Una lettera del 2006 a Michele Ranchetti
di Ennio Abate
Molto si discute in questi giorni di don Lorenzo Milani (ad es. qui). Mi sono ricordato di averne parlato a suo tempo in una lettera a Michele Ranchetti (Cfr. qui), dove tentavo di mettere a fuoco il rapporto don Milani/Fortini (e sullo sfondo quello tra “cattolicesimo eretico” e marxismo critico, altrettanto eretico). La pubblico, scusandomi di non poterla accompagnare dall’articolo di Ranchetti, non reperibile sul Web e che non ritrovo più tra le mie carte. [E. A.]
5 settembre 2006
Caro Michele,
[…] Oggi, di fronte alla tua interpretazione del rapporto tra Fortini e Milani, che ho letto dalla fotocopia dell’Antologia Viesseux (N. 31, gennaio-aprile 2005), ritrovo [una certa tua] ostilità verso Fortini. E cerco di capire, sentendomi chiamato in causa, appunto perché ho/ «abbiamo amato un poeta “fragile”» [1] e un po’ anche – e con riserve non dissimili da quelle di Fortini – il don Milani di «Lettera a una professoressa».
Lo «scontro» (o «sfida») tra i due c’è stato e alla pari: «un intellettuale contro un intellettuale» e non «un penitente di fronte a un confessore» (22), come ben dici; ed io lo trovo leale e istruttivo, specie se calato in quel contesto storico, per cui i due, pur appartenendo a “chiese diverse”, sono stati odiati e ignorati dai funzionari di entrambe e hanno avuto seguaci che, come succede sempre nella storia, hanno usato o mescolato il loro pensiero con bisogni più confusi, ma non trascurabili.
Ad es., credo che tu sottovaluti l’importanza storica della ricezione sociale della «Lettera a una professoressa», delle «mille Barbiane», quando vi contrapponi la convinzione che «il suo testamento avesse ad essere ben altro» (p.18). Quelli, che a te dovettero apparire “scarti” del messaggio milaniano (e che credo pure Fortini tenesse in minor conto), smossero nei partecipanti in vari modi al movimento degli studenti, in buona parte provenienti dal mondo cattolico o in esso formatisi, energie potenti che forse solo *quel* libretto-manifesto poteva *allora* smuovere. Questo sarebbe un altro discorso, più di storia sociale e politica e meno di storia delle idee forse, che però andrebbe fatto.
A te però interessa poco o di meno, credo. E l’analisi del rapporto Fortini-Milani è tutta spostata su un piano che definirei approssimativamente psicologico-ideologico. Su di esso vedo agire (con punte di contraddizioni) sia la lezione psicanalitica, profondamente antideologica, sia il richiamo a «qualcosa d’altro in sé» (p.19), che esito a chiamare piattamente cattolicesimo, ma che da quella tradizione proviene e ti fa sbilanciare decisamente a favore di Milani contro il Fortini *fragile*, “pauroso”, “ex-protestante”, che faticava a «parlare in prima persona», ecc.
Questa mia impressione di fondo la ricavo da vari passaggi del tuo testo, che è acuto e non manca *in superficie* di riconoscimenti verso Fortini. Ad esempio, scrivi che: – di fronte a Milani, Fortini si è “messo in gioco”, esponendo una volta tanto «qualcosa di personale, direi quasi di privato» (p.17); – ha intuito «ben più di quasi tutti i primi commentatori etc.» l’importanza della «contraddizione fra vero e falso, verità e errore»; – non riduce a verità «letteraria» (di minor valore, a tuo avviso, perché «attiene a un ambito particolare», p. 18) quella presente nel libro di Milani (anche se quest’affermazione mi pare contrasti con l’altra: Fortini «non riceve la *Lettera* come un annuncio ma solo come un libro», p. 18).
