di Italo Lo Vecchio
[Ultimamente Italo è stufo d’ogni cosa, senza più voglia di fare. Lui addebita tutto questo alla nemesi del suo cognome, giustificando così il suo comportamento. Conoscendolo un po’, io ritengo invece che la sua stanchezza, che lo sta portando a prendere in considerazione la possibilità di smettere di scrivere, più che fisica sia conseguenza dell’aver riconosciuto la sconfitta subita nella battaglia delle idee, come si diceva una volta, in cui s’era cacciato con piglio da fustigatore. Sconfitta che in lui ha maturato la convinzione della totale inutilità di seguitare a riflettere criticamente sulla politica e la cultura italiana. E’ la cecità della gente, lui direbbe “il popolo”, ad alimentare il suo pessimismo; è la sordità degli intellettuali che per mandato dovrebbero aprire gli occhi alle persone, ad avvilirlo.
E questi appunti che gli ho sottratto, incompiuti più che frammentari, mi sembrano riflettere l’attuale suo stato d’animo. R.B. ]
Dalla rete.
La madre dei badoglio è sempre incinta
I due corni della storia: ciclicità e aleatorietà. La storia ha fasi cicliche, tuttavia non risolve una situazione di fase nuova limitandosi a ripetere la vecchia, perché molto dipende dall’aleatorietà che concorre a far nascere l’evento. E’ vero che la banda d’oscillazione dell’evento ha margini precisi in ambito storico, però l’evento si configura nuovo quando la sua processualità ha accumulato un decisivo numero di fattori aleatori che interagiscono con quelli prevedibili.
Corriere della Sera – Esteri
“’Fake news’, avvertimento della UE a Facebook” (Ivo Caizzi)(31/1/17)
“[…]Oltre alla Germania, vari governi Ue appaiono favorevoli ad approvare una legislazione europea per arginare la disinformazione tramite i social network. Numerosi premier europei si sono allertati dopo quanto è successo nelle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, dove la vittoria del repubblicano Donald Trump è apparsa favorita anche dalle notizie negative sulla candidata democratica Hillary Clinton. Ma in alcune capitali Ue non vorrebbero rischiare le polemiche e le proteste del popolo della rete, che scaturirebbero in caso di restrizioni della libertà di far circolazione le notizie sul web”. Nessun problema, cara Ue, nel malaugurato caso dell’intervento censorio brusselliano, “il popolo della rete” diverrà il popolo delle piazze.
Filippo Taddei: “Nel 2001 l’Argentina passa dal peso, che era 1:1 col dollaro, al corralito” (“Omnibus”, La7, 5 febbraio). Per un anno, almeno, Taddei dovrebbe ricevere lo stipendio da docente universitario in corralito. Poi vedremo se ancora ignora cosa sia il corralito
Di fronte alla riduzione di quote di profitto ad opera delle conquiste salarali e sociali degli anni ’60 e ’70, il capitale s’è riorganizzato ed è partito al contrattacco. Alcune pietre miliari: divorzio del 1981 tra Banda d’Italia e Ministero del Tesoro; taglio della scala mobile; riunificazione di banche d’affari e commerciali (abolizione della legge bancaria del 1936 ad opera di Mario Draghi); progressiva riduzione della politica monetaria e di bilancio dello stato; fissazione del cambio; libero movimento di capitali; delocalizzazione; parametri di Maastricht, vincolo esterno.
Da ciò ne consegue che la moneta unica è la punta di diamante 2.0 dell’attacco mosso dal capitale ai diritti del lavoratori. Se non si riconosce questa evidenza, si rischia di combattere non già il capitalismo nella concretezza del suo essere qui-e-ora, bensì lo spirito del capitalismo.
Detto questo, va anche detto che la fine d’un ciclo capitalistico non è la fine del capitalismo tout court.
