Dialogando con il Tonto (18)
di Giulio Toffoli
“Sai – mi dice il Tonto mentre siamo seduti al solito caffè – ieri ho fatto un sogno incredibile. Mi è quasi parso di rivivere un pezzo della mia giovinezza. Ho vissuto uno straordinario stato di tensione come mai prima. Stavo per uscirne pazzo”.
Visto che è noto che il Tonto è un tipo originale, altrimenti perché lo avremmo chiamato così?, ma poi alla fin fine è una persona di buon senso, mi sono preoccupato e gli ho chiesto, cercando di prenderla con un tono scherzoso: “Ma diavolo, alla fin fine è stato solo un sogno …”.
“Lo dici tu … Io ero lì …”
“Ma lì dove?” mi son permesso di aggiungere visto che continuava a parlare in modo concitato.
“Vabbè, allora ti racconto tutto dall’inizio.
Mi sembrava di essere tornato indietro di più di quarant’anni o forse no. In ogni caso ero giovane, pieno di speranze e deciso ad affermarmi. Avevo appena finito le scuole alla bell’e meglio e certo non volevo continuare ad affaticarmi sulla carta stampata …
In casa non c’erano gran soldi e noi vivevamo in una provincia che non offriva particolari prospettive. Allora mi sono seduto sul letto con fra le mani una carta geografica. Che fare? Stare a vivacchiare facendo un lavoro di quelli normali, con uno stipendio risicato, con la prospettiva di una carriera quasi nulla, per finire poi a incasellarmi nella tradizionale famiglia con i soliti eterni problemi di far quadrare un bilancio che non quadra mai e avviarmi così, senza prospettive, verso una triste maturità segnata dalla ripetizione all’infinito di riti che non mi dicono nulla, fino a giungere nell’ultima casella di questo triste gioco dell’oca, quella di una pensione più o meno di fame in attesa della rottamazione, richiesta a gran voce dalle istituzioni statali stufe di mantenermi a non far nulla senza potermi vedere produrre quel surplus che ha rappresentato l’unica ragione per cui sono stato tenuto in vita?
No e poi no. Sentivo dentro di me una volontà di potenza, un élan vital che mi spingevano ad abbandonare casa e famiglia.
Basta! Il mondo mi attendeva. Non ci raccontano ogni giorno che siamo liberi? Che «volere è potere»? Non è forse vero che ci sbandierano ogni giorno davanti agli occhi quelli che, in un modo o nell’altro, in quattro e quattr’otto passano dalla nera miseria alla più incedibile ricchezza. Anch’io dovevo essere uno di questi.
In qualche modo mi ero anche preparato. Avevo negli ultimi anni di scuola fatto palestra quasi ogni giorno e presentavo tutte quelle caratteristiche che corrispondono a un maschio moderno: alto, slanciato, spalle ben strutturate, bicipiti e muscoli «comme il faut», una certa attenzione al mio aspetto e un abbigliamento studiato per fare colpo. Non solo; avevo partecipato a qualche gara canora, non perché avessi una qualche caratteristica particolare, non sono più che intonato, ma per confrontarmi con il pubblico. Infine, su consiglio di un amico, avevo seguito perfino un corso di recitazione.
Infatti mi aveva colpito l’ultimo anno di scuola, quando un mio professore aveva ricordato una frase di Benito Mussolini: “La cinematografia è un’arma potente”. Potente sì, ma anche una industria che produce ricchezza in una quantità impressionante.
Quale miglior professione mi sono allora chiesto se non quella dell’attore?
Per prepararmi ho iniziato ad andare al cinema giorno dopo giorno. Poi ogni tanto ci portavo qualche compagna di scuola e mentre guardavamo i film e vedevamo gli attori che si baciavano, ci esercitavamo a ripetere quello che avveniva sullo schermo. Mi capitava spesso di scoprire che la mia partner entrava proprio nella parte senza rendersi conto che per me era solo una prova, un esercizio, un apprendistato.
Cosa c’è di meglio per un principiante se non cercare di copiare coloro che lo fanno di mestiere?
Alla fine mi sono sentito pronto ed ho deciso di partire.
Ero proprio lì sul mio letto che guardavo la carta geografica alla ricerca della meta dove avrei incontrato la Settima Musa. D’un lato guardavo la carta e dall’altro con la coda dell’occhio sbirciavo il mucchietto di biglietti di banca che avrebbero dovuto consentirmi di fare il viaggio e tirare avanti nei primi giorni in attesa di trovare la mia occasione.
Andare nei soliti luoghi, le cosiddette mecche del cinema, dove tutto è già ampiamente organizzato e strutturato in modo rigido non mi sembrava una grande idea. Troppa concorrenza, i giochi sono già in gran parte fatti e anche se il mondo del cinema è una macchina spietata che ha bisogno e utilizza sempre forze nuove, lasciandole poi al bordo della strada, nella maggior parte come merce avariata, non è una bella prospettiva dover cercare di farsi spazio a suon di spintoni fra un mare di altri muscolosi, come e più di me, disposti a tutto pur di emergere.
Perciò niente Hollywood, niente Bollywood o cose del genere.
Avevo sentito però parlare di un nuovo possibile palcoscenico in uno staterello che, per trovare un suo spazio nel mondo, aveva deciso di gettare una parte cospicua delle sue rendite nel settore della cinematografia: Scratlantis.
Allora mi sono detto: “Vada per Scratlantis …”.
Ho acquistato il biglietto solo andata e sono partito in volo.
Scratlandis è davvero un piccolo stato, minuscolo addirittura, di quelli nuovi nati negli ultimi decenni del XX secolo, che ha trovato nella coltivazione delle nocciole, proprio quelle che vengono usate per fare la Nutella, la vera e propria colonna della sua economia.
Quando sono sbarcato mi sono trovato in un aeroporto di dimensioni lillipuziane, con ben pochi voli che legavano la capitale con il resto del mondo. Io e una manciata di altri viaggiatori, per la più parte turisti e qualche imprenditore, siamo stati accolti con grande cortesia.
