di Giulio Toffoli
Ho telefonato al Tonto e gli ho detto: “Guarda che ho lasciato nella tua cassetta delle lettere una copia di un articolo che riguarda il significato della poesia nella società d’oggi”.
“Cavolo – mi ha risposto – un argomento dei nostri, di assoluta attualità. – dopo una pausa ha aggiunto – Può darsi che volessi prendermi in giro, sai non manca chi mi considera “rozzo”, incapace di quelle raffinatezze dei signorini che passano il loro tempo nell’universo delle elucubrazioni intellettuali. Se è così questa volta però hai sbagliato il tiro. Da qualche tempo ho preso in mano la Commedia di Dante, sai quella nella versione del Sermonti, che è così, diciamo, friendly, con quelle sue introduzioni che vogliono stimolare l’interesse del lettore piuttosto che, come capita nella maggior parte dei casi, in quelle opere accademiche così rinomate dove si vendono paroloni a carrellate per rendere incomprensibile ciò che dovrebbe essere invece reso più piano.
Ogni sera prima di dormire mi leggo un canto e nel complesso non è male …
Ma ora dimmi che devo fare?”
“Leggerlo. – gli ho risposto – Come vedrai ho eliminato il nome dell’autore e il titolo. Desidero che ti senta libero di dire quello che pensi, per questo motivo ho tolto quello che poteva essere un intralcio a una tua lettura critica. Leggi quelle righe liberamente e fammi sapere”.
Una settimana dopo il Tonto mi ha chiamato:
“Ma che, sei matto? Hai deciso che dovevo salire l’Himalaya. Per leggere quelle tre paginette che mi hai fatto avere ci ho messo quasi cinque giorni … Si è trattato di uno stress davvero notevole. In ogni caso ho cercato di fare il compito che mi avevi assegnato. Se vuoi le risposte vediamoci. Nel tardo pomeriggio; c’è un bar davanti al Grande che sembra abbastanza comodo. Voglio proprio vederti in faccia mentre ti dico quello che penso …”.
Ci siamo messi d’accordo, era evidente che il Tonto si era convinto che dovessi pagare pegno e aveva scelto un bar di lusso visto che la consumazione come da prassi ero destinato a pagarla io.
Il tempo era clemente e allora abbiamo occupato un tavolo sul corso e abbiamo ordinato. Io mi sono contenuto, chiedendo il solito succo di frutta, mentre il Tonto ha aggiunto alla bevanda un croissant, ed evidentemente per provocarmi ha concluso chiedendo due Berlucchi ‘61 Franciacorta brut.
“Ma come – gli ho chiesto – chi lo beve questo brut?”
“Evidentemente noi, – mi ha risposto ridacchiando – dopo quello che ti dirò penso che dovrai infrangere la tua regola e una volta tanto berti un bicchiere di buon vino. D’altronde non diceva lo stesso Platone che qualche volta è utile essere un poco alticci?
Prendi questo nostro incontro come un simposio …”
“Vabbè, vedremo. Ora dimmi quali sono a tuo vedere le vie della poesia oggi. Come hai trovato quell’articolo che ti ho fatto leggere?”
“All’inizio sono rimasto di stucco. Di norma sei tu che mi aiuti a uscire da quei labirinti che l’ideologia ogni giorno costruisce intorno a noi. Questa volta, mi sono chiesto come mai avessi deciso di mutare il nostro ruolo …
Stavo quasi per cedere e poi ho detto: No!
Mi hai voluto sfidare ed allora mi sono convinto che dovevo accettare la tenzone.
Eccomi pronto con i miei appunti.
Se dovessi sintetizzare in poche parole la sensazione che ho provato davanti a quel profluvio di parole direi: eccoci di fronte a un esempio di quel “gergo dell’in/autenticità” che tanto è di moda oggi; e che va per la maggiore in certi circoli i cui adepti, avendo poco da dire di sensato, si muovono in un contesto che è quasi esoterico. Grandi e oscure parole e poca sostanza.
Si tratta di un miriade di metafore, di immagini prese nei vari magazzini della cultura occidentale e trasformate in strumenti per dimostrare delle tesi che alla fine appaiono quasi sempre prive di una vera sostanza. Un gioco di specchi; a confronto il castello di Atlante appare un esercizio per bambini”.
“Portami però degli esempi che chiariscano questo tuo giudizio”.
“Ma sai, già dalle prime parole … Come giudicare quel gioco di parole fra l’immaterialità delle vie della poesia “atomiche e pulviscolari, dei colori dentro il bianco della luce che, nella spelonca dello spazio vuoto, irradia all’infinito direzioni” giustapposte a “quelle carnali della materia – fango e magma – di cui tenta l’opaca resistenza, la superficie della pelle e la greve compattezza della polpa”? Prova a soppesare le parole: “spelonca dello spazio vuoto”. Non ti rammenta qualche cosa? La spelonca o più tradizionalmente la caverna. Una cosa che per la cultura occidentale ha un ben preciso significato e che però qui ha perduto ogni sua contestualizzazione rigorosa. Similmente, pensa al modo in cui viene presentata la materia. Una chiara descrizione negativa”.
“Si in effetti come negare che carnalità sia coniugata con fango e melma e similmente la polpa sia definita greve …”.
“Di qui però inizia, in modo già orientato il percorso che il tuo autore ci vorrebbe far seguire. Un percorso dove uomo e poesia sono, per usare le sue formule: “spirito della terra e specularmente terra dello spirito”. Ora mi concederai che si tratta di espressioni simboliche del tutto indefinite, dove le parole, proprio loro: “spirito” e “terra” possono essere rilette con infinite accezioni quanti sono i lettori e valide per tutte le stagioni”.
“Avevo notato questa indeterminatezza, questo gioco semantico messo in moto a 360 gradi ed è proprio per questo che ho chiesto il tuo parere …”.
“Ben sapendo, ho l’impressione, quale sarebbe stato. – mi ha risposto, mentre sfogliava i suoi fogliettini – Pensa alla formula “esterna internità”, che vorrebbe dirci che nel mondo della poesia “dentro e fuori sono intimamente collegati in senso elicoidale”. Cosa credi possa pensare se non che si tratta di giochetto retorico neppure particolarmente originale?
MI verrebbe da dire “elicoidale” de che?
Ed ancora come interpretare questa formulazione: “attraversare le cose per conoscersi”?
Sai che sono convinto che le parole vadano rispettate e usate con proprietà. Uno dei nostri ultimi discorsi riguardava proprio l’abuso delle parole, l’esercizio di chi ne fa esplodere il significato trasformandole in un grimaldello buono per qualsiasi esercizio di fantasticheria metafisica; e sai che quando ci si allontana dal terreno del buon senso faccio fatica a seguire chiunque. Il testo che mi hai messo sotto gli occhi proprio nelle righe successive ci offre un vero e proprio catalogo di questi giochetti”.
“Prova a dirmi quali sono a tuo vedere i punti più deboli …”.
“Sai, si corre il rischio perfino di fraintendere le parole a causa della loro indeterminatezza. Tutto può essere un “ponte” quando ci si muove nel continente del linguaggio che si rivolge a ogni possibile cosa; il problema è proprio capirne il senso. Cosa vogliono dire: “spazio esterno e interno”, “sé e altro da sé”, “qui e altrove”, “ora che è anche prima, dopo, sempre”? Per me, ciascuna di queste affermazioni ha un significato univoco e rimanda a ben precisi modelli concettuali, ma mi pare evidente che si tratta di una interpretazione che ne vale mille altre. Ad esempio spazio esterno e interno può avere un senso fisico preciso o epistemologico, rifacendosi al maestro di Koenigsberg. Oppure mille altri. Che dire? ”.
“Allora – mi sono permesso di intervenire – che ne pensi della formulazione: “sarebbe da preferirsi … una poesia “vera” piuttosto che “reale”?”.
Il Tonto mi ha guardato, ha preso in mano il bicchiere e dopo aver sorseggiato un poco di succo ha aggiunto: “Ecco, appunto, ancora una volta ci troviamo di fronte a uno di questi esercizi di stile che sono presenti in ogni rigo di questo scritto. Si tratta di una intollerabile contrapposizione fra “verità” e “realtà”, che costituisce uno degli attrezzi di uso quotidiano presente nella cassetta dell’intellettuale che ha fatto suo il “gergo dell’in/autenticità”. Tutti possono capire che non è finalità della poesia, ma neppure dell’arte in ogni suo ambito, ma neppure della cultura in generale e vorrei dire neppure del pensiero politico sociale, muoversi sul terreno della estemporaneità, della banalità del quotidiano, del gossip, del twitter. Una società viva e creativa dovrebbe sapere uscire dalla miseria del quotidiano; e non dovrebbe passare il suo tempo a rimestare nel fango delle miserie private o pubbliche. Dovrebbe muoversi a un livello più alto in cui “realtà” e “verità” possano stringersi la mano se non abbracciarsi. Certo, se guardiamo la quotidianità, possiamo ben essere sgomenti; ma questo giustifica da un punto di vista teorico una simile contrapposizione? Io credo proprio di no. Questa antitesi è il segnale dell’esistenza di un pericoloso baratro, mi concederai l’uso di una metafora, di fronte al quale la nostra cultura ed anche la nostra società sembrano impotenti. Sono nella condizione di chi guarda giù sempre più affascinato, ben sapendo quali possono essere i rischi cui va in contro se si fa un passo in avanti, ma sembra incapace di fermarsi.
Si tratta del baratro dell’irrazionalismo”.
“Non ti pare di descrivere un futuro relativamente fosco?”