Ma Plateroti col viso struccato e gli occhi a guardarsi intorno come a riappaesarsi dopo un risveglio, che conversa pacatamente con Claudio Borghi talvolta assentendo (“avevo fiducia nell’Europa”) è semplicemente stu-pe-fa-cen-te (“La Gabbia open”, La7, 8 febbraio)
E la mano andò, lesta, istintiva, come rondine al nido, come bue al giogo, come beghina al rosario, come CIA al microfono, come foreign fighter al kalashnikov, vi basta? se volete posso continuare, come Monti al mercato interno, come Renzi al Jobs Act… meglio di no? le similitudini si fanno toste? hard, dite, nella lingua padronale? ma che razza di bambolottti siete? vabbe’, dicevo, s’incuneò, la mano, sotto il maglione di lana, risalì la carne morbida al tatto, le dita s’aprirono a petali e il palmo s’impattò al seno, assaporandone il tenero tepore.
Con gli aguzzini non c’è dialogo. Hanno massacrato il popolo greco per imporgli gli assurdi parametri d’un’unica velocità europea, e adesso la banda dei quattro a Versailles, dove – ironia della sorte – nel 1871 fu proclamato l’impero tedesco, scopre che l’Europa dovrebbe avere due (dicono loro), tante (dice la realtà), velocità? Il massacro è stato doppiamente inutile.
Quos vult Iupiter perdere dementat prius, dicevano i latini. La demenza politica del nostro tempo nella Storia ha le ore contate. Ore però che potranno prolungarsi per anni se non si mette mano a un nuovo comitato di liberazione nazionale. Ma la perdita degli accecati è già segnata nel libro degli Dèi.
Questo, fino a un attimo o un eone fa, credevo. Adesso vedo il presente come un lentissimo processo d’agonia proteso a un futuro dalla durata indefinibile, dove il fottuto senso d’appartenenza continua a incrostare le menti umane in assenza del luogo politico che rende possibile l’appartenenza.
Lo Stato messo in mano al Mercato col divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro (1981) e vincolato al ricatto di quest’ultimo che stabilisce gli interessi dei titoli di stato facendo crescere il debito pubblico, dal 60% di allora fino ai livelli attuali, da quale necessità è derivato? Non già, come si potrebbe logicamente pensare, da una analisi politico-economica della situazione, bensì da… uno stato d’animo.
“La nostra scelta del ‘vincolo esterno’ nasce sul ceppo di un pessimismo basato sulla convinzione che gli istinti animali della società italiana, lasciati al loro naturale sviluppo, avrebbero portato altrove questo Paese”. (Guido Carli, Cinquant’anni di vita italiana; cit. da Agenor, “Repubblica italiana e vincolo esterno”, in a/simmetrie, Blog, 6 marzo 2017).
E Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi risposero, solerti, all’appello.
Mentre Gesù loda gli ultimi perché saranno i primi a entrare nel Regno dei Cieli, la promessa che il Manifesto del Partito Comunista fa agli ultimi, vale a dire a coloro che nulla hanno da perdere a rompere le loro catene ma tutto da conquistare, riguarda il mondo terreno: saranno loro, infatti, a forgiare il mondo nuovo, a entrarci per primi.
La differenza è consistente. Nel marxismo gli ultimi non sono un insieme indifferenziato, ma una classe ben precisa, quella operaia.
Pur tuttavia, la classe di per sé non basta ai fini della trasformazione rivoluzionaria del mondo. Perché gli ultimi siano in grado di realizzare il proprio destino, occorre la coscienza di classe, che non è il semplice essere soggetti a sfruttamento, ma la consapevolezza d’appartenere a un preciso status sociale nei conflittuali rapporti sociali di produzione.
A sua volta però, la coscienza di classe è condizione necessaria ma non sufficiente se non si concretizza in un’avanguardia di classe che s’organizzi in Partito. E a sua volta ancora i vertici di questo Partito risultano essere composti soprattutto da intellettuali e uomini politici d’estrazione borghese, la cui funzione di “portare” la coscienza di classe al lavoratore li “ripulisce”, come un lavacro, delle loro stesse origini.
Insomma, siffatta processualità politica marxista risulta alquanto complessa, o quanto meno complicata, il che spiega la sua debolezza, e le sue ripetute sconfitte, riguardo alla semplicità del verbo cristiano, non a caso da duemila anni sempre sulla breccia, che promette agli ultimi l’illimitato, perché eterno, godimento del Regno dei Cieli anziché il temporaneo, perché mortale, godimento del mondo.
A questo punto mi corre l’obbligo d’una chiosa. Quello che ho detto è al netto del marxiano “general intellect”, e al lordo della sua sostituzione nella vulgata marxista novecentesca col concetto di classe operaia.
