di Giorgio Mannacio
I
“ …e tra qualche settimana piscerem nel Lago Tana.” ( da una canzone dei Legionari italiani in Africa: anno 1936 )
Ogni tramonto avverte
che è l’ora del Giudizio Universale
ma le reliquie
del mille e non più mille sono pronte
nel mattino seguente ad apparire.
E la furtiva luce
che toglie all’oscurità o rende ad essa
il maltolto dell’esistenza
scivola sopra l’istrice imbalsamata
che mai ferì qualcuno da lontano
e fu da qualche eroe colpita a morte.
Altri tempi? Altri luoghi certamente
dove nascosto un altro dio dormiva
e lo svegliò l’oltraggio
gridato a celebrare
sbandierate di vento e sangue.
Correva l’anno mille ,
uno dei tanti.
II
Tra calvari corrosi dai licheni
il giorno sembra non finire mai:
è la luce dell’Occidente che resiste
oltre ogni ragione.
Non è lontano il luogo
dove finì la prima guerra giusta:
quando il demonio veste i nostri panni
o si vince o si muore.
Lui vorrebbe tornare,
sedersi sull’affusto del cannone,
un giocattolo in faccia al mare.
Ma è troppo vecchio ormai per ogni viaggio
e per la strada non ha incontrato alcuno
che gli chiedesse:
“ Ma chi sei, dove vai “ ?
gennaio 2017
Giorgio Mannacio,
…un dio addormentato e un demonio invecchiato, sempre noi protagonisti di millennio in millennio di una storia di violenza, di arroganza e di disprezzo, come nelle parole del canto dei Legionari…Ma, in queste poesie così potenti, Giorgio Mannacio sembra voler tracciare il senso di una parabola arrivata al capolinea, sebbene stenti a estinguersi ” la luce dell’Occidente che resiste/ oltre ogni ragione” sullo scenario di immensi cimiteri. Nell’ultimo secolo, in particolare, dopo aver superato ogni più atroce e macabra fantasia, persino il demonio si arrende, esausto dei suoi misfatti…e non suscita più neanche interesse, essendosi il genere umano assuefatto al male…C’è infine una logica? chi salva? chi distrugge? Un destino tragicomico
Testo inquietante (letto e riletto), prima ancora per chi scrive, immagino. Le circostanze di tempo e di luogo evocate (il lago Tana nell’esergo, la “prima guerra giusta” poco lontana – in Irak, credo) diventano parte di inquadrature immaginarie (calvari corrosi dai licheni, luce dell’Occidente che resiste). Le scene concrete contano per la ripetizione che rappresentano, le mille (“e non più mille”) fini del mondo. Scene del definitivo, in cui scema il significato storico ed etico, assunto nello scontro assoluto del giudizio universale.
Due incongrue immagini, quasi fuori dal grande quadro apocalittico: la antica e simbolica istrice (ormai “imbalsamata”) che mai lanciò le sue frecce, troppo lontane da noi, e il giovane che si ri-sogna sull’affusto di un cannone, presentato come “giocattolo in faccia al mare”. Richiami quasi giocosi invece intrisi della stessa violenza originaria produttrice del Male, chiamato senz’altro demonio. E nell’epoca di trapasso del nostro crollo, non c’è il dio che ti incontra e ti chiede chi sei dove vai.
Gia, oggi quel “qualcuno” manca: è la fine di una sinistra che ormai somiglia al suo storico avversario, che ha finito col viverci insieme, nella stessa casa padronale; e forse nemmeno se ne rende conto. Nessuno di loro, di quella sinistra di fatti e pensieri, è rimasto fuori a chiedere “ Ma chi sei, dove vai “ ? Qualche poeta soltanto, sulla porta bussa ancora. Ma gli risponde Trump, un gigante deforme – perché somma dell’uno e dell’altro ? – una mostruosità.
@Annamaria Locatelli – Cristina Fischer.
