di Luca Visentini
Sette brani + Appunti di lettura di Ennio Abate
L’11 marzo
L’aula A della facoltà di Fisica è stracolma di operai, di studenti medi e degli stessi universitari. Siamo lì preconcentrati in più di cinquecento. C’è il tempo per una breve discussione, già tesa. Le indicazioni sono comunque chiare, il corteo sarà pacifico e autodifeso, nel senso che non provocheremo per primi la polizia ma risponderemo a un suo eventuale attacco.
Da troppe settimane la questura impedisce ogni nostra iniziativa pubblica il sabato pomeriggio a Milano. Ha vietato anche questa dimostrazione indetta per le 16 in Largo Cairoli e, sebbene la giunta comunale si sia dichiarata favorevole, il prefetto ha proibito persino un comizio alternativo in Piazza Fontana. Non solo, hanno concesso l’autorizzazione a un raduno della screditata Maggioranza Silenziosa e dei missini proprio a quell’ora in Piazza Castello, adiacente a Cairoli! È una sfida. Se cediamo, ci giochiamo il diritto di manifestare chissà per quanto ancora.
Il passaparola dei giorni precedenti ha funzionato sul lavoro e nelle scuole. In città è comparso un manifesto rosso e rettangolare con l’immagine dei cannoni della Comune di Parigi del 1871 e la scritta “L’11 marzo tutti in piazza contro la repressione e la strategia della tensione, contro il fascismo e per la liberazione di Pietro Valpreda”. Attacchinarlo non è stato semplice perché ha l’orientamento orizzontale, di un buon metro di larghezza, e i muri o i pilastri difficilmente offrono spazi così ampi. Milano risulta nondimeno tappezzata. L’anarchico Valpreda, dipinto dai giornali compresa l’Unità come “un personaggio ambiguo e sconcertante” o “il mostro” e “la belva” all’indomani dello scoppio della bomba nella Banca dell’Agricoltura, è tuttora in carcere, innocente, da oltre due anni. I recenti arresti di Franco Freda, Giovanni Ventura e Pino Rauti, smascherano l’odiosa montatura ed evidenziano la matrice opposta, borghese e di destra, dell’attentato. Ma il processo in corso, appena avviato, viene trasferito, rimandato. Il manifesto è firmato dal Comitato Nazionale di Lotta contro la Strage di Stato, che riunisce le varie organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. Aderiscono numerosi delegati dei Consigli di Fabbrica. Non Il Manifesto, che timoroso si allontanerà con una cinquantina di lettori in Piazza Cavour. Non il MS di Capanna, sdegnosamente arroccato in Statale e prossimo all’imperdonabile svolta stalinista.
L’11, alle 15, lasciamo dunque Fisica in silenzio. Non ci esponiamo per Via Ponzio, grazie a un sottopassaggio interno a Città Studi che ci conduce nei cortili di Veterinaria e di Agraria. Attraverso due cancelli in Via Celoria, che si aprono e richiudono in un paio di minuti, sgattaioliamo al Politecnico. Lì si aggrega il Comitato di Lotta d’Ingegneria. È la volta, grazie ancora a un sottopassaggio, del Collettivo Autonomo di Architettura, di Lotta Continua e dei restanti gruppi. Lungo una svelta serpentina di viette, sempre in silenzio, guadagniamo la metropolitana a Piola. Superiamo il migliaio. Occorrono due convogli. Alla stazione di Lanza, nel mezzanino, ci ricompattiamo. Usciamo allo scoperto. Ci avviamo lentamente, schierati per cordoni ed evitando slogan, in Foro Buonaparte. Dal nulla sbucano e si accodano tanti altri compagni. In prossimità di Piazza Castello ci fermiamo, siamo quasi in diecimila, rimaniamo zitti. Abbiamo e mettiamo paura, in un pomeriggio che pure è grigio. Ci giunge dagli altoparlanti del Movimento Sociale Italiano la voce di Ignazio La Russa che frettolosamente conclude il suo intervento. I nostri responsabili avanzano per trattare con i dirigenti delle forze dell’ordine. Ritornano prestissimo. Non hanno potuto accettare che consegnassimo gli striscioni e le bandiere, che ci facessimo perquisire. Ci dicono: – Su i caschi!
In pochi secondi, in più di mille copriamo anche naso e bocca con i fazzoletti. Giù per Via Sacchi e Via Ponte Vetero, puntiamo verso il centro. Ogni gruppo prende una posizione e a noi tocca Via Broletto. Una colonna di tram abbandonati e fermi per l’imminente scontro ne occupa un’intera corsia. Sarò nel ventesimo, o trentesimo cordone. Da Piazza Cordusio parte, con il lancio dei primi lacrimogeni, la prima carica della polizia. Per me è un debutto, con chi ho attorno indietreggio. Dalle file davanti, formate dai compagni del Molinari e del Casoretto, Ócio si gira e ci grida: – Dove cazzo andate? È soltanto una carica!
Controcarica! Abbiamo meno timori. Nello slargo all’incrocio con Via Cusani e le altre strade, sotto la perenne pubblicità di Armani, mi colpisce un candelotto sullo stinco. Penso che si spezzi. Non si spezza. Rialzandomi, però, urto inconsapevolmente Oreste Scalzone che sta per accendere e lanciare una bottiglia molotov. Gliela faccio cadere sul pavé. La bottiglia s’infrange e non brucia. Sono un ragazzetto, ma mi manda affanculo lo stesso. Arrivano le camionette della Celere a sirene spiegate. Dai vari cantoni, vengono ricoperte di molotov e di pietre. Gli agenti le abbandonano, si ritirano scomposti. Sull’unