di Angelo Australi
Uscito dall’ufficio ho preso la macchina e mi sono avviato verso la montagna senza salutare nessuno. Al lavoro è stata una giornata davvero faticosa, per fortuna la musica di Bjork può togliere il torpore della sonnolenza che ha lasciato lo spaghetto all’amatriciana mangiato a pranzo. Tra i colleghi del nostro tavolo sono stato l’unico a prendere questa bomba calorica. Di solito l’amatriciana a pranzo la digerisco bene, sarà che ho mangiato in fretta perché due compagne di lavoro si sono messe a discutere piuttosto animatamente sull’importanza dei figli nel rapporto di coppia. Quella che sedeva al mio fianco ha due figli ed è sposata, mentre l’altra, che avevo di fronte, non ha figli e convive ormai da molto tempo con lo stesso uomo. Tralascio i nomi perché non è importante in ciò che voglio raccontare, ma hanno entrambe una ventina d’anni meno di me. Non è stato tanto questa discussione che mi ha fatto innervosire, si parla sempre di tanti argomenti nell’ora che ci troviamo per il pranzo, che poi restano come avanzi nel piatto, ma a un certo punto la collega non sposata ha raccontato un aneddoto sul figlio di un’amica che credeva le patatine fritte crescessero sugli alberi come un frutto da cogliere.
– Ha sei anni -, ha detto per concludere la collega senza figli, rivolgendosi a me, – è preoccupante di come i bambini sono suggestionati da tutto ciò che vedono. Oggigiorno è come se abitassero in un mondo che travisa la realtà.
– Già – le ho risposto distrattamente, cercando di gustare l’amatriciana.
– Perché ti scandalizzi tanto? – ha chiesto la collega mamma, seduta alla mia destra. – Negare questo modello di crescita significa prospettargli un futuro incerto, da disadattato.
– Che vuoi farci, sono considerazioni intime, personali – ha risposto l’altra, – che mi convincono sempre di più a non fare figli. Neanche so spiegarmi il motivo per cui ne parlo proprio adesso, forse perché questa storia delle patatine fritte cresciute sugli alberi, detta da un bambino che è in prima elementare, mi sembra un paradosso al quale non voglio credere.
– Ma una donna senza figli è come se non si realizzasse. A un certo punto si decide, non puoi sempre pensare alle conseguenze di una scelta così importante, altrimenti che succede, la terra smette di girare intorno al sole?
– Quest’amica sembrava piuttosto sconcertata, credimi, quando all’uscita da scuola il figlio si è messo a parlare di patatine fritte come di un frutto da cogliere. Gli ha spiegato come stanno realmente le cose, ma lui insisteva a dire il contrario.
– Dovrebbe aiutarci un po’ di più la scuola, e le istituzioni.
– Quindi la politica? – ho chiesto alla collega mamma.
Lei mi ha guardato sorridendo e scuotendo la testa.
– Oggi nessuno ci aiuta, come ben sai. Noi genitori siamo lasciati soli a fare i conti con un mare in tempesta.
– Certo, lavorando non abbiamo tempo per seguirli, ma se crescono avendo nella mente un foglio bianco pieno di fiori e farfalle dipinte a caso, tanto vale non farli!
La sposata e mamma ha detto che i ragazzi oggi sono molto svegli perché prendono informazioni da più parti rispetto a quando avevamo la loro età, si vedeva che l’altra non era mamma e aveva troppi scrupoli. – Ai bambini non va proibito niente, altrimenti possono rimpiangerlo quando sono adulti. Siamo noi i non adeguati, perché nessuno ci aiuta –, ha ribadito.
– Non gli va spiegato che le patate prima vanno piantate nel terreno ogni anno, che sono raccolte dagli esseri umani, portate ai negozi da altri esseri umani, che poi la mamma le sbuccia, prima di friggerle? – Ho chiesto sorseggiando del vino. – … Una fabbrica dove ci lavorano degli esseri umani che loro non conoscono. Oppure la mamma, il babbo, la cuoca a scuola; …qualcuno, insomma?
– Quanto la fai lunga Spartaco, su certe fantasie che possono avere i bambini! – ha detto la collega che è mamma.
– Non volevo intromettermi nelle vostre chiacchiere, ma …
– E poi, se vuoi saperlo, io ai miei figli cucino solo quelle surgelate. Non mi hanno mai visto sbucciare una patata, quindi è ammissibile che qualcuno non sappia cosa accade in natura.
– Ma se una maestra ascolta i bambini parlare di certe cazzate, non deve reagire? – ha chiesto la collega che aveva introdotto l’argomento.
– …te l’ha suggerito uno psicologo che i bambini non vanno frenati nei loro istinti? – ho detto io.
– Comunque piuttosto che accettare questa situazione, visto non ho tempo per poterli crescere come voglio, preferisco non farli – ha detto la collega che convive. – Per me entrare in merito a queste cose è un dovere di mamma.
Non è che condividessi in pieno le teorie della collega che non ha figli, intendiamoci, perché so quanto sono importanti e, soprattutto, per principio, è bene lanciare ogni tanto lo sguardo oltre le siepe, ma a un certo punto al tavolo tutti stavano dando ragione a quella che è mamma, e vedendo l’altra messa all’angolo ho iniziato a ingozzare gli spaghetti all’amatriciana pensando ansiosamente a quanto in fondo siamo modesti nelle nostre aspettative di vita, si pensa sempre che le conseguenze di una cosa che facciamo oggi già non ci appartenga più il giorno dopo, mentre ci sarà sempre un diritto da rivendicare, per il quale gridare all’ingiustizia.
Il battibecco forse è proseguito anche dopo il caffè, visto le due donne lavorano nello stesso ufficio. E con questo tipo di considerazioni in testa il pomeriggio ho fatto almeno un paio di faticose riunioni con l’ufficio del controllo di gestione, per capire come stavamo su una certa commessa. A una ha partecipato anche il nostro amministratore delegato, che avrei mandato volentieri a quel paese, visto tormentava di annunci sulla necessità di recuperare produttività e riuscire a chiudere in pareggio il prossimo bilancio. E’ il terzo AD che si avvicenda a guidare l’azienda nel giro di tre anni, tutti dicono le stesse cose, usando termini che ho imparato a memoria come l’ave Maria o il Pater Nostro, lasciano sempre le procedure stratificarsi incompiute sul vecchio sistema organizzativo dal quale, noi dirigenti che dobbiamo applicarlo, non ci caviamo più le gambe.
Inserito il CD nel lettore lascio ai suoni il piacere di trasportarmi dove più vogliono. Quando sono in auto con il finestrino aperto, non nutro un particolare interesse per come volano le farfalle o cantano le cicale, mentre invece le note hanno su di me l’effetto di partire da una distanza incommensurabile e in un attimo comprimersi per dare ordine al disordine dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni che nascono a cascata durante il giorno. Le curve sulla strada insistono. Sto percorrendo un vecchio tracciato romano che in duemila anni si è trasformato relativamente poco. La strada oggi è un po’ più larga e non ci sono pietre o ciottoli, ma per togliere le curve dovrebbero sbancare un quarto di dorso montano lungo almeno dieci chilometri. Impresa da pazzi!
E’ l’ora in cui gli uffici e le fabbriche chiudono, il momento che tutti ci arrangiamo ad attaccare il cappello da qualche parte fino al giorno dopo, sperando possa esistere una via d’uscita. Se esiste poi non ha importanza dove ti porterà: è un bisogno molto diverso dalla fame.
Lo faccio ogni tanto per rilassarmi prima di tornare a casa dopo una giornata di lavoro faticosa, alla fin fine viaggiare in auto su questa strada tutta curve verso il tramonto compensa più di molti libri letti il bisogno reale di non essere frainteso dal prossimo. Oltre la valle c’è il sole, che accarezza altre colline. Questa stessa strada, molti anni fa la percorrevo a piedi senza avere il conforto della musica. E’ così facile non pensare a niente, lasciarsi andare. Abbandonarsi. Ascolto la musica di Bjork, scalo e inserisco le marce in sequenza continua.
Andando quasi a passo d’uomo dietro ho formato una coda di una decina di auto, le persone alla guida accennano il sorpasso spostandosi al centro della strada, ma poi arriva la curva successiva e rientrano bruscamente in carreggiata. Appena trovo uno spiazzo accosto e li lascerò passare. L’auto che mi sta incollata ha lampeggiato la sua impazienza, sbircio nello specchietto retrovisore per mettere a fuoco almeno un volto: agli uomini ci sono abituato, però fa sempre una certa impressione quando è una donna ad avere tutta questa fretta; è come se fosse un messaggero di morte, in un certo senso. Chissà se ha da preparare la cena, mi dico, se ha da recuperare il figlio dalla piscina o alla scuola di musica; chissà se ha tempo di spiegargli come funziona con le patatine fritte? Sto assorbendo come una spugna tutti gli accidenti che mi sta lanciando, anche perché, se mi sorpassa in una strada così tutta curve, comunque non andrà più veloce di tanto. E’ un gesto riflesso scaricare addosso a qualcuno tutte le cose che appena uscito dal lavoro ti restano da fare e non ne hai voglia.
