di Alessandro Scuro
Sembra impossibile contrastare il dominio tecnologico ed improbabile è il successo della contestazione, poiché, alla prova dei fatti, ogni alternativa evoca scenari antiquati ed arcaici, e ogni deviazione dal sentiero tracciato comporta una retrocessione sulla scala del progresso. In apparente contraddizione con le loro visioni, Fourier e Jochmann antepongono alla realizzazione delle loro profezie un periodo di degradazione delle condizioni generali dell’umanità. Per liberarsi dagli errori e dai pregiudizi sui quali si fonda lo stato civilizzato, è necessario rinunciare alle comodità e ai conforti che tale sviluppo ha garantito nel tempo; retrocedere sulla linea del progresso, ripercorrere a ritroso la storia, l’evoluzione umana, fino ad intercettare il punto in cui l’uomo ha intrapreso una strada a senso unico che lo ha condotto allo stato attuale delle cose. Solo da lì sarà possibile riprendere il cammino interrotto in altre direzioni, ed allora, le comodità e le certezze del progresso verranno ripagate con interessi mirabolanti.
Né l’ideale del buon selvaggio, né istinti primitivi o una recuperata innocenza conducono le riflessioni dei due. A loro avviso l’uomo non deve disfarsi delle conoscenze acquisite fino al momento, ma rimetterle in discussione dal principio, riappropriarsene, rielaborarle, rimparare ad adoperarle e riconsiderare con cura i loro rapporti di forza, ristabilire e equilibrare l’ordine di priorità e di importanza con il quale la consuetudine le seleziona e le dispone. A cambio di tale sforzo, incommensurabile ed incomprensibile per l’uomo abbruttito dai conforti della civilizzazione, l’umanità potrebbe assaporare piaceri che il progresso, ed il presunto benessere che ne deriva, non hanno mai nemmeno permesso di intravvedere.
Non si scrive con il senno di poi la storia e se tra le sue pagine i nomi di Fourier o di Jochmann non appaiono nemmeno tra le note lo si deve al fatto che oggi, più di allora, si rivela esatta la massima del secondo, ovvero che laddove uno sforzo contenuto garantisce all’uomo soddisfazioni ben oltre le necessità elementari, si affievolisce fino a scomparire il bisogno di cercare altrove soluzioni.
Le trasformazioni radicali che i due prevedevano nell’animo umano e gli effetti stravolgenti provocati nella condotte e nelle credenze comuni non permettevano mezzi termini né soluzioni parziali e questo fu il principale ostacolo alla diffusione e all’applicazione del loro pensiero, e ad oggi lo resta. Liberare l’uomo dalla tecnologia non significa rinunciare alla tecnica, ma evadere una realtà costretta tra i confini della sua ideologia; non un ritorno alle carenze agli e stenti della vita dei primordi, ma un un’esistenza primigenia, ancora da inventare, arricchita di tutte le possibilità escluse (e con esse di quelle a venire) dall’insieme di ciò che è permesso. Il conforto garantito dalla tecnologia inibisce l’uomo da avventure oltre i confini delle sue possibilità, e sono sempre il disagio, la costrizione o il pericolo ad aguzzare l’ingegno, a spingerlo a cercare soluzioni là dove la comodità riscontra ostacoli.
È necessario quindi indagare il rapporto tra tecnologia e conoscenza. Ragionando in termini quantitativi ci troviamo ora sul gradino più alto del progresso e ai nostri piedi si accumula un numero di conoscenze che non ha pari con quelle accumulate e conservate nei secoli passati. Sotto lo stesso punto di vista non si può nemmeno criticare la tecnologia in termini di accessibilità, poiché la facilità dell’uso e la straordinaria molteplicità di mezzi e strumenti, hanno contribuito ad aumentare il suo raggio di diffusione e a semplificarne la fruizione. A questo tipo di conoscenza, che si manifesta sotto forma di dato, di informazione e o di istruzione, manca pero, se si ragiona in base alla qualità, l’esperienza necessaria ad ogni processo conoscitivo. Per questo si può affermare che, laddove la quantità di conoscenza acquisita e accumulata cresce, l’esperienza sembra venir meno e, laddove il volume della conoscenza aumenta, la qualità inevitabilmente decresce.
Si ribaltano così per completo i parametri positivi del progresso; monco l’equilibrio del suo benessere, arbitraria la sua distribuzione. Nel momento in cui l’esperienza, unita alle altre facoltà umane, si dimostra irrilevante o pretenziosa nel processo di conoscenza, l’accesso ad essa si fa più difficoltoso, non in termini d’uso, ma di opportunità. La conoscenza allora non corrisponde più alla curiosità, alla ricerca, alla scoperta, all’invenzione e alla sperimentazione, ma è assunta come dato esterno, acquisita ad ogni novità proclamata; l’esperienza espulsa dalla quotidianità, cessa d’essere il fondamento di un’esistenza troppo occupata a conservarsi per potersi evolvere.