Carissime, desidero ringraziarvi per le vostre osservazioni. Esse dimostrano, oltre ad una partecipazione emotiva, anche una penetrazione speculativa dei temi che ho
affrontato dopo mesi di approcci e soluzioni diverse ( Crristiana, come mi hai letto bene ! ). Sì, il testo è inquietante anche per me. I due oggetti – istrice , cannone interrato – vorrebbero essere reliquie di un tempo che non ritorna, ma non lo sono. A te Annamaria dico che purtroppo è solo il vecchio dio che si è addormentato ma non il Demonio
( infatti non dico nulla di lui ). Vi debbo di cuore queste notazione per ” simpatia ” soprattutto perchè – lo confesso – sono rimasto colpito da una sorta di indifferenza verso il testo. Poichè bazzico Poliscritture da qualche tempo mi consolo ironicamenter con il detto: Nemo propheta in patria. Un abbraccio.Giorgio.
“Vi debbo di cuore queste notazione per ” simpatia ” soprattutto perché – lo confesso – sono rimasto colpito da una sorta di indifferenza verso il testo. Poichè bazzico Poliscritture da qualche tempo mi consolo ironicamenter con il detto: Nemo propheta in patria.” (Mannacio)
Al silenzio ( più che all’indifferenza…) dei lettori che avvolge quasi tutti i post e non solo questo bisogna farci il callo. Poliscritture non è *patria*. Non è, come dimostratosi con gli anni, neppure una *redazione *. A me pare un’*astronave* sulla quale sono saliti/e solo alcuni di noi…
@Ennio Abate.
Avevo scritto che si trattava di una espressione ironica ( forse meglio dire metaforica) ma non è bastato . Anche astronave è una metafora ma a me basta per le implicazioni che contiene. Un cordiale saluto. Giorgio.
Un altra bella poesia di Giorgio Mannacio. O forse sono due.
I versi sono anziani: c’è urgenza nel timbro e tempo da perdere nella cura, anche se sono un poco ispide queste strofe, come l’istrice imbalsamata che da qualche parte esisterà davvero.
Non mi piacciono le maiuscole del “Giudizio Universale” o la trascuratezza dell’eufonia “ad essa” (che pure ha una tradizione), ma è folgorante il “demonio” che “quando veste i nostri panni / o si vince o si muore”. Andrebbero oliati, diciamo così, i luoghi comuni dei “licheni”, la “furtiva luce” o il giorno che “sembra non finire mai”, ma forse è una scelta la usata retorica per far risaltare il giudizio personale che si nasconde – ahi, quanto si nasconde! – in questi versi; chi non sarebbe disposto a ascoltare una rima, fosse pure “rosa / posa”, pur di ascoltare dopo la sentenza di: “E lo svegliò l’oltraggio”?
E sì, perché molti scrivono credendo a un “Grande tutto” in armonia con le parole e le cose, mentre Mannacio sa – e lo sa benissimo – che le costellazioni stanno in equilibrio per forze violente e non per spirito di amicizia, e ogni minima variazione tenderebbe, di per sé, a distruggere il tutto.
Il diavolo vorrebbe tornare, per esempio, e certo non è il mite scrittore di questa poesia l’avvocato degli angeli contro gli uomini; eppure come si fa a separare l’autore “troppo vecchio ormai per ogni viaggio” dal maligno che volentieri siederebbe ancora “sull’affusto del cannone”? Detto altrimenti, e per parlare di letteratura, dove lo troviamo l’autore?
Sembra quasi che Mannacio scherzi – ma come fanno le vittime con il predatore quando scelgono che parte del collo offrire. Egli offre il collo di parole vissute tempo addietro giocando, con la serietà degli effimeri, a morire un po’ di volte prima che sia troppo tardi: “Ma chi sei, dove vai?”.
È poesia, questa, che obbliga a ragionare senza l’appiglio di un aggettivo insolito, senza la fiducia lirica nell’Io che guarda se stesso e anche senza medicine: non c’è niente che consoli nei versi di Mannacio. Sì, lo so, sembrano disegni a carboncino. Come gli acquarelli di Paul Klee.