di Angelo Australi
L’ultima mia proposta è questa: se volete trovarvi, perdetevi nella foresta. (Giorgio Caproni)
Ritrovai Fernando al bar tabacchi dove mi rifornivo di sigarette ogni giorno, dopo tanto tempo che non ci vedevamo. Era una mattina piovosa di fine novembre, la pioggia gelida cadeva lentamente annunciando la prima nevicata dell’anno sulle montagne che la cappa di nuvoloni bianchi e compatti nascondeva alla vista. Da alcuni anni non parlavo con questo caro amico d’infanzia, pur abitando nello stesso paese. Lui era uno dei pochi compagni delle scuole elementari che avevo continuato a frequentare fino alla partenza per il servizio militare, ci piaceva ad entrambi la musica, ogni gruppo rock che faceva una tournée in Italia andavamo insieme ad ascoltarlo nella città più vicina. Stavamo via un paio di giorni, a volte anche di più, spostandoci in treno o con mezzi di fortuna, camminando spesso a piedi per molti chilometri riuscivamo a parlare di noi stessi in modo profondo. Adesso aveva aperto uno studio pubblicitario, mentre gli stavo spiegando che ero disoccupato da due mesi, mi chiese di considerare la possibilità di lavorare presso l’emittente televisiva per la quale realizzava degli spot.
– I proprietari della Tv cercano un addetto alla messa in onda dei programmi, se sei interessato posso fissarti un colloquio. Intendi, il colloquio è pro-forma, perché di me si fidano.
– Non so se sono adatto, nel lavoro preferisco sporcarmi le mani – dissi ridendo.
– Non ti piaceva così tanto fare le foto?
– Sì.
Sorrise facendo roteare le mani. Non avrei fatto valere i miei gusti personali scegliendo in quella foresta di immagini, lì tutto era predisposto in cassette VHS, dovevo solo abituarmi ai tempi della messa in onda.
Da un paio di mesi ero stato licenziato dal calzaturificio dove ormai lavoravo da cinque anni e non potevo tergiversare più a lungo, mia figlia Giulia aveva quattro anni e Paola lavorava solo il sabato come commessa in un negozio di cosmetici, stare senza far niente in una situazione del genere mi stava mettendo in crisi a livello psicologico. Al calzaturificio eravamo sei dipendenti più il padrone, la moglie, il fratello, la cognata, la vecchia madre e una squadra di bambini che il pomeriggio, finita la scuola, scorrazzavano per la fabbrica. Se si sommano gli anni dei licenziati, in quattro non facevamo un secolo. Io ero il più vecchio, visto che mi avvicinavo ai trent’anni, ed ero l’unico ad avere già una famiglia. Avendo perso due grossi contratti con la Germania, al ritorno dalle ferie le ordinazioni di scarpe per la prossima stagione primaverile si erano ridotte drasticamente, così il padrone ci disse che poteva garantire il posto al disegnatore e al tagliatore, ma per le fasi meno nobili della produzione si sarebbe affidato ai familiari. Alla fine non potevo più aspettare, dopo essere stato licenziato avevo promesso a Paola che avrei trovato subito qualcosa da fare. Un lavoro qualunque, pur di non trascorrere le giornate invidiando il prossimo. Vista così, dal di fuori, la televisione andava più che bene, perché proiettava in un futuro che altrimenti non riuscivo a progettare.
Tranne alcuni spot programmati dal circuito nazionale a cui l’azienda era associata per ottenere i programmi a prezzi stracciati, il resto della pubblicità veniva realizzata dallo studio di Fernando. Tutta robaccia senza valore, nonostante lui fosse convinto del contrario. Su ogni pubblicità montava una colonna sonora con brani che anni prima avevamo amato entrambi, ma quelle immagini sui prodotti o sulle vetrine dei negozi sembrava li facessero finire in un frullatore che teneva tutto sullo stesso piano, banalizzando anche la musica.
In questo nuovo lavoro non dovevo che inserire la videocassetta con la pubblicità nel videoregistratore e mandarla in onda lasciando in pausa il programma. Controllando il palinsesto cercavo il raggruppamento di spot e attendevo l’orario stabilito per lanciarli. Nella messa in onda mi servivo di tre monitor e altrettanti registratori, grandi come valige da usare per un lungo viaggio: uno era per il programma, uno per gli spot nazionali e uno dove inserivo quegli delle aziende locali. Se uno dei tre era guasto la situazione si complicava perché agendo su due dovevo estrarre la cassetta con il programma e inserire le pubblicità locali mentre nell’altro stavano andando quelle dei prodotti nazionali, appena finite queste toglievo il nastro e inserivo la cassetta con il programma, la tenevo in pausa fino a quando non finiva la pubblicità locale e poi invertivo le linee della messa in onda. I primi giorni sembrava un’assurdità guadagnarsi da vivere guardando la televisione, e la mia sensibilità si rifiutava di lanciare in onda la pubblicità troncando la frase in bocca al personaggio di un film. Quindici minuti di programma potevo farli diventare sedici, diciassette, al massimo diciotto, non andavo oltre, perché chi comprava gli spazi pubblicitari, avendo programmato l’orario dei passaggi, verificava il rispetto del contratto.
La sede dell’emittente era stata ricavata dalla porzione di un vecchio convento dei francescani risalente al quattordicesimo secolo. Le due sale per la messa in onda, quella del montaggio, gli uffici della direzione e la segreteria, erano tutte ricavate da alcune celle dei monaci, mentre invece, a lato di un corridoio buio e stretto, il refettorio e una cappella sconsacrata erano usati come studi di ripresa dei programmi in diretta. Per lo studio del telegiornale era stata recuperata una larga intercapedine del corridoio, dove entrava appena una scrivania. Oltre il refettorio una vetrata si apriva sul chiosco del convento, al centro del cortile c’era un pozzo di forma esagonale, dove ogni tanto mi sedevo sui gradini a fumare. L’altra parte del convento era stata trasformata in appartamenti di varie metrature ai quali si accedeva da due rampe di scale che portavano al loggiato superiore del chiosco, la maggior parte erano stati affittati o venduti a gente che già a quel tempo si spostava dalla città a cercare la quiete. L’impresa edile che aveva costruito gli appartamenti, era anche socio di maggioranza dell’emittente televisiva.
In quella cella angusta e priva di aria condizionata, dove i frati avevano pregato nei secoli mattina e sera, ci ho visto film drammatici, film di avventura, storici, horror, stucchevoli commedie all’italiana, thriller mozzafiato, duelli romantici, battaglie campali, fantascienza. Film comici, di vampiri, pornografia che mandavamo in onda senza preavviso interrompendo un altro film montato in un nastro che partiva automaticamente nella fascia notturna dalle tre alle cinque del mattino, per i quali l’azienda aveva già raccolto alcune denunce. Documentari sulla natura. Ma quello che ricordo maggiormente nei pochi mesi che ci ho lavorato, sono dei vecchi cortometraggi del dopoguerra, dove un antropologo inglese raccontava la vita di alcune tribù primitive ancora esistenti nella foresta amazzonica, in Patagonia, in Africa, nei rossi deserti australiani. Mandavamo in onda molte ore di cartoni animati e anche un programma di gastronomia, registrato nella cucina di un famoso ristorante della zona che variava ogni mese. Il programma di gastronomia andava in onda il pomeriggio dalle sei alle sette, spezzando il palinsesto dei cartoni animati che iniziava già all’ora di pranzo. Osservavo con molta attenzione anche la trasmissione giornaliera dell’oroscopo, cercando di non interrompere l’astrologo sul segno zodiacale di cui stava parlando.
Una sera mi sono dimenticato di mandare in onda un passaggio di spot ingolfando l’intermezzo successivo con venticinque minuti di pubblicità. Era un film noir di Robert Altman, tratto da un romanzo di Raymond Chandler, e mi stava prendendo in modo particolare. Dopo quella lunga pausa nel programma, alle dieci di sera i telefoni di tutti i locali cominciarono a squillare come impazziti, ero da solo e non sapevo come arginare quella confusione, armeggiavo i registratori, rispondevo al telefono cercando di placare gli spettatori incazzati per la lunga interruzione del film, alle ditte di cui dovevamo trasmettere i messaggi pubblicitari inventavo scuse di problemi tecnici capitati al nastro che conteneva i loro spot. Il pomeriggio del giorno successivo sarei morto di vergogna, perché in effetti avevo combinato un gran casino. Anche Fernando venne a trovarmi, per farsi spiegare cosa poteva essere accaduto. Naturalmente mi inventai delle scuse, non potevo ammettere che ero stato preso dal film che stavo trasmettendo, dimenticando la messa in onda della pubblicità.
– Dai, non te la prendere, scusarsi per un guasto può capitare.
Quando ne parlai a Paola, lei si mise a ridere senza riuscire a trattenersi, mentre Giulia, credendolo un gioco, ci saltellava intorno in una danza tribale, divertita e fuori da ogni logica.
– Paola, mi sa che questo lavoro non fa per me – le dissi, ridendo anch’io, perché non potevo fare altrimenti.
– Amore mio, quanto ti voglio bene!
– E’ la fine del mondo, invece. Sto facendo i salti mortali per accettare il lavoro come prospettiva di vita. Ormai sono quasi sei mesi, ma non riesco ad abituarmi a certe logiche. Me lo porto sempre dietro, non me ne libero neanche quando stiamo facendo l’amore. E’ come se avessi commesso un omicidio.
– Ora mi stai offendendo – disse lei seria.
– Sì, forse è esagerato, ma credimi, faccio fatica a guardare la Tv per dieci ore di seguito.
– Ma …, dobbiamo mangiare. Se trovo un lavoro stabile potrai licenziarti e pensare a qualcosa di meglio.
– Se continuo a vivere così, mi perdo. Non mi interessa avere la fantasia che ogni giorno fa i fuochi d’artificio, piuttosto preferisco scomparire in un lavoro anonimo e avere la mente libera.
– Sembri più tragico di Gesù Cristo.
– Sì, vero? … Però il mio problema è questo.
– Leggi un libro, per distrarti.
– Nei libri ci trovo la mia vita, sarebbe ancora più frustrante far finta di niente.
Le cose alla Tv si acquietarono già il giorno successivo, perché al mattino avevano cominciato a trasmettere in diretta una vendita di prodotti che rendevano un sacco di soldi. Io continuavo a mandare in onda film, cartoni animati, puttanate di ogni genere dalle due di pomeriggio alla mezzanotte. Mi sentivo un imbecille, ma i soldi e l’amore di Paola surclassavano ogni altra resistenza mentale. Durante lo scorrere delle immagini ogni tanto pensavo a mio padre pensionato che, non avendo più aspettative a cui attaccarsi, tutte le mattine spazzava le foglie che il vento o la pioggia depositavano davanti alla sua casa. Non malediceva nessuno, si metteva lì, incurante dei commenti dei vicini, a pulire tutto quello che la natura gli lasciava di scarto.
Mia madre, quando ci parlava, tentennava la testa e lo sgridava, ma lui era imperterrito nel suo scopo. – Tu non sei un essere umano, sei un mulo! – diceva arrabbiandosi, mentre il silenzio di mio padre sembrava attaccato all’infinito. Restava muto, non aveva niente da dire, rispetto a quella montagna di foglie secche e di sporcizia che si accumulavano davanti alla soglia di casa.
Nel frattempo, lavorando alla Tv, maledicevo il giorno in cui mi ero fidato di un amico d’infanzia, con il quale le cose in comune ritornavano indietro nel tempo. Una pomeriggio sul tardi, quando ormai gli uffici erano chiusi, presi la telefonata di una mamma che aveva chiamato appena rientrata a casa dal lavoro.
– Sì, pronto? … Mi dica.
Supplicò di mandare in onda il cartone animato di Lady Oscar, altrimenti sua figlia si rifiutava di fare colazione e di andare a scuola. Le spiegai che quel cartone animato non andava più in onda perché il contratto con il distributore italiano era ormai scaduto, comunque dalle sette alle nove del mattino mandavamo sempre dei cartoon giapponesi.