Ma poi gli tiri un fendente non da poco e sul punto cruciale e che a te sta davvero a cuore. La tua lettura, infatti, stabilisce una netta distinzione: la verità che Fortini coglie in Milani non è «una verità di fede» (sottinteso: quella che conta davvero). Attento anche lui alla «contraddizione fra vero e falso, verità ed errore» e accettando anche lui che «il sapere non è un bene in sé, ma uno strumento», non arriva a dire l’essenziale (per te), e cioè che «il sapere è il sapere di Dio» (p.18). Non è «esplicito al riguardo». Dice soltanto che quella di Milani «è una verità non letteraria» (18), ma non dice che è quella divina. Mi sbaglio?
Ancorandoti a tale fondamentale distinzione, sei portato, secondo me, ad accentuare eccessivamente la contrapposizione tra Fortini e Milani (e, sotto sotto, tra te e Fortini). Il tutto a scapito di certe affinità che, come ho sopra accennato, a me paiono esserci state non solo tra il “prete ribelle” Milani e “l”intellettuale critico” Fortini, ma anche tra il tuo percorso e quello di Fortini. E direi pure nelle tappe finali di questi percorsi: perché,se gli ultimi anni di solitudine di Fortini ti sono apparsi (e anch’io in parte ho avuto questa impressione di fronte a «Composita solvantur») «non confortati che da un rigore impassibile e violento di fronte alla fine della speranza politica e alla propria morte corporale» (Scritti diversi II, p. 235), non dissimili, a quanto mi dicevi durante l’intervista che ti feci nel gennaio 2005 (o aggiungevi in quel tuo intervento al seminario su Paolo a Montegiove), sembrano i tuoi; e forse anche i miei e quelli di altri.
Da questo tuo scritto ricavo però soprattutto l’impressione che Milani, malgrado le contraddizioni messe in evidenza da Fortini, valga più di lui perché «si è iscritto con consapevole e accanito volontarismo» alla tradizione cattolica (22); mentre Fortini, impacciato dalla sua dialettica e dalla sua (iper)cultura, si ritrova a contrastare Milani «con un pugno di conoscenze in mano» e «in preda a sentimenti ed affetti» di nostalgia per quella tradizione religiosa abbandonata o “tradita” per il marxismo.
Ora io mi chiedo (e ti chiedo): perché la “fragilità” di Fortini conterebbe di meno del «consapevole e accanito volontarismo» con cui Milani restò nella tradizione cattolica (22)? Perché quella “fragilità” fortiniana «nell’ambito degli affetti» (che sono disposto a riconoscere) dovrebbe inficiare del tutto quanto lui fece nell’ambito della «ragione», o della cultura o della politica, *malgrado questa “fragilità”* e malgrado la sconfitta della parte (partito) a cui si è a modo suo “iscritto”? (Vedi quanto dico nel mio commento a «Un giorno o l’altro»).
Questa mia supposizione di un eccessivo sbilanciamento tuo a favore di Milani ha per me trovato conferme anche nella lettura dell’intervento che Fortini fece a quel convegno di Firenze del 1980 (pag. 1540 di «Saggi ed epigrammi»). Condivido, ad es., varie sue critiche a Milani: – dove definisce la sua scrittura «premoderna» (1544) e afferma che «non è sfiorata dal sospetto che il linguaggio abbia dei buchi neri o che la scrittura sia sempre a doppia faccia», p. 1549); – quando afferma che sottovalutava la «potenza dei mezzi di manipolazione di massa» (1547), limite che – tra l’altro – Fortini, nel 1980, ammetterà sia stato anche suo. Inoltre in quell’intervento non trovo traccia (ma posso sbagliarmi…) di un’opinione di un certo peso nel tuo scritto e che attribuisci a Fortini: Milani avrebbe agito «come se il cristianesimo fosse vero» (22).