Son salito su un mezzo che mi hanno assicurato essere un taxi e in inglese ho indicato la mia meta: «Hotel Lux». Appena ha sentito la parola il taxista è partito sgommando verso il centro. Le strade erano quasi tutte sgombre, pochi, davvero pochi e per la più parte male in arnese, erano i mezzi in movimento e così siamo arrivati in men che non si dica a destinazione.
Ho pagato la corsa e ho lasciato al taxista una mancia abbastanza sostanziosa, poi sono entrato nell’hotel.
Alla reception c’era un giovane che con un buon inglese mi ha salutato e dopo avermi detto il numero della camera mi ha passato una busta.
Salito in camera, un locale piuttosto ampio che dava sulla strada principale, ho appoggiato le valigie e mi sono seduto sul letto aprendo la busta. Ero curioso. All’interno un semplice foglio con un invito che più o meno diceva così:
“A questa sera verso le 20.00 nella hall. Nat”.
Ho subito pensato al mio agente. In effetti, nei mesi prima di partire avevo scritto un poco di lettere a destra e a manca nel tentativo di trovare un ingaggio e proprio da questo piccolo stato era giunta l’unica offerta che mi era sembrata degna di una qualche attenzione. Non è che la lettera dicesse molto. Più o meno mi invitava a venire dicendo che non era improbabile che mi venisse assegnata una piccola parte. Per i particolari si sarebbe poi discusso con calma.
Così, dopo essermi un poco riposato, mi sono preparato mettendomi il mio vestito migliore, camicia bianca, papillon nero e mi sono dato un’ultima occhiata nello specchio.
«Ok, il mio nome non è Bond, James Bond, ma certo non sfiguro …» e così sono sceso.
La hall mi era sembrata di primo acchito deserta. Stavo avviandomi verso il bar quando ho visto alzarsi da una poltrona una signora vestita di un tailleur nero, un viso luminoso e accattivante con due grandi occhi neri, si muoveva come una pantera delle nevi. Credendo di aver capito, mi sono diretto verso di lei.
In effetti mi ha apostrofato in un perfetto inglese:
«Certamente lei è il signor E. M. Benvenuto!».
Che fare? Mi sono avvicinato e le ho baciato la mano.
Mi ha sorriso e poi ha aggiunto: «Sono Natascia S. ma lei mi chiami pure Nat.».
Allora ho scoperto che il mio agente, quello che avrebbe dovuto aprirmi le porte del magico regno della cinematografia di Scratlandis era una donna. Io avevo letto che in genere in questo settore tutti i posti chiave sono occupati da uomini. Le donne erano nel migliore dei casi delle dark lady. Ma evidentemente questa regola non valeva in questa realtà. Come ho poi scoperto un poco alla volta, nel piccolo mondo di Scratlandis l’industria della cinematografia è di dominio quasi esclusivo delle donne.
Nat senza aspettare un minuto di più mi ha preso sotto braccio e, portandomi verso la porta, ha iniziato a dire: «Tu certamente non sai nulla del nostro piccolo paese e il tempo è tiranno. Per cui converrà che si vada a fare un bel pranzetto di lavoro. Ti spiegherò quali sono le tue possibilità e cosa ti si prospetta. Stammi accanto».
Dal trono della mia ignoranza mi sono lasciato trascinare senza profferire verbo.
All’ingresso era pronto un taxi che ci ha portati al ristorante Nartaa. Un buon ristorante, ma nulla di speciale; come ho scoperto più tardi anche l’accoglienza dei turisti non era delle più raffinate. Ci hanno fatto sedere e porto un menù che era rigorosamente in lingua locale, una cosa che sembrava una serie di ghirigori. Io ero lì un poco senza parole quando ho sentito la mia accompagnatrice fare le ordinazioni. Poi ha aggiunto: «Visto che tu non conosci la nostra lingua mi sono permessa di ordinare per due. Si tratta di cibo semplice, ricette locali, nulla di particolare, ma d’altronde siamo qui per lavorare …»
Ci hanno portato un piatto di una strana pietanza che sembrava una pasta e poi una porzione di carne alla strogonoff con melanzane e noci e una bottiglia di vino rosso.
Mentre mangiavamo la mia accompagnatrice ha iniziato a decantare le bellezze della città e le potenzialità della sua giovane nazione. Mi ha fornito un quadro delle difficoltà che avrei incontrato ma anche delle possibilità di lavoro che mi si schiudevano di fronte.
Mentre parlavamo sono andate via, una dopo l’altra, due bottiglie di vino; io ero un attimo imbarazzato, e facevo sempre più fatica a seguirla. Lei invece sembrava del tutto adusa a bere ed era lucidissima.
Poi mi ha parlato della sua vita privata, della famiglia, dei figli, del fatto che era profondamente religiosa e che in Scratlandis vi era uno strano miscuglio fra una tendenza al riconoscimento di una ampia libertà individuale e un forte rispetto dei valori tradizionali.
Mentre mi parlava di queste cose e stavamo per assaggiare uno dei dolci locali, con accompagnamento di una grappa alla frutta del luogo, ha iniziato ad avvicinare la sua mano alla mia. Con un gioco che è durato per qualche minuto lei cercava di prendermi la mano, io non sapevo che fare e mi chiedevo:
“E’ opportuno o inopportuno che io accetti di toccare le sue dita affusolate, di stringere la sua mano?
Come viene letto in questo paese un segno del genere?
Non è che qualcuno ci vede e domani finiamo su Facebook?
Ma se non sto al gioco che succede …”.
Mentre ragionavo intorno a un problema di tanto spessore, pensando alle future possibili accuse di maschilismo che potevano cadermi sulla testa, le cose sono andate da sé; e quello stringerci la mano in una specie di strana complicità ha creato un clima di maggiore intimità. Le ho raccontato un poco della mia vita, che d’altronde non è che fosse granché ricca di episodi da riferire; e così abbiamo fatto tardi.
Avendo scolato una serie di bicchierini di grappa eravamo un attimo alticci, io certo più di lei; e, pagato il conto, siamo usciti.
