Appunti politici (6): bene e buonismo

di Ennio Abate

In questi giorni ho riletto più volte  i commenti all’articolo “Sul tragico destino dei migranti” (qui). In particolare quello di Roberto Buffagni (qui) solleva  almeno tre questioni importanti. Le riassumerei intitolandole così: bene  e buonismo, interesse, immigrazione e identità.  Buffagni le tratta da un’ottica che diverge in profondità dalla mia e proprio per questo mi sento ancor più impegnato a discuterle e approfondirle.   Affronterò i temi in tre articoli separati. Questo è il primo. [E. A.]

1.
La polemica martellante contro i “buoni” o i “falsi buoni” non la capisco. L’ho rifiutata:  istintivamente dapprima, in modo più ragionato dopo. Dov’è  tutta  questa gente che vuole a tutti  i costi essere o dimostrarsi  “buona”?  Non la vedo.  Invece  (con imbarazzo e allarme) mi accorgo che gente comune e gente pensante  coltiva cinismo, scetticismo e indifferenza e gli dà dignità “culturale”. Perché? E perché di più oggi? Non mi è del tutto chiaro. Forse mi sfugge la radice profonda del fenomeno (un sentimento? un disamore? un risentimento?). Starà nell’insofferenza (pagana?) all’egemonia culturale cattolica, comunque ancora forte in Italia? E ne fa le spese anche l’attuale Papa, mal sopportato anche da parecchi cattolici. Che, tra l’altro, è indicato come il buonista per eccellenza e, contemporaneamente e  paradossalmente, anche come comunista (solo perché di partiti o di movimenti comunisti organizzati in Italia non ne esistono più). Non mi convince neppure chi spiega questo qualcosa di profondo che ribolle nelle viscere sociali e che in parte viene raccolto e fa la fortuna elettorale delle organizzazioni dette “populiste” (Lega, M5S),  come un sintomo del “ritorno del fascismo”.

2.
Sul “ritorno del fascismo” condivido l’analisi dello storico Claudio  Vercelli (qui), di cui ho pubblicato  alcuni passi su “Poliscritture FB” (qui) :

non siamo dinanzi al ritorno del fascismo-regime, in sé completamente consumatosi, e neanche davanti alla rivincita del neofascismo “storico”, bensì all’adozione di una serie di parole chiave (tali perché capaci di scaldare gli animi e di mobilitare parte della collettività), che derivano dal lessico neofascista, non solo per la loro origine ma anche e soprattutto per l’accezione che assumono nell’odierna discussione pubblica. La qual cosa pone molti problemi. C’è chi ha scritto, riferendosi al linguaggio, che «gli usi delle parole costituiscono, soprattutto nello spazio pubblico, strumenti fondamentali di lotta politica, perché hanno l’effetto di determinare cosa può essere detto e cosa no in una congiuntura specifica. Rendono cioè lecite espressioni fino ad allora ritenute scandalose e provocano la censura o l’autocensura per espressioni fino ad allora ritenute accettabili. Per questa ragione le trasgressioni linguistiche sono sempre state tra i principali strumenti utilizzati per condurre dei colpi di mano in politica».

 Vercelli parla di uno «“sdoganamento” di parole dietro alle quali si cela un universo mentale che si fa in qualche modo proposta politica» (in Europa, negli Stati Uniti, ma anche in altre parti del mondo (l’India hindu, ad esempio).  E lo collega sia ai processi di globalizzazione, che «hanno ulteriormente agevolato le capacità espansive di atteggiamenti, pensieri e condotte basate sull’intolleranza sistematica», sia alla persistente egemonia culturale del discorso neoliberale e liberista, che impone agli individui in difficoltà di rifugiarsi in se stessi, sia al declino della funzione redistributiva dello Stato e delle amministrazioni pubbliche; e infine alla trasformazione che il lavoro sta subendo, oramai da almeno tre decenni a questa parte, con la disintegrazione del sistema dei diritti. Saremmo, dunque, di fronte più ad una «estrema destra postindustriale»  che non ad un “fascismo di ritorno”.

3.