Mi sono posto anche una domanda: cosa seleziona Ranchetti nei due testi di Fortini che esamina? Risposta mia: i riferimenti evangelici (li enumeri uno a uno). Ma la mia impressione è che, invece di esserne contento o di giudicarli una permanenza preziosa anche in un uomo “iperculturalizzato” e passato al marxismo come Fortini, sembri insistere che si tratterebbe quasi di un “trafugamento” di termini dall’ambito religioso ad un ambito “non religioso” (o laico o mondano…). Che è poi – mi verrebbe da dire – quello che hanno fatto tanti anonimi insegnanti della «Lettera a una professoressa» e che io non giudico dannoso. Porti, cioè, all’estremo e all’inconciliabilità la distinzione-contrapposizione tra lingua e cultura di Fortini e lingua e cultura di Milani. La formula fortiniana «rivoluzione-salvezza» è contrapposta a quella milaniana «istruzione-salvezza». Il nesso fra ‘rivoluzione e salvezza’ – sottolinei – è di Fortini non di Milani (19). Certo. Ma la contrapposizione è forse soprattutto tua (non so di Milani).
A me pare che qui tu recalcitri di fronte alla possibilità/eventualità di una commistione fra Vangelo e politica, fra premoderno e moderno, fra discorso di salvezza e rivoluzione, che è stata di un certo marxismo (Ernst Bloch) e pure di Fortini. Di conseguenza Fortini appare come uno che ha “forzato” troppo e malamente il testo di Milani. Vedi, ad esempio, anche il passo riguardante l’arte. Trovi strano il modo di Fortini di considerare «equivalenti o interscambiabili» termini come amore, odio, salvezza, rivoluzione, verità, così «disconoscendo le tavole della legge» [!].
Qui io arretro intimidito. Le «tavole della legge» mi fanno paura; e il discorso m’imbarazza. Non saprei da dove cominciarlo. Mi fermo cautamente alla mia impressione, per quel che conta: che sei tutto dalla parte di Milani, che ti pare «più semplice… più tradizionale», più portato al «ripristino della lettera contro l’interpretazione» (20).
Non so quanto la mia interpretazione sia azzeccata, perché nel tuo testo ho trovato anche passi che non sono riuscito a capire. Ma mi viene di accostarlo ad una nota che scrisse Giorgio Bouchard in un librettino che editammo a Cologno nel dicembre 1996 per commemorare Fortini. Ricordando l’incontro del giovane Fortini con il valdese Tullio Vinay a Firenze diceva: «Per Fortini questo episodio evangelico è stato solo un momento di transito verso quel marxismo emancipatorio a cui dedicherà tanta passione, e in cui incontrerà, anche, qualche, delusione. E tuttavia, nella scrittura di Franco Fortini resteranno sempre tracce del linguaggio evangelico appreso in quegli anni […] Personalmente, pur militando nella sinistra, non ho mai condiviso l’idea di Fortini (e di qualcun altro) che il messaggio cristiano potesse perdere la sua radicale alterità per risolversi e dissolversi nel linguaggio – e nella prassi – d’una rivoluzione un poco mitizzata» (pag. 12 «Se tu vorrai sapere.Testimonanze per Franco Fortini», Comune di Cologno Monzese, 1996).
Ecco, qui mi pare detto in modo limpido quello che tu fai intendere ma non dichiari apertamente: che il marxismo di Fortini, la sua scelta di commistione, ti risulta ostica, come lo era per Bouchard. Scusami se ho tagliato con l’accetta.
Un affettuoso saluto
Ennio
Nota
[1] Titolo di alcuni miei versi inviati a Ranchetti dopo aver partecipato a una commemorazione di Fortini all’Università di Siena nel dicembre 1995.
APPENDICE
Pubblico oggi – 2 ottobre 2024 – lo scritto di Michele Ranchetti citato all’inizio dell’articolo e che nel 2017 non ritrovavo tra le mie carte [E. A.]
A) Da Michele Ranchetti a Ennio Abate (5 settembre 2005)
Ti mando il primo dei due scritti su Fortini, letto a Siena. L’altro appena lo ritrovo oppure quando sarà edito dal Gabinetto Vieussieux dove c’è stato un piccolo convegno e figurerà agli atti.