Allora mi ha detto: «Abbiamo bevuto abbastanza, forse per smaltire ci conviene fare due passi. D’altronde il tuo hotel non è particolarmente distante». Così ci siamo avviati abbracciati verso la meta.
Giunti davanti all’hotel mi sono permesso di dire: «Le faccio chiamare un taxi …».
Non l’avessi mai fatto, mi ha guardato con aria di rimprovero e ha aggiunto:
«Una signora che è stata con te fino ad ora e tu non la inviti su in camera …»
Io invero avevo la testa un poco fra le nuvole e una certa stanchezza, poi credevo di aver trattenuto di tutto il discorso che mi aveva fatto una sola cosa ben chiara; ovvero che in quel paese il rispetto dei valori tradizionali aveva un peso notevole e non mi sembrava che invitare una signora sposata in camera fosse particolarmente rispettoso di quelle regole. Però che potevo farci. Mi ha preso per mano e siamo entrati.
Mi sono fatto dare la chiave e siamo giunti in camera.
Nat è entrata e, come se fosse ben esperta di queste situazioni, si è avvicinata a una radio e l’ha accesa. Ha iniziato a diffondersi un programma di musica occidentale, si è tolta la giacca, poi ha cominciato a stringermi e a ballare.
Che fare? L’ho seguita e mentre ci muovevamo, stretti stretti, si strusciava con particolare vigore sulle mie parti basse. Come è inevitabile c’è stata una reazione; e allora si è fermata e ha detto, lasciandomi letteralmente di stucco:
«Allora è vero che sei ben fornito … potrai certo interessare al nostro pubblico».
Si è allontanata, mi ha lanciato un sorriso e ha concluso con un: «Ci vediamo domani verso le 10.30 giù nella hall. Ciao e buon riposo». Sbattendo poi la porta alle spalle.
Che dire, ero lì che mi chiedevo: «Il mio sarà stato un comportamento appropriato o inappropriato?».
Quando mi sono ricordato di un mio professore, un personaggio strano, che eravamo convinti passasse le sue ore a prenderci per i fondelli e che dimostrava in modo mirabile che non c’è effetto senza causa e che questo è il migliore dei mondi possibili.
Mi sembrava di sentirlo dire: «E’ dimostrato che le cose non possono essere diversamente: perché tutto è stato creato per un fine, tutto è necessariamente per il migliore dei fini. Non è forse vero che il naso è stato creato per potervi posizionare gli occhiali? Non è forse vero che la tua poca attitudine allo studio era necessaria perché tu ti cercassi un’altra professione, che questa ricerca ti doveva portare a sviluppare i tuoi muscoli, e i tuoi muscoli ti dovevano aprire la via verso la recitazione, che ti ha portato qui a Scratlandis, dove hai incontrato una manager che ti ha toccato la mano e verificato che tu abbia le qualità perché possa eccellere nella tua nuova professione? Insomma, quelli che affermano che tutto va bene affermano una sciocchezza: bisogna dire che tutto va nel migliore dei modi».
Che dire, forse è una logica rigorosa, ma rimaneva il mio dubbio amletico: «I gesti e le parole che abbiamo speso in quella cena sono stati appropriati o inappropriati?».
Incapace di dormire ho deciso di scendere nella hall e invece che prendere l’ascensore sono disceso lungo le scale. Ad un certo punto ho sentito dei lamenti. Mi sembrava venissero dalla zona bar. Mi sono lentamente avvicinato e ho visto il portiere di notte che stava impartendo una lezione di fisica sperimentale ad una giovane ed avvenente cameriera. Lei sembrava seguire la lezione con grande attenzione e trasporto.
Allora mi sono fermato e ho atteso dicendo fra me e me: «Vedi che aveva ragione il mio professore! Come non vedere che anche qui come ovunque vige il principio di ragion sufficiente per cui a una causa corrisponde un necessario effetto … e tutto va come è scritto. Questo è il migliore dei mondi possibili».
Quella visione mi aveva acquietato, sono tornato in stanza senza interrompere la lezione che vedeva maestro e allieva così intimamente uniti, e mi sono rapidamente addormentato.
La mattina dopo ero in gran forma. All’ora concordata vedo arrivare la Nat più in forma che mai in versione strettamente professionale che mi dice: «Oggi ti porto a visitare i nostri studi di produzione e poi abbiamo un appuntamento con il produttore che ha dimostrato interesse per te. Comportati con la massima professionalità!»
Io, che non so se prenderlo come un consiglio o una velata critica, annuisco, mostrandomi particolarmente compito. Saliamo sul taxi e senza dire una parola facciamo un lungo giro fermandoci in periferia, che nel caso in questione vuol dire proprio in aperta campagna.
Di fronte a noi si stagliano alcuni capannoni, che detto con franchezza sembravano anche male in arnese.
Poi, quando entriamo, è come se si realizzasse un passaggio magico. Tutto è in ordine, gente che lavora e un set in pieno assetto con un’intera troupe che si muove con precisione come se fosse un esercito di quelli antichi sul campo di battaglia.
Nat a bassa voce mi parla del film che è in produzione e mi offre tutta una serie di informazioni, mentre io non posso che dichiarami meravigliato per la qualità del lavoro che viene svolto.
Infine ci dirigiamo verso un palazzotto dove hanno sede gli uffici delle diverse case di produzione. L’edificio non è certo dei più recenti, un poco rabberciato, nulla da spartire con l’immagine che ci siamo fatti degli uffici delle grandi case cinematografiche. E’ evidente che si tratta di una fase pionieristica con tutti i suoi pregi e i suoi limiti.
Dopo aver girato per vari locali finiamo davanti a un ufficio in quella che sembra una piccola sala d’aspetto. Ci siamo seduti e dopo un poco la mia accompagnatrice mi dice: «Ora entro, tu attendi fino a che verrai chiamato …».
Così ho atteso una buona mezz’ora. Infine si è aperta di fronte a me una porta che aveva le potenzialità di avviarmi verso la carriera cinematografica oppure segnare la mia sconfitta e un ritorno inglorioso a casa.