Per quanto logore, io pure non mi sento di abbandonare le distinzioni categoriali tra destra e sinistra,   molti e pochi, alto e basso,  classi e totalità sociale.  Ci aiutano tuttora ad approssimarci  alle trasformazioni (di mentalità? di strutture?) che stanno avvenendo (o sono già avvenute?). Non mi pare giusto  poi cancellare la storia in cui ci siamo formati (la mia: prima nell’alveo  di un cattolicesimo popolare meridionale e poi in quello della sinistra critica comunista o cosiddetta “nuova sinistra”) e andare a lezione – da sconfitti poi! –  dagli   avversari (destra, fascismo). Conoscere, studiare anche la loro storia,  i loro autori, sì, ma questa è altra faccenda. Decisivo è usare  criticamente le “cassette dei nostri attrezzi”. Anche con una certa diffidenza e con la consapevolezza della loro parziale inadeguatezza. Se, perciò, mi pare scorretto ricondurre al concetto di comunismo gli appelli  o le reprimende di Papa Francesco e le  esperienze di volontariato (delle Ong,  della Caritas) che usano coerentemente, in un’ottica per lo più religiosa, i concetti di solidarietà,  accoglienza e integrazione, altrettanto sbagliato – lo dico senza esitare – è ricondurre tutte le attuali esperienze definite “populiste” (tutte: da Trump alla Le Pen, ai sovranisti,al M5S), anche quando puntano sbrigativamente e in modi propagandistici insopportabili il dito contro l’”invasione” degli stranieri (o degli “extracomunitari”), al “ritorno del fascismo” o al “rossobrunismo”.

4.

E perché?  Perché mi aspetto che la storia ci riserverà altre sorprese. E che tutto questo baillame tra buonisti e cattivisti non porterà  inevitabilmente –  è un determinismo facile ma subdolo! –  l’area sociale e politica che ancora si riconosce  come Sinistra al recupero prima o poi del discorso sul socialismo/comunismo (magari sotto altra forma). Né che l’area  che ancora si riconosce nella Destra  alimenterà  un ritorno del fascismo (sotto altra forma).  Ma allora non sono né carne né pesce? Direi, invece,  che la mia posizione (per quel che capisco di me) non fa sua l’equidistanza o l’ambivalenza riassunta nello slogan “né di destra né di sinistra”, proprio perché l’ancoraggio nella mia/nostra storia è inequivoca. E neppure è tentata, però, dall’oltranzismo in fondo nicciano dell’andare “oltre la destra e la sinistra” verso un “mondo nuovo”. Che non si intravvede ma che tenta fortemente gli epigoni. In effetti, insofferenti della “decadenza” o della “confusione” dei tempi, siamo portati ad aggrapparci ai miti della giovinezza (o infanzia). Io continuerei invece ad interrogare inquietamente –  e non è barcamenarsi! –  gli elementi di continuità e quelli di discontinuità e continuerei a delineare mano mano i tratti di un ‘*io/noi* concreto capace di:

Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.

( F. Fortini, Forse il tempo del sangue…)

5.

Sono per un atteggiamento vigile e non nostalgico. E i versi appena rammentati a me dicono ancora molto. Dicono non solo che, in passato, ci fu una sinistra comunista critica e che non ebbe dalla sua parte solo ebeti progressisti (gli antenati dei “buonisti”?). E mi indicano una “morale provvisoria” (se non una politica) buona per rifiutare certe reazioni di chiusura che i contrasti sociali suscitano. Ad esempio, mi fanno trovare paradossale  che Buffagni usi i  Vangeli [1] per dire che il bene (nel mio immaginario e solo nel mio immaginario: il comunismo) è impossibile. Proprio dal Fortini cristiano/marxista  ho imparato che non bisogna rinunciare  allo *scopo buono*. Fosse questo *scopo buono* (o “bene”) soltanto un ideale faro (kantiano) della storia umana.  E del resto, senza per questo volerlo tirare dalla mia parte,  vedo che anche Gianfranco La Grassa, in un intervento degli ultimi giorni (qui), pur sempre segnato dal suo particolare “pessimismo storico”  d’impronta darwiniana ( « Dobbiamo sopravvivere e non possiamo non “nutrirci” di altri per ottenere questo risultato»),  scrive: «Ritengo del tutto utile, anzi necessario, che ci si sforzi in definitiva in direzione del bene. Così come sono convinto sia del tutto ragionevole e vantaggioso cercare di evitare gli scontri bellici di primaria grandezza, senza dubbio eminentemente micidiali. »

6.