Non è la diffusione della conoscenza a svilirla, a renderla inefficace a fini diversi da quelli previsti, ma la sua specializzazione; non si misura nemmeno in termini di semplificazione o di risparmio la sua accessibilità, ma per quanto essa si rivela libera da veti e condizionamenti, dai pregiudizi o dalla semplice rassegnazione. Quando le ricchezze che ci rammolliscono diventeranno beni comuni, diritti di tutti i privilegi che guastano i loro detentori, e quando la rarità cesserà insomma di conferite un valore superiore alle cose di poca importanza l’uomo smetterà di confonderle con altre il cui valore non è casuale. Nella misura in cui l’uomo imparerà a servirsi in maniera sempre più risoluta del proprio sapere, e a trasferire i compiti penosi che esauriscono le sue forze migliori a creature subordinate, prodotte dalle sue stesse mani, aprirà la strada a un mondo nuovo ancora più felice, in cui il vagabondo verrà ricompensato, per gli sforzi del suo viaggio, con l’invito a partecipare a sforzi sempre più nobili. Di questo passo l’uomo conoscerà uno sviluppo intellettuale che sorpasserà la mediocrità confortevole di oggi, e finalmente i canti di trionfo della felicità in marcia risuoneranno al posto dei sospiri del desiderio insoddisfatto. Così si augurava Jochmann e ancora una volta l’eco delle sue parole risuona nelle sentenze di Mairena, che tuona: «Tregua a tutte le attività necessarie per i capaci di attività libere e pace infine agli uomini di buona volontà!»
Combattere il mediocre e l’uniforme, non accontentarsi di una conoscenza preconfezionata e pronta all’uso, contestare i mezzi oltre ai fini, non è un vezzo intellettuale, né un tentativo di dare nuova forma a contenuti immutabili; è stimolare la diversità, la varietà, le potenzialità infinite e infinitamente incrementabili delle passioni delle passioni umane, trovare il modo di farle coesistere, di combinarle ed esaltarle senza freni. Per questo Fourier dichiarò guerra all’uguaglianza, alla forza livellatrice del diritto in tutte le sue forme e nessun posto le era riservato nella sua società. Una competizione sana, volta, più che all’accumulo di ricchezze, al continuo superamento di sé stessi in una gara acrobatica di abilità, sarebbe stato lo stimolo fondamentale nel quadro di una società nella quale ad ogni singolo membro, dal vagabondo al più ricco degli uomini, non sarebbe stata garantita solo la soddisfazione oltremisura di ogni necessità, ma il compimento di ogni altro desiderio. Tutto questo si sarebbe però realizzato solo in seguito a un completo stravolgimento della morale, senza il quale ogni tentativo sarebbe risultato infruttuoso e, con ogni probabilità, disastroso; stravolgimento inaccettabile per i costumi dell’epoca e non meno condivisibile dalle menti più progressiste del nostro tempo. Sembra indiscutibile la convenienza di rinunciare a tali meraviglie in cambio di una sicurezza sempre maggiore e si capisce come Fourier annoverasse, tra gli effetti collaterali della diffusione e dell’applicazione delle sue idee, un certo numero inevitabile di decessi, causati dallo sbalordimento e dal subitaneo panico che le nuove gioie assaporate avrebbero provocato nei più inveterati civilizzati e in coloro che non avrebbero retto il colpo di tanto entusiasmo; ma, prima di rinunciare definitivamente, per non assumersi il rischio, non sarà meglio contemplare la possibilità opposta, domandandosi se non morirà l’uomo, un giorno, per mancanza d’avventura?
…in questo articolo di Alessandro Scuro mi sembra di cogliere alcuni temi presenti anche nel precedente post di G. Mannacio “Verso la strada degli innocenti”, ma affrontati da angolature in parte diverse in parte simili. C. Fourier e i filosofi della scuola di Francoforte sono distanti tra loro un secolo eppure il primo ha anticipato alcune problematiche legate al progresso che anche i secondi hanno affrontato…Per il primo il problema sembra solo di ordine qualitativo, cioè se la tecnica non diventa tecnologia fine a se stessa, capace di sottrarre all’uomo il gusto per la ricerca e per il rischio allora può essere d’aiuto per una nuova avventura umana, in grado di sfatare la morale corrente che ha generato solo la “civiltà” del malessere e dell’ingiustizia…I filosofi della Scuola di Francoforte hanno potuto vedere gli orrori della seconda guerra mondiale, i razzismi spietati, le armi micidiali messe in campo e quindi gli esiti di uno sviluppo tecnologico fuori controllo, che trasforma i traguardi della ragione in miti nefasti…Così crollano le illusioni illuministiche…Ritornare al mito, al primato dell’etica? Ma anche quello, fanatizzandosi, in più momenti della storia ha portato alle fosse comuni…Cosa si suggerisce allora? Quale lo snodo da ripercorrere?