Entro in una ampio locale che in qualche misura costituisce una copia di quelli classici dei dirigenti, come lo abbiamo sempre immaginato, con un grande tavolo presidenziale, alle pareti alcuni quadri e alle spalle una finestra che invece che dare sui grattaceli di una grande città dà su dei campi e sullo sfondo una montagna verde. Seduta dietro quel tavolo presidenziale una donna intorno ai trentacinque, capelli corti, un abito di taglio quasi maschile, viso ovale, un paio di occhiali scuri, di quelli oggi di moda, con una montatura leggera ma piuttosto grande, nera, che ha la finalità di esaltare il colore degli occhi di un verde intenso.
La guardo affascinato e un poco abbacinato.
Mi avvicino e con fare compito saluto. La mia agente Nat è già seduta su una comoda poltrona e vengo invitato a prendere posto accanto a lei. Mi siedo un poco a disagio, ma faccio di tutto per non farlo apparire.
Nat inizia a dire: «Ecco, ho il piacere di presentarti Mary, che è il produttore del nostro film. Ovviamente se troviamo un ampio terreno d’accordo. Con lei abbiamo studiato il progetto e crediamo che si possa fare».
«In effetti – inizia a parlare Mary con una voce suadente ma anche con una qualche inflessione autoritaria – abbiamo da tempo studiato un soggetto che forse ora riusciamo a portare a in porto. Si tratta di una storia di quelle che vanno oggi, di eroi o forse meglio dire di supereroi. Meglio ancora, il nostro tentativo è di mettere insieme tradizione e modernità. La tradizione è quella della mitologia del nostro mondo, della nostra terra, e la modernità è invece quella anti-catastrofistica che piace al pubblico, un certo tentativo di ridare senso a una utopia che non sia tragica e negativa. In tutto questo lei potrebbe fare la parte del personaggio positivo. Nat mi ha detto che lei ha tutte le caratteristiche positive per impersonare quel ruolo …».
La discussione, nei fatti un monologo, è continuata a lungo. Sono stato informato che avrei fatto un provino, che mi avrebbero affiancato una specie di collaboratore, una guardia del corpo, un assistente che mi avrebbe vissuto accanto come una specie di ombra; e poi si è discusso, sia pure brevemente, del mio cachet, che non era certo stellare, e di un’altra serie di tematiche di dettaglio. Mi veniva proposta una residenza fuori città in riva al mare, una macchina sempre a disposizione e altre facilitazioni. L’assistente mi avrebbe fatto anche da autista.
L’intero progetto sembrava non privo di una sua attrattiva. Mi fanno firmare una serie di carte quasi infinite; e alla fine io e Nat usciamo, non prima che il mio agente stringa a sé Mary dandole un bacio particolarmente intenso.
Io stavo già avviandomi verso l’uscita e me ne sono accorto con la coda dell’occhio.
Appena fuori dall’ufficio Nat mi dice: «E’ fatta … Sei davvero nato con la camicia. Ti ha trovato simpatico. Allora da domani al lavoro. Ti farò avere un programma ben articolato. Provino domani, poi una settimana di discussione sul copione con il regista e gli altri attori e poi il via alle riprese. Saranno almeno due mesi intensi … – poi ha aggiunto quasi di sfuggita – Quasi mi dimenticavo … questa sera sei invitato a una festa di rito. Celebriamo l’inizio delle riprese del nuovo film. Come al solito ci vediamo alle 21 nella hall. Ora prendi il taxi e vai in albergo».
Avendo davanti a me un programma chiaro e articolato mi sono rilassato ed ho atteso l’ora fatidica. Ho indossato il mio abito buono, che avevo preventivamente fatto accuratamente stirare, e all’ora indicata ero già nella hall. Ho visto arrivare la mia manager tutta pimpante. Indossava un abito che sembrava un Armani originale, color sabbia, al collo un leggero filo di perle e un largo sorriso. Mi ha preso sotto braccio e portandomi verso l’uscita ha detto: «Oh mio eroe, mio Batraz, figlio di Hamyts e di Bytsenta. Oh mio uomo d’acciaio. Come avrai capito tu sarai proprio Batraz, di cui parlano le nostre leggende, cresciuto sul fondo del mare, tornato al villaggio e diventato fortissimo e abile arciere. Tu hai il destino di debellare tutti i nemici dell’umanità ritirandoti dopo ogni impresa fra le nostre montagne in un intenso colloquio con la natura … Questo è il tema del film che ti appresti a girare. Il suo titolo provvisorio è: Batraz il grande. Già penso agli altri due successivi, se questo funzionerà. Li chiameremo: Il ritorno di Batraz e L’ultima avventura di Batraz. Sarà una produzione epica! ». E’ tanto eccitata che mentre saliamo sul taxi mi appioppa un bacio di quelli intensi come se fossimo amanti e poi si siede.
Io sono senza parole e mi domando fin dove possa andare la nostra libertà o se tutto sia davvero segnato da un inesorabile necessità, secondo il principio di ragion sufficiente. In fondo lei era una donna sposata, tradizionalista e fedele al marito, o almeno affermava di esserlo.
Dopo un tragitto di una buona mezz’ora in lande deserte, in mezzo alla campagna arriviamo ad una villa, o forse meglio una grande fattoria di campagna tutta sfavillante di luce. Scendo, apro la porta del taxi alla mia mentore e pago. Dopo qualche passo giungiamo in un grande spazio illuminato, grande quanto una nostra aia, su cui sono disposti decine di tavolini con delle sedie. D’un lato una postazione per una orchestrina o qualche cosa del genere, sul fondo un lungo tavolo dove sono disposte ogni tipo di vivande. Mentre ci avviciniamo vedo che sono già presenti decine di persone.