Il parigino Collège International de Philosophie, in collaborazione con altre prestigiose istituzioni quali l’Ecole Normale Supérieure, organizza ogni anno seminari aperti a tutti, studenti e non studenti, residenti o stranieri, su molteplici argomenti dell’umano sapere, tra i quali brillano quelli sui concetti di ribellione, rivolta, dissidenza civica. Tutto questo è meritorio, frutto d’una democrazia fondata, come quella francese, sull’Illuminismo. Ma se a qualcuno venisse l’idea di spingersi, mettendo a repentaglio la propria incolumità fisica, nelle banlieue parigine, non mancherebbe di vedere la polizia reprimere quotidianamente e duramente coloro che, magari digiuni del concetto, applicano in pratica ribellione, rivolta, dissidenza civica.
The trains hunters
All’imbrunire si fece freddo. Il vento gelido di tramontano s’incuneò nella valle ruzzolando dai fianchi delle montagne morsi dal biancore delle cave di marmo. Giunto alle spalle della piccola stazione ferroviaria, il vento serpeggiò a folate lungo i binari spazzolando i corpi infagottati nei giubbotti invernali del gruppo di giovani che presidiavano il luogo. I visi macerati nell’umidità e nell’attesa erano rivolti verso il punto in cui il treno sarebbe comparso. Nessuno sapeva con esattezza quando sarebbe transitato, perché le notizie che arrivavano ai cellulari erano incerte e contradditorie. Forse era stato bloccato da ordini superiori in un punto imprecisato tra Mantova e lo snodo per Bologna, forse era già passato da Borgotaro e tra breve sarebbe arrivato lì, o forse era stato dirottato all’ultimo minuto su qualche binario morto, dove avrebbe atteso che si facesse notte fonda prima di riprendere il suo viaggio di morte.
I cartelli contro la guerra erano stati appoggiati al muro di contenimento della stazione. Le raffiche di tramontano ne fecero cadere alcuni, quindi s’accanirono sullo striscione di GUERRA ALLA GUERRA CONTRO TUTTE LE GUERRE TRAIN STOPPING appeso alle colonnine di ferro della pensilina. A sorvegliare il gruppo di testecalde c’era soltanto il maresciallo in borghese della locale stazione dei carabinieri, e questo era un brutto segno perché voleva dire che il treno non sarebbe passato tanto presto. O forse non sarebbe passato affatto.
E il vento, il vento freddo, bizzoso, incessante, schiaffeggiava le facce arrossate e tese dei compagni, come se volesse dire la sua, anch’esso a favore della guerra.
Addossati alle rotaie, alle due estremità della stazioncina erano stati ammucchiati rami secchi, tavolette di legno, cartoni rinvenuti perlustrando il terreno attorno, soprattutto in prossimità d’un cantiere edile. Perché un fuoco, un falò, avrebbe costretto il treno a rallentare, e a quel punto i manifestanti si sarebbero disposti lungo il binario, seduti o in piedi, a fronteggiare con la loro disobbedienza la ferocia del convoglio omicida. Poi una raffica di uova riempite di vernice avrebbe bersagliato le jeep, i camion, le ruspe, i blindati militari insozzando la loro indolenza assassina, grumose erubescenze di vergogna e infamia. Quello era l’obiettivo, nel confabulare a gruppi dei manifestanti. Per realizzarlo, mancava una cosa soltanto: il passaggio del treno.
Il vento s’era incaponito in vortici di polvere e foglie secche, e la sua baldanza s’abbatteva ostinata sul grumo d’ombre che s’allungavano immobili sul binario. Poi si mise a piovere.