Antologia Vieusseux N. 31, gennaio-aprile 2005
1917-1941 “Nella città nemica” Fortini a Firenze – Atti della Giornata di Studi, 18 novembre 2004
1) Ho conosciuto Fortini a Ivrea, in un tempo che mi pare lontanissimo. Ma era in visita, non faceva più parte della colonia intellettuale, viveva già a Milano. Credo fosse in occasione della visita di Rocco Scotellaro.Di queste cose, persone e tempi vi è una poesia di Sereni. Ripensando ad allora,e quindi contrapponendo quésto presente (il mio e il nostro), a quel tempo,mi sembra che si trattasse di falsi problemi, di false connessioni, di intrecci da comprendere e da sciogliere, di cui non vedo più traccia. Io lavoravo alla segreteria delle Relazioni Interne, di cui era responsabile Franco Momigliano.Allora, il contrasto, di cui si discuteva, era fra i Servizi sociali (la nuova forma di intervento sulla fabbrica distinta e opposta ai conflitti di classe) e la struttura tradizionale,ossia le rappresentanze sindacali distinte nei tre raggruppamenti tradizionali. Veniva vissuto e contrastato o auspicato, questo contrasto, come se in esso si manifestasse una differenza non più sanabile fra vecchio e nuovo, fra ideologia e sociologia ‘neutrale’, fra America ed Europa, fra prima della guerra e dopoguerra. Se ne discuteva tutto il giorno, nelle pause lunghissime del dopopranzo e del dopocena, prima di andare a sentire una conferenza di un intellettuale o di un poeta chiamato da Geno Pampaloni a parlare nella saletta dell Biblioteca di fabbrica. Ma anche la conferenza o la poesia diventavano poi parte della discussione, venivano fatti confluire nell’argomento del contrasto insanabile, e cosi via. Non era un giro a vuoto, ma una strana ossessione monotematica da cui era difficile e insensato districarsi .Naturalmente, l’appartenenza al partito, e soprattutto le ragioni e la necessità di non appartenervi erano elementi costanti del discutere; grosso modo, prevaleva la ‘fronda’ socialista in cui quasi tutti si riconoscevano.
2)Fortini, mi pare di ricordare, prendeva tutto questo ‘ragionare’ molto sul serio, si infervorava, formulava giudizi definitivi, come se ogni volta,si trattasse di questioni di vita e di morte. Ed era del tutto persuaso, mi sembra, della rilevanza di ogni frase, senza sospettare limiti e velleità individuali e collettivi. Faceva sul serio,credeva davvero a quel che diceva lui stesso, forse in modo prevalente, ma anche in quello che diceva a ciascuno di noi. In me, questo destava un certo imbarazzo, come di una sproporzione originaria e non avvertita, fra il senso del discutere fra singoli intellettuali, in situazione privilegiata e marginale, e ‘il resto’, anche se non mi era chiaro il perché della sproporzione, e il ‘carattere’ di questo ‘resto’ ,che pure percepivo esistente e più forte di noi.
3) Fortini volle leggere le mie poesie. Le lesse, le prese in mano con una padronanza assoluta, come di un maestro d’arte che esamina il prodotto di un aspirante artigiano. E anche qui,in una materia per me allora così privata e segreta, io mi accorsi di quanto fossero rilevanti, per lui, tutte le cose, direi tutte le forme dell’esperienza del vivere: lo scrivere, il discutere, le amicizie, i mestieri, le appartenenze, in un certo senso senza discrimine, perchè non c’è nulla che non abbia importanza e significato. Soprattutto, non c’è nulla di cui non si debba rendere conto. Ma il suo, cosi almeno mi pare, ora più che allora, non era un giudizio estetico, neppure un giudizio morale o un giudizio politico. Tanto meno, un giudizio religioso: era una sorta di giudizio universale privato che comprendeva tutti gli elementi, dove il bene e il male appartenevano a una sfera estetica, cosi come alla sfera morale, per cui una poesia non poteva in un certo senso essere bella, se non era anche buona o giusta.