“Me lo dici tu che di previsioni pessimistiche sei un maestro? Per altro, come porsi di fronte all’immagine del poeta che sarebbe colui che cerca la “sublime profondità”? Seguendo il tuo autore ci si perde in un vero e proprio dedalo, un intrico di sentieri, dove dovrebbero essere presenti: “Lampi dell’ignoto invisibile”, “Rivelazioni del visibile”, “Echi immemoriali” ed infine “Frammenti informi dell’immaginario”. Ho passato ore di fronte a queste formule e alla fine non ne sono uscito. Come può l’ignoto invisibile mostrarsi per lampi? Il visibile ha bisogno di rivelarsi? Cosa sono gli echi immemoriali? Ovvero rifacendosi al dizionario Treccani: che durano da sempre … Forse si tratta del rumore di fondo del big bang? Altri non riesco ad immaginarne. Solo l’ultima – frammenti informi dell’immaginario – mi pare più ragionevole.
Ora tutta questa rutilante produzione di parole per dirci che la poesia “non ha un’immediata utilità pratica. Non ha scopo, quindi valore”. Cosa su cui si può facilmente convenire; ne è testimonianza il limitato interesse da parte dell’opinione pubblica, anche se una piccola comunità di stampatori che producono libri autofinanziati dai poeti potrebbe non essere d’accordo. Dal loro punto di vista infatti stampare quei libretti rappresenta una ben concreta ragione di vita”.
“Ma allora quale è la funzione della poesia?”
“Mi sembra chiaro che, muovendosi nell’oscuro dedalo della metafisica, il significato della poesia venga individuato nel fatto che l’uomo può “comunicare la propria essenza spirituale attraverso la lingua poetica”. Per capire quale sia lo spessore di questa lingua e quale l’essenza spirituale dell’uomo bisogna compiere due mosse, che ci portano la prima nell’orizzonte ebraico-cristiano e poi in quello greco classico.
Vuoi che tentiamo di muoverci in questi due continenti?”
“Perché no – mi sono sentito di rispondere – può essere un percorso originale e degno di attenzione. Guidami come novello Virgilio”.
“Il primo di questi itinerari necessita, se così si può dire, di compiere un vero e proprio atto di fede. Riconoscersi in una serie di modelli culturali che a un “rozzo materialista”, come sono stato definito, appaiono davvero obsoleti. Si parte dal riconoscimento che la poesia andrebbe, nella sua essenza, alla ricerca di una “lingua pura delle origini” che avrebbe la virtù di nascondere “il nome segreto e cifrato di ogni essere”. Una lingua che “incorpora l’oggetto, lo crea nominandolo:” la lingua dello “stato paradisiaco delle origini perdute””.
“Evidentemente ci stiamo muovendo – mi è venuto spontaneo aggiungere – in un contesto come quello della metafisica ebraica, che non può che lasciare un senso di relativo disagio”.
“Non so cosa dirti – ha continuato il Tonto – può ben darsi che qualcuno di fronte a una cosiddetta “lingua adamitica originaria” provi un senso di estasi. Non faccio parte di quel mondo. Ma non di meno sono perplesso quando leggo che: “il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale”.
Peccato originale? Ma quale …
E poi che dire della ripresa del mito della torre di Babele, che sarebbe responsabile della “iperdenominazione del mondo (dell’) ingorgo di gerghi strumentali …”?
Come convincere questa gente che la torre di Babele non c’è mai stata? Che la “pletora di nomi vuoti” di cui si parla è forse da addebitare non a cosiddetti “saperi vuoti”, che non ci è dato di conoscere, quanto piuttosto alla dura legge dei saperi strumentali che segnano la nostra vita, la forma della terra, la materialità del nostro esistere?”
“Ed allora come costruire una “vera” poesia?”
“Sarei portato a dire che l’esito è paradossale – il Tonto ha ripreso fra le mani gli appunti e, dopo aver compulsato un poco fra quelle paginette, ha continuato – Dopo aver affermato che la lingua adamitica è “irrecuperabile”, ora invece si afferma che bisogna “ascoltare il silenzio delle origini … l’indicibile della conoscenza perduta”. Come sia possibile avvicinarsi a questa conoscenza perduta è arduo da comprendere, considerato che è data per “irrecuperabile”, se non forse tramite una “intuizione istantanea”, ma qui davvero siamo vicini, come disse il nostro grande maestro, alla “notte in cui tutte le vacche …”.
“Sono nere – ho aggiunto – Concludiamo come si deve la citazione. D’altronde il testo sembra non offrire altro sbocco, infatti è scritto: “È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità che attinge nello scrivere il poeta …”. E qui evidentemente passiamo al secondo livello quello non della forma dello scrivere ma della sostanza … Che mi dici di questo livello?”.
“Si – ha ripreso il Tonto – liberati dagli specchi e dai lustrini della tradizione ebraica, passiamo a quella greca. Qui viene preso come modello Orfeo, visto come colui che: “determina l’inizio della poesia tragica nella coscienza della conoscenza, frutto di ricerca personale, incapace di resistere al richiamo del nuovo, dell’ignoto, del proibito”. Ora, come sai, non amo la mitologia; soprattutto per la facilità con cui viene rielaborata al servizio di ogni possibile interpretazione da facili esegeti. Al di là della difficoltà di capire cosa si intenda per “l’inizio della poesia tragica nella coscienza della conoscenza”, mi pare che ci si dimentichi che di Orfeo sono state date le più svariate interpretazioni.
Vuoi che ti faccia una piccola enumerazione di quelle più significative?”
“Se riesci ad essere sintetico potrebbe essermi utile”.
“Bene, Platone, si parte sempre da lui, nel “Simposio”, inserisce Orfeo nella schiera dei sofisti, poiché utilizza la parola per persuadere, non per esprimere verità; egli agisce nel campo della doxa, non dell’episteme. Per questa ragione gli viene consegnato dagli dèi degli inferi un fantasma di Euridice; inoltre, non può essere annoverato tra la schiera dei veri amanti, poiché il suo eros è falso come il suo logos. La sua stessa morte ha carattere antieroico poiché ha voluto sovvertire le leggi divine penetrando vivo nell’Ade, non osando morire per amore. Il fantasma di Euridice simboleggia l’inadeguatezza della poesia a rappresentare e conoscere la realtà, conoscenza che può essere conseguita solo tramite le forme superiori dell’eros.
A questa stroncatura risponde Apollonio Rodio, che nelle “Argonautiche” invece lo descrive come colui che, grazie all’arte della manipolazione della parola, è in grado di dare ordine alla materia e alla realtà. Ad esempio, può con l’arte della sua lira sedare una lite scoppiata tra gli argonauti e riportare l’armonia.
Infine, ma sia chiaro che la figura di Orfeo resta viva nella cultura occidentale fino ad oggi, Severino Boezio nella sua “De Consolatione philosophiae” afferma che Orfeo rappresenta l’uomo chiuso al trascendente, a causa del suo sguardo attaccato ai beni terreni; e, per il suo voltare lo sguardo prima di uscire dall’Ade verso Euridice, lo paragona alla moglie di Lot trasformata, come ben sai, in una statua di sale.
Insomma ci troviamo di fronte a vari e paradossali modelli di interpretazione del mito di Orfeo. Ma la finalità del nostro autore è più piana e molto più convenzionale: si tratta di contrapporre la ragione al mito. Anche qui mi sembra che la proposta di lettura che viene fatta sia tanto paradossale quanto poco condivisibile. Infatti, si afferma che: “il Logos si contrappone all’armonia del Mythos con le sue favole quiete, portandovi rovina, frattura, decomposizione”. Ora che il mito sia il luogo della favola e della quiete è davvero una scempiaggine, che può forse funzionare per le versioni moralizzate per bambini.
Il mito, come le favole, è spesso se non spessissimo carico di tragicità.
La finalità dell’autore è però un’altra: semplicemente portare il suo contributo alla “distruzione della ragione”, se così si può dire. Infatti a suo dire: “la ragione mette l’uomo davanti ai suoi limiti: lo fa dolorosamente libero e consapevole”. Come non chiedersi il motivo di una lettura tanto negativa e perché non voltarla proprio come un calzino dicendo ad esempio che: “La ragione offre all’uomo gli strumenti per avere la capacità di liberarsi dai suoi limiti atavici, dal fardello dei suoi miti: lo rende libero e sovrano artefice del suo destino grazie alla consapevolezza delle sue facoltà”?
No, invece ci viene aggiunto che l’uomo, evidentemente sempre lui, sarebbe “diviso e solo: non più pieno, non più tutt’uno con il mondo, non più unito alle sue radici”. Sarebbe davvero bello capire perché debba essere diviso e solo, perché la coscienza delle sue potenzialità, e se si vuole perfino dei suoi limiti, dovrebbero non renderlo più pieno. Poi diciamocelo, quando mai l’uomo è stato pieno? Forse quando viveva nella penuria confrontandosi con un mondo ostile?
Ed ancora ci si potrebbe chiedere quali sarebbero le sue radici perdute”.
“Sono domande davvero interessanti quanto oscure…”
“Partendo da queste domande ne sortisce la soluzione proposta, che è forse il passo più incredibile dell’intero scritto. Il Logos senza il Mythos sarebbe “sterile e freddo”; e da tale presa d’atto nascerebbe l’idea che si possa realizzare una nuova e inedita “coscienzalogomitica”, ovvero “una scienza nutrita di stupore”, di cui la poesia sarebbe la leva principale. Ovvero la richiesta di “rimitologizzare il mondo … agevolare una fondazione poetica e quindi etica, della realtà”.
“Non comprendo. Sii più chiaro: una fondazione poetica della realtà sarebbe per sua natura tale da darle uno statuto di superiore eticità? Come lo motiva …?”.
“Cercherò di spiegartelo usando le parole del testo, che esse siano poi soddisfacenti per chiarirti le idee non ne sono certo, me lo dirai tu.