Se chiamo ventaglio il pugnale, non è che poi pretendo di farmi fresco con quello. E’ una considerazione di buon senso. Ma oggi logica e buon senso sono merce rara, e nella follia che decide della nostra esistenza hanno chiamato ventaglio il pugnale e vogliono farsi fresco con quello.
e le cosce, eh, le cosce, ah, quelle cosce! a galoppargli negli occhi, a ingorgargli lo sguardo, cosce debordanti da minigonne sbarazzine, cosce sguscianti dall’austerità di gonne tagliate sotto il ginocchio, cosce accavallate volitive, cosce congiunte nel riserbo, cosce spalancate a far respirare il loro vertice occulto, cosce offerte ai palpiti d’un cuore canuto, cosce d’avorio, cosce d’alabastro, cosce di portoro, cosce morbide come velluto e cosce lisce come seta orientale, cosce rosa cipria, cosce d’ambra e cosce d’ocra, cosce di perla, cosce candide come spuma marina, cosce d’una malizia dolce e cosce d’una aggressività spudorata, cosce accosciate e cosce scosciate, cattedrali di cosce luccicanti nella penombra della sera, prospettive di cosce nel meriggiare pallido e assorto, sequenze di cosce indiavolate e spianate lineari di cosce remissive, cosce ingrassate e cosce dimagrite, cosce lunghe come fiaccole, cosce leggere come rondini, cosce danzanti davanti alle claudicanti brame d’un adolescente, cosce ammiccanti, cosce indifferenti, cosce sfarfallanti, cosce che più cosce non si può, cosce snob e cosce popolane, cosce birichine e cosce immusonite, cosce tranquille e cosce inquiete, cosce nate per provocare e cosce vissute per saziare, cosce beffarde come dee e cosce fiorite in giardini di cosce, cosce a due a due e cosce a quattro a quattro, cosce orgogliose come aquile e cosce tubanti come colombe, cosce come templi e cosce come arsenali, cosce di fata e cosce di tata, cosce semplici e cosce complicate, cosce anoressiche e cosce pantagrueliche, già, le cosce, eh, le cosce, ah, quelle cosce!
I “circenses” li inventano gli imperatori. Poi i sudditi vi accorrono felici, chiedendone sempre di più.
“Circenses erant, quo genere spectaculi ne levissime quidem teneor. Nihil novum, nihil varium, nihil quod non semel spectasse sufficiat. Quo magis miror tot milia virorum tam pueriliter identitem cupere currentes equos, insistentes curribus homines videre”. Plinio il Giovane, Epistularum Libri Decem, IX, 6. (C. Plinio a Calviso)
Un fantasma s’aggira per l’Italia: il rossobruno. E’ colui che, sotto lo strato di vernice rossa con cui s’ammanta, nasconde un’animaccia nera. Una camicia bruna d’infausta memoria, addobbata colla falce-e-martello. Un ossimoro, o più semplicemente, un paradosso.
Questa invenzione del rossobruno mi riporta alla memoria un episodio accaduto al tempo, ormai più lontano delle lune di Giove, degli assalti al cielo e delle verità in tasca, granitiche come un monumento. Luogo: la Piazza del Mercato d’una città di provincia, in un tardo pomeriggio invernale. Eravamo andati, noi militanti d’un gruppo politico extraparlamentare, come s’usava dire allora, a volantinare tra i partecipanti a un comizio di Giancarlo Pajetta, parlamentare e dirigente Pci di quegli anni, avente per tema la pace in Vietnam. Il volantino, se ben ricordo, esprimeva una forte critica all’ambiguità con cui il Pci sosteneva il Vietnam del Nord, di cui un’espressione emblematica era la sua parola d’ordine “Vietnam libero”, alla quale noi “gruppettari” opponevano lo slogan “Vietnam rosso”.
Confesso che avevo una strizza boia a distribuire volantini che parlavano di “revisionismo” e di “social-imperialismo” a tesserati fedeli-alla-linea e a simpatizzanti doc che ci guardavano in cagnesco al solo avvicinarci a loro. Ma questo era ancora nulla se comparato a quanto successe dopo. Vedendoci fare volantinaggio sotto il palco, Pajetta tirò fuori dal suo carniere di politico scafato, malgrado nulla avesse a che fare col suo discorso, una paroletta apriti sesamo che fece schizzare la nostra strizza alle stelle: nazimaoisti. “Ci sono dei gruppi nazimaoisti in Italia che vogliono il disordine e s’oppongono al dialogo tra le forze politiche”, tuonò dal palco infiammando gli animi e incupendo i volti degli astanti. Non ci mettemmo molto a capire che lì non era aria, semmai lo era stata, e adottammo quella che in gergo militare si chiama ritirata strategica, ossia ce la demmo a gambe non appena svoltammo a passi misurati l’angolo (era pur sempre una questione di dignità politica mostrare una certa flemma nel ripiegare davanti al nemico).
