o per alcuni versi; “voglia di capire di più”; spinta ad insistere ricevuta dalla recensione di Stefano Catucci e poi dalle parole del filologo Jean Bollack che aveva conosciuto di persona Celan; tentativi volenterosi di entrare nelle zone oscure dei testi di Celan, segnandosi le prime impressioni ricevute come base per ulteriori approfondimenti – non debba valere anche di fronte ai testi contemporanei di autori/trici viventi.
Questo atteggiamento non è possibile solo perché i versi – riferiamoci sempre a occasioni concrete – di Marina Pizzi o di Antonio Sagredo non fanno scattare quell’interesse “personale” iniziale che quelli di Celan hanno mosso in Salzarulo?
O perché, nel caso di Celan, siamo influenzati dal nome di un autore consacrato a livello europeo e (credo) mondiale; e per di più con l’aura della vittima di una tragedia che è divenuta simbolica della “banalità del Male” del Novecento e per giunta trascinatasi dentro il suo corpo e la sua mente fino al suicidio?
O perché l’opera di Celan è stata sostenuta da un lavoro critico autorevole, capace d’interrogare quella “oscurità” [1] invece di rifiutarla o temerla?
O perché – facciamo tutte le ipotesi e poi ragioniamoci su – la poesia di Celan *s’impone* da sola e quella di Pizzi e Sagredo no o di meno?
Nota
[1]
Due esempi di attenzione critica a Celan che mi è capitato di conoscere e segnalo:
– il libro di Camilla Miglio, Vita a Fronte. Saggio su Paul Celan, Quodlibet, 2005, recensito da Andrea Cortellessa su Alas del 9 luglio 2005, dove tra l’altro si dice: “Capire un poeta come Celan è, al contempo, necessari oe impossibile. Impossibile perché, come ha detto Derrida, vi permane sempre un “fuori senso […] in riserva, la cifra della cifra” e dunque non si può capirlo estensivamente ed esaustivamente (è impossible, cioè, esaurirlo; come cide Miglio, “Celan segna la fine di un certo tipo di comprensibilità […] ma ci fa intuire anche l’alba di un nuovo, parziale comprendere”). Necessario perché ciò non deve giustificare l’incoscienza di godere del testo senza capirlo (cioè tentare di capirlo, ovviamente)”.
– un saggio critico di Andrea Zanzotto, originariamente pubblicato su Il Corriere della Sera nel 1990, che fece da postfazione di “Paul Celan. Poesie sparse pubblicate in vita”, a cura di Dario Borso, Nottetempo Edizioni, Roma 2011:
Per chiunque, e particolarmente per chi scriva versi, l’avvicinamento alla poesia di Celan, anche in traduzione ed in forma parziale e frammentaria, è sconvolgente. Egli rappresenta la realizzazione di ciò che non sembrava possibile: non solo scrivere poesia dopo Auschwitz ma scrivere «dentro» queste ceneri, arrivare ad un’altra poesia piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nell’annichilimento. Celan attraversa questi spazi sprofondati con una forza e una dolcezza ed un’asprezza che non si esiterebbe a dire senza paragoni: ma nel procedere attraverso gli ingombri dell’impossibile egli genera una messe abbagliante di invenzioni, che hanno contato decisivamente nella poesia del Secondo Novecento, non solo europeo, e che pur sono esclusive, escludenti, sideralmente inavvicinabili e non passibili d’imitazione. Ne resta messa in crisi qualunque ermeneutica, che esse pur impetuosamente aspettano, prescrivono.
Celan del resto aveva da sempre avuto la consapevolezza che quanto più il suo linguaggio avanzava, tanto più era destinato a non significare; l’uomo per lui aveva già cessato di esistere. Anche se non mancano nei suoi scritti i continui sussulti di nostalgia per un’altra storia, questa gli appare come lo svolgimento di una feroce e insaziabile negazione: il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno: ma nello stesso tempo il linguaggio deve «rovesciare» la storia e qualcosa di più della storia, deve, pur soggiacendo a questo mondo, «trascenderlo» almeno indicandone gli orridi deficit.