Tale mistura dovrebbe “rendere … leggibile la “rottura” della totalità che ci fa relativi, limitati, risibili”; e di qui “consentire e articolare l’apertura dello sguardo su uno spazio sconfinato che sta “oltre””. Perché l’uomo sia “risibile” non è dato di sapere; e similmente non è facile capire cosa sia quell’”oltre” di cui si parla … Un’indicazione ci viene data quando si legge: “noi siamo conficcati nella storia, apparteniamo al tempo. Ma se il tempo è la dimensione dell’assenza, della perdita irrecuperabile, allora siamo condannati a vagare nel vuoto come gli uomini vuoti, smarriti nel caso, nel buio informe dell’inumano”.
Il rifiuto della storia è proprio una delle coordinate di tutte le forme di irrazionalismo. Come non notare quel “conficcato nella storia”? Oppure l’idea di una presunta “perdita irrecuperabile” di un qualche cosa di non meglio identificato, di un “vagare nel vuoto”, concetti tutti coniugati ancora una volta a quello di tempo storico visto come pura negatività?
La funzione della poesia sarebbe allora di “ri-ascolt(are) ciò che sta prima e al di fuori della storia, oltre il tempo”.
Qui sorgono due domande, a cui è necessario dare risposta: cosa è questo qualche cosa che sta oltre il tempo e dove è posto. Come viene descritto questo “luogo”, il luogo dove “l’Essere parla ancora con i nomi originali della sua pienezza”? La formulazione che ne viene data è di una disarmante chiarezza: “un luogo profondo, remoto benché vicinissimo, che è stato occultato dalle grandi costruzioni razionalistiche del pensiero occidentale”. Come non vederci una specie di reinterpretazione, per quanto del tutto apocrifa, dell’Iperuranio, quel luogo che – diceva Platone – è al di la di ogni luogo ma è sempre un luogo?
La poesia sarebbe allora il “simbolo vivente di questo luogo dell’Essere: offr(irebbe) le possibilità di accedere alle fonti, originarie della vita, di portarsi al punto cruciale in cui il tempo storico dell’assenza si interseca con il tempo pieno dell’eternità”.
E che fa il poeta? Percorre tre momenti, un vero e proprio rito di passaggio.
Prova a vedere se li riconosci …”
Il Tonto ha fatto una pausa finendo la sua bibita e poi ha ripreso.
“Primo momento: “penetra nelle profondità del mondo … Giri e rigiri e ingorghi tortuosi e caverne … labirinti di foreste sempre più oscure …”.
Ecco il primo indizio: l’assenza di luce, le Tenebre.
Poi: “sino a che oltre la tenebra, ecco splendere la radura dell’Essere, la Luce”.
Il secondo indizio è allora: la Luce.
Infine: “si scopre che le radici sono tutte interconnesse … siamo Uno”.
Il terzo e ultimo indizio: l’Uno”.
“Bello, davvero bello. Bravo. Insomma il poeta è l’anima, la massima incarnazione del saggio, che tramite l’ascesi si libera dalla materialità per innalzarsi alla perfezione dell’eterno Uno. Una rilettura del tutto eterodossa del neoplatonismo, infarcita di mille altri contributi in un disegno di ripudio del mondo, della storia, della sovranità dell’uomo e della sua dignità di artefice del suo destino.
Una lettura della poesia che si muove in un contesto di solipsismo ed irrazionalismo metafisico, che vanno tanto bene alla decadente borghesia di questa nostra società, che mescola con totale disincanto il più radicale cinismo e la ricerca di una privata espressione del proprio egotismo”.
“Si credo che si possa giungere a una conclusione di questo tipo. La nostra società richiede ben altro che questa cultura impegnata a indagare insondabili misteri perduti in oscure profondità.
Come tutte le mode anche questa fase prima o dopo si concluderà; ed è pensabile che tali questioni vengano riprese con una dose maggiore di buon senso.
C’è intorno a noi un universo pieno di fascino e insieme tragico che deve essere indagato e compreso con tutti gli strumenti che la cultura ha posto nelle mani dell’uomo, compresa la poesia. Si tratta di terreni che richiedono urgentemente l’uso della nostra maggiore intelligenza senza che ci si affatichi ancora intorno a temi che non possono avere risposte, come cosa sia l’Essere. Queste tematiche metafisiche lasciamole ai perdigiorno. Abbiamo di fronte a noi un mondo nel senso più pieno della parola da conquistare e preservare, togliendolo dalle mani di arpie che, per il mero profitto, lo stanno distruggendo con crescente rapidità. La poesia deve fare la sua parte”.
“Ok. Credo che si possa fermare qui la nostra discussione.
Sei stato sufficientemente puntuto e hai espresso con franchezza il tuo, anzi il nostro punto di vista. Va bene oggi possiamo ben assaggiare questo flut di Berlucchi ‘61. Ce lo siamo meritati.
Alla tua salute”.
Abbiamo sollevato e inclinato leggermente i calici, poi il Tonto ha aggiunto:
“Speriamo che nessuno abbia sentito queste nostre elucubrazioni e, se in caso, valgano anche per noi le parole di Puck *:
If we shadows have offended,
Think but this and all is mended,
That you have but slumbered here
While these visions did appear.
And this weak and idle theme,
No more yielding but a dream,
Gentles, do not reprehend:
If you pardon, we will mend.
And, as I am an honest Puck,
If we have unearnéd luck
Now to ‘scape the serpent’s tongue,
We will make amends ere long;
Else the Puck a liar call:
So, good night unto you all.
Give me your hands if we be friends,
And Robin shall amends.
Auguri ed alla prossima tenzone”.
*William Shakespeare – Sogno di una notte di mezza estate,
in Mondadori, William Shakespeare, Le commedie eufuitiche, 1990, pag. 1012-1015)
(traduzione di Antonio Calenda e Giorgio Melchiori)
“Se noi ombre vi abbiamo irritato,
non prendetela a male, ma pensate
di aver dormito, e che questa sia
una visione della fantasia.
Non prendetevela, miei cari signori,
perché questa storia d’ogni logica è fuori:
noi altro non v’offrimmo che un sogno:
della vostra indulgenza abbiamo bisogno.
Come è vero che sono un Puck onesto,
se abbiam fallito vi prometto questo:
che, per fuggir le lingue di serpente,
faremo assai di più, prossimamente.
Se no, chiamatemi bugiardo e mentitore.
Per ora buonanotte, signori e signore.
Non siate avari di mano: siamo amici,
e in cambio Robin vi farà felici.”
L’articolo merita una più lunga riflessione che ora non mi è possibile. Mi limito a dire che è interessante, in parte condivisibile in parte no.
Non so se l’articolo sulla poesia che si critica è vero o è un pretesto “letterario”. Ad ogni modo, la critica di Toffoli si muove su diversi piani, ad esempio:
1) Quello del linguaggio gergale dotto, della sua oscurità, della sua indefinitezza. Qui concordo con Toffoli. Davvero, leggere certi testi è una fatica impossibile, e m’incazzo spesso nel farlo.
2) Quello del significato e del valore della poesia, e del suo spazio nell’ambito del mondo umano. Qui Toffoli è riduttivo e pretende di portare la poesia tutta all’interno di uno spazio storico che l’uomo, da sempre, ha cercato di superare, sbagliando o non sbagliando. Ma non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia, e si fa) continuamente, che questo sforzo allarga lo spazio storico, in qualunque modo lo si intenda, e apre una visione su qualcosa di “oltre” che, illusione o verità, sta comunque oltre lo spazio storico che Toffoli privilegia. Magari non va, davvero, oltre lo spazio storico, ma solo oltre quello di Toffoli, perché lo “spazio storico” è a sua volta qualcosa di non ben determinato. Non per nulla Toffoli considera irrazionali tutta una serie di procedure e di risultati. Ma su ciò che è “razionale” e ciò che è “irrazionale” si può discutere all’infinito.
3) A questo punto Toffoli non critica più il gergo oscuro dell’articolo esaminato, ma alcuni suoi contenuti che, pur essendo comprensibili sul piano della lettura, evidentemente non piacciono a Toffoli, che li trova non giustificati, fuorvianti e/o mistificatori (ideologici). Toffoli può avere ragione, o torto, ma questo livello di critica è altra cosa dal primo. C’è stato un passaggio graduale dalla forma alla sostanza, dalla critica all’oscurità e vuotezza del linguaggio a quella della presunta oscurità e vuotezza dei contenuti. Ma in questo terzo livello critico Toffoli esprime solo la sua opinione, come l’autore lasciato anonimo dell’articolo ha espresso la sua. E il confronto non è sempre a favore di Toffoli. Interpretazione contro interpretazione, ideologia contro ideologia, ecc.
Toffoli scrive: «La nostra società richiede ben altro che questa cultura impegnata a indagare insondabili misteri perduti in oscure profondità».
Posso ricordargli che fra gli «insondabili misteri» della cultura occidentale e orientale, dal misticismo alla filosofia alla poesia alla religione, vi sono anche quelli della fantascienza che, in diversi casi, si sono poi tradotti in visioni scientifiche? Certo, che si scrivano decine di libri sulla teoria delle stringhe, delle superstringhe,
dei possibili universi o sottouniversi in cui forse hanno validità leggi fisiche (della fisica quantistica e della relatività) variabili, non ha molta influenza sullo spazio storico degli avvenimenti sociali, ma ne ha molta, però, e di grande interesse e fascino, sulla nostra visione, concezione, conoscenza del mondo in cui viviamo, fino ai suoi estremi confini che la scienza, come la poesia e il misticismo, allargano sempre di più.