Non conosco nessuno e non parlo neppure la loro lingua. Mi faccio coraggio. Nat mi stringe forte la mano e si avvinghia a me quasi non si rendesse conto che una simile posizione genera al mio povero corpo uno stress, un processo di naturale reazione che faccio fatica a controllare. Sono un poco teso, sono eccitato, se non ci fosse dentro di me una voce che mi trattiene farei due passi a lato e mi impegnerei a insegnarle una qualche legge fisica sulla penetrazione dei corpi che sembra aver dimenticato, e come se non bastasse sono anche imbarazzato.
Proprio nell’istante in cui sto per decidere quale di queste pulsioni sia quella dominante, mi lascia, con passo lesto raggiunge Mary; e la stringe ridacchiando. Si baciano e sembrano avere un’intesa così profonda da far pensare a una coppia ben affiatata.
Io rimango lì come un chiodo e mi avvicino lentamente a un tizio tutto dinoccolato con in testa un purillo, di quelli di moda nella sinistra più di mezzo secolo fa, un paio neri di occhiali spessi e uno sguardo di quelli intelligenti, lontanamente alla Woody Allen. Tento l’inglese:
«Sei forse il regista?»
«E tu – mi risponde – Batraz?»
Scoppiamo in una risata simultanea che stenta a finire, poi aggiunge: «Ora quelle due chissà che fanno. Forse conviene che andiamo a prendere qualche cosa da bere; e nel contempo ti presenterò un poco gli altri della compagnia. Ricorda che qui la conoscenza delle lingue è un optional. Solo pochi sanno l’inglese, perciò se hai bisogno posso darti una mano. Fra l’altro questo è uno dei problemi che mi spingevano a chiedere che si ingaggiasse un attore locale. Dicevo che non potevamo andare oltre una produzione per le nostre platee, ma la produttrice ha deciso che questa volta dobbiamo puntare in grande. Ecco perché sei qui e a dire il vero mi sembri uno simpatico. Ma ricorda: attenzione alle donne. Generano facili gelosie e sono una mina vagante nella nostra professione».
Prima di quel che si potesse pensare Mary, tornata al centro della scena, si mette a parlare al microfono fra una serie di sccrraaaaattt più o meno variegati: «Carissimi amici, questa nostra festa è un momento importante! Infatti siamo tutti qui per festeggiare l’inizio della lavorazione del nostro nuovo film: Il grande Batraz. Abbiamo fra noi una giovane star del cinema italiano, che abbiamo scritturato proprio per la sua esperienza, e da domani al lavoro. Spero che il nostro film ottenga l’Oscar come miglior film straniero, perciò dobbiamo impegnare tutte le nostre forze fino allo spasimo. Non c’è un minuto da perdere.
Questa sera però è festa e divertitevi al massimo, da domani si entra in clausura».
Cosa è successo quella sera mi è svanito dalla memoria fra i fumi dell’alcool. Si è mangiato, bevuto e ballato oltre misura. Tutto è andato bene escluso un piccolo particolare. Era ormai notte fonda e Nat mi ha detto: «Mary vuol parlarti, ma fuori da tutto questo rumore. Vai su che ti attende».
Entro nella villa, salgo una rampa di scale e mi trovo in una grande stanza dove Mary mi aspetta. E’ seduta su un letto, mi avvicino e le dico: «Nat mi ha detto che vuoi parlarmi … Son qui …».
Si alza, lascia cadere a terra una sontuosa sopraveste di seta e mi appare allo stato di natura. Bella, molto bella, con due seni piccoli e sodi, delle inimitabili gambe affusolate e due piedini da baciare.
Son lì senza parole. Mi si avvicina, mi stringe, poi con uno strano tono basso dice: «Svestiti, fammi vedere tutta la tua forza, o mio meraviglioso Batraz … Sono qui che bramo di te …».
Mi strappa la camicia e inizia baciarmi con inusitata intensità. Poi, uno dopo l’altro, cadono a terra gli altri elementi del mio abbigliamento. Non ci vuole molta fantasia per comprendere quale era la mia condizione in quel momento. Gli ormoni andavano da soli e la mia testa, già abbastanza indebolita dall’alcool, era in evidente difficoltà. Non sapevo che fare.
Mi trovavo in quella situazione in mezzo alla stanza chiedendomi come una pera lessa come avrei dovuto agire per essere eticamente inappuntabile, quando Mary mi lascia e si stende sul letto iniziando a toccare con grande intensità il suo monte di Venere, poi introduce un dito fra le grandi labbra ed intanto mi ordina con fare imperioso fra un gemito e un altro: «Resta lì fermo, mia statua, fatti ammirare. Lascia che goda ammirando la tua potenza …”
Potenza, potenza!!!
Dopo poco della potenza non restava granché; e per farle piacere era necessario intervenire con un azione meccanica al fine di ravvivarla. Quasi a togliermi dall’imbarazzo è arrivata Nat, che potevo vedere completamente nuda e che mi ha iniziato a coccolare ridandomi vitalità, prima di avvicinarsi alla sua amante e riprendere con foga il loro rapporto. Ero lì come terzo, ma mi sentivo un ospite di troppo.
Avendo visto una sedia lì accanto, mi sono avvicinato e mi sono seduto, non senza aver preso una bottiglia e iniziato a bere a garganella. Mi chiedevo, parlando ad alta voce e a ruota libera d’altronde nessuno sembrava ascoltarmi: «Se non c’è effetto senza causa, se tutto è necessariamente concatenato e ordinato per il meglio, allora era già scritto; era necessario che io venissi qui in questa villa, bevessi oltre misura e Nat mi invitasse a salire in questa stanza. Che poi io fossi destinato a restar qui in piedi nudo come un pirla, mentre la mia agente interagisce in un rapporto di energica causa-effetto con la mia produttrice, è ancora una volta un necessario esito del principio di ragion sufficiente. Ma mi rimane un dubbio: non è che tutto ciò che si sta verificando intorno a me può essere iscritto nel capitolo delle pesanti avances non gradite? E poi, quando si può dire che esse sono gradite … Dove è il discrimine preciso fra una cosa gradita e una che non è tale in una realtà complessa e contraddittoria come è quella dei rapporti affettivi quando giungono a questo grado di intensità? Non è che ne resterò traumatizzato a vita? Dio mio no …».