Se la poesia è pur sempre costruzione, composizione, anche in questo momento terminale, in cui tutto la nega mentre ne è attraversato, la storia ormai non può comunque essere sopportata né espressa, né direttamente né indirettamente, nella sua fuga multidirezionale dal senso. Celan si esprime dunque in un sistema di forme o terremoto di forme, consapevole di portarsi verso la mutezza (come egli stesso ebbe ad affermare). Questa mutezza è qualcosa di diverso dal silenzio, il quale può essere anche una forma di raggiungimento, essa vela ed insieme evidenzia una specie di «braccio di ferro» in cui una forza deteriore lentissimamente ma inesorabilmente prevale. O dovrebbe prevalere: ma ecco, crollare nella mutezza e lungo questo stesso discorso trovarsi necessitati ad una specie di suprema ebrietà di scoperte, questo è il paradosso in cui Celan si manifesta.
Egli si inoltra negli spazi di un dire che si fa sempre più rarefatto e nello stesso tempo quasi mostruosamente denso, come in una «singolarità» della fisica. Egli aggruma e smembra le parole, crea numerosi e impennati neologismi, sovverte la sintassi pur non distruggendone una possibile giustificazione fondante, usa fino alle estreme latenze il proprio sistema linguistico, il tedesco: ma nello stesso tempo si avvede che questi suoi meravigliosi disegni, queste incredibili «fughe» e «strette» lungo scale (musicali e non), queste geologie e doppi fondi improvvisamente tranciati, partono verso un qualche cosa che non è né un imperscrutabile aldilà della lingua né il ritorno a una casa natale. In ogni movenza del discorso di Celan si insinua tuttavia qualche cosa di definitivo, di lapidario, ma come di lapide che sia metafora tanto di una eternità mancata quanto di una morte che resta pur sempre «inquieta», inulta. Non vendicata. Non ci sono più né nascite né ritorni veramente salvifici, né c’è «Heimat» per quanto anelata, soprattutto nel senso di forti riferimenti culturali, sia lungo una linea della tradizione tedesca che va da Hölderlin a Trakl, sia per un profondissimo elemento ebraico progressivamente assunto e patito in tutto il suo straordinario e atroce destino. Quello di Celan si può dire allora in ogni suo momento un dramma-azione coattamente sacro (soprattutto nel senso di sacer latino) in cui la maledizione permea la benedizione di ogni inventum poetico e umano.
E la stessa sua negazione della sacralità che in un clima di azzeramento resterebbe comunque sottintesa, è per lui stata pur sempre qualche cosa di sacro e intimatorio, di minaccioso e rapinoso, di accecato-ipnotizzante; ed è stata la piena forma di assunzione di un destino nello stesso momento in cui sembrava cessare qualunque significato anche per questo stesso termine. Restava sulla pagina la traccia di una immane fatica e di un eccelso dono creativo e amoroso in ossessiva autofrustrazione, che era tuttavia fecondissimo e anche periodizzabile in una serie di svolte, nelle sue screziate raggiere di surrealtà/irrealtà/sub-realtà, violenza patita e sedimentata sulla pagina nella stigmata dei suoi terribili rebus, quasi detriti dell’innominabile massacro.
Esistevano altre possibilità, altri atteggiamenti di fronte a problemi e situazioni analoghe, anche se non di tale necessario oltranzismo, che i numerosi e motivati sperimentalismi del nostro tempo hanno tentato. La loro premessa era considerare dati come quelli dell’esperienza celaniana quasi inclusi in una specie di sfera da investire dal di fuori, da smontare e profanizzare (profanare) incrinandola nel confronto con una serie di atteggiamenti psichici e soprattutto di codici che le fossero profondamente alieni, desunti da ogni campo del sapere (o dissapere) attuale. Si trattava in ogni caso di smontare, di aggredire dall’esterno questo «modo di mondo», per cogliere anche le più improbabili possibilità di instaurare un diverso rapporto fra storia e parola-poesia. Per Celan è stato questo un problema che si è ripresentato di continuo, che egli pienamente percepiva ma sul quale non poteva non sentirsi oscuramente impedito, nonostante le sue sterminate conoscenze, specie linguistiche, e la sua capacità di ardente simbiosi con altri mondi poetici e di esperienza (basterebbe ricordare il suo fervido, connivente rapporto con il fantasma di Mandel’štam). Ma sebbene tutto il suo lavoro si fosse svolto a stretto contatto con le più varie forme di sperimentalismo, anche col più profanizzante, favorito dal suo aver voluto Parigi come città di elezione per la sua vita quotidiana, egli aveva dimora esclusiva in una sua fedeltà incatenata ad una Parola che, per di più, si configurava per lui nella materna/assassina lingua tedesca.