Buffagni, invece, cancella questa *ipotesi* o *possibilità*: « fino a quando non diventeremo capaci di dare “a ciascuno secondo i suoi bisogni” e chiedere “a ciascuno secondo le sue capacità”, cioè mai». La esclude in base alla sua concezione antropologica realistica: « I più forti e più ricchi non regaleranno mai le loro conquiste ai più deboli e più poveri». Ed esclude  così una cosa che io non escludo e anzi sulla quale ancora scommetto:  che  i deboli o i più poveri (organizzandosi anche con altri meno deboli e meno poveri) possano prendersele quelle cose che «i più forti e più ricchi non regaleranno mai».  Qui divergiamo. Il *possibile*  per lui esiste solo per i forti e i ricchi. E, dunque, il  comunismo come possibilità (alla Fortini) o  lo *scopo buono*,  l’ideale regolativo o  qualche “sorpresa” della storia, non hanno per lui  senso. Mai. Se *scopo buono* esiste anche nella visione di Buffagni, mi pare che  coincida con l’adeguamento all’esistente, cioè  ad un “naturale” nettamente separato o non trasformato mai nella sua sostanza dalla storia, ad una gerarchia elitaria. Per me l’esistente non è la “realtà” ma al massimo una sua porzione.  E per definire la divergenza tra noi, concluderei per ora  richiamandomi all’Ernst Bloch di «Ateismo nel cristianesimo» : Buffagni mi sembra privilegiare  il punto di vista dei sacerdoti (il momento teocratico) e scartare  quello dei servi  o del “popolo” (il momento sovversivo).

(continua)

Nota

[1]

Matteo 19,17-19
 Egli rispose: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». 18 Ed egli chiese: «Quali?». Gesù rispose: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, 19 onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso».

Marco 10,18
 Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.

Luca 18,19
 Gesù gli rispose: «Perché mi dici buono? Nessuno è buono, se non uno solo, Dio.

 

5 pensieri su “Appunti politici (6): bene e buonismo

  1. Caro Ennio,
    grazie mille per questo inizio di replica molto articolato e pensato. Replico molto brevemente per chiarire un aspetto della mia posizione, così evitiamo malintesi e discutiamo meglio.
    Descrivendo la mia posizione, dici: “Il *possibile* per lui [Buffagni] esiste solo per i forti e i ricchi. E, dunque, il comunismo come possibilità (alla Fortini) o lo *scopo buono*, l’ideale regolativo o qualche “sorpresa” della storia, non hanno per lui senso. Mai. Se *scopo buono* esiste anche nella visione di Buffagni, mi pare che coincida con l’adeguamento all’esistente, cioè ad un “naturale” nettamente separato o non trasformato mai nella sua sostanza dalla storia, ad una gerarchia elitaria.”

    Io penso invece quanto segue, in pillola:

    1) il comunismo è una falsa immagine di bene perchè tende a uno scopo irrealizzabile, appunto “dare a ciascuno secondo i suoi bisogni etc.” trasferisce cioè sul piano storico e immanente l’escatologia. Detto per inciso, questo Fortini lo sapeva, lo diceva, e però restava comunista (critico, eretico, etc.) perchè la scelta di campo ha le sue leggi. Sul piano della realtà politica e storica, il comunismo (critico, eretico, etc.) di Fortini e non solo di Fortini aveva praticabilità e possibilità di realizzazione = 0, come largamenente dimostra la sparizione del comunismo eretico appena è sparito il comunismo ortodosso o realmente esistente. In questa contraddizione insolubile stava e sta il valore e il limite dell’opera, anche poetica, e della persona di Fortini (che come sai apprezzo e rispetto molto).

    2) Non penso che “il possibile esiste solo per i forti e per i ricchi”, nè penso con Adelchi che “non resti che fare il torto o patirlo”. Penso invece che sia possibile e quindi necessario e giusto cercare un equilibrio vivibile tra forti e ricchi e deboli e poveri. Non è un’idea nuova. La pensavano così anche i pitagorici greci. Li tiro in ballo sia perchè l’esempio calza, sia perchè mi fa comodo visto che ho appena dovuto partecipare a un assurdo dibattito su Platone su “Goofynomics”. Riporto un brano del mio intervento più articolato, così a) faccio prima b) chiarisco meglio. Eccolo qua.

