di Pietro Peli
Tanta la smania di essere uguale:
fra ponti seccare l’acqua
pare risolvere il pericolo
di essere allagati,
fin quando il cielo non si mangia
con i suoi emissari la terra:
tutto frana
e l’abbandonarsi
non ti fa che un altro tra gli altri.
Ma in fondo: nell’ergersi di queste
antenne metropolitane
che c’è di sarcastico,
di ineguale al modo della sua produzione?
Cosa riflette del dolore,
dell’inesprimibile potenza,
il potere innervato
su queste mani? Niente risolve
la porpora del cielo,
in forma di proposito
l’innovarsi, il piccolo segno
che dimostrerebbe la tua differenza.
Niente, amico, e allora
a questo incendio che non purifica
al mio rovesciarmi che non snatura
cosa dire di acri parole?
Amore, il piangere è denso
e non saresti altro
se questo tu non fossi…
Quando ridi è ridere,
quando senti è sentire:
nel mio il tuo devolversi
l’eterno spazioso rincorrersi.
Siedi sulle mani, ora
e guardi come volpe piegata alla luna:
vorrei farmi erba
che sali, lieve, sulla duna.
*
Segnato il passo che rimane
del mio del tuo
aspettare la notte.
Il nostro è rimasto, franandoci alle spalle.
Un uomo nel buio
non parla da amico
non ride da vecchio,
salta da uccello
a brevi scatti sull’asfalto.
Disegna un anello scarmigliato:
per fartici entrare
ho pagato tre lune di bosco.
Nel darti la mano ho omesso di dirti, amore,
che nell’allungarsi del tempo
forse tra noi
ci sarà meno spazio.
*
Dietro, in zona irrobustita
dai campi impaludati
noi inaccessibili
come punte di palma, di guerriglia.
Fuori tra la carta riempita
da dita di zelanti
difensori d’ufficio:
quale forma
ora assunta per l’inganno
può essere utilizzata
per la fuga senza venire
scoperti?
Quale male che t’intride,
come la nube che si chiude
la messe è solo vapore…
Intanto per ventura
poterci scoprire intinti di qualcosa
con il corpo (rimasto) che striscia
sulla secca di sabbia pianura
o nel dorso insperato del colle,
ad altri lasciare traccia (nascosta)
che dicemmo parola non saggia
non sola, ma solo antica
prima di ferirci d’eresia o di arsura.
*
Sempre mi innamoravo
di quella mano tesa e di quel nitore
intorno alla linea degli occhi.
Dovunque fossi, io, il cuore
non sapevo chi governava
la tempesta dei giorni:
se sentissi nel pugno il mare
vorrei avesse occhi
come i miei
come un aprile curvo
ai venti, magli del tempo.
Ma l’amore è lì, fermo
come un albero scheggiato
dalle raffiche, la giostra degli altri,
prendendomi per mano:
di quella davvero
sempre mi innamoravo
Quando l’amore, pare sbagliato e mai lo è- L’amore che si confonde con la natura che lotta alla stessa maniera, sempre con la forza di un sentimento che non sa perdere nemmeno un attimo della sua vita. Chiedere alla natura e solo ad essa la forza per continuare ad amare senza colpa senza perdono senza età-. Peli e la sua bravura questa volta mi ha davvero commosso. Grande.
Con sincera stima .
Grazie
leopoldo attolico –
Mi arrendo quando leggo versi come questi:
…
se sentissi nel pugno il mare
vorrei avesse occhi
come i miei
oppure
… nell’allungarsi del tempo
forse tra noi
ci sarà meno spazio.
Complimenti davvero.
…molto belle davvero queste poesie d’amore che però ci parlano anche del mondo, ponendolo, con le sue leggi spietate, a distanze siderali dai sentimenti…Qui regna la “smania di essere tutti uguali”( così come ci vogliono) e la comunicazione si fa impossibile, come certi assurdi ponti che congiungono gli argini di fiumi prosciugati e inesistenti o le antenne televisive che si contendono il rosso dei tramonti…E’ bene allora cercare lo spazio che non annulla proprio nell’amore, un mondo a parte. Chi si ama é l’uno per l’altro l’intero universo, la natura vi é incontaminata: mare, luna, bosco, l’albero scheggiato che resiste alle raffiche . Molto triste quando anche l’amore viene contaminato dalle leggi dell’uomo, dalla burocrazia: si profana lo spazio sacro, si compie un’eresia…Grazie