Quel giorno seppi che anche sui gruppettari vegliava una stella protettiva in qualche parte dell’iperspazio.
Andava in giro con piglio aggressivo dicendo cose strambe, tipo: “Se t’incontro quello stronzo di maori che s’è pappato l’ultimo ama, lo concio per le feste!”. O: “Se ti becco il bastardo che ha scrollato l’albero di mele proprio quando Newton [Darwin] era seduto sotto, gliene faccio passar la voglia!”.
Ma malgrado i suoi sproloqui non avrebbe fatto male a una mosca.
Anzi, una volta l’aveva anche acchiappata, una mosca. Gli svolazzava fastidiosa davanti alla faccia per poi posarsi sul naso, sulla fronte, sul mento, quasi a sfidarlo.
Ma quando aprì con circospezione il palmo della mano e la ghermì per le ali rinserrandola tra indice e pollice, quelle migliaia di ommatidi tutti puntati su di lui a invocare pietà lo commossero. Così mollò la preda e la mosca volò via.
Alle elementari aveva avuto come compagno di banco – ricordate?quei banchi di legno a due posti, con il ripiano intagliato di stupide scritte e in cima sull’angolo, a destra per chi guarda seduto sul banco, il buco che ospitava il calamaio di vetro per l’inchiostro dove intingere il pennino… no, non lo ricordate? ma con che sbarbatelli ho a che fare? la generazione del gratta-e-vinci?
Ci sono alcuni errori di stampa, anche nel latino, ma nessuno è la Banda d’Italia.
(L’attuale stato d’animo di Italo Lo Vecchio non gli impedisce comunque di scrivere in modo eccitante.)
Mi viene un dubbio sull’intenzione di Lo Vecchio: il rossobruno di oggi vale il nazimaoista di allora?
Sì, nella mia (discutibile) esperienza. Comunque, per non farmi mancare nulla, dopo nazimaoista sono stato apostrofato anche come “rossobruno” in occasione di appelli e manifestazioni durante la prima Guerra del Golfo. E questo perché non si tifava né per George Bush né per Saddam Hussein.
Grazie per la segnalazione dei refusi e per il giudizio complessivo. Quando l’inconscio si ribella, ne esce Banda d’Italia.
Scusate, ma quali sono questi refusi? Scrivetemi in privato, così li correggo.
Io ‘Banda d’Italia’ l’avevo lasciato passare perché mi pareva coerente con il tono di Lo Vecchio.
…nei racconti di Italo Lo Vecchio i pensieri sull’oggi sono molti e mescolati ai ricordi, ma è sempre l’urgenza dei corpi che conta, quella dei poveri, o comunque non vincenti, schierati a favore di altri poveri…Lo spirito e la materia si incrociano in maniera armoniosa e spiritosa, come nella comica e adorante trattazione di una vasta tipologia di donne, attraverso la descrizione delle cosce femminili nelle loro più svariate posture…Il personaggio che in queste ultime pagine dei Quaderni prevale è quello del giovane (se stesso di un tempo e non solo?) impegnato gruppettaro sul fronte della protesta e del dissenso, sempre in prima linea a sfidare i più forti, i politici, i poliziotti, con la nomea di “nazimaoista”, cioè di violento, in realtà incapace di far male a una mosca….Un uomo di pace che sfida i violenti, in realtà…Al contrario di quanto succede a Parigi oggi, dove nei centri universitari si predica la giusta disobbedienza in nome dell’illuminismo e poi, nelle banlieue, si bastonano i ribelli…
@ Annamaria,
I remember, e: “il naufragar m’è dolce in questo mare”
M’accorgo solo ora d’un mio errore, e provvedo a segnalarlo. La persona seduta sotto l’albero di mele scrollato dal “bastardo” non doveva essere Darwin, bensì Newton. Mettendoci il primo, sotto l’albero di mele, si perde l’effetto comico di causa-effetto.
Affascinante e sconvolgente – così come lo è il rapporto misterioso con la Bellezza (fascinans et tremendum) – è questo contributo di Italo Lo Vecchio che ci fa entrare in contatto con il conflitto storico, personale e anche linguistico dove una lingua non è più in grado di rappresentare il reale che ha di fronte.