– Da quando non c’è Lady Oscar, la mia bambina diventa ogni giorno più irascibile.
– Mi dispiace signora, ma senza un contratto non ci è consentito mandarlo in onda
– Si ostina a non fare colazione, piange e impreca contro di me.
– Signora, mi dispiace, ma è come le sto dicendo.
– Quando al mattino accende la Tv prima di recarsi a scuola, si sfoga con me, mica con lei.
– La capisco, ma non posso farci niente.
Per consolarla dissi che i cartoon giapponesi si assomigliavano un po’ tutti, che insistendo a parlare con sua figlia, avrebbe trovato il modo di convincerla.
– Non è affatto così, mi creda!
– Il buono, il cattivo, i personaggi di contorno, si somigliano un po’ tutti. Insista a parlarle in questo senso, forse sua figlia troverà una ragione per affezionarsi anche ai nuovi.
– Mia figlia vuole vedere quel cartone animato, prima di andare a scuola. Dovete trasmetterlo!
– Signora, sono un dipendente, non mi è consentito variare anche solo una virgola dal palinsesto. Mi sto appuntando su di un foglio la sua richiesta, se è così gentile da lasciarmi il numero di telefono, appena possibile sarà ricontattata.
– Lei è un maleducato, vada al diavolo!
E riattaccò bruscamente.
Quando ne parlai a Paola, si mise a ridere.
– C’è poco da essere allegri, credimi. Preferisco fare un altro mestiere per vivere. In fabbrica avevo sempre desiderato un lavoro che mi lasciava un po’ di tempo libero da pensare a me stesso, ma questa non è la soluzione. Il tempo se ne scorre via come un fluido di particelle immateriali, non è questo che voglio fare nella vita. Quando rientro dal lavoro mi appisolo sul divano e il tempo scivola via tradotto in immagini televisive. Non lo posso più sopportare questo stato d’animo pieno di rassegnazione.
Con Paola ero stato sincero, così decisi di parlarne anche con Fernando, in fondo verso di lui avevo degli obblighi, visto che mi aveva fatto assumere doveva anche essere messo al corrente della decisione di licenziarmi. La presi un po’ larga, proprio in ricordo della nostra amicizia, mettendola sul piano di un mio limite caratteriale che in quel mestiere non riuscivo a controllare neanche in minima parte, di fatto però non ne sopportavo la logica, gli obiettivi di sviluppo rapportati alla miseria di aspettative che quotidianamente mettevamo in gioco, la relazione che si instaurava tra persone mi sembrava sempre condizionata da un modo di recitare un ruolo troppo sopravvalutato rispetto alla sostanza di ciò che facevamo, che implicava solo la banale somma di infinite scopiazzature, mai idee autentiche, se non proprio nuove.
– Caratterialmente non ho uno spiccato senso di adattamento creativo – gli dissi il giorno stesso, presentandomi al suo studio prima di andare al lavoro.
Ero un po’ pensieroso, ma avevo già deciso di licenziarmi.
– La mia immaginazione si rivela nei momenti più impensati, non potrei mai trasformarla in un giacimento inesauribile di inventività creativa. E’ più forte di me, non ce la faccio proprio. Mi dispiace Fernando, spero di non averti fatto fare una figuraccia per esserti speso per me.
– Siamo nel 1985, smetti di fare l’idealista – mi disse dietro un sorriso malizioso che non nascondeva la scocciatura di quella delusione. – Nel giro di pochi anni le televisioni private scardineranno il sistema. La fantasia al potere, puoi crederci, condizionerà ogni scelta individuale proprio alle persone semplici nelle quali preferisci riconoscerti. Allora faranno a meno di mangiare, ma no di guardare la Tv, così, con tutti i tuoi scrupoli, sarai fottuto. Farsi condizionare da un senso di responsabilità che castra ogni ambizione personale è assurdo, Spartaco.
– Lo so Fernando, ma non è questo che voglio fare da grande.
