di Alberto Mari
[Quante cose si possono fare con le carte, specie se volano. Belle dame, fanti, cuori, re che partono (per la solita guerra?), labbra, baci. Ma in questa scrittura di Alberto Mari vola anche una coppia quasi chagalliana e finisce per volare persino la coppia prosa/poesia. (E. A.)]
Volavano le carte, una sopra l’altra, nel cielo, in cerca di colore. Volavano sparse, come ombre d’uccelli, si stagliavano nel chiarore esplosivo d’argento della notte infinita. Nel castello di carte, la bella di turno, la bella impaziente, regina dell’occasione, aveva finito di posare. Il fante lasciò cadere il ritratto come un discorso indiscreto, ma il viso e il corpo di lei ritornavano, intraducibili parole, carne viva, carte su carte, lente, trasparenti, sull’ombra delle merlate, dove il ritratto era idealmente appeso, mentre cadevano matite e pennelli, commenti dei colori.
Egli rigirava assorto tra le mani il suo cuore irriconoscibile. I semi di riserva, ironia del destino, oscillavano tra le carte. La dama del ritratto ostentava un cuore nero, nascondendo un cuore rosso palpitante ansioso di riprendere il suo posto.
“Ti amo, dama di picche, per quel che sembri e quel che sei.” Avrebbe voluto dire il fante. La donna di quadri, la donna di fiori, non erano la stessa cosa, come la donna di cuori, la donna dei dolori, dei rimpianti. Altre donne, la stessa che non tornava, come un conto, rifatto tante volte.
Il castello di carte riceveva le nuvole, i respiri delle carte che si annullavano sull’ombra della grande collina, l’ombra padrona di tutto, cercava di trattenere la regina che cercava di avverarsi, sentirsi viva, sentirsi vicina al fante che continuava a guardarla come un opera incompiuta.
Il re era partito e forse non tornava, ma non avrebbe potuto tradirlo.
Aveva tante parole in serbo, tante che la sua voglia di scrivere si smarriva. Forse il suo eroe aveva lasciato la sua bocca troppo tardi.
Il lungo bacio, il lungo addio, l’alito sulle labbra della musica… ma non poteva essere un’unica cosa. Non poteva essere rappresentato. Il sentire superava la mente… la mente, la bocca, i denti, la saliva, la discesa, giù, giù, tra le note musicali. Labbra, labbra, baci, baci… Un disegno infinito, invisibile.
Sono contenta di sentirti, sono contenta… Non poteva dire di più.
La regina era a disagio tra il fante e il re. Il fante avrebbe voluto finire le parole e l’ascolto e continuare in un altro silenzio.
Il mazzo muto sembrava trattenere le altre carte da distribuire.
Nel castello di carte le finestre erano innumerevoli scelte. Il muro percorso dalle mani sfuggiva. Le carte dal vivo senso verticale, spiccavano nel solitario insolubile, infinito. Dita leggere come ali di farfalla, sfidavano la sorte. Picche, cuori, quadri, fiori…galleggiavano nel muro, del castello di carte.
Il fante e l’amico indissolubile, il jolly ombra, osservavano il panorama dalla torre del mazzo. Gli altri fanti mescolati stavano per riaffiorare con essi il loro rovescio, gli altri numeri imprecisati e i semi indecisi.
Potevano sembrare un sette, una figura, o qualche altra identità, un’ombra mossa alla finestra di fronte a un altro castello.
E il castello è qualcosa di speciale, un’altra epoca, un’altra casa, la roccaforte irta di torri, Gerusalemme celeste, paragonabile a un tempio di milioni di anni, il castello dei desideri, il colore cupo o nitido simboleggiano l’insoddisfazione o la realizzazione del desiderio.
Se proprio è un luogo può essere Camelot. Oppure una rovina da visitare o una storia da ritrovare.
Era bello sentirsi cavaliere nelle pareti mobili della stanza segreta con l’immancabile porta chiusa.
Lei era la battaglia dalle labbra sottili.
Ascoltava una parola d’ordine lontana.
Nelle ore qualsiasi non tutto va bene.
Ogni carta diceva la sua, la difficile scelta.
La notte urgente, colta impreparata.
Asso, Re, Fante, dieci… mancava la donna per fare la scala.
“Una carta!” disse il giocatore.
Il silenzio delle espressioni attorno a lui bloccò la sua mano. Egli poi scorse inutilmente le dita. La carta pescata non appariva o lui non aveva il coraggio di guardare?
Posati i bagagli l’ospite misterioso si guardò attorno e vide la meravigliosa trasparenza. Il soffitto in fuga, il pavimento lago di luce, riflesso sul vuoto e le pareti suadenti, illimitate, quanto inesistenti.
“Vieni, entra.” Un gesto impercettibile dell’accoglienza nella felice incertezza. Nell’aria sottile, centellinata, un gusto indicibile, lo stile del parlato, il sapore del sentire, di abbandonarsi, nel letto, nel nulla.
Nella stanza accanto la carta arrotolata del pavimento a scacchi. La tappezzeria a fumetti con le sue epiche gesta.
Lei si aggirava nella vita illustrata, impossibile a dirsi, tra le spire dell’arte.
L’albergatore scorse il registro e indicò i nomi.”Una stanza si sta ancora facendo”. Disse, come se fosse una spiegazione. Dell’altra era inutile parlare, era quasi impossibile rendere l’idea, si poteva forse immaginare, provare a viverla in qualche modo.