E allargarli vuol dire sia nell’ambito del nostro microcosmo (psicologia, neurologia, nanotecnologia biologica ecc.) sia in quello del macrocosmo. Nessun scienziato ha mai pensato davvero che la singolarità del bin bang fosse un limite invalicabile, anche se, forse, lo è davvero. Perché mai dovrebbe farlo il poeta o il mistico o il filosofo o lo scrittore? E perché mai ciò che certi mistici hanno detto oltre duemila anni fa e che oggi trova una eco (non conferma, perché i piani sono diversi, ma certo una suggestiva eco) nella scienza moderna dovrebbe essere irrazionale?
E perché mai chi preferisse dedicarsi a questa dimensione del vivere e del pensare, disinteressandosi della quotidianità del mondo storico degli eventi sociali, dovrebbe essere condannato? Perché occuparsi dell’eternità, anziché della quotidianità, dovrebbe essere una forma di alienazione?
«Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». E ognuno di noi è un Orazio che non riesce a sognare tutte le cose che ci sono in cielo e in terra, qualunque strumento usi, poesia o altro. Ben vengano, pertanto, tutti gli Orazi che sanno aggiungere qualcosa ai miei sogni, compreso Il Tonto.
Il mondo è oscuro e da indagare. E il linguaggio di cui ci serviamo per comunicare ad altri le nostre indagini può essere a volte troppo chiaro e banale o oscuro (per necessità o per volontà più o meno chiara d’ingannare se stessi o gli altri).
Nel merito di questo articolo criticato dal Tonto (articolo non inventato ma letto qui: https://lapresenzadierato.com/2016/10/17/le-vie-della-poesia-riflessioni-ad-ampio-raggio-di-marco-onofrio/%5B1%5D) si tratta di capire se oltre al fumo ci sia dell’arrosto.
A Luciano [Aguzzi] direi che l’aut aut implicito nei ragionamenti del Tonto non stia tra il privilegiare lo «spazio storico» (o pretendere di « portare la poesia tutta all’interno di uno spazio storico») o il cercare di aprire «una visione su qualcosa di “oltre”», che – « illusione o verità» – starebbe (non «sta»: se no, perché discuterne!) «oltre lo spazio storico che Toffoli privilegia».
Quando egli scrive: «La nostra società richiede ben altro che questa cultura impegnata a indagare insondabili misteri perduti in oscure profondità» indica – come tendo a fare io pure – una direzione alla ricerca, un’esigenza *politica* (da non confondere con un invito alla «subordinazione alla politica» ). Si pone, cioè, sul piano del *noi possibile* (la società che potrebbe essere aggiustata o migliorata). Mentre Luciano [Aguzzi] si pone sul piano (anarchico?) di chi – singolo o comunità – sarebbe mosso soltanto da una infinita (e – si dice – pura) sete di conoscenza e volontà di sapere, di scavare, penetrare proprio o soprattutto gli «insondabili misteri» (ipotizzati, credo, come decisivi o più importanti di quelli “storici” o “quotidiani”).
C’è da dire, però, che non sempre questo tipo di ricerche sugli «insondabili misteri» si sono poi tradotte in «visioni scientifiche». Non sempre, cioè, quello che « certi mistici hanno detto oltre duemila anni fa» ha trovato «una eco (non conferma, perché i piani sono diversi, ma certo una suggestiva eco) nella scienza moderna». Né hanno svelato qualcosa in più di quei misteri o di quelle profondità.
Spesso una parte di queste ricerche è stata spreco d’intelligenza e di passioni o e sfociata nella follia. (Com’è accaduto – è bene dirlo, a scanso d’equivoci – anche per un certo tipo di ricerca “positiva” o positivista). Sarei perciò d’accordo nell’evitare una rigida separazione tra razionale e irrazionale (tipica appunto di un certi razionalismo positivista). E riconosco volentieri che « su ciò che è “razionale” e ciò che è “irrazionale” si può discutere all’infinito».
Tuttavia, ogni tanto si dovrà pur fare qualche bilancio e accertare quali delle ricerche (poetiche o scientifiche o religiose o mistiche) hanno dato frutti e quali, invece, sono risultate (almeno al momento) sterili o anche dannose ( o per il singolo o per una o più comunità).
Non si può dire che tutti i tentativi di capire che fa “l’uomo” (nella cultura occidentale e orientale o nelle esperienze mistiche, filosofiche, poetiche, religiose, politiche, ecc.) vanno bene. E che «non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia». Perché temo che, imboccando questa strada, si possa arrivare a giustificare o ad approvare tutto. Anche – esagero – gli esperimenti degli scienziati nazisti sui prigionieri ebrei dei campi di concentramento. O i gulag, lo sterminio dei pellirosse, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ecc.
Né credo che le ricerche scientifiche più avanzate (le «decine di libri sulla teoria delle stringhe, delle superstringhe, dei possibili universi o sottouniversi in cui forse hanno validità leggi fisiche (della fisica quantistica e della relatività) variabili») non abbiano molta influenza o ricadute «sullo spazio storico degli avvenimenti sociali». Magari non immediatamente e in modo omogeneo su tutte le società del pianeta, ma alla lunga sì. E poi non è già un enorme problema, gravido di contraddizioni e conflitti reali, avere élites che hanno una « conoscenza del mondo in cui viviamo, fino ai suoi estremi confini» più estesa e precisa di quella vaga o mitizzante o confusa che hanno le persone comuni incastrate in pratiche quotidiane (di lavoro, di disoccupazione, di esclusione)?
Non credo che si tratti di condannare « chi preferisse dedicarsi a questa dimensione del vivere e del pensare, disinteressandosi della quotidianità del mondo storico degli eventi sociali» o «occuparsi dell’eternità, anziché della quotidianità». Le religioni per lo più fanno questo e invitano a fare questo. Ma – ripeto -, dando per scontato che la verità o il “buono” non sta di sicuro nei linguaggi oscuri né in quelli miranti alla chiarezza e all’univocità fare, ogni tanto un bilancio è doveroso. E delle scelte vanno fatte.
[1]
Essendo appena usciti da una spiacevole esperienza con un altro autore che, sentendo travisata la sua posizione, ha rifiutato il confronto ( qui: https://www.poliscritture.it/2016/10/01/pornolandia-la-morte-della-sessualita/), Toffoli ha preferito usare le parole e i pensieri espressi in “Le vie della poesia etc.” senza nominare l’autore dello scritto proposto al Tonto, che è – posso dirlo io che l’ho comunicato su “La presenza di Erato” al diretto interessato, Marco Onofrio.
@ Ennio Abate
Trovo equilibrato il tuo intervento e il commento al mio commento, condivisibile quasi per intero, per cui non è necessario scendere nei dettagli.
Concordo anche sulla tua seguente affermazione: «Tuttavia, ogni tanto si dovrà pur fare qualche bilancio e accertare quali delle ricerche (poetiche o scientifiche o religiose o mistiche) hanno dato frutti e quali, invece, sono risultate (almeno al momento) sterili o anche dannose ( o per il singolo o per una o più comunità)». Mi sembra che tali bilanci si facciano continuamente ed è giusto che si facciano.
Sono anche d’accordo con quest’altro passo del tuo intervento: «Non si può dire che tutti i tentativi di capire che fa “l’uomo” (nella cultura occidentale e orientale o nelle esperienze mistiche, filosofiche, poetiche, religiose, politiche, ecc.) vanno bene. E che “non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia”. Perché temo che, imboccando questa strada, si possa arrivare a giustificare o ad approvare tutto. Anche – esagero – gli esperimenti degli scienziati nazisti sui prigionieri ebrei dei campi di concentramento. O i gulag, lo sterminio dei pellirosse, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ecc.».
Non capisco cosa c’entri questo col mio commento. Qui davvero esageri, perché tu sai che il principio fondamentale del mio essere libertario è il principio di non aggressione: tutta la libertà fuorché aggredire, nuocere ai propri simili. È pertanto lapalissiano che non tutto è concesso e giustificato dal desiderio della conoscenza. Ma non mi sembra di avere mai detto questo e il mio discorso si riferiva a ben altro.
Come già notavo a proposito di Toffoli, che sposta i livelli della sua critica dal piano del linguaggio a quello dei contenuti, anche a te capita di spostare il discorsa da un livello all’altro, ma così facendo si creano necessariamente dei malintesi e comunque si aprono continuamente nuovi rami, per cui alla fine nessun dibattito arriva a qualche conclusione, nemmeno a quella che non è possibile arrivarci.
È per me lapalissiano (e ripeto questo termine), che si può preferire legittimamente di occuparsi per tutta la vita di problemi politici, o sindacali, o di letteratura, o di altro, o di mescolare gli interesse e così via. Non è invece accettabile, per me, che chi preferisce occuparsi di un settore di conoscenza e di intervento, giudichi gli altri, in modo esplicito o implicito, come persone che sbagliano, come disinteressati alle vicende sociali, come egoisti, come alienati, o come complici – magari inconsapevoli – di tutte le malefatte del potere.
Qui, in certi militanti fino all’estremo, si osserva una sindrome che è propria anche di certi santi, e mi riferisco in particolare alla biografia di tanti santi cattolici e di figure similari di correnti religiose diverse (ortodossi, musulmani e altri ancora). Avendo essi deciso di dedicare l’intera vita, fino in fondo, alla causa per la quale militano, come i santi ai comandi di Dio, sembra loro impossibile, e peccaminoso, che gli altri non sentano lo stesso ardore e lo stesso impegno. E ogni distrazione è giudicata come debolezza, come allontanamento dall’unica vera via. La vita, in questo modo, è davvero ridotta a un’unica dimensione (ma non in senso marcusiano). Io, questa sindrome, la chiamo una forma di egoismo che riduce la ricchezza della vita a un solo scopo, visto come l’unico per cui valga davvero vivere, e alla pretesa che tutti si comportino nello stesso modo.