Sarà che sono prossimo alla pensione, ma ultimamente sembra ci sia sempre qualcosa di innaturale in quello che faccio, è come un appetito primordiale che il cibo non può saziare. In giorni come questo è difficile dare una spiegazione alla smania che ho di non rientrare mai più nei ranghi, spesso lo percepisco solo a livello intuitivo che ci sto stretto in questa vita fatta di internet, cellulari, WhatsApp, smartphone, iPhone, BlakBerry, lavarsi i denti dopo aver pranzato, prima di rientrare tra i colleghi, in un ufficio. Lavoro, cura del fisico nei sabato e domenica. Natale, Pasqua. Ferie, viaggi organizzati. Anestesie serali televisive e acquisto di merci on-line. Alla fine ho capito che non ha più senso lamentarsi di tutto ciò con gli altri, per reagire ogni tanto devo mettermi alla guida dell’auto, con la musica di un CD sottofondo. Ho la fortuna di potermi sbizzarrire alla guida in un territorio dove gli spazi si susseguono in linee irregolari. Monti, colline, altopiani, canali che scendono a valle selvaggiamente tra le crete, celando il corso dei torrenti pietrosi, e poi un vuoto a distanza dove si immagina la valle, e dopo il vuoto ancora i monti, e sopra i monti lo stesso cielo che è qui, magari solo un po’ più striato di rosso dove sta andando giù il sole. Se bastasse vedere le cose per essere felici, forse non avremmo inventato neppure il lavoro. Il problema è che tutti interpretiamo quello che facciamo a modo nostro, dobbiamo fare uno sforzo immane per stare insieme. Il lavoro non è una gran bella invenzione lo ammetto, ma una giornata faticosa, piena di noia, comparata all’immagine di un albero dove maturano le patatine fritte, che altro può darti? E’ la quiete che rende tutto relativo, non il contrario.
Mi è piaciuto molto questo racconto.
Quietiamoci perdinci! Nel silenzio e nella nostra dimensione (quella che più desideriamo) troveremo il mondo che davvero non ci ha mai abbandonati!
Complimenti ad Australi, complimenti.
il tema mi è piaciuto.
La scrittura forse l’avrei preferita un po’ più alla Carver, ( per questo genere di situazioni mi sembra che questo autore sia stato eccellente )
Mi scuso per l’intervento.
…sì, davvero un bel racconto questo di Angelo Australi, pieno di rabbia repressa che si condensa nella frase di chiusura:”E’ la quiete che rende tutto relativo, non il contrario”… Una giornata tipo imbrigliati in percorsi stabiliti, spronati in direzioni programmate, sia se lavori a buoni livelli in un’impresa, ma subisci le direttive assurde e sempre uguali di amministratori delegati, sia se infante ti bevi da qualche cartone animato la storia delle patatine fritte che maturano sugli alberi, una pseudo fantasia imposta sulla realtà…Quest’ultima se la neghi ai bambini, ne fai dei disadattati, afferma una mamma…E in un certo senso ha ragione, poichè oggi sembrano essere due le forme di disadattamento per i giovani: disadattati nei confronti della realtà realtà che ormai trascende le menti oppure nei confronti della realtà virtuale che imperversa nelle menti dei coetanei (anche meno giovani), ai quali si devono pur rapportare…E allora comunque caschi, sarai un disadattato…La signora senza figli non ha tutti i torti…ma investire nella vita è sempre una scommessa…Allora andare per luoghi e musica selvaggi può fare la differenza, allora il paradosso arriva a sconvolgerti e ti chiedi: Perchè noi così supini?
Cara Annamaria Locatelli, ma fa parte del mio carattere andare a scoppio ritardato, e me ne scuso. Sono contento che il racconto le sia piaciuto. Nasce da una discussione reale avuta con alcune colleghe di lavoro, tra le quali una raccontava il fatto del bambino che pensava le patatine fritte fossero dei frutti da cogliere dall’albero.
Chiaro che a me questo mondo non piace molto, ma ci devo vivere, e allora cerco di trovare, almeno nella scrittura, quei punti di conflittualità riflessiva.
un saluto
Un testo feroce, politicissimo. All’inizio il protagonista si abboffa di pasta all’amatriciana (si abboffa di una disgrazia reale, il terremoto, di cui tutti ci siamo – o meglio siamo stati – mediaticamente abboffati), e quel buon piatto – come l’evento che ha suscitato reale coinvolgimento nel paese – ha lasciato (come l’evento pompato dai media) una sonnolenza. Causata anche dal tentativo di evitare, mangiando, il fastidio prodotto dalla conversazione di due colleghe con lui al tavolo su figli e politica, con argomenti “che poi restano come avanzi nel piatto”. La conversazione tra le due donne è piena di battute che rispondono bene al generale clima di finzione in cui viene trasformata la realtà dai media.