Il suo occhio e i suoi prensili sensi, le sue pagine a scatti o a gradini dove la poesia «non si impone ma si espone» (è una sua frase), i suoi coltelli di pietra da sacrificio messicano, i suoi abbandoni-attacchi nei confronti della lingua, le sue manovre anche più eccessive e disturbanti, sono sempre condannate a gravitare su un’identità «eccelsa», di eccelso come vuoto ed eccelso perché nulla. Egli restava pur sempre nel cono d’ombra di un verticalismo, come «al cospetto di», a differenza di quanto poteva essere avvenuto ad altri; ma, qualunque collocazione si voglia dargli, certamente nessuno lo ha eguagliato in ricchezza nel nostro tempo della poesia. È quasi impossibile seguire Celan nelle migliaia di stazioni del suo calvario che sbocciava in infinite seduzioni, in intere selve di bagliori e morsi di agglomerazioni glaciali, di oggettualizzazioni deturpanti, di vegetalizzazioni ambigue, di storia imbavagliante e insieme esplosa in pronunce «parallele», in devastanti xenoglossie. Ma un’ostinata forza raggrumava ogni fuoriuscita intorno al non-nucleo verticalistico, perché, in fondo, quella che non viene mai meno in Celan è la violenza di un amore, assoluto proprio perché sempre più «senza oggetto». Celan non poteva uscire da questo atteggiamento potentemente, paurosamente monocorde, per entrare in quelli che dovettero apparirgli come doppi giochi, non poté superarsi (se pur ne fosse valsa la pena) in quella pulsione ad una forma di sublimità, per quanto più volte sconfessata, quale si ritrovava nelle «sue» tradizioni sovraccennate, della linea «hölderliniana» e di quella ebraica, specie chassidica, fino ad «appiattirsi» nella realtà, pur se «la» realtà egli fin dall’inizio si era imposto di voler perseguire ed aveva fatta propria fino ad arrivare all’ultimo sacrificio di sé.
Non resta che ascoltare per Celan le parole di Nelly Sachs: «Celan benedetto da Bach e da Hölderlin, benedetto dai Chassidim», traendone ragioni per una vera e propria devota gratitudine.
Ringrazio Locatelli ed Abate per i loro interventi. In effetti, buona parte delle mie letture e scritture sono sostenute dalla curiosità, dallo stupore, dallo spirito d’avventura, dalla voglia di conoscenza…Il mio “ottimo e onesto metodo”, come lo definisce Abate, può certamente applicarsi a tutti. Si possono benissimo leggere e studiare i testi di Marina Pizzi o di Sagredo al posto delle opere di Celan. L’oscurità può far barriera, ma può rappresentare anche una sfida. Il mio modo di leggere, però, non è quello di Bollack e, come confesso nell’articolo, il mio non sempre mi soddisfa.
Ciò detto, perché ho pensato di ripubblicare questi appunti? Perché quella di Celan è una via. Probabilmente impercorribile e inimitabile, lo sostengono sia Cortellessa che Zanzotto; una via, comunque, che rappresenta una risposta alla domanda di Adorno: scrivere poesia dopo Auschwitz, è possibile, ed è possibile farlo come Celan, scrivendo «dentro» queste ceneri; è possibile «arrivare ad un’altra poesia piegando questo annichilimento assoluto, e pur rimanendo in certo modo nell’annichilimento.»
Il testo di Zanzotto che Abate ha aggiunto in nota (e ha fatto benissimo) pone problemi ineludibili a tutti coloro che, scrivendo poesie, intendono confrontarsi con la storia. Per Celan, come sostiene Zanzotto, «l’uomo aveva cessato di esistere». Quindi, non solo era morto Dio, ma anche il suo inventore. Fortini, ad esempio, questa proposizione non la sottoscriverebbe. In «Paesaggio con serpente» scrisse “Lukács”, una poesia che termina con questo verso: «Gli uomini sono esseri mirabili.» Davvero?… Il filosofo, al quale dedica la poesia, indubbiamente, ma tutti gli altri? E in che senso poi sono straordinari? In che senso destano ammirazione o meraviglia? Forse anche perché sono capaci di progettare, organizzare e far funzionare Auschwitz?…Ma, al di là di ciò che pensa Fortini o Celan, noi oggi cosa pensiamo di questi “esseri mirabili”?