Faccio un esempio concreto. Don Zeno Saltini, il fondatore di Nomadelfia, sicuramente santo uomo, è stato beneficato a decine e decine di milioni di donazione da Giovanna Albertoni Pirelli, ricca signora ed esponente di una delle più ricche famiglie milanesi del secolo scorso. Ebbene, ciononostante, don Zeno rimprovera la sua devota Giovanna perché a lui sembrava inaccettabile che lei dedicasse alle opere di bene solo una parte del proprio patrimonio e indicava a Giovanna la via evangelica di spogliarsi di tutto, di donare tutto, soldi e tempo, ai poveri, creando in Giovanna dei sensi di colpa e mettendola in duro conflitto con la sua famiglia.
Don Zeno, in questo suo evangelismo spinto all’estremo, era un santo o un egoista incapace di comprendere anche le ragioni degli altri, in tutta la loro estensione?
Era un illuminato, o non piuttosto un uomo a suo modo unilaterale e persino fanatico? Perché anche la via del bene può portare alle esagerazioni dell’unilateralità e del fanatismo.
In quanto poi alla mia affermazione: «non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia», mi sembrava e mi sembra chiaro che mi riferivo sia all’uomo / umanità in generale, sia ai singoli individui che sentano l’esigenza, o anche solo il piacere, di farlo. Anche ieri sera, nel corso della presentazione di un libro sul quale ho svolto una relazione, ho sentito la critica di una persona intelligente, autore di alcuni libri, che è uscita col dire che, con tutti i problemi che abbiamo sulla terra, con la gente che muore di fame ecc., gli sembra inopportuno che si spendano soldi per mandare sonde su Marte. Non nego il diritto di pensarla in questo modo, ma credo proprio che sia un modo errato di vedere la realtà. Gli investimenti per l’esplorazione dello spazio non mi sembrano inutili e le ricadute, in termini di conoscenza “pura” come in termini di utilità tecnologiche e di prospettive di utilizzazione delle scoperte fatte compensano le spese. Ma credo anche, anzi lo credo in primo luogo, che il desiderio di conoscere il mondo in cui viviamo giustifichi da solo lo sforzo di studi, di realizzazioni, di spese economiche ecc. Ci possono poi essere, e certamente ci sono, aspetti di altra natura, anche di carattere politico, di concorrenza fra Stati ecc., ma questi, che a volte emergono in primo piano nel tempo breve, risulteranno del tutto marginali in quello più lungo della storia dell’uomo. E contrapporre le spese per la sonda inviata su Marte alla fame nel mondo mi sembra estremamente riduttivo, sbagliato, fuorviante.
Il bilancio, come tu dici, va fatto, ma ogni bilancio va però considerato sempre provvisorio. I matematici che, da Cardano in poi, hanno dedicato la vita allo sviluppo della matematica dei numeri immaginari sono parsi, per secoli, dei pazzoidi dediti a un inutile gioco intellettuale, finché questa branca della matematica si è rivelata di grande utilità e si è sviluppata in diversi rami, fra cui la cosiddetta matematica degli ottetti, che dopo oltre un secolo dalla sua elaborazione ha trovato la sua concreta applicazione nel calcolo e nella descrizione di alcuni aspetti della fisica teorica più recente.
E certamente i bilanci che cento anni (più o meno) fa si facevano sulla relatività e sulla quantistica sono poi stati riveduti più volte e cambiati radicalmente. Oggi ci sono molti settori della ricerca sui quali il bilancio è incerto, e oscilla fra il giudizio estremamente negativo e quello molto positivo. Così è ancora, ad esempio, per la teoria delle stringhe e per quella delle superstringhe, che alcuni considerano già comprovate in alcuni elementi e comunque di grande utilità mentre altri negano che abbiano dato risultati concreti e addirittura negano che si tratti di scienza, che abbiano valore predittivo e che rispondano alle esigenze del metodo popperiano della falsificazione. Forse, fra qualche decennio, avremo le conferme sperimentali a favore, o le avremo in negativo. È però innegabile fin da subito che, anche solo a leggere certi libri come se fosse solo fantascienza, se ne trae un piacere e uno stimolo mentale che già di per sé giustificano ampiamente – sempre a mio parere, ovvio – gli sforzi fatti in queste ricerche.
Tralascio numerosi altri esempi che si potrebbero fare. Ma è riferito a questo genere di cose, ripeto, la mia affermazione «non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia».
In quanto al problema di ciò che è razionale e ciò che è irrazionale ripeto un vecchio aneddoto che mi hanno raccontato alcuni operatori dell’Unesco nel periodo che ho passato a Cuba per raccogliere il materiale per il mio libro «Educazione e società a Cuba» pubblicato nel lontano 1973. Una missione dell’Unesco, in un villaggio di nativi dell’Amazzonia, svolgeva opera di educazione all’igiene e alla prevenzione di malattie dell’infanzia. Con un filmato hanno mostrato come lavare e tener puliti i bambini neonati. Alla fine hanno chiesto agli indigeni, che forse vedevano un filmato per la prima volta nella loro vita, che cosa avevano appreso. E con stupore si sono sentiti rispondere che avevano appreso che i polli, se bevevano l’acqua dove erano stati lavati i bambini, crescevano belli e grassi. Che era successo? Era successo che un particolare, privo di significato per gli operatori dell’Unesco, aveva invece colpito l’attenzione degli indigeni, che certamente avevano un modo di relazionarsi con la realtà molto diverso. Il particolare era questo: nel filmato si vede l’operatrice sanitaria che, dopo aver lavato il bambino, mette a terra il catino con l’acqua sporca. Passano dei polli e bevono di quell’acqua. Dopo qualche minuto, mentre l’assistente del filmato continua le sue spiegazioni igieniche, il filmato mostra altri polli, belli e grassi, che tornano a bere l’acqua del catino. Gli indigeni, molto più interessati ai polli che al modo di lavare i neonati, ne trassero la conclusione che quell’acqua li faceva crescere meglio.
La conclusione degli indigeni era frutto di un pensiero irrazionale o di un pensiero razionale? Coloro che dicono irrazionale, a mio parere, sbagliano. Anche il ragionamento razionale o irrazionale è calato nella storia e nelle concrete condizioni in cui vive l’autore del ragionamento, e solo nell’ambito di queste concrete situazioni il ragionamento assume una valenza razionale o irrazionale, indipendentemente dal fatto che sia, nel singolo caso, giusto o sbagliato.
@ Aguzzi
1.
“«Non si può dire che tutti i tentativi di capire che fa “l’uomo” (nella cultura occidentale e orientale o nelle esperienze mistiche, filosofiche, poetiche, religiose, politiche, ecc.) vanno bene. E che “non importa se sbaglia o no, importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia”. Perché temo che, imboccando questa strada, si possa arrivare a giustificare o ad approvare tutto. Anche – esagero – gli esperimenti degli scienziati nazisti sui prigionieri ebrei dei campi di concentramento. O i gulag, lo sterminio dei pellirosse, le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, ecc.». [Abate]
Non capisco cosa c’entri questo col mio commento. Qui davvero esageri, perché tu sai che il principio fondamentale del mio essere libertario è il principio di non aggressione: tutta la libertà fuorché aggredire, nuocere ai propri simili”.( Aguzzi)
No, nella mia frase non c’è alcun riferimento (neppure implicito) alle tue posizioni. Ho parlato *in generale* delle conclusioni sbagliate che si potrebbero trarre da una posizione che metta il fare (“importa che lo sforzo si faccia (direi che necessariamente si faccia”) prima del pensare (razionalmente).
2.
“Non è invece accettabile, per me, che chi preferisce occuparsi di un settore di conoscenza e di intervento, giudichi gli altri, in modo esplicito o implicito, come persone che sbagliano, come disinteressati alle vicende sociali, come egoisti, come alienati, o come complici – magari inconsapevoli – di tutte le malefatte del potere.
Qui, in certi militanti fino all’estremo, si osserva una sindrome che è propria anche di certi santi, e mi riferisco in particolare alla biografia di tanti santi cattolici e di figure similari di correnti religiose diverse (ortodossi, musulmani e altri ancora” ( Aguzzi).
Non capisco io stavolta: cosa c’entra il diritto di critica con la presunzione di avere la verità (o la Verità) dei santi o di don Zeno? Solo quello io rivendico e rispetto, ben disposto ad essere a mia volta criticato. Perché è la premessa, specie in tempi di confusione di idee, per cercare posizioni più meditate che potrebbero delinearsi proprio nel confronto tra posizioni diverse e persino contrapposte. La mia è una *militanza del possibile* non delle certezze granitiche o “scientifiche”. E nulla più. Dico la mia e ascolto le posizioni degli altri. Le critico, quando mi pare necessario; e accetto di essere criticato. Non c’è alcuna censura da parte mia o condanna morale. Come puoi ben vedere dai commenti e dai post di Poliscritture.
@ Ennio Abate
Il diritto di critica è sacrosanto, e anch’io mi riferivo in generale a questo fenomeno:
1) Criticare sì, ad esempio dire che una certa posizione si considera sbagliata e svolgere gli argomenti per sostenerlo. Questo mi va bene.
2) Ma criticare dicendo che chi la pensa diversamente scade (non è semplicemente in errore, ma scade, scende) a un livello di dignità umana inferiore, non mi va bene e lo giudico sbagliatissimo.
3) Questo, purtroppo, capita spesso. Ad esempio ogni volta che si considerano le posizioni non condivise frutto di irrazionalità, o di disinteresse che implica una diminuzione morale, o frutto di qualche difetto dell’intelligenza o del cuore ecc.