    3) ” Il ‘problema sociale’ che affrontano e cercano di risolvere i pitagorici (anche se non lo affrontano direttamente come tale, separandolo dall’interrogazione della natura del cosmo e dell’uomo, perché non differenziano i due piani) è il problema della dismisura. Cos’è la dismisura? Nella polis, la dismisura è ciò che provoca la dissoluzione sociale: l’accumulazione smisurata delle ricchezze concentrate in poche mani, e il conseguente scontro fratricida fra ricchi e poveri. Aggiornando all’oggi, un esempio preclaro di dismisura è quello che dà il titolo al tuo [di Alberto Bagnai] blog e alla tua Fondazione, “Asimmetrie”: dimenticarsi che l’economia si fonda sullo scambio tra agenti che hanno sì interessi contrapposti, ma anche il prevalente interesse comune a convivere senza scannarsi, e tra i quali va pertanto trovato un equilibrio pena la stasis, la guerra civile. Era certamente pitagorico anche il grande legislatore della democrazia ateniese, Clistene, nel 507 a.C. autore della riforma che divide il territorio dell’Attica in trenta demoi, uniti a tre a tre in modo da riunire e mescolare gli abitanti di tre zone diversamente ricche: la costa (paraliaci), la pianura abitata (pediaci), e la montagna più povera (acriti). Alla dismisura va opposto un argine, il kathecon, che consenta di ritrovare il metron, il criterio in base al quale è concretamente realizzabile nella polis la giustizia, la dike; e il kathecon viene ricercato e identificato in termini matematici e geometrici, come si vede chiaramente nella riforma di Clistene.
    La concezione politica di Platone viene usualmente rappresentata come “aristocratica”. E’ certo diversa da quella di Clistene, ma tra Clistene e Platone passa più di un secolo, il che basterebbe a rendere impropria la comparazione politica. Ma non voglio evitare la questione. Un elemento in comune, il Clistene desinistra e il Platone dedestra ce l’hanno sicuramente: che entrambi cercano nel metron, nella giusta misura, l’elemento capace di riportare l’equilibrio e la giustizia nella polis. Il katechein non è di destra o di sinistra. Non è dedestra o desinistra l’esigenza di portare con il nomos del cittadino (polites) un ordine (taxis) che impedisca la dismisura, delle ricchezze per gli abbienti e dell’invidia per i poveri; e che sostituisca al potere dell’apeiron (l’illimitato, sul piano sociale l’eccesso di ricchezze concentrato in poche mani e la povertà di massa che vi corrisponde) il potere del metron (limite, misura) e del logos (ragione, calcolo, parola). La differenza fondamentale tra la situazione in cui pensa e agisce il pitagorico Clistene e quella in cui pensa e agisce il pitagorico Platone è l’ingiusta condanna a morte di Socrate ad opera della democrazia ateniese. Platone è certamente un critico della democrazia, ma è un critico della democrazia PER QUESTO; come Tucidide è un critico della democrazia perché la democrazia ateniese ha condotto all’imperialismo e alla catastrofica guerra del Peloponneso.”
    http://goofynomics.blogspot.it/2017/06/platone-fa-rima-con-televisione-i.html

    4) Toute proportion gardée + aggiornamenti, io la penso come i pitagorici: che “va cercato un equilibrio tra interessi contrapposti alla luce dell’interesse comune prevalente di vivere insieme senza scannarsi.” Sintesi, sono un conservatore.

    5) La citazione evangelica “Nessuno è buono”. Lo so che è paradossale, però, oltre ad essere autentica (è presente in tutti i Sinottici, quindi non c’è dubbio che Gesù l’abbia detto sul serio) è anche assai utile, perchè ci suggerisce di non puntare a obiettivi che per realizzarsi implicano ed esigono l’universale bontà.

  2. Carissimo Bufagni

    Ho letto le critiche che ti rivolge Ennio e le tue risposte. Il tema è complesso e rimando un intervento a quando sarà completo il ragionamento di Ennio. In linea di principio mi sembrava che la tua affermazione secondo la quale “i ricchi non hanno alcuna intenzione di dividere la torta con altri”, per dirla semplicemente, fosse nulla più che una disincantata visione della realtà.
    Ma evidentemente sbagliavo …
    Quello che più mi ha interessato è il discorso che hai fatto in seguito per dimostrare le tue affermazioni. Forse è un tema laterale e meno importante ma visto che entrambe amiamo la precisione mi permetto di farti alcune marginali osservazioni.