4)Questo ‘giudizio’, che incombeva su ogni sua frase e ogni suo atto, di vita e di pensiero, poteva dar fastidio.In particolare,. quando sembrava riguardare, o esercitarsi, su questioni marginali, che però per lui non erano tali, non potevano essere indifferenti, nell’universo di responsabilità individuali in cui si vive.Del resto, era generoso, e si prendeva davvero a cuore le sorti degli altri.Sorti che, anch’esse, erano di natura composita, letterarie, politiche, affettive.Ed interveniva di persona. Conosco, a questo riguardo, alcuni episodi che testimoniano della sua grande generosità.Perchè si riproponeva il meglio da sè e dagli altri, come se si potesse disporre, ciascuno e tutti, di una perfettibilità infinita.
5) Tuttavia, a che cosa mai potesse condurre questa perfettibilità, è difficile dire, perchè ‘composita solvantur’, ma non si compongono, se non in un disegno preciso che assegna a ciascuna parte il suo limite e, direi, la sua competenza, secondo categorie non arbitrarie.
6) E qui, a me sembra, si rivela un carattere del modo di procedere intellettuale di Fortini che può rivolgersi contro di lui, o meglio, contro la possibilità di giovarsi della, sua intelligenza, della sua straordinaria sensibilità critica, del suo stesso rigore morale. E’ una sorta di rivolta dei generi, o della loro rivincita.
7)Fortini è intervenuto più nella discussione, che nelle premesse, ha esaminato le conseguenze più dei presupposti, ha discusso le opere nell’ambito della critica, anzi ha discusso soprattutto la critica. E’ come se fosse stato più attento alla riproduzione che all’originale, intervenendo nel secondo tempo della produzione, attenendosi ai risultati. C’ è come una certa reticenza, o almeno mi sembra, che si rileva, ad esempio, nei suoi diari , dove non è quasi traccia di una riflessione che non abbia note di conferma storica o bibliografica, che sia senza testo a fronte, che attesti un’emozione non mediata da un’eccezionale cultura. Per questo, la presenza costante di un riferimento, di un’occasione, sembrano imprigionare la sua prosa così consapevole in una cronaca minore, nel confronto con fatti minori, non più recuperabili ad un interesse più generale. Vi è, nei diari, ma anche nelle lettere, un accanimento critico che non si apre quasi mai ad un’esclamazione libera dell’io, che appare ritroso a scoprirsi, ad esporsi.
8) Era in gran parte così anche della persona, che escludeva ogni confidenza non destinata ad un fine.Ed è peccato, perchè la sua reticenza non era affatto dovuta ad un’aridità emotiva o ad un qualche scheletro in biblioteca.E neppure, credo, ad una sua conversione al protestantsimo senza confessione di fede. Piuttosto, forse, ad una concezione della cultura come dignità hominis di tradizione umanistica, del tutto obsoleta e fastidiosa, in tempi di disperazione e disordine.
9) E’ possibile che si sia data una forte accelerazione tecnologica negli ultimi decenni, per cui,come non è più possibile percorrere distanze brevi con i mezzi pubblici e privati in tempo breve, mentre é possibile raggiungere luoghi lontanissimi in poche ore, cosìalcuni temi e alcuni modi di raggiungerli non sembrano più avere significato, particolari”di un insieme che non ha più corso.Ad esempio, la cultura dei gruppi, la cosiddetta industria culturale su cui l’intelligenza di Fortini, si è così a lungo esercitata, sono o sembrano di fatto lontanissimi echi di luoghi non più abitati. Un altro esempio: la consulenza editoriale, ma anche la consulenza politica e in genere intellettuale, se non è diretta ad un fine preciso di perfezionamento dell’efficenza produttiva.E’ forse per questa ragione che, del resto, Fortini ha previsto, che il suo compito può sembrare esaurito. Ma anche questo è un interrogativo che risente del suo insegnamento.