4) In questi casi si passa dalla critica alle posizioni non condivise alla demolizione di chi non le condivide. Insomma, questo tipo di critica, soprattutto se fatto in modo consapevole, abituale e aggressivo, configura proprio una violazione del principio di non aggressione.
5) Il termine “sbagliare” può avere due significati e riferirsi a uno “sbaglio” nelle argomentazioni o a uno “sbaglio” in ciò che si è come persona. Se io dicessi che coloro che sostengono il “Si” al prossimo referendum sbagliano e intendo dire che le loro argomentazioni sono errate, è una cosa, se invece intendo dire che sono scemi o in malafede o complici di giochi di potere ecc., è un’altra cosa. Questo secondo tipo di critica è abbastanza diffuso, ma non riguarda più, o riguarda assai poco, la discussione fra persone che intendono discutere, bensì la lotta fra avversari o nemici.
6) Purtroppo, anche quando si vuole discutere, talvolta capita che la foga della discussione o la forte fiducia nei propri argomenti porti a delle forme di aggressione inopportune. Ma la vigilanza le può e deve limitare al minimo tollerabile.
@ Aguzzi
“Ma criticare dicendo che chi la pensa diversamente scade (non è semplicemente in errore, ma scade, scende) a un livello di dignità umana inferiore, non mi va bene e lo giudico sbagliatissimo.
3) Questo, purtroppo, capita spesso. Ad esempio ogni volta che si considerano le posizioni non condivise frutto di irrazionalità, o di disinteresse che implica una diminuzione morale, o frutto di qualche difetto dell’intelligenza o del cuore ecc.” (Aguzzi)
Detto così in generale, posso concordare quasi in pieno. Specie se vi aggiungi la realistica limitazione: “Purtroppo, anche quando si vuole discutere, talvolta capita che la foga della discussione o la forte fiducia nei propri argomenti porti a delle forme di aggressione inopportune. Ma la vigilanza le può e deve limitare al minimo tollerabile”.
Ma se la tua affermazione non è generale, a chi ti riferisci concretamente nel contesto di Poliscritture? A me? A Toffoli nella sua polemica con Barbetta o con Onofrio? Ad altri?
@ Ennio Abate
Suvvia, Ennio! Sei troppo intelligente, colto ed esperto per non capire. La mia affermazione è generale, ma non generica. Intendo riferirmi a un vizio troppo diffuso e se dovessi nominare tutti quelli che ci sono cascati o ci cascano, non basterebbe l’elenco del telefono. È inutile citare un caso specifico (magari qualche volta ci sono cascato anch’io). Qualche volta ci casca Toffoli, altre volte altri.
Ma tanto per non fare nomi interni a Poliscritture, ne faccio uno esterno, perché lo vedo segnalato qui sulla colonna di destra della pagina.
1) Nell’articolo di Alessandro Dal Lago sul «Manifesto» (Perché la paura prende la strada dell’idiozia), riferito alle manifestazioni anti-immigrati di Goro (Ferrara), non c’è un briciolo di analisi, di tentativo di capire gli altri, ma solo indignazione e disprezzo per gli “idioti” che manifestano. Tutto l’articolo è così (ecco una perla: «Bisognerebbe andare a vedere con che faccia questa brava gente di Gorino, o come diavolo di chiama il villaggio, andrà a messa, domenica prima di pranzo, e confesserà qualche peccatuccio o toccatina e farà la comunione e se ne tornerà a casa a divorare un bel piatto di lasagne. Abbiamo paura! Ecco il grido rituale che risuona da venticinque anni nel regno di Padania, aizzato da politicanti con la bava alla bocca e giornalacci scandalistici».
Poi alla fine dell’articolo, bontà sua, afferma che: «Ma in realtà non si tratta di idiozia, tranne che in alcuni casi di leader politici». È una marcia indietro retorica per prendere l’abbrivio per un’analisi più pertinente? No. La chiusa fugge in una generica tirata in ballo del mondo intero: «E questo è un frutto avvelenato, potenzialmente letale, del cedimento dei governi, socialdemocratici in testa, alla voracità delle banche, dei cosiddetti mercati e del capitalismo globale. La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario».
Il mondo intero c’entrerà anche, visto che tutto è in qualche modo collegato, ma Alessandro Dal Lago si guarda bene dal dirci come, in concreto, gli “idioti” che manifestano sono manovrati dalla «voracità delle banche», dai «cosiddetti mercati» e dal «capitalismo globale».
2) Come dare torto ad Aldo Schiavone, se il livello di analisi della sinistra è questo, quando scrive che la sinistra europea (non solo italiana, il riferimento è anche alla Francia e alla Germania): «È rimasta aggrappata ai molti relitti del vecchio mondo, ed è diventata, suo malgrado, obbiettivamente conservatrice: vorrebbe parlare del futuro, ma non fa che evocare i fantasmi del suo passato; non sa più rivolgersi ai popoli, ma riproduce solo élite» [Corriere della Sera, giovedì 27 ottobre 2016 p. 31].
Élite con tanta indignazione, ma con tanta incomprensione e distanza dalla gente comune, magari anche idiota, impaurita ecc., ma con le sue ragioni che andrebbero capite e non esorcizzate.
3) Per fare altri esempi, vecchi e/o recenti, esterni a Poliscritture, chi ha dimenticato le prese in giro di Fanfani perché basso, di Spadolini perché obeso, di Brunetta perché “nano” e così via, come se gli errori politici reali o presunti discendessero dai difetti fisici, secondo la più razzista delle tradizioni. E le aggressioni verbali, anche da sinistra alla sinistra stessa, come ad esempio quel che si può leggere in giro nel Web su Diego Fusaro (che è stato persino definito un «androide in carriera») e tanti altri. Concordo poco con Fusaro, ma discutere e argomentare è un conto, insultare è un altro.
“Suvvia, Ennio! Sei troppo intelligente, colto ed esperto per non capire”. C’è forse qualcuno, Dal Lago per esempio, che non lo è?
E non sta Aguzzi reintroducendo -ora in forma di complimento- quel “criticare dicendo che chi la pensa diversamente scade (non è semplicemente in errore, ma scade, scende) a un livello di dignità umana inferiore”, in questo caso superiore? Allora meglio stare a vedere il terreno politico della discussione.
La posizione di Abate egli stesso la esprime: il *diritto di critica*, “solo quello io rivendico e rispetto, ben disposto ad essere a mia volta criticato. Perché è la premessa, specie in tempi di confusione di idee, per cercare posizioni più meditate che potrebbero delinearsi proprio nel confronto tra posizioni diverse e persino contrapposte. La mia è una *militanza del possibile* non delle certezze granitiche o ‘scientifiche’. E nulla più. Dico la mia e ascolto le posizioni degli altri. Le critico, quando mi pare necessario; e accetto di essere criticato.”
Il *diritto di critica* non è però solo un diritto da esercitare con le cautele razionali che Aguzzi precisa, il criterio popperiano della falsificazione, distinguere critica e ideologia, distinguere critica del linguaggio e dei contenuti, criticare le posizioni e non demolire chi le sostiene.
Criteri che Abate condivide mi pare, ma non sufficienti per “cercare posizioni più meditate che potrebbero delinearsi proprio nel confronto tra posizioni diverse e persino contrapposte”. Abate scrive di *militanza del possibile* e del “*noi possibile* (la società che potrebbe essere aggiustata o migliorata). Mentre Luciano [Aguzzi] si pone sul piano (anarchico?) di chi – singolo o comunità – sarebbe mosso soltanto da una infinita (e – si dice – pura) sete di conoscenza e volontà di sapere, di scavare, penetrare proprio o soprattutto gli «insondabili misteri» (ipotizzati, credo, come decisivi o più importanti di quelli ‘storici’ o ‘quotidiani’)”.
Dalla discussione, Abate e Aguzzi sono d’accordo sul fatto che pensare e criticare siano anche azioni. Per riformare il quotidiano secondo criteri razionali e fiduciosi, o per vedere “la società che potrebbe essere aggiustata o migliorata” in una relazione strettissima con un *noi possibile*? Un noi possibile che usa la critica come arma, soprattutto se la critica delle armi è anche un’altra faccia dei razionalisti critici.
D’altra parte la critica come arma rende così aspro e generale l’articolo di Dal Lago, e favorisce la reciproche incomprensioni delle posizioni. Nel senso che la frattura politica è radicale e non trova mediazioni, anche nel linguaggio.
@ Aguzzi
Ti chiedevo di specificare se il tuo discorso si riferisse a me o a Toffoli o ad altri di Poliscritture, perché a me non interessa parlare dei vizi più o meno diffusi in astratto. L’analisi di casi concreti dà spunti più vivi di riflessione. Ad es., l’articolo di Dal Lago che ho segnalato su “Poliscritture FB” – il che non significa condividerlo in toto – ha dato luogo a alcuni scambi illuminanti e sintomatici degli orientamenti sulla spinosa questione delle immigrazioni.
Ora, sempre per riportare i discorsi coi piedi per terra: il fatto che tu lo critichi mi fa pensare che hai un’altra posizione rispetto a quella di Dal Lago, che io *nella sostanza* condivido. È simile a quella di uno degli intervenuti (Buffagni) che considera quelle di Dal Lago «scemenze»? Oppure qual è? Dichiarala e se ne parla. Come ho fatto con Buffagni. Altrimenti tu pure ti rifugi in una generica denuncia dell’élite (della sinistra nel tuo caso) « con tanta indignazione, ma con tanta incomprensione e distanza dalla gente comune, magari anche idiota, impaurita ecc., ma con le sue ragioni che andrebbero capite e non esorcizzate».