    Devo dire, per iniziare, che mi risulta davvero nuovo che i pitagorici avessero una particolare attenzione per il “problema sociale”. Si potrebbe come premessa chiedersi cosa si intenda per pitagorici ben sapendo quanto difficile sia ricostruire la storia dell’uomo Pitagora e della sua scuola, avvolta come è dal mito e da una leggenda che risale fin alle origine della scuola visto il vincolo di segretezza che univa gli adepti. Forse intendi che spirito fondante della ricerca di Pitagora, che per altro riprendeva le sue intuizioni come insegna Porfirio nella sua Vita pitagorica dalle culture orientali (“egli apprese le cosiddette scienze matematiche dagli Egizi e dai Caldei e dal Fenici …”), era legato alla ricerca di una armonia/misura originaria, il che ovviamente è vero. Ma anche così mi pare dimentichi che tale armonia/misura ha come sue premessa e fondamento originario il primato dell’uno (numero e concetto qui non è il caso di fermarsi) e del concetto di gerarchia, matematica, spirituale e sociale, rigidamente definito secondo una precisa e immutabile legge.
    Non altrimenti la scuola pitagorica, la cosa pare non discutibile, costituiva una consorteria chiusa e destinata a una fine ingloriosa se come ci ricorda Giamblico nella sua Vita di Pitagora, nella stessa Crotone esplose ben presto una guerra civile fra i seguaci di Pitagora e i suoi avversari che si conclude con la loro eliminazione. Per essere precisi: “I Cilonei ( seguaci di Cilone di Crotone ndr) dettero fuoco alla casa di Milone dove essi (i pitagorici ndr) si erano raccolti a deliberare sugli affari della città e li bruciarono tutti …”. Non solo lo stesso Cilone o il suo sodale Ninone affermavano esplicitamente che: “la loro filosofia (dei pitagorici ndr) altro non era se non una congiura contro il popolo …”. Per altro sempre nello stesso testo si ricorda ed è segno che non si può dimenticare: “come i Pitagorici non vollero distribuire la terra conquistata (quella di Sibari) secondo i desideri del popolo minuto, l’odio nascosto proruppe e il popolo si ribellò contro di loro …”. Il che dimostra come esistesse una profonda frattura fra l’oligarchia di sapienti che si era costituita intorno al Pitagora e il resto della polis.
    La cosa che più mi stupisce è che Clistene possa essere definito pitagorico, in parte per quanto già detto sopra e poi perché avrei piuttosto cercato le origini della scelta da lui compiuta di schierarsi dalla parte del demos come la radicalizzazione delle posizioni già espresse da Solone quando afferma (cito a memoria) di essersi posto come una specie di scudo per proteggere i più deboli e nel contempo per impedire che essi potessero pretendere più di quello che poteva essere giusto.
    Insomma il tema è quello di trovare una mediazione fra due forze che si stavano confrontando proprio nell’Atene a cavallo fra V e IV secolo. Quelle che avevano acquisito una loro identità durante la tirannia di Pisistrato e che avrebbero affermato il loro diritto a partecipare attivamente alla vita della polis nel decennio fra il 490 e il 480 a.C. fra Maratona e Salamina.
    La divisione delle antiche tribù, realizzata tramite la formula delle tritie, è in qualche modo una misura non solo antiaristocratica ma anche antipitagorica proprio perché realizza una commistione fra coloro che detengono il sapere/potere tradizionale e coloro che invece rappresentano le forze nuove che si imporranno nei decenni successivi. Invero Clistene non mette totalmente in discussione il primato della antiche famiglie aristocratiche ma certo avvia un processo di superamento dei tradizionali rapporti di forza. Sarà però l’opera di Efialte a concludere il processo che da vita a quella polis democratica di cui usualmente si parla.
    Ciò che mi sembra tu non voglia riconoscere è l’esistenza di una condizione continua di stasis che si mantiene durante tutta la storia della Atene dal VII al IV secolo ovvero fino alla definitiva conclusione della sua storia davanti allo strapotere dei Macedoni. Una stasis che nella sostanza non è una guerra civile nel senso più distruttivo della parola ma certamente un inesausto conflitto, non privo di pagine segnate dalla violenza e dal sangue, per modificare i rapporti di forza e che vede la periferia opposta alla città, il demos opposto agli aristoi. Di qui la necessità di fornire alla popolazione attica una qualche forma di identità con la polis dominante e la divisione del territorio secondo una logica che cerca di mediare fra rapporti tradizionali di proprietà e di potere e le tensioni al rinnovamento. Che poi la formulazione sia geometrico matematica è vero ma non depone certo per un Clistene pitagorico.
    Clistene è poi eclissato dalla riforma di Efialte che nei fatti disarma, almeno in parte, l’aristocrazia e apre le porte al momento più alto della partecipazione popolare alle assemblee e alle decisioni che governano i destini della città. Momento non privo a sua volta delle contraddizioni, non escluso l’imperialismo, che ben conosciamo.
    Per questo faccio fatica a definire Clistene di sinistra. Una categoria che nella Atene classica non aveva proprio nessuna ragione di essere. Si tratta solo del secondo step del processo di adeguamento della legislazione alle nuove realtà sociali che si stavano sviluppando in una città dinamica e piena di profondi conflitti sociali.
    Esattamente per lo stesso motivo mi pare ridicolo definire Platone di destra anche se certamente è l’espressione più coerente di quel disegno conservatore che aveva la sua voce più alta (e per altro non percepibile da noi visto che non ha mai scritto nulla) in Socrate.
    Ben diversa è la ricerca di una risposta alle contraddizioni della politica da parte di Platone che non solo vive oltre un secolo dopo Clistene ma in una realtà storica dove la fase di crescita della città si era conclusa e ben altre erano le scadenze che si trovava di fronte chi aveva conosciuto non solo la sconfitta della città nella guerra del Peloponneso, ma il breve governo dei Trenta tiranni con la morte degli zii Crizia e Carmide ed anche quella di Socrate.
    E’ sintomatico che Platone abbandoni nei fatti l’azione politica, che avrebbe costituito la sua naturale condizione visto che era erede di una delle più importanti famiglie della aristocrazia cittadina, e gli unici tentativi realizzati per trasformare le sue idee in prassi si dimostrano dei tragici fallimenti. Mentre la ricerca di una misura, come tu dici, di Clistene è sotto la spinta degli avvenimenti ovvero di una società in fermento Platone si muove a livello di puro pensiero, anche se con qualche velleità pratica di consigliere dei principi. La ricerca della misura di Platone è, al di là della sua evoluzione interna, fra la Repubblica e le Leggi, per quanto si voglia affascinante sostanzialemente conservatrice ed estranea alla storia. Invero, e dispiace dirlo, non hanno tutti i torti coloro che vedono in Platone, un pericoloso esempio di astrattismo reazionario. Anche solo per fare un esempio come giudicare il Tribunale Notturno … se non come il segno di una negazione di quella Dike che si vorrebbe reggesse la città?
    Per cocludere un’ultima provocazione. Che la condanna di Socrate abbia segnato in modo indelebile la storia umana e intellettuale di Platone è dato certo ma la domanda che ti pongo è questa: sei proprio convinto che la condanna fosse poi quell’atto di somma ingiustizia che una consolidata tradizione afferma ed anzi quasi postula come una verità di fede?