Che argomento estrarre, come lettrice, da questa lettera di Abate a Ranchetti (di 11 anni fa) su: 1 Fortini versus Milani; 2 Ranchetti vs Fortini; 3 Ranchetti e Milani?
La lettera di 11 anni fa è presentata senza il necessario corredo, l’articolo di Ranchetti del 2005, che aiuterebbe a inquadrarla in un doppio passaggio di storia delle idee, cioè in quel rimeditare gli anni intorno al ’68 che negli anni 2005 e 2006, anche con questa lettera e con l’articolo di Ranchetti su Fortini e Milani, si stava compiendo.
Di questo doppio passaggio Abate ci lascia la sua nuda lettera, in realtà un nudo messaggio: riguardo la “possibilità/eventualità di una commistione fra Vangelo e politica, fra premoderno e moderno, fra discorso di salvezza e rivoluzione, che è stata di un certo marxismo (Ernst Bloch) e pure di Fortini”.
La sintesi dei 40 anni ’67-2017 offerta dalla ripubblicazione della lettera di Abate sarebbe dunque: il cielo riportato realisticamente nella realizzazione operosa e razionale tra gli uomini, il nesso rivoluzione-salvezza, si vuole dimostrare impossibile, per ritornare alla scissione tra religione e ragione, tra mistero e ipercultura. Con le parole di Giorgio Bouchard (in un libretto che commemorava Fortini nel dicembre 1996): “Personalmente, pur militando nella sinistra, non ho mai condiviso l’idea di Fortini (e di qualcun altro) che il messaggio cristiano potesse perdere la sua radicale alterità per risolversi e dissolversi nel linguaggio – e nella prassi – d’una rivoluzione un poco mitizzata”.
La mia visione oggi è che sì, qui di nuovo si ritorna, dato che il disegno illuminista di annullare l’esistenza stessa di un rapporto tra il cielo e la storia ha avuto come suo legittimo erede il globalismo neoliberista.
Ma quel ritorno all’incommensurabile nesso cielo-storia comporta un grave rischio interno, perché si può configurare come immanenza o come scissione. Vale a dire: la storia sostenuta dall’operare in essa con materna e diuturna cura dello spirito, o della sapienza, o la storia come lacerante rottura quotidiana e dissidio permanente tra i pochi autoeletti a un cielo riservato, e tutti gli altri?
“…Il tutto a scapito di certe affinità che, come ho sempre accennato paiono esserci state…”(Ennio Abate), riferendosi alle due figure di Don Milani e di F. Fortini. Credo che sia giusto infatti ricercare soprattutto quelle, le affinità, quando si fa un confronto tra persone a cui si attribuisce il merito di una giusta ricerca, ma mossa, agita, sentita su piani diversi…Ricordo che lessi “Lettera ad una professoressa ” quasi contemporaneamente a “La scuola di Jasnaja Poljana” di Leone Tolstoj, due testi scritti alla distanza di un secolo, in due contesti simili, ma anche diversi e ravvisai diverse affinità tra gli intenti e persino i metodi educativi che animarono i due maestri, entrambi desiderosi di fornire un insegnamento adeguato ai figli delle classi più disagiate, valorizzando anche la cultura contadina.Infine “Chi insegna chi” diceva Tolstoj
“Lettera ad una professoressa” è stato un testo fondamentale nella mia formazione personale e politica. Conservo ancora l’edizione della LEF del 1974, anche se poi una lettura consapevole ricordo di averla fatta intorno al 1977 poco più che sedicenne. Sicuramente se non avessi incontrato quel testo oggi sarei una persona diversa e probabilmente diverso sarebbe stato anche il mio percorso di vita personale e politico. Penso che sia vero che quella lettera ispirò, consapevolmente o meno, le proteste che in ambito scolastico e universitario caratterizzarono il 1968 e tanti movimenti “eretici”, sia in ambito cattolico che nella sinistra marxista, degli anni successivi ma anche l’azione dei movimenti più vari, dai movimenti nonviolenti, per la pace, ecologisti, del volontariato, le scuole popolari ecc…. e in mezzo a questi anche la mia piccola esperienza.