L’uomo rimase incerto. Li stava cercando da molto tempo, ma non poteva dirlo. Stava arrivando, quasi voleva che qualcuno li avvisasse.
Entrambi rimasero in ascolto di un passo furtivo che non arrivava. Erano stufi di fuggire, di nascondersi, di fronte all’accaduto, alle apparenze non restava che una sola cosa da fare. Scambiarsi le stanze. Era previsto nell’appuntamento.
Avrebbe trovato le stanze vuote, del tutto vuote, un nulla consistente dietro le porte aperte e nessun indizio di una probabile fuga.
C’era da aspettarselo. Nessun commento. Tanto li aveva trovati. Quello che veniva dopo non importava.
Questi corridoi, queste stanze, questi lampadari … L’anno scorso non erano gli stessi.
La donna si lasciò andare sfinita sulla panchina. Poteva essere il luogo di un altro appuntamento ma non lo era. Sfogliò stancamente sul giornale una notizia che non poteva esserci.
Non c’era accaduto. Nulla almeno che potesse definirsi tale. Le stanze, i giorni erano trascorsi
Il libro è caduto.
Raccoglilo, rimettilo a posto nella stanza dei libri.
Il libro aperto a una pagina qualsiasi.
Rinchiudilo, prima che gli altri cerchino, prima che gli altri trovino.
Una pagina da dimenticare. Una illustrazione da ricordare.
Riprendi le parole illeggibili, appoggiale sulla carta, lascia la traccia sul disegno.
Una stanza piena di libri. Il posto socchiuso lasciato aperto dal libro.
Scorri i dorsi dei libri, i titoli da leggere…
Il libro dei libri. La stanza delle stanze.
La porta socchiusa. Le pagine che uscivano.
Il buio che si ritraeva ad ogni suo passo, mentre le pagine cadevano aleggiando su di lui.
Nella penombra la tavola rotonda s’intravedeva appena.
I libri sembravano ritrarsi in disparte. Le ultime pagine cadevano.
Il Re, il fante e la donna gli fecero cenno di avvicinarsi.
Il quarto giocatore avanzò col libro in mano.
Sfoglio le pagine di altri tempi. L’inchiostro appuntito
scorre nella mappa vuota, nel deserto opaco.
Pieno come un tesoro, pittorico come il vino,
mi ritrovo figlio del foglio rigido, agitato
nella strada dello specchio, signore dei frammenti,
del distacco. Vorrei tanto essere riconosciuto, lasciar
marcire la gioia dell’anonimato. Vorrei chiedere
a una folla mutevole di entrare nella mia stanza, sfidare
a duello ognuno dei visitatori, lasciarli increduli,
ammirati, della mia abilità, lasciare un segno
indimenticabile. Non c’è nulla di più intimo
della rivelazione. Nella mia stanza abbandonata
nel cielo si abbassa un soffitto appuntito,
un corvo ossessivo risponde alle mie invocazioni,
i quadri delle finestre sono fresche stagioni,
ma in tutto il dormire che vivo, le notti perdute
non bastano mai. Sono ancora qui, tra voi,
morti apparenti, segni, tratti, brandelli, onde
scritture, a declamare la mia fama nascosta,
la gioia del mio riserbo, voglia di cambiare
il mondo, impulso irresistibile di distruggere
tutti gli stupidi della terra, l’erba degli eventi
s’affaccia ai pavimenti, alle pareti. Dopo la tempesta
dei desideri, fradicio, canto ancora me stesso,
il mio giudizio, la mia corrotta indignazione.
Casa del calendario,
sala della luce,
ruota dell’esistenza
corpo con sei sensi finestre,
palazzo del re e della regina irlandesi
con sette settori, sette letti, sette camere
attorno a un fuoco
oh casa, mia casa, mio seno, mia anima, mio inconscio,
mia immaginazione, mio cosmo, mia torre colpita
dal fulmine d’amore, apertura del cielo.
…mi é parso molto suggestivo questo racconto tra prosa e poesia, il racconto di un innamoramento, di luci e di ombre…Il fante parte da un’immagine di donna non ben focalizzata e inizia il suo percorso: entra nel suo castello di carte, dove i semi diversi, i colori, i numeri, le posizioni centuplicano se stesso e lei, la regina del suo cuore, in svariate forme Si spegne la luce: il buio alimenta paure, indecisioni, fughe…si accende la luce tutto muta di posizione e spunta finalmente un albergatore, che può solo offrire stanze improbabili, ma l’ospite si sente accolto, non fugge più, non importa il dopo. il giocatore pesca nel mazzo, ma non ha ancora il coraggio di guardare. I prima passi sono incerti, una porta chiusa, bisogna imparare a risillabare parole dimenticate…ma nel dedalo si intravede una tavola rotanda…e infine il fante cavaliere approda nella sala della luce, dalle sei sensi finestre…lei è la sua casa. Ho raccolto solo qualche suggestione di questo percorso così evanescente e insieme reale
mi arriva l’immagine del tuo viso … gli occhi esclamativi, interrogativi … “E’ fatta!” mentre le labbra si raccolgono intorno alla lettera O e i capelli sono mossi dall’effetto … Esserci, totalmente …. è così che tutto cambia …
e lo riesci a fare tanto per intero, quasi quasi da non accorgertene . grandi queste tue suggestioni !! Grazia