    1. Caro Toffoli,
      non sono un antichista. Concordo con te che proiettare le categorie politiche odierne sull’antichità è una illusione ottica (mi pare anche di averlo scritto). Il “Clistene desinistra” è una scemenza, in sè, e ha un senso non scemo solo nel contesto del mio intervento che ho riportato, e che ho scritto per un motivo solo: m’ero incavolato a leggere scemenze abissali su Platone, tipo “Platone oligarca piddino” et similia. Poi la cosa è degenerata in un litigio ridicolo con Bagnai che mi ha invitato a rispondere argomentando, e ho argomentato, nei limiti delle mie conoscenze e del contesto (è una follia pretendere di argomentare sulla filosofia platonica in due cartelle su un blog, soprattutto se uno non è uno specialista).
      “Clistene pitagorico” è una semplificazione, anche se trovo plausibile che il metodo adottato da Clistene per ridisegnare i collegi elettorali delle democrazia ateniese si ispiri alla scuola pitagorica (come saprai c’è chi lo sostiene espressamente, tra gli specialisti). Vero che non si può sapere se lo fosse davvero, vero che non si sa molto su Pitagora, vere in generale, a quanto mi risulta, le obiezioni che porti.
      Per la posizione politica di Platone, suggerirei di confrontare tra loro”Repubblica” e “Leggi”, e anche le recenti (scuola di Tubinga, in Italia G. Reale) interpretazioni di Platone alla luce degli agrapha dogmata. Che non fosse un progressista non ci piove; non mi sembra che Platone avesse solo “velleità” politiche: per provarci ci ha provato sul serio, e gli è andata molto male, visto che quando Dioniso non ha più gradito la sua consulenza lo ha venduto ai pirati. E’ dopo questa esperienza sfortunata che si è dato al “puro pensiero”, o meglio: alla fondazione dell’Accademia, che è certo un ritiro dalla politica attiva ma ha anche una dimensione istituzionale, quindi indirettamente politica, non trascurabile.
      La sentenza di condanna di Socrate è “ingiusta” se della giustizia ti fai il concetto che se ne fa Socrate (il Socrate platonico), e che è diventato, poi, il concetto di giustizia proprio della civiltà europea e cristiana. Se ti limiti alla lettera della legge e dell’ethos ateniese è probabilmente corretta (metto probabilmente perchè per toglierlo dovrei saperne di più); perchè è vero che la critica filosofica di Socrate può essere intesa come dissolutrice dell’ethos tradizionale, quindi corruttrice e sovversiva (è la posizione di Nietzsche, come sai).
      Credo e soprattutto spero di non avere detto, nel mio intervento, eresie da rogo immediato. Se ci sono errori, sarò grato a te e a chiunque li vorrà correggere.