Poi è vero che a un certo punto della vita, quello che uno ha desiderato diventare, se è fortunato a ripescarlo dal passato, si avverte la presenza di un panorama ristretto a pochi essenziali momenti il cui ricordo è fisicamente potente e non puoi più nasconderlo, almeno a te stesso. Non è nostalgia, si tratta di scosse mentali che si percepiscono solo se si è insistito a tenerle in vita, rispetto a tutto ciò che scorgi nella foresta l’istante stesso in cui ti guardi attorno. Forse diventare adulti è solo questo: invece di accettare le conseguenze di alcune scelte come soluzioni definitive, lasciarsi alcuni spiragli su cui articolare il pensiero con il dubbio che stai sbagliando direzione di marcia. Ho cambiato altri lavori prima di trovare un equilibrio mentale che allora non percepivo in quei pensieri subito soffocati dal volume e dalle immagini della televisione, che ero obbligato ad ascoltare e vedere. Prima di entrare al lavoro a comunicare che mi sarei licenziato, restai a parlare ancora un po’ con Fernando. Volevo contraddire quel suo ottimismo, fargli capire che vivere nella certezza assoluta di quello che mi aveva detto, era lontano anni luce dalla musica che alcuni anni prima avevamo ascoltato per ore, fino allo stordimento. Fino alla nausea.
Figline Valdarno, gennaio 2017
Australi è un narratore vero, di quelli di vecchio stampo, alla Pratolini, alla Bilenchi, ma la sua voce toscana non si circoscrive solo all’ambito regionale. Va oltre e ci tocca.
Consiglierei i suoi libri con le storie di Spartaco. “L’occhio di Polifemo”, il più recente.
Australi continua così la sua ricerca letteraria in modo onesto, schietto, per non deludero ormai chi lo segue da tempo
Francesco Luti, Barcellona, 2017
…sì un bel racconto questo di Angelo Australi, scritto in una forma schietta e spontanea su un’esperienza risalente a oltre trent’anni addietro , quando cominciava già a dilagare la (in)civiltà delle immagini, che ormai è esplosa ai nostri giorni come una malattia forse irreversibile…in vari ospedali del mondo esistono ormai reparti per malati di immagini…Il protagonista del racconto si salva, solo dopo aver sperimentato la foresta-TV, ma, come gli dice “l’amico”, e sembra una tragica profezia: ” La fantasia al potere, puoi crederci, condizionerà ogni scelta individuale proprio alle persone semplici nelle quali preferisci riconoscerti”…Profetico anche l’argomento della disoccupazione giovanile, un problema allora solo agli albori
… quando è successa tutta questa sovraesposizione di immagini?
I primi anni di vita delle televisioni private sembravano allegri e felici, ma dentro avevano già un punto di non ritorno, dalle aspettative modeste, provinciali, che doveva essere capito. Non è stato così. Quindi una generazione ha preferito rimuovere l’importanza di conoscere di se stessi attraverso l’esperienza con il bisogno di essere spensierati. Sono gli anni dell’edonismo, dell’io che prende il sopravvento sul noi. Dei diritti da rivendicare, senza una controbilancia di doveri; altrettanto importanti in un sistema democratico.
Ho sempre pensato che l’Italia sia una nazione dove i problemi si ripresentano sempre identici con una cadenza, diciamo così, decennale. E’ come il pozzo di San Patrizio che c’è a Orvieto, quando siamo in fondo non si risale mai dalle scale da cui siamo scesi. Così la memoria dopo un po’ di tempo si annebbia, si offusca, l’esperienza vissuta finisce nell’oblio. Guardiamo oggi come siamo messi. Forse da parte di chi detiene il potere non c’è mai stata la convinzione di affrontare sul serio il problema, perché formare delle donne/degli uomini consapevoli è alquanto faticoso e non è detto crei consenso. Personalmente credo che già in quegli anni ottanta, se una madre pretendeva un determinato cartone animato, pur di riuscire a far mangiare quel figlio un po’ viziato, la frittata era fatta.
grazie per la lettura