La storia, scrive Zanzotto, appare a Celan come «lo svolgimento di una feroce e insaziabile negazione», essa «non può comunque essere sopportata né espressa, né direttamente né indirettamente, nella sua sua fuga multidirezionale dal senso.» Sono parole da sottolineare, da tenere ben fisse in mente. La storia nega continuamente l’umano, la poesia; la storia è una macelleria, un mattatoio, il luogo di un’animalità bieca, feroce, crudele…«Restiamo umani!…» diceva Vittorio Arrigoni. Ma lo siamo?…
«Il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno: ma nello stesso tempo il linguaggio deve “rovesciare” la storia e qualcosa di più della storia, deve, pur soggiacendo a questo mondo, “trascenderlo” almeno indicandone gli orridi deficit »
Questo cerca di fare Celan con il suo aggrumare e smembrare parole, coi suoi neologismi, col suo sovvertimento della sintassi, con le sue “fughe” e le sue “strette”, in «un sistema di forme o terremoto di forme, consapevole di portarsi verso la mutezza», che, come giustamente sottolinea Zanzotto, «è qualcosa di diverso dal silenzio, il quale può essere anche una forma di raggiungimento.» La mutezza, invece, «vela ed insieme evidenzia una specie di “braccio di ferro” in cui una forza deteriore lentissimamente ma inesorabilmente prevale.» È questa forza che spinse probabilmente il poeta a rendersi muto per sempre.
Esistevano altre possibilità e altri atteggiamenti di fronte a problemi e situazioni analoghe? Si domanda Zanzotto. La risposta è positiva, a patto che non ci si muovesse, “dentro le ceneri”, ma dal di fuori, che si assumesse i dati dell’esperienza celaniana come «una specie di sfera da investire dal di fuori.[…] Si trattava in ogni caso di smontare, di aggredire dall’esterno questo “modo di mondo”, per cogliere anche le più improbabili possibilità di instaurare un diverso rapporto fra storia e parola-poesia.»
Conclusione: l’esperienza poetica di Celan è stata unica e irripetibile. Adorno aveva detto, nel 1949, che scrivere una poesia, dopo Auschwitz, «è un atto di barbarie». In verità questi atti si sono continuati a compiere. Il filosofo stesso, in «Dialettica negativa» nel 1966, corresse tale affermazione e la precisò meglio: «Il dolore incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare. Perciò forse è falso aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere una poesia… È però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena.» Sono d’accordo, non possiamo più immaginarci un’arte serena, ma cosa significa oggi far misurare il linguaggio della poesia con le disumanità della storia? Come è possibile “rovesciarla”, “trascenderla”?…Ecco, vorrei poter dare delle risposte, anche provvisorie, a queste domande.
…interessa molto anche a me una seppur provvisoria risposta alla domanda che ci poniamo davanti alla disumanità della storia nell’uso del linguaggio come nella poesia: ” Come è possibile “rovesciarla”, “trascenderla”? Ci rivolgiamo al nostro essere anche “esseri mirabili” e non solo esseri mostruosi? Il nostro essere i primi si esprime nel denunciare i nostri volti disumani? La mutezza, la scelta di fondo di Celan, la più coerente? C’è uno spazio possibile, anche come poesia esodante, di rivendicare la propria umanità, se non almeno per tener vivo un ricordo di “esseri mirabili” oltre gli orrori? Non come evasione, ma per non dimenticarci?
Donato Salzarulo mette in rapporto le due affermazioni: scrivere una poesia, dopo Auschwitz, per Adorno “è un atto di barbarie”; secondo Cortellessa e Zanzotto “scrivere poesia dopo Auschwitz, è possibile, ed è possibile farlo come Celan, scrivendo ‘dentro’ queste ceneri”.
Sono due possibili posizioni verso il linguaggio: azzeramento e rinnovamento.
L’orrore è stato tanto che ha ucciso il linguaggio, ne ha mostrato l’insufficienza, il limite, ha ridotto al mutismo. Insieme ne ha mostrato la falsità intrinseca, il linguaggio in sé maschera, è un doppio della vita ma non è la vita, può andare bene per dire un certo livello intersoggettivo di rapporti, ma non raggiunge l’abisso della soggettività, né quando è capace di organizzare l’orrore (infatti lo rende “banale”) né quando lo subisce.