  3. Concordo con i principali punti del ragionamento di Ennio. In particolare, saluto con piacere 🙂
    – la (semi)rivendicazione del buonismo, di fronte all’uso denigratorio fattone dalla destra (devo ricordare però, che fino a poco fa, tale polemica e tale fraseologia erano moneta corrente anche a sinistra, sia pure con tutt’altre intenzioni e caratteristiche);
    – la conseguente affermazione che in realtà il buonismo non esiste (è una parola creata dalla neolingua del cinismo e del qualunquismo di massa);
    – il ritorno a un conflitto destra/sinistra, in cui destra e sinistra non sono tanto e soltanto categorie o appartenenze politiche ma segnano una tendenziale linea di frontiera tra uomini e no, una linea di alterità rispetto alla barbarie dell’esistente. Voler andare oltre la destra e la sinistra, o non volere essere né di destra né di sinistra, che lo dica il M5S o l’Uomo qualunque o Forza nuova, è sempre stata un’affermazione squisitamente “di destra”.
    È qui che si radica la discussione sul “ritorno del fascismo”. È chiaro che non ritornerà in orbace e camicia nera, come dice giustamente Vercelli. Le sceneggiate nostalgiche sarebbero ridicole se non fossero pericolose, perché rivelano che la destra, ma anche il centro della politica italiana alimentano periodicamente e cronicamente una deriva fascista, pur non avendone uno stretto bisogno perché è vero che oggi l’estrema destra è il liberismo. Ma se lo fanno una ragione c’è. È per questo che il fascismo, soprattutto in Italia, non è mai “finito”, il grembo da cui nacque è sempre fecondo, come dice Brecht e ripete l’Anpi. Chi la pensa diversamente, magari provenendo da studi marxisti (Fusaro, Preve…), dimostra una scarsa conoscenza, a mio avviso, sia delle forme “nuove” di cui si nutre il fascismo (odio per l’altro il diverso lo straniero, odio per la democrazia, direbbe Rancière, ecocidio e distruzione del pianeta, ecc.), sia delle sue costanti come il bisogno di ideologia e di violenza.
    Così come il nuovo comunismo non tornerà certo nelle forme note al nostro immaginario storico. Probabilmente i suoi vagiti sfuggiranno agli stessi che li hanno attesi per secoli. Di qui il compito fortiniano che ci ricorda Ennio: “cercare i nostri eguali osare riconoscerli” anche se verranno come ladri nella notte.

  4. Rispetto all’esaustivo e illuminante intervento di Buffagni mi limito soltanto a porre una domanda. E riguarda la questione del ‘Potere’, che è quello che, in ultima analisi, permette di assumere nelle proprie mani la gestione del ‘giusto mezzo di misura’.
    Clistene (a quanto si sa) potè farlo perché gli fu permesso dal contesto locale e anche perché le frizioni sociali non erano ancora esplose, così come accadde poi nella nostra millenaria storia guidata dall’espansionismo e da una progressiva e spinta pauperizzazione (in tutti i sensi, però mascherata dietro la ‘libertà’ del contratto), iniziata con l’avvento della forma capitalistica di produzione.
    Fra l’altro, una volta, i ricchi erano tenuti a sostenere le spese dello stato, dei suoi armamenti ed esporsi in prima persona nelle battaglie. Oggi, chi ha soldi, se li va a godere alle Maldive e manda alla guerra i poveri meschini.
    Il pensiero filosofico della ‘giusta misura’, della ricerca dell’armonia, percepiva molto di più la preoccupazione legata alla eccessiva (nociva, perché gravida di pericoli) differenza di potenziale che correva tra una parte ed un’altra, l’alto e il basso.
    Non che mancassero le guerre ed i massacri!
    Non siamo buoni o cattivi ma, avendo attinto all’Albero del Bene “E” del Male, siamo questo “E” quello. L’uscita dall’Eden ha implicato esporci a questo conflitto.
    Solo che essere cattivi è più semplice e veloce, vige il principio del ‘mors tua vita mea’ o della legge del taglione: vissuti che fanno capo ad una struttura primordiale che non accetta le regole e i limiti e tantomeno accetta il pensiero che si struttura proprio a partire dal limite, il riconoscimento della perdita dell’onnipotenza.