“… i bambini sono suggestionati da tutto ciò che vedono. Oggigiorno è come se abitassero in un mondo che travisa la realtà”, racconta una delle due donne, che non vuole avere figli.
Qui il testo entra nel tema, il generale clima di finzione cui tutti partecipiamo. L’altra donna è mamma, convinta del fatto che occorre non prospettare ai figli “un futuro incerto, da disadattato”, come sarebbe spiegare al bimbo di sei anni che sugli alberi non crescono le patatine già fritte.
In realtà c’è indifferenza da parte della mamma nei confronti della credenza del bambino, non gliela vuole togliere ma non sa come agire per spiegargli che non è vero. Così si lasciava correre una volta l’idea di vivere in fondo nel migliore dei mondi possibili, o di sognare gli alberi della cuccagna su cui crescono patate fritte e salsicce. Quindi… attacca la politica, o meglio espone la sua idea su ciò che la politica dovrebbe fare e non fa: “Oggi nessuno ci aiuta, come ben sai. Noi genitori siamo lasciati soli a fare i conti con un mare in tempesta.” Il mondo è un mare in tempesta (diverso dal solito?); la politica è intesa come un genitore potente che non si prende cura (così è lei stessa); mentre “noi genitori” cioè lei mamma, che dovrebbe essere quella che introduce i figli in un mondo di alberi e patate vere “siamo lasciati soli”.
“Certo, lavorando non abbiamo tempo per seguirli, ma se crescono avendo nella
mente un foglio bianco pieno di fiori e farfalle dipinte a caso, tanto vale non farli!” risponde la donna che invece non vuole un figlio, anche se ha il senso di un “dovere di mamma”. Cioè se siamo schiavizzati dal lavoro e istupiditi dal falso ottimismo è meglio vivere come se tutto dovesse finire con noi.
Due belle posizioni politiche, non c’è che dire, quelle delle due colleghe! Per cui il protagonista, che si chiama Spartaco come lo schiavo ribelle e vinto, si mette in un viaggio da flaneur “scalo e inserisco le marce in sequenza continua”. Una venatura misogina è in questa frase: “fa sempre una certa impressione quando è una donna ad avere tutta questa fretta; è come se fosse un messaggero di morte, in un certo senso”, una frasetta leggera! Benchè poi Spartaco riconosca che “è un gesto riflesso scaricare addosso a qualcuno tutte le cose che appena uscito dal lavoro ti restano da fare e non ne hai voglia”, e immagini che questo varrà anche per la signora che mostra fretta nella macchina dietro di lui, la critica che Australi fa ai due personaggi femminili è il tema serio della poca comunicazione politica tra i sessi.
Riassume bene lo stile di Australi questa frase, in cui sono presenti in poche righe tre registri linguistici: “… usando termini che ho imparato a memoria come l’ave Maria o il Pater Nostro, lasciano sempre le procedure stratificarsi incompiute sul vecchio sistema organizzativo dal quale, noi dirigenti che dobbiamo applicarlo, non ci caviamo più le gambe”. Ave Maria e Pater Nostro è un chiasmo, in cui il ricordo della formula in latinorum della penitenza: “recita X Pater Ave Gloria” mette i due termini latini alle due estremità di un asse e i due termini italiani Maria e Nostro ai capi dell’asse incrociato. Poi c’è un segmento in linguaggio aziendale, quindi un’espressione locale. E’ uno stile che predilige il registro medio, con incursioni in quello basso, dove si manifesta l’amarezza sbeffeggiante dell’autore.
Cara Cristiana Fischer,
parole molto importanti le sue, su questo breve racconto.
E’ far politica questo? Sì, …credo di sì, soprattutto quando la società ha preso la piega che ha preso, nella quale non mi ritrovo quasi per niente.
Ho fatto una scommessa con me stesso alcuni anni fa: se le persone semplici di cui voglio raccontare le storie hanno un linguaggio ridotto a cento parole, devo esprimermi con quelle cento parole per cercare la poesia. Non è facile lo so, soprattutto oggi che il libro si riconosce principalmente un un prodotto da vendere, editori ed autori hanno ben chiaro di scrivere ciò che il lettore vuole sentirsi raccontare, molto simile poi a ciò che ci viene propinato ogni giorni con l’informazione giornalistico-televisiva.
Io non sono così, ecco perché in questa società non mi ci riconosco poi tanto.
un saluito