È vero, su questioni spinose in giro sul Web si arriva presto agli insulti. Ma, oltre a evitarli noi (e qui su Poliscritture finora non hanno avuto mai cittadinanza), che possiamo fare? Siamo in grado di moderare chi insulta?
Secondo me ha ragione Cristiana [Fischer] a dire che su certi temi «la frattura politica è radicale e non trova mediazioni, anche nel linguaggio». Il che m’induce aancor più a pensare che, invece di sterili condanne sull’imbarbarimento (anche linguistico) in atto, sia preferibile difendere uno spazio di discussione critica e argomentata concreto, com’è Poliscritture, e cercare di allargarlo. Se poi l’imbarbarimento vincerà e ce lo distruggerà e noi saremo ancora vivi, vedremo da dove ricominciare.
@ Ennio: “altra posizione rispetto a quella di Dal Lago, che io *nella sostanza* condivido”.
1 Quali fattori ti permettono di dire che condividi *nella sostanza* se nella forma invece no o non del tutto?
2 Da che cosa dipende che tu possa parlare di *sostanza*? dalla conoscenza pregressa, sicuramente, delle posizioni di Dal Lago.
3 la conoscenza pregressa non è solo tua, ma anche di Aguzzi e di altri, allora la *sostanza* di Dal Lago, secondo Aguzzi, sarà la stessa sostanza tua? Forse no.
4 si torna necessariamente a un conflitto più radicale, che ha un altro terreno.
5 Poiché però gli avversari, o riparii, trattano, è molto importante trovare una lingua franca -arricchire il linguaggio- in cui le questioni risultino chiare. Altrimenti potrebbe essere quella guerra selvaggia e spaventosa cui accenna Buffagni, che, per competenza specifica professionale, ha idee da considerare al riguardo.
Cristiana, io non avrei parlato di «idiozia», ma condivido *nella sostanza* (politica) la posizione di Dal Lago per le ragioni che ho in questa occasione (ma anche in altre precedenti) espresso, rispondendo a Buffagni e al signor X della conversazione su FB. E’ meglio che riporti il tutto anche qui, perché alcuni non seguono “Poliscritture FB”. Poi, se sarà il caso di approfondire, facciamo un post apposito sull’argomento immigrazione/accoglienza/respingimento.
Ennio Abate
28 ottobre alle ore 22:11
SEGNALAZIONE
Perché la paura prende la strada dell’idiozia
di Alessandro Dal Lago
(http://ilmanifesto.info/perche-la-paura-prende-la-strada-dellidiozia/)
Perché la paura prende la strada dell’idiozia
La rivolta del paesotto del Ferrarese contro dodici donne e otto bambini è stata definita dalla curia una «notte ripugnante». Non si potrebbe chiamare altrimenti. Bisognerebbe andare a vedere con…
ILMANIFESTO.INFO
Commenti
Pier Francesco De Iulio
La questione è molto più complessa. Fermarsi al razzismo (che non bisogna negare) è un po’ come guardare il dito e non la luna.
Ennio Abate
Non mi pare che Dal Lago si fermi al dito. Conclude infatti così: “La xenofobia può erompere nei villaggi, ma le sue motivazioni ultime sono da cercare nelle metropoli globalizzate e nelle roccaforti del potere politico e finanziario”.
Poi sulla questione si va rafforzando – questa sì da indagare a fondo – proprio questa posizione che fa esclusivamente leva sulla paura dell’altro o su una visione geopolitica per cui, siccome gli immigrati sono/sarebbero massa di manovra degli USA contro l’Europa o “noi”, bisogna respingerli. Per me è inaccettabile. Vedi il post che ho pubblicato ieri alle 11,22: ALTRI IMMIGRATORI
SCRAP-BOOK DAL WEB IN FORMA DI SAMIZDAT.
Vedi anche questo dialogo tra me e X:
X –
Notare: reagiscono sul serio all’imposizione dell’accoglienza solo gli “arretrati”. I semicolti deprecano e disprezzano. Chi è il “più umano”?
Ennio Abate
le donne e i bambini respinti o strumentalizzati!
X-
Il più umano è il più vittima, Ennio? +umano=+vittima? facciamo la gara?
Ennio Abate
A questo punto direi di sì, X. Visto che l’altra equivalenza sarebbe: + umano=+carnefice ( o + indifferente).Se, in assenza di politica coraggiosa, siamo sempre al far torto o patirlo ( Manzoni). E i semicolti (termine equivoco quanto quelli – l’ho ripetuto altre volte – di ‘buonisti’ e ‘cattivisti’) con chi li sostituiamo? Con i cinici?
X –
E io ti ripeto, Ennio, la mia correzione al giovane Manzoni: “far torto E patirlo”. Questa storia dell’immigrazione di massa in Europa non solo finirà molto male, ma sta GIA’ finendo molto male, e si trasformerà, da problema sociale e di polizia, in un problema militare. Guarda che succede in Francia, dove questa immane cavolata l’hanno fatta una generazione fa con il ricongiungimento familiare (anni ’80, regalo di Giscard alla Confindustria francese). Succede, per esempio, che sulla strada che costeggia una banlieue gli abitanti rapinano gli automobilisti al semaforo. Mettono una telecamera. La svellono. Mandano una camionetta a sorvegliarla. Arriva una squadra, spacca i vetri, ci butta dentro le bottiglie molotov. I poliziotti francesi manifestano illegalmente a volto coperto in tutta la Francia, rifiutano la mediazione sindacale. .
Ennio Abate
So, so. Seguo. E io pure vedo che il modo come viene gestita questa immigrazione di massa ( e meno male che tu non parli di “invasione”) è discutibile, emergenziale, senza una strategia adeguata e autonoma. Ma se il fiume si è mosso ( in conseguenza delle guerre e delle distruzioni ambientali, ecc.) assorbirlo non è meglio che respingerlo? In termini strategici si spende di più ed è politicamente più costruttivo e lungimirante assorbirlo o respingerlo ( con le armi in sostanza)? E mi va bene anche la tua correzione “far torto E patirlo”. Ma io mi chiedo a chi *devo* far torto. Ai poveracci o ai signori che li usano?
X –
Il fiume non ci sta, Ennio. Ci starebbe se fossimo un impero, modello romano. Non lo siamo. In un contesto democratico la società multiculturale = anarchia che deriva verso la guerra civile. Prima diga, poi ne parliamo.
E’ poi evidente che “i signori” sono peggiori dei “poveracci”. Però segnalo che “i poveracci” non sono buoni, e che qui la bontà c’entra pochino. Prima difendersi, dopo essere buoni.
Ennio Abate
Il “fiume” ( le migrazioni intercontinentali) sono un effetto della globalizzazione (caotica). Si spostano i capitali, le merci, gli uomini. Di più: si sono già spostati. E ci sono, sì, i rischi di guerre “civili”. (Non che si va *di sicuro* in quelle, anche se ci sono minoranze che l’hanno scelta come soluzione o la sceglierebbero). Quindi – mia vecchia obiezione – come si fa a costruire una diga quando il “fiume” è già arrivato in mezzo a noi? Il contesto in cui operare resta comunque regionale/globale e non puo’ essere più nazionale.
P.s.
I “poveracci” – convengo – non sono buoni. Non lo sono neppure i “nostri” però. Sono un problema i primi e i secondi. Meglio: è un unico problema il rapporto (per me ormai inevitabile) tra gli uni e gli altri. Anche se restassero “a casa loro”. Visto che “noi” lì, da loro, ci siamo andati e non a distribuire doni ma a “civilizzarli”.
Ennio Abate ANCORA SEGNALAZIONE
Quattro ipocrisie da sfatare sui fatti di Gorino
di Girolamo De Michele, insegnante e scrittore
http://www.internazionale.it/opinione/girolamo-de-michele/2016/10/28/gorino-razzismo-migranti
Stralcio
Di tutte le parole dette per giustificare l’ostilità della comunità di Gorino, le più disumane, e perciò più rappresentative, sono state: “Queste donne avranno pure degli uomini. E noi donne di Gorino siamo per molte ore sole in casa, perché i nostri uomini fanno i pescatori”.
Tradotto: non è possibile che siano donne dotate di capacità di discernimento perché sono cose, di proprietà di migranti maschi, quindi stupratori. In realtà gli uomini di queste donne fuggite dalla Sierra Leone e dalla Nigeria sono detenuti e torturati nelle carceri, oppure ormai cadaveri sulla strada della fuga nel deserto. Ma tant’è: ai presidianti è bastato far balenare questo argomento, accanto all’altro, quello dell’esproprio delle seconde case, cioè della minaccia alla roba, agli sghei – si sente la cadenza nella parlata di questi valligiani che antepongono la roba alla vita umana. E allora la prima ipocrisia da rimuovere è quella del “non siamo razzisti (ma…)”: razzismo e fascismo non sono etichette vuote, ma conseguenze di comportamenti concreti, e quello che è successo a Gorino è razzismo e fascismo.
Roberto Buffagni
Se Dal Lago, che è sociologo, crede davvero a quel che scrive l’idiota, idiota abissale, è lui. Sorvolo sul disprezzo per gli abitanti di Gorino.
Pier Francesco De Iulio
Leggendo questi ultimi interventi sono ancora più convinto del dito e della luna. Anzi, mi viene da pensare che si guardi proprio da un’altra parte.