In realtà, dopo che l’orrore è accaduto, il “logos” ha ricominciato a tessere la sua tela, le vittime hanno ricominciato a stirare il linguaggio al limite della dicibilita’ (anche Primo Levi, come Celan), e la lingua collettiva ha costeggiato/corteggiato la menzogna inventando “la banalità del male”, svelando cioè la superficie impermeabile della lingua alla realtà sottostante, e perfino impiegando il linguaggio per negare la realtà accaduta, con i negazionisti di ogni tipo.
Celan, “con il suo aggrumare e smembrare parole, coi suoi neologismi, col suo sovvertimento della sintassi, con le sue ‘fughe’ e le sue ‘strette’, in *un sistema di forme o terremoto di forme, consapevole di portarsi verso la mutezza*, che, come giustamente sottolinea Zanzotto, *è qualcosa di diverso dal silenzio*” (Salzarulo), e con una poetica che, secondo il filologo Bollack “appartiene a pieno diritto ‘alla linea di un pensiero critico'”, si impegna a ri-creare il mondo col linguaggio, a dire cosa è quello che è stato. Perché all’inizio, a ogni inizio, era il verbo… eccetera. Oppure è la verticalità identificata da Zanzotto, “Egli restava pur sempre nel cono d’ombra di un verticalismo, come ‘al cospetto di’, un’ostinata forza raggrumava ogni fuoriuscita intorno al non-nucleo verticalistico, perché, in fondo, quella che non viene mai meno in Celan è la violenza di un amore, assoluto proprio perché sempre più ‘senza oggetto'”.
È simile la sua sorte a quella di Primo Levi, non posso fare ipotesi, certo hanno lavorato allo spasimo sul dire, hanno detto e poi hanno fatto basta. A noi che restiamo (“voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case”) restano i nuovi territori del linguaggio che hanno spalancato.
” A noi che restiamo (“voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case”) restano i nuovi territori del linguaggio che hanno spalancato” (Fischer)
… e resta l’orrore storico a cui far fronte.
… con nuova lingua da creare.
Boh! Una “nuova lingua da creare” mi pare un obiettivo abusato e per soli poeti.
Non è che “l’orrore è stato tanto che ha ucciso [soltanto] il linguaggio [o] ne ha mostrato l’insufficienza”. L’orrore (precisi produttori di orrore in verità) ha ucciso e uccide ( o fa vivere in condizioni di miseria e di amputazione) milioni di uomini e donne in carne e ossa e non solo il linguaggio.
Si parlava di Celan. «Il linguaggio sa di non potersi sostituire alla deriva della destrutturazione per trasformarla in altro, per cambiarle segno: ma nello stesso tempo il linguaggio deve “rovesciare” la storia e qualcosa di più della storia, deve, pur soggiacendo a questo mondo, “trascenderlo” almeno indicandone gli orridi deficit ». (Zanzotto)
Questo cerca di fare Celan… (Salzarulo)
…e noi che non sprofondiamo nella mutezza. Né imbracciamo le armi. Né ci siamo suicidati finora. Non ci dobbiamo occupare del linguaggio, specificamente, e di allargare la lingua perché parli del mondo?
Occuparsi del linguaggio non significa necessariamente inseguire le mitologie di una “nuova lingua”. Da “creare” poi, come se fossimo sempre a fare tutto daccapo e tutto da soli come Poeti padreterni! E poi come prospettive estreme e positive ( pare d’intendere) si deve pensare solo a imbracciare le armi ( che non abbiamo) e a suicidarsi? Sono risolutive? Non mi pare. D’accordo invece sul misurare le possibilità dei linguaggi che possediamo e affinarli. E tenere presenti anche i loro limiti e i rischi di “scivolare” sul mondo invece di parlare di esso. E la politica? La scartiamo perché è fallita quella che volevamo? A quella alludevo implicitmente quando parlavo di “obiettivo abusato e per soli poeti”.
Da F. de Saussure, «Ma che cos’è la lingua? Per noi, essa non si confonde col linguaggio; essa non è che una determinata parte, quantunque, è vero, essenziale. Essa è, al tempo stesso, un prodotto sociale della facoltà del linguaggio e un insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui” http://www.accademiadellacrusca.it/it/lingua-italiana/consulenza-linguistica/domande-risposte/differenza-termini-idioma-lingua
Dunque lingua, non linguaggio, è il nostro italiano, è quindi il tedesco di Celan: “Questo spirito di conciliazione [tra vittime e carnefici] Celan lo combatté, innanzi tutto, in se stesso, minando parole elegiache o consunte e ri-creando parole vergini e/o silenzi che, attraverso il piacere del ‘bello estetico’, non rendessero umano l’orrore” (Salzarulo), *minando parole, ricreando parole*, senza bisogno del padreterno, e anche fuori dal precedente vissuto (fino a quando hanno resistito, Celan come Levi).