Mi piace pensare che tra quella lettura e quello che sono ora a distanza di quasi 40 anni ci sia ancora un filo, un collegamento che unisce. In particolare il passaggio che in qualche modo mi “illuminò”, in una prospettiva laica, e al quale ancora attingo è quello che parla della ricerca da cui nessuno può sottrarsi almeno per un momento nella vita: quella di un fine, di un senso da dare alla propria esperienza.
“Cercasi un fine. Bisogna che il fine sia onesto. Grande. Che non presupponga nel ragazzo null’altro che essere uomo. Cioè che vada bene per credenti e atei (…) Il fine giusto è dedicarsi al prossimo. E in questo secolo come lei vuole amare se non con la politica o col sindacato o con la scuola? Siamo sovrani. Non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali”
In questo breve testo vi sono contenuti tre elementi fondamentali sui quali continuo ad interrogarmi:
1. Non distogliere mai lo sguardo dalla persona che hai accanto, dalla sua concretezza, dal suo bisogno, dalla relazione che ha con te e che per questo non cessa mai di essere un fine e non uno strumento per qualche cosa di altro: una salvezza eterna, una ideologia da fare funzionare a prescindere;
2. la relazione individuale da sola non basta, siamo in una rete di strutture, istituzioni, rapporti economici e di forze contrapposte. La possibile via di uscita è solo la politica. Con quali strumenti oggi? Sinceramente non lo so e mi chiedo ogni giorno se quello che proponeva don Milani allora continui ad avere un senso. Credo però che si debbano fare i conti con i limiti degli strumenti reali a disposizione oggi, piuttosto che con le perfezioni ideali a cui manca esistenza e concretezza quotidiana. Ancora da “lettera ad una professoressa”: “…il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”;
3. infine sapere essere contro, alimentare il pensiero critico, mettere in discussione se stessi e la realtà che ci circonda da una posizione rigorosa, disciplinata e moralmente integra. Tutte parole estranee al populismo dilagante e a chi gli fa il verso, ma che in don Milani trovavano una sintesi di cui oggi non vedo traccia.
La recente visita di Papa Francesco a Barbiana ha ovviamente riabilitato in ambito cattolico la sua opera assunta ora a modello di come essere Chiesa. In ambito laico le iniziative che hanno ricordato quest’anniversario sono state molto poche e questo credo sia un errore. Il tema fondamentale di don Milani è la capacità di calarsi senza mediazioni nella parte più debole e emarginata della società e dal quel punto di vista analizzarla e prendere parte alla vita politica in modo rigoroso, diverso dal “malpancismo” in cui prospera il populismo contemporaneo.
Qualsiasi presa di posizione in don Milani non si riduceva ad un atto di fede o ideologico. Buona parte di “Lettera ad una professoressa” è dedicata ad una analisi dettagliata della popolazione scolastica di allora ed ai flussi che la attraversavano e alla selezione che ne derivava all’interno di una società classista. E’ evidente che oggi siamo in un contesto diverso, nel quale soprattutto l’accessibilità alla conoscenza è esponenzialmente aumentata. Non per questo la politica si fonda più di allora su questo metodo analitico e oggettivo che dovrebbe essere alla base di ogni programma di governo della cosa pubblica. La semplificazione sembra essere invece la cifra distintiva dei nostri tempi e per questo credo che una riflessione a “sinistra”, o in ambito sindacale, non formale su “lettera ad una professoressa” sarebbe opportuna.
NOTA
Ho copiato oggi – 2 ottobre 2024 – nell’Appendice di questo articolo lo scritto di Michele Ranchetti citato nel 2017 ma che non ritrovavo tra le mie carte .