Roberto Buffagni
Invece di leggere le scemenze di Dal Lago o di De Michele, vi invito a leggere questo saggio di Maximilian Forte, un antropologo (è desinistra) che passa in rassegna l’ultimo libro di David Harvey (è desinistra pure lui) sotto questo riguardo.https://zeroanthropology.net/2016/08/03/immigration-and-capital/
Roberto Buffagni
Ragazzi: farò la figura del vecchio rimbambito, ma io ho visto di persona una guerra civile, e mi è bastata. L’immigrazione di massa porta alla guerra civile. Non è una cavolata che mi invento adesso, è realtà pura e semplice. Ci porta lentamente, ma ci si arriva di sicuro. Probabilmente ci vuole una generazione (vedi Francia), perchè i più pericolosi sono le seconde e terze generazioni di immigrati, che si radunano, per un normale riflesso difensivo, in enclaves su base etnica e religiosa. Dopo di che, le trasformano in territori stranieri. Presente i posti tipo Corleone, dove la popolazione tifa mafia? Ecco, uguale ma in peggio. Santo Dio, ma guardate cosa succede a Prato, o in tutte le Chinatown italiane! Con i cinesi che scendono in piazza con i bandieroni della repubblica popolare cinese e i nunchaku se qualcuno si azzarda a dargli una multa! Se la si lascia incancrenire, questa situazione diventerà un problema militare, e non più di polizia. Secondo voi si sono divertiti a Belfast? e lì c’era una differenza infinitesimale, tra i contendenti…
Ennio Abate
@ De Iulio
Sarebbe meglio dire qual è per te la luna. Giuro che non guarderò il tuo dito.
@ Buffagni
Io sono abituato a considerare anche le “scemenze” di Dal Lago e De Michele. Come a considerare le ragioni per cui tu le consideri tali. Se me le esponi. La semplice liquidazione non mi va. Mai. Leggerei volentieri i saggi di Maximilian Forte e di Harvey, indipendentemente che siano di sinistra o destra. A patto che, per miei limiti generazionali (diciamo), siano tradotti in italiano o almeno in francese. Non concordo sul fatto che sia l’immigrazione di massa (qualunque cosa s’intenda oggi con questo termine in Italia) a portare ad una guerra civile; né che una guerra civile sia sbocco già avviato e inevitabile. Ed eviterei soprattutto di far leva sulla paura. Diceva all’incirca Fortini a Ranchetti (post che ho appena segnalato): “Michele, ci vuoi mettere paura, ma noi abbiamo già paura”. Il problema è invece ragionare. E’ più difficile, lo sol. Se però a Prato i cinesi scendono in piazza con i loro bandieroni, io non invocherei subito le multe. Vedrei prima per quali motivi lo fanno. Poi, tra pochi o molti anni, le cose andranno forse come tu paventi. Ma io preferisco fare la ginestra leopardiana piuttosto che gridare: Al lupo! Al lupo! (Anche perché i lupi nostrani ce li abbiamo già addosso…).
Pier Francesco De Iulio
Caro Ennio, la luna è un intero sistema socio-economico e di diritto al collasso. Non c’è bisogno che guardi il mio dito, sai benissimo la luna dov’è.
Ennio Abate
Sì, ma io vorrei capire tu, che lo guardi come me, cosa ne deduci in fatto di immigrazione. La posizione di Buffagni mi è chiara. La tua no. Almeno in questo post ti sei limitato a dire che la questione è molto più complessa e non bisogna fermarsi al razzismo.
Ennio Abate
Ennio Abate La migrazione come rivolta contro il capitale
di Prabhat Panaik
(dalla bacheca di Tonino Giuffre)
*Per chi non vuole fermarsi al dito e guardare la luna (però al di fuori dei soliti schemi eurocentrici ed occidentalisti. Poi stracciatevi pure le vesti perché questo sarebbe soltanto “terzomondismo”
http://sinistrainrete.info/globalizzazione/8310-prabhat-panaik-la-migrazione-come-rivolta-contro-il-capitale.html
DUE STRALCI
1.
Il fatto che un alto numero di rifugiati, specialmente da paesi che sono stati soggetti negli ultimi tempi alle devastazioni delle aggressioni e guerre imperialiste, stiano tentando di entrare in Europa viene visto quasi esclusivamente in termini umanitari. Per quanto una tale percezione abbia senza dubbio la propria validità, vi è un altro aspetto della questione che è sfuggito del tutto all’attenzione, ossia che per la prima volta nella storia moderna il fenomeno della migrazione potrebbe trovarsi al di fuori del controllo esclusivo del capitale metropolitano. Sino ad oggi i flussi migratori sono stati interamente dettati dalle esigenze del capitale metropolitano; ora, per la prima volta, le persone ne stanno violando i dettami, tentando di dare seguito alle proprie preferenze riguardo a dove vogliono stabilirsi. In miseria e infelici, e senza essere coscienti delle implicazioni delle proprie azioni, questi sventurati stanno effettivamente votando coi propri piedi contro l’egemonia del capitale metropolitano, il quale procede sempre sulla base del presupposto che le persone si sottometteranno docilmente ai suoi diktat, anche riguardo a dove vivere.
L’idea secondo la quale il capitale metropolitano avrebbe fino ad oggi determinato chi dovrebbe rimanere e dove nel mondo, nonché in quali condizioni materiali, potrebbe apparire a prima vista inverosimile. Ciò nondimeno è vera
2.
Il punto, tuttavia, è il seguente: a parte le guerre e le aggressioni che il capitalismo metropolitano scatena ovunque, anche il suo “normale” modus operandi comporta l’espropriazione e l’impoverimento delle popolazioni dall’altra parte del mondo. L’obiettivo consiste nel tenerli intrappolati nei loro universi, quale riserva di lavoro situata a distanza, alla quale attingere, di volta in volta, consentendo migrazioni accuratamente controllate verso regioni nelle quali è richiesta mano d’opera. Il suo assunto è che in tal modo essi possono rimanere intrappolati nei loro universi senza proferire la minima lamentela, quale che sia la loro condizione. Ed è naturalmente sulla base di un simile assunto che scatena le guerre imperialiste sulle popolazioni del terzo mondo. il modus operandi del capitalismo metropolitano esige l’adempimento di tale presupposto.
La cosiddetta “crisi di rifugiati” sta dimostrando che questo presupposto non può più essere soddisfatto. Ancor più significativo, il capitalismo metropolitano non ha alcuna risposta al problema dei “rifugiati alle porte”. Non può consentire loro di entrare; e non può trovare soluzioni ai loro problemi nei paesi d’origine. Entrambi potrebbero essere percorsi umani, ma nel capitalismo non è questione di umanità.
Il mio commento delle 15.03 era fondamentalmente diretto a individuare e poter nominare le posizioni in conflitto, sono convinta che l’equivocità del linguaggio si riverberi sul pensiero e aiuti a sprofondare nella guerra.
L’idiozia di cui dice Buffagni, la correlo a “se crede davvero a quel che scrive l’idiota, idiota abissale, è lui” e insieme a una valutazione, da parte di Buffagni, che Dal Lago si è comportato da irresponsabile, soffiando sul fuoco.
In questa doppietta di attacchi, di Dal Lago ai gorinesi e poi di Buffagni a Dal Lago, si mostra l’assenza e la necessità di mediazione linguistica. Perché il conflitto di posizioni è certamente serio, ma diventa grave e selvaggio senza una chiaro ed esplicito confronto.
“il conflitto di posizioni è certamente serio, ma diventa grave e selvaggio senza una chiaro ed esplicito confronto.” ( Fischer)
Certo. Io il confronto con Buffagni l’ho cercato e anche con De Iulio. Sono loro che scantonano ( o – voglio sperare – tacciono temporaneamente). Poi a volte il confronto può essere impossibile, come nel caso ( sintomatico comunque) del sindaco di Albettone, che ho appena segnalato:
SEGNALAZIONE
* Ogni tanto vale la pena di sentirli parlare dal vivo. Poi si capisce chi prepara la cosiddetta “guerra civile” e chi dice di più “scemenze”…
Sindaco choc: «Sì, siamo razzisti
e qui negri e rom rischiano la pelle»
PER APPROFONDIRE: albettone, frasi choc, joe formaggio, zanzara
Sindaco choc: «Sì, siamo razzisti e qui negri e rom rischiano la pelle»
ALBETTONE – «Immigrati? Se ce li mandano muriamo le case e le riempiamo di letame; siamo orgogliosamente razzisti». Lo ha detto Joe Formaggio, sindaco di Albettone (Vicenza) a La Zanzara su Radio 24. «Non vogliamo negri e zingari, da noi rischiano la pelle – ha aggiunto Formaggio esponente di Fratelli d’Italia non nuovo a frasi choc anche sugli omosessuali – Esportiamo cervelli e importiamo negri» che «sono meno intelligenti di noi, sono inferiori».
E contro l’Islam e una eventuale moschea si dice pronto ad aprire un «grande allevamento di maiali se aprono qua una moschea». «Se un prefetto manda i profughi qui ad Albettone le barricate di Gorino passeranno in secondo piano – ha sottolineato – Qui non vogliamo extracomunitari, negri e zingari. Hanno un quoziente intellettivo più basso: lo dimostra la storia. Abbiamo un poligono di tiro, il più alto numero di porto d’armi di tutta la regione Veneto. E non vogliamo nessuno che venga a rompere. Da noi rischiano la pelle».
(http://ilgazzettino.it/vicenza_bassano/vicenza/albettone_zanzara_joe_formaggio_frasi_choc_negri_rom-2052372.html)
…in queste “comunità” l’individualismo e l’aggressività sono gli ingredienti più diffusi: mescolati possono generare guerre civili, a prescindere dai migranti ( una piccola avanguardia armata d’america)…Come allodole( mi scuso con gli uccellini) si riflettono negli specchietti della propaganda…anche se poveracci non solidarizzano con altri poveracci, loro possono diventare ricchi e potenti, glielo promette la pubblicità, si sentono sempre ad un tiro di schioppo dal realizzare i loro sogni…I migranti tolgono a loro la maschera e questo sì fa paura