Ritorniamo allora alle domande conclusive di Donato: “cosa significa oggi far misurare il linguaggio della poesia con le disumanità della storia? Come è possibile ‘rovesciarla’, ‘trascenderla’?… Ecco, vorrei poter dare delle risposte, anche provvisorie, a queste domande”. E Annamaria Locatelli: “C’è uno spazio possibile, anche come poesia esodante, di rivendicare la propria umanità, se non almeno per tener vivo un ricordo di ‘esseri mirabili’ oltre gli orrori? Non come evasione, ma per non dimenticarci?”
Ecco, con cos’altro abbiamo a che fare se non con la lingua, qui, in Poliscritture, e proprio nel “far fronte all’orrore storico”? (Abate)
So che i produttori di orrore hanno ucciso e uccidono persone e non solo parole ma, dopo, la lingua, e il linguaggio, apparvero uccisi nella menzogna (ricordo le notevoli riflessioni di Primo Levi sul linguaggio, dentro il lager e per raccontarlo poi, nei Sommersi e salvati), e azzerati nella mutezza. Di questo si rifletteva, mi pare, con la poesia di Celan. E di nuova lingua da creare, altre parole, altro italiano, altra sintassi, figure, invenzioni, per una “poesia esodante” come ricorda Annamaria, per poter dire quello che è ora.
SEGNALAZIONE
( Sto preparando un intervento sulla questione di fondo che vedo in questo post e nei commenti: il rapporto tra poesia e storia (e politica). Nel frattempo mi sono ricordato che su LA PRESENZA DI ERATO il 30 luglio 2014 era apparso sul Corriere della Sera”, 29 novembre 1995 un articolo di Zanzotto a un anno dalla morte di Fortini: Andrea Zanzotto su Franco Fortini (https://lapresenzadierato.com/2014/07/30/andrea-zanzotto-su-franco-fortini/) e, su mia sollecitazione, un commento-saggio di Velio Abati, Di Zanzotto e di Fortini. Contro la società verticale. Li ripropongo all’attenzione perché sono in stretta relazione con la questione appena indicata. Del saggio di Velio Abati, copio alcuni stralci per me particolarmente importanti. (E. A.]
Stralci da “Di Zanzotto e di Fortini” di Velio Abati:
1.
Clamorosa – per chi conosca l’imponente rilievo politico e saggistico di Fortini nel suo tempo – è la scelta zanzottiana di mettere in primo piano Fortini poeta, quando la critica coeva non era mai stata su questo generosa. Saremmo tuttavia assai lontani dal vero, se vedessimo quella scelta dettata dalla svolta post-ideologica affermatasi alla fine del secolo breve, che ha portato un’intera generazione di uomini della politica, della cultura o della militanza politico-sindacale intermedia all’esplicito misconoscimento del proprio passato, con franca adesione all’antisocialismo e all’antimarxismo. Quell’avvio della restaurazione liberista e antidemocratica ha prodotto, tra i suoi effetti, il ritorno a una visione della poesia “pura” da implicazioni diverse da se stessa, fino ad asserirla, in certe aree, fatto assolutamente privato. Che la strada di Zanzotto sia diversa – e, per chi lo conosce, in intima coerenza con sé – è chiaro fin dall’abbrivio, dove si riconosce con parole nette, condividendola, la complessità della figura intellettuale di Fortini. Ma, più cogentemente, è l’intero sviluppo del ragionamento a connettere lo sguardo sulla poesia con l’insieme dell’attività saggistica, secondo l’ottica della totalità.
2.
Zanzotto poeta e critico, come ho cercato di mostrare altrove, muove da un’originaria, potente spinta orfica che presto ha accettato di confrontarsi con le ragioni altrettanto perentorie della storia. Egli ha saputo acutamente far di questo suo dualismo costitutivo chiave d’accesso al proprio tempo. Per un verso ha ricondotto l’urto deflgrante dei suoi demoni interiori – che costantemente lo risucchiavano ben oltre il paesaggio, verso la cancellazione di ogni cultura umana e di sé medesimo – alla disciplina insieme funambolica e iperraziocinante della psicoanalisi lacaniana; per l’altro ha coltivato la sua compromissione con la storia, passata a contrappelo dall’ostentata marginalità solighese, mettendo via via a frutto tanto il socialismo resistenziale, quanto una vitalissima radice sensista e materialista di derivazione e natura indubitabilmente colta, ma in parte consonante con l’universo rurale cui è rimasto fedele
3.