Quel grido di dolore che gli fa dire: *Adesso vedo il presente come un lentissimo processo d’agonia proteso a un futuro dalla durata indefinibile, dove il fottuto senso d’appartenenza continua a incrostare le menti umane in assenza del luogo politico che rende possibile l’appartenenza.* (I.L.V.)
Lucide (anche se non chiuse, e quindi aperte alla riflessione) alcune fotografie della situazione attuale:
*Di fronte alla riduzione di quote di profitto ad opera delle conquiste salariali e sociali degli anni ’60 e ’70, il capitale s’è riorganizzato ed è partito al contrattacco.
… Da ciò ne consegue che la moneta unica è la punta di diamante 2.0 dell’attacco mosso dal capitale ai diritti del lavoratori. Se non si riconosce questa evidenza, si rischia di combattere non già il capitalismo nella concretezza del suo essere qui-e-ora, bensì lo spirito del capitalismo.
… Detto questo, va anche detto che la fine d’un ciclo capitalistico non è la fine del capitalismo tout court.*
E, anche se si tratta di un copia-incolla, non trovo inutile riportare per esteso i seguenti pensieri espressi sul post (le maiuscole sono mie):
*Mentre Gesù loda gli ultimi perché saranno i primi a entrare nel Regno dei Cieli, la promessa che il Manifesto del Partito Comunista fa agli ultimi, vale a dire a coloro che nulla hanno da perdere a rompere le loro catene ma tutto da conquistare, riguarda il mondo terreno: saranno loro, infatti, a forgiare il mondo nuovo, a entrarci per primi.
… La differenza è consistente. Nel marxismo gli ultimi NON SONO un insieme INDIFFERENZIATO, ma una classe ben precisa, quella operaia.
Pur tuttavia, la classe di per sé non basta ai fini della trasformazione rivoluzionaria del mondo. Perché gli ultimi siano in grado di realizzare il proprio destino, occorre la coscienza di classe, che NON E’ il semplice essere soggetti a SFRUTTAMENTO, ma la consapevolezza d’appartenere a un preciso status sociale nei conflittuali rapporti sociali di produzione.
…. Insomma, siffatta processualità politica marxista risulta alquanto complessa, o quanto meno complicata, il che spiega la sua debolezza, e le sue ripetute sconfitte, riguardo alla semplicità del verbo cristiano, non a caso da duemila anni sempre sulla breccia, che promette agli ultimi l’illimitato, perché eterno, godimento del Regno dei Cieli anziché il temporaneo, perché mortale, godimento del mondo.*
Gustoso e nel contempo triste (perché preludeva a ciò che sarebbe venuto avanti attraverso quel *dialogo con le forze politiche*: contrattazione per il potere, non certo per la classe) è l’intreccio della storia personale con quella politica:
*Pajetta tirò fuori dal suo carniere di politico scafato, malgrado nulla avesse a che fare col suo discorso, una paroletta apriti sesamo che fece schizzare la nostra strizza alle stelle: nazimaoisti. “Ci sono dei gruppi nazimaoisti in Italia che vogliono il disordine e s’oppongono al dialogo tra le forze politiche”, tuonò dal palco infiammando gli animi e incupendo i volti degli astanti*.
Ma è l’aspetto narrativo a colpire nella sua estrema modernità, là dove accomuna il lirico al grottesco (il lungo elenco delle cosce, dolci, intime e spudorate); l’acuto aforisma (*Se chiamo ventaglio il pugnale, non è che poi pretendo di farmi fresco con quello. E’ una considerazione di buon senso. Ma oggi logica e buon senso sono merce rara, e nella follia che decide della nostra esistenza hanno chiamato ventaglio il pugnale e vogliono farsi fresco con quello*) e la descrizione struggente di una notte sferzata dal vento nell’attesa (metaforica?) di un treno che forse non sarebbe transitato mai.
A Italo Lo Vecchio, cento di questi Quaderni!
p.s. Stupendo il lapsus ‘Banda d’Italia’!
R.S.
Grazie, Rita Simonitto.
Se da queste prose verrà mai fuori un libro, ti supplicherò d’essere la mia recensora ufficiale
Verrà, verrà (il libro, intendo!).
Comunque mi è piaciuta la giovanile nota goliardica della battuta.
Con molta stima.
Rita