di Arnaldo Éderle
Il fiato di scagliare una piccola cenere
lontano dalla poltrona il fiato
di allontanarla da me di pulire il mio
posto, di renderlo immune dallo strazio
del fumo e dalla sporcizia del vizio.
Ecco, questo vorrei ogni minuto, ma
il mio strazio non si consuma resta lì
e continua nella mente come una filo marcio
e lì non si consuma mai. Non può,
chissà perché!
Un filo di fumo esce dalle mie labbra
e mi fluttua davanti agli occhi e
forse mi ammalia, davvero, ed io
lo sento e lo godo come un ubriacone
davanti al suo mezzo bicchiere di vino
e lo vedo pararsi dinanzi a me come
un flebile fantasma vago magro e mutevole
indissolubile, un vero fantasma
che esce dai miei denti e mi si para
avanti agli occhi una piccola nube
sbiadita lenta e vaga.
Che sarà mai questa apparizione
triplice e occhiuta mobile come
una foglia leggera?
Un essere magico? Una nuova figura?
Un nuovo essere?
Chi desidera come me questi blocchi
di nuvole terrestri questi sbuffi d’aria
grigia li ama. Lo so, sembra
impossibile, ma è così e se li mangia
senza masticarli li ingoia d’un fiato
e se li respira come aria pura
direttamente infilata nella gola aperta
e capace come una foiba spalancata.
Che terribile infilatura che orribile pasto,
non c’è nulla di più nauseabondo, io lo so
l’ha sempre saputo, Tommasina me lo ha
sempre contestato con forza ma io
non l’ho mai ascoltata.
Povera Tommasina! non se lo merita,
ma io sono cocciuto cocciuto e stupido
senza cervello (e la radio gracchia e io
non la spengo, la sopporto, povero me!).
Sono malato ma ci faccio poco caso, è bene
che tutti lo sappiano. Forse guarirò.
Sono alla seconda pagina, credevo di più.
Chissà come arriverò alla settima,
ma ci provo.
Il fumo mi circonda come una maga
sitibonda e mi riempie non solo la bocca
ma anche il resto di me che la ingoio come
un fanciullo ingoia un blocco di cioccolata
dolce e profumata ma che poi a lungo andare
mi diventa amara e quasi orrenda
e me la sento vagare sulla mia povera
lingua impastata nella sua nauseante
rotondità come una nube ammalata
o una vaga parvenza di caramella marcia.
Ma tutto ciò non è vero, è una lercia fandonia,
il fumo ristora e ti fa padrone della
tua vita, te la fa godere come due foglie
che ti si posino sulle nari e ti donino
il loro ineffabile profumo.
Che caramella marcia! Che rotondità!
Mi tira su mi fa sentir meglio
mi ristora come una boccata d’aria,
i miei polmoni mi sembrano apposto non
ho buchi né abrasioni, non sono neanche
neri, sono quasi uguali a quando sono nato,
che voglio di più!
E’ una situazione ideale, che vuoi che
mi importi.
Ma un’altra catastrofe è lì pronta a colpirmi,
chissà come si risolverà.
Chissà come.
Non lo so e non so come saperlo
è un mistero un lurido mistero della vita,
se vivrò lo vedrò, e poi se non lo vedrò
sarà come se fossi cieco, che ci vuoi fare?
Sarà un’altra bubbola vitosa, sono tutte così
le nostre bubbole, tutte infarcite di
menzogne e trabocchetti, tutte false, poveri
noi! Avete capito?
Chissà come sarà, sono quasi tutte così le nostre
interrogative, piene di nebbia e cumuli
di bugie e di imbrogli, masse di imbrogli
incomprensibili inesplicabili astratti.
Che cazzo!
Sono quasi giunto al turpiloquio, che ci vuoi
fare! Forse ho imparato da Bukowsky.
Che volete che vi dica? Mi sento un po’
cattivo, non mi so controllare, cedo
all’impulso del mio cuore senza oppormi,
non mi dico nulla, mi ascolto e penso alle
mie magagne come a delle croste ispessite
e difficili da graffiare.
Che razza di poesia è questa? Non la so
valutare, anzi la sento insufficiente e priva
di buone pezze, di decenti colori di segni
indicativi.
Chissà cos’è. Un’invettiva contra fumum?
Una sua apoteosi? Una confessione sui miei guai?
Sono proprio un po’ stupido o stupidello
o forse un po’ fanfarone.
Ci tengo a sminuire i miei difetti ma poi
vengono fuori lo stesso, non posso
farci nulla, è un destino, un obbligo.
Dico: guai a nasconderlo a far finta che
non ci sia, a sminuirlo.
Ma continuo a giraci intorno, non so fare
di meglio. Faccio pietà!
Ma che fa! Tanto sono alla fine.
Non ce la faccio più!