Stavo riflettendo su queste cose e mi sentivo un poco in imbarazzo, mentre le mie due «padrone» erano prese in un vigoroso abbraccio, mugolando con crescente intensità, sicché ho preso i miei abiti, anche se un poco sgualciti, mi sono rivestito e son tornato giù.
Mentre uscivo dalla porta mi sono trovato di fronte il regista, con in mano due bicchieri, quasi mi aspettasse. Me ne porge uno e aggiunge: «Per lavorare bisogno subire delle prove che possono sembrare simili a dei riti di passaggio. Che vuoi fare … Qui da noi, fino a poco fa, si insegnava che nel mondo del capitale tutto era costituito da perversi rapporti di mercato. Non c’era cosa che non si pagasse; e più si saliva lungo la scala gerarchica, maggiori erano i privilegi, ma anche più pesanti le forme, più o meno nascoste, di vessazione che si dovevano subire. Non era che questione di denaro. Noi almeno teoricamente eravamo diversi. Ora invece si decanta in ogni momento la conquistata libertà e siamo schiavi più che mai …
Tirati su e vieni con me che ti spiego cosa dovrai fare domani durante il provino».
Ad un certo punto non ce la facevo proprio più e sono andato a cercare un divano. Ne ho trovato uno bello comodo in una stanza laterale abbastanza appartata, mi sono liberato dagli abiti, mi sono steso e, coperto con una pesante coperta che avevo trovato da un lato, sono caduto nelle braccia di Morfeo.
Qualche ora dopo ho aperto gli occhi e ho sentito che avevo accanto a me qualcuno o qualcosa. Mi sono mosso leggermente e ho visto una giovane tutta nuda che era abbarbicata su di me con gli occhi semichiusi e mi ha detto in un inglese stentato: «Bravo, fai bene l’amore, ma ora dormiamo ancora un poco. Che dopo dobbiamo andare a lavorare. Se ti interessa sono Tamara,la tua assistente …».
Non potevo quasi muovermi tanto stringeva fra le sue mani il mio sesso; e allora mi sono adeguato, d’altronde che potevo fare, non voleva proprio lasciare la presa e allora ho pensato che fosse meglio riaddormentarsi, nel dormiveglia mi è sembrato di dire: «C’è un bell’affermare che la volontà è libera, ma in questo momento par proprio che la mia volontà sia finita nelle mani di questa Tamara che non so neppure bene chi sia … O gran disegno del principio di ragion sufficiente, è evidente che tutto quello che è successo questa notte doveva trovare la sua conclusione meccanica in un amplesso con la qui presente Tamara. E speriamo che non ci siano futuri esiti peggiori. Che dire: si è trattato di un gesto inappropriato o no? Ma dove è la mia libertà; e poi lei come può definire ciò che è successo? … Lei mi ha usato o io … O fato insano, che ci sottometti ai tuoi scherzi …».
Dopo alcune ore ci siamo alzati e ho scoperto che la mia manager aveva deciso che, per assistente, era forse meglio che mi fosse assegnata una donna piuttosto che un maschio; la motivazione sembra sia stata che così sarei restato più intensamente vivace e sempre pronto alla pugna. Devo dire che l’idea non mi dispiaceva. Tamara era forse un poco piccola ma aveva due lunghe gambe, un seno bello sodo e un viso luminoso circondato da una folta chioma costituita da una cascata di riccioli neri. Le mani sapevano coccolare che era un sogno; e sembrava sapere tutto degli uomini. Con lei fra le mie braccia mi sembrava di poter affrontare ogni difficoltà.
Nei mesi successivi siamo davvero vissuti in una condizione poco diversa da quella di una comunità di clausura. Passavo la giornata a studiare, Tamara mi seguiva e mi teneva attivo in ogni possibile senso; fra l’altro insegnandomi l’idioma di Scratlandis e cercando di curarmi, perché durante le riprese, facendo mio il principio di Tom Cruise che l’attore deve essere sempre presente in scena riducendo al massimo l’attività delle controfigure, mi capitava più volte di prendere qualche colpo e avevo ematomi su quasi tutte le parti del corpo.
Incredibile a dirsi, Batraz il grande ottenne un notevole successo, dovuto certamente alla mia mirabile interpretazione, ma anche all’uso di una raffinata tecnologia basata su effetti speciali realizzati da un giovane ragazzotto che era davvero un piccolo genio. Mi sono trovato ad affrontare ogni possibile tipo di «cattivo»; e, grazie al suo aiuto, le mie frecce hanno vinto quelle che al pubblico piace vedere come le forze del male.
Il film, che si basava su un budget piuttosto basso, riuscì ad ottenere nel corso dei primi mesi di programmazione incassi tali da porlo come il film che aveva ottenuto i più alti incassi in tutta la storia del cinema di Scratlandis.
Ero ormai una stella del cinema, almeno a livello locale, e già si stava programmando una nuova pellicola con il titolo: Il ritorno di Batraz quando arrivò inaspettato la notizia che il film era stato scelto come uno dei possibili contendenti al titolo di Oscar per la cinematografia straniera.
Proprio mentre ci stavamo preparando per un possibile viaggio a Hollywood, ho iniziato a leggere di strane storie provenienti da quella mecca della massima libertà sessuale, della licenza trasformata in standard di vita; e nel contempo di una serie di processi, per la più parte vissuti a livello della manipolazione mediatica, che sembravano tanto riprodurre gli stilemi della caccia alle streghe e che ricordavano, mi aveva detto un amico, in qualche modo l’età del maccartismo.
Avevo vissuto gli ultimi mesi molto intensamente e in molti casi mi ero posto proprio domande intorno al mio modo di essere, alla sessualità e al rapporto fra valori tradizionali e giuste esigenze di libertà. Tutti temi che avevo cercato di risolvere, rifacendomi al principio di ragion sufficiente, senza però riuscire mai ad acquietare i miei dubbi. Proprio negli ultimi giorni di lavorazione ero stato informato che in uno sperduto villaggio al centro del paese viveva un vecchio, in una comunità che conservava modelli di vita quasi arcaici, che era particolarmente apprezzato per la sua saggezza. Avevo allora deciso di andare, con la massima rapidità, a trovarlo e chiedere a lui che mi aiutasse a liberarmi dai miei dubbi.