    A quei tempi erano gli Dei a regolare questi ‘flussi’ e le Erinni, le ‘vendicatrici’ ( prima che queste si trasformassero in Eumenidi, in funzione del poter assolvere il povero Oreste dall’infamante colpa di matricidio!) erano la loro ‘longa manus’ per impedire le uccisioni contro la ‘stirpe’, i vincoli di sangue!

    Il successivo escamotage, che permise di mantenere inalterato questo principio della scarica immediata dell’aggressività, senza filtro alcuno, fu il trovare il ‘capro espiatorio’: “non io, ma l’altro”. Da qui, il passo che porta ad infliggere agli altri i costi del disastro, è brevissimo! Se rado al suolo Hiroshima e Nagasaki non sarà mica colpa mia!? Se l’URSS vuole espandersi nel Sudest asiatico, dovrò pure far capire chi è il più forte! La colpa, dunque, è sempre di qualcun altro!
    E le leggi? La laboriosa storia delle leggi? Il grande conflitto tra la tutela del bene comune e quella dei vincoli parentali? Il povero Creonte (rigido di per suo e anche un po’ pirla, anche se il compito che si trovava per le mani non era certo facile perché si mescolavano troppo i suoi conflitti di interesse con quelli del ‘bene comune’) ci provò ma, a tutt’oggi, la sua nomea non si è certo riabilitata nei confronti della sua antagonista Anti-gone (la ‘nata contro’).
    Ci si trova sempre di fronte ad una ‘Mafia’ che si fa scudo contro le leggi dello Stato, richiamandosi ai vincoli di sangue!

    Ennio si chiede: *Dov’è tutta questa gente che vuole a tutti i costi essere o dimostrarsi “buona”? Non la vedo. Invece (con imbarazzo e allarme) mi accorgo che gente comune e gente pensante coltiva cinismo, scetticismo e indifferenza e gli dà dignità “culturale”. Perché?*

    Perché, come dicevo sopra, non si nasce buoni, e raggiungere questa bontà presuppone entrare in conflitto con l’altra parte, quella che non ne vuole sapere di sacrifici, quella che è allettata dal ‘tutto e subito’. Raggiungere il ‘bene’ (non il buonismo) è l’esito (sempre in procinto di cambiare segno) di un doloroso processo che implica un sacrificio (che non significa, come l’illustrazione posta all’inizio del post, induce a pensare: tagliare il proprio mantello in due come fa San Martino con il mendicante).
    Il sacrificio non attiene al bene materiale, ma va a toccare il proprio narcisismo, anche quello ‘sano’ di protezione della propria esistenza, della propria ‘sacralità’. So che il termine ‘sacro’ fa rizzare i capelli a coloro che lo mescolano con ‘religioso’, ‘mistico’ facendo di tutt’erba un fascio. Non è così. Il ‘sacro attiene alla propria interiorità, alla propria storia, in contrapposizione (non antitetica) con il ‘pro-fano’, ciò che sta fuori, ciò che appare alla vista, il pubblico. Quindi ognuno di noi è un territorio ‘sacro’, che impone dei limiti e dei confini.
    La madre oblativa che trascura se stessa, non insegna nulla al suo bebè se non il fatto che l’offerta è illimitata, un pozzo senza fondo: non sono forse queste anche le sirene ‘capitalistiche’? Si produce, così, la pesante responsabilità di trasmettere un pensiero ‘tossico’: non c’è mai limite alla pretesa di godimento!
    E se quel sacrificio di facciata poi non paga? (Refrain comune: con tutti i sacrifici che ho fatto…..!). Allora diventa più ‘redditizio’ lasciare libero sfogo alla frustrazione e quindi si dà il via alla crudeltà, alla efferatezza!

    Una domanda che mi pongo: perché mai per sollecitare le parti ‘buone’ delle persone c’è bisogno di mostrare foto di bambini emaciati, straziati e morti sulle nostre spiagge? Queste attestazioni, pur sollecitando lo strazio del cuore a chiunque le veda, purtroppo non smuovono di una virgola certe politiche, che si continuano indegnamente a perpetrare con i loro lucri!
    O forse non si tratta soltanto di sollecitare le parti buone, bensì distogliere l’attenzione critica da qualche altra cosa di ben più grave e che continua a passare sotto silenzio. E’ ciò che pur viene fatto trapelare nell’intervento: *la trasformazione che il lavoro sta subendo, ormai da almeno tre decenni a questa parte, con la disintegrazione dei sistema dei diritti. (Vercelli)*. Vi pare poco?

    R.S.

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