Zanzotto ha saputo portarsi all’altezza del proprio tempo proprio facendo circuitare la personale ferita originaria con il fermentante conflitto sociale, politico e culturale che ha caratterizzato il trentennio del secondo dopoguerra. Conflitto tra capitale e lavoro, donne e uomini, movimenti sociali e istituzioni, creatività e conservazione. Un conflitto assai aspro, anche cruento, che ha però prodotto nel mondo e in Italia una decisa democratizzazione.
4.
Zanzotto, come da sua premessa, articola il breve percorso, che in verità abbraccia l’intero quarantennio della frequentazione, intorno alla questione della poesia. Tralasciando i riconoscimenti ricevuti sulla propria poesia, portati a riprova della coerenza fortiniana tra poetica e prassi critica, risultano con nettezza il terreno comune e la diversa ‘traduzione’ che nei due intellettuali esso riceve. Se sotto l’aspetto delle genealogie culturali la consonanza tra i due affonda nel condiviso magistero del romanticismo europeo, sul piano più strettamente storico-sociale loro coevo identica è l’acutezza di sguardo su ciò che Fortini ha chiamato fine del mandato degli intellettuali, di cui il poeta è forma particolare.
Per Fortini la poesia e in genere l’opera d’arte nella società capitalistico-borghese soffre di una doppia mistificazione, che acceca il lettore così come il suo autore. In quanto totalità realizzata ‘in figura’ e in forza del suo costitutivo imperativo al fruitore – sii come me – la forma artistica dà l’illusione di attuare quella pienezza di senso del mondo cui solo una riappropriazione reale del destino comune e di ciascuno può effettivamente approssimarsi. Una mistificazione assai palese e talvolta – come in D’Annunzio – cinica di tale condizione è nell’equiparazione di arte e vita compiuta dall’estetismo primo novecentesco. La seconda mistificazione deriva dalla più ampia condizione della lingua e della cultura. In Fortini ferma è la convinzione marxista che ogni produzione culturale e, prima ancora, ogni enunciato semiotico prende significato dal contesto in cui nasce e vive, compreso quindi il suo medesimo fruitore: due persone diverse che dicono la stessa cosa non dicono la stessa cosa, indica icastico. Tale condizione paradossale, che in verità è diretto portato della socialità dell’uomo, della sua capacità di produrre la storia del proprio genere, incide nella pretesa autosufficienza dell’opera d’arte una seconda ferita, per quanto nascosta dal godimento estetico.
Si tratta di una condizione storica insuperabile in una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; una contraddizione reale che solo la consapevolezza dello sfruttamento e dell’alienazione rende possibile all’autore e al fruitore di vivere alla sua altezza, cioè in uno stato di negazione e insieme di rifiuto di quell’impotenza.
5.
Tale condizione da Fortini è rappresentata con due diverse espressioni: il significato delle parole lo decide chi comanda; la poesia è sempre poesia dei padroni. Per questo, in compagnia di grandi e diversi marxisti, da Lenin a Benjamin fino a Gramsci, sia rammenta a se stesso il comandamento qui ricordato da Zanzotto: non serve a niente, ma scrivi; sia, ricorda ancora il solighese, per lui il poeta non occupa il primo posto. Se solo sul terreno reale, ossia esterno alla totalità dell’opera d’arte, è possibile rendere effettivo l’orizzonte di senso che essa propone e mistifica; è però altrettanto vero che nel tout-se-tien della sua opera fermenta quel bisogno di riappropriazione comune della vita che, dice Fortini, costringeva Lenin a interrompere furioso l’ascolto di Beethoven.
SEGNALAZIONE
Michele Ranchetti, Capire o interpretare
(http://testoesenso.it/article/view/353/pdf_161)
Al link indicato chi vuole approfondire i problemi posti dalla lettura di Celan trova un testo di Ranchetti che parla del suo approccio di lettore e traduttore a Paul Celan . Mi pare da accostare al tipo di lettura fatto da Salzarulo e perciò lo segnalo in questo post.