Mi sono fatto prestare un fuoristrada e, caricata sul suv Tamara come mia compagna, sono partito ben deciso a dirimere una volta per tutte i miei dubbi.
Siamo arrivato al villaggio dopo due giorni di viaggio particolarmente duri, muovendoci fra tratturi quasi sperduti. La prima cosa che abbiamo scoperto è che non c’era ombra di un hotel, anzi non c’era ombra di nulla, se non alcune sperdute case a torre che ricordavano il nostro medioevo.
Tamara era riuscita a farci ospitare in una di esse; e, grazie alla sua previdenza, avendo portato alcune coperte, abbiamo potuto dormire senza patire il freddo.
Poi ho scoperto che il vecchio non aveva nessuna intenzione di parlarmi, si trattava di un individuo particolarmente anziano e a suo modo davvero bizzarro. Non sopportava che venissero a disturbarlo e soprattutto non tollerava quelli che venivano dalle grandi città e in particolar modo gli stranieri. Questa volta però la fortuna mi ha assistito infatti avevo portato con me una pipa di fattura particolare, una in ceramica realizzata in Austria; e ho deciso di portargliela in dono. Dopo che l’ha vista e l’ha maneggiata a lungo ci ha invitato a sederci e ha fatto offrire del liquore prodotto da loro, una specie di infuso di erbe.
Grazie a Tamara, che mi è stata ancora una volta preziosa come interprete, sono riuscito a spiegargli il mio problema. Mi ha guardato intensamente e il suo volto, coperto da una folta barba bianca, sembrava sogghignasse, quasi a dirmi: «Giovane curioso tu vuoi conoscere il senso della vita e mi dai in cambio solo una pipa? Per quanto possa essere bella non basta certo …».
Poi però, dopo che abbiamo abbondantemente bevuto, ci ha licenziati dicendoci: «Venite domani verso sera che ne parleremo …».
La sera convenuta ci siamo trovati nella casa del saggio. La stanza era buia e al centro ardeva un grande fuoco. Ci hanno fatto sedere. Accanto al maestro erano sedute altre persone che non ci sono state presentate. Alla luce delle faville vedevamo a stento il volto del vecchio, nel mentre veniva passato di mano in mano un bicchiere, fatto da un corno di bue, che conteneva un liquore fermentato con una forte gradazione.
Allora il vecchio ha iniziato a parlare con una voce che sembrava quasi provenire da un arcano oracolo:
«Ciò che mi hai chiesto è quale sia la natura dell’amore e come mai essa venga tanto bistrattata in una società come quella odierna proprio in quelle terre dove viene decantata la massima libertà? Se è questa la domanda,invero la risposta è abbastanza facile per coloro che intendono il significato complesso delle cose. Solo che oggi si vogliono trovare per ogni cosa risposte semplici. Nulla domina nella società occidentale più che una logica rigida che divide con una spada il nero dal bianco, che ha perso di vista l’importanza delle sfumature.
Voi stranieri vivete in una realtà governata e manipolata da volgari manichei che per di più pretendono di essere sapienti.
La cultura d’oggi va in cerca della verità, ma spesso non si accorge di averla lasciata alle spalle. Il facile viene rifuggito per il complesso e nel complesso ci si perde come nel labirinto di Minosse.
Ti dicevo, straniero, che la risposta al tuo problema è facile e si trova nel sapere dei nostri antichi maestri. Noi abbiamo una saggezza simile alla vostra, solo che la nostra tradizione usa altre parole, chiama le figure divine di cui ti parlerò con altri nomi. Per semplificarti la ricerca del vero, userò i nomi che hanno utilizzato proprio i maestri di verità della Grecia antica; e fra essi, sublime su tutti, il divino Platone. Rammenta che le nostre terre erano già in quell’antico evo in rapporti, molto più intensi di quel che si è soliti pensare, con le coste della Ionia. E’infatti più o meno qui nei dintorni che giunsero gli Argonauti.
Ecco quale è la leggenda che fa al caso tuo. Ascolta le parole ma fatti penetrare da esse. Abbandona il fallace scetticismo e vieni con me lungo il sentiero del vero.
Il giorno della nascita della divinità dell’amore e della bellezza, che si dice essere stata generata dalla spuma del mare, e che voi chiamate Afrodite, le divinità tennero un grande banchetto, forse il più grande che si fosse mai verificato fino ad allora. Parteciparono proprio tutti gli dei e fra essi Poros, ovvero l’incarnazione dell’espediente, figlio di Metidea, la sagacia. Ora alla fine della festa erano tutti, come saremo anche noi fra qualche tempo, un poco ubriachi. Allora Poros non si accorse di essersi avvicinato a uno strano essere, una donna male in arnese, di nome Penia, ovvero la povertà, che era passata di lì sperando di mendicare qualche cosa. Presi dai fumi del nettare, non era stato ancora inventato il vino, Poros e Penia si unirono dando vita a un figlio, con un carattere davvero unico fra tutti gli dei. Si tratta di Eros, l’amore, compagno indissolubile della dea della bellezza, che è sempre povero, è molto lontano dall’essere delicato e bello, come pensano i più; ed anzi è duro, squallido, scalzo, peregrino, abituato a dormire nudo per terra, sulle soglie delle case e per le strade, le notti all’addiaccio; perché conforme alla natura della madre, ha sempre la miseria in casa. Ma da parte del padre è per natura portato a insidiare coloro che gli piacciono, coraggioso, audace e risoluto, è un cacciatore sempre impegnato a escogitare stratagemmi d’ogni tipo. La sua natura non è né immortale né mortale, ma a volte fiorisce e vive in un solo giorno, a volte invece nasce e riesce a durare, grazie alla natura del padre; ciò che acquista sempre gli scorre via dalle mani, così che Eros non è mai né povero né ricco.
Insomma Eros, l’amore, non si può imbrigliare e moralizzare, vorrebbe dire distruggere la sua natura polimorfa che è inesorabilmente destinata a far sentire la sua forza. Vorrebbe dire annientarlo. Si può cercare di regolarlo, ma la sua natura tornerà sempre a manifestarsi.
Come ti ho detto Eros è un mostro, può essere bellissimo e può essere anche un bruto. Può essere il dottor Jekyll e Mister Hyde, il produttore Weinstein e l’attore Gere.
Ciò che nelle società occidentali sembra si voglia realizzare è una impossibile quadratura del cerchio. D’un lato affermare che tutto è lecito, fornendo continuamente esempi di ogni eccesso tramite l’abuso delle immagini, affermare che nulla è vietato e poi creare una rinnovata paura nella sessualità. E’come se si volesse tornare a un neopuritanesimo che non è altro che violenza contro gli uomini e contro le donne.
Si tratta di una forma di fondamentalismo particolarmente pericolosa, particolarmente violenta e alla fin fine contraria alla essenza della natura umana. Vi sono dietro disegni che faccio fatica a capire, ma che mi spaventano e ancora di più dovrebbero spaventare voi che siete giovani».
Ciò detto il vecchio si fermò e riprese a fumare la pipa.
Pensando di fargli cosa gradita gli regalammo tutta una serie di oggetti che avevamo portato con noi e che non ci servivano più ora che eravamo sulla via del ritorno. In più gli dissi: «La tua saggezza mi ha allargato l’anima. Non potrò mai ringraziarti come meriteresti. Non esistono beni terreni che possano eguagliare la tua sapienza. Ora beviamo un’ultima tazza, poi ti salutiamo e togliamo il disturbo».
Non so cosa avessero messo in quell’ultima tazza che ci fecero bere. Ciò che è certo è che cademmo in uno strano stato di torpore. Gli altri che erano presenti nella stanza ci lasciarono e io e Tamara ci prendemmo, quasi fossimo lì soli al mondo, con una forza che non avevamo mai sperimentato. Fu un rapporto che durò ore, composto da un mare di carezze e da momenti di inedita violenza. Lei mi chiedeva di essere penetrata con forza e io mi sentivo audace e risoluto come non mi era mai successo.
La mattina dopo ci trovammo nudi sotto a una bella pila di coperte avendo sperimentato come mai prima l’essenza dell’amore, la sua arditezza, la sua violenza, la sua dolcezza.
Ci alzammo e uscendo dalla casa salimmo in macchina perdendoci per i tratturi di quella montagna.
Mentre cercavo di guidare quel macinino nelle impervie strade dell’interno di Scratlantis e tenevo una mano su una coscia della mia compagna, assaporando i piaceri di una meritata vacanza con lei … è suonato un telefono. O forse piuttosto ho sentito in lontananza il rumore lancinante di una sirena …
Non so. Ho un’unica certezza: mi sono svegliato che ero in un mare di sudore … lì nel letto, solo e sostanzialmente infelice …”.
Il Tonto era affaticato, teso come non lo avevo visto mai e allora ho ordinato due buoni cognac.
Abbiamo bevuto e io non ho saputo dirgli altro che: “Brindiamo all’amore …”.
…il nuovo dialogo con il Tonto di Giulio T. si presenta con la consueta eleganza di stile e una sfumatura di umorismo…anche se alla fine il Tonto è molto affaticato e teso e non gli basta il solito bicchiere di aranciata, ma un forte cognac…In effetti risuona più o meno come un pugno allo stomaco…A rappresentarlo bene è il dipinto che precede il post, dove profili ambivalenti, uno femminile e l’altro maschile, si uniscono a formare una sola maschera, che sembra essere quella del potere. Un potere che, nel racconto, ambientato nel mondo dello spettacolo (un richiamo ai fatti di cronache di oggi) , è nelle mani delle donne, del tutto “uominizzate” nei comportamenti…Il sogno si conclude con l’incontro di un saggio in grado di spiegare la natura dell’amore…Il mito greco è molto significativo però, secondo me, l’interpretazione che se ne dà potrebbe essere diversa…
Il titolo del brano.
Piove? Mettetevi sotto questo ombrello.
Anime inquiete. Muovete il bacino, scimmie fate all’amore
seguite il ritmo dateci dentro; il corpo sa dove muoversi
gli fa bene come l’acqua alle montagne; seguite il fiore
che corre nel fiume; che porta al mare una nota sto-
nata, fuori tempo massima apertura, urlo!
Piaciuta?
Allora guardami ma senza guardarmi. E io non ti vedo.
Tu sei me fuori di me per il vestito rosso fuoco. Tu le mie braccia, tu la morbidezza dei miei fianchi sulla campana a morto
dei tuoi lunghi capelli.
Lenta sera. Passano labbra rosse sull’autostrada.
Gli occhi della femmina indagano tagliando il burro come stella.
Pausa. E ora tenete la damigella per le dita mentre ruotate come dervisci
ricoperti da serpenti velenosi.
Lento veleno.
E’ il titolo del brano.
Mayoor nov 2017
“…la ragion (sessual) sufficiente” di Giulio Toffoli mi sembra avere un significato analogo a quello espresso da Mayoor in un verso della sua poesia: “…Allora guardami ma senza guardarmi. E io non ti vedo”…cioè un invito a lasciare lontani i pensieri, veicolati dallo sguardo, con i loro inopportuni giudizi …Sulla stessa idea vorrei tornare, con linguaggio poetico, che a volte è più facile:
Arretra pensiero
che muovi la guerra
tra i corpi
e, diavolo vero,
ne insidi l’intesa!
Solo la resa
bilaterale,
povero tu quanto povera io,
spunta in fiori le armi
e placa il conflitto.
Tregua o statuto che sia.
Stretti i legacci di terra,
tra onde del mare giganti
e voli spiegati dal monte
un camino ardente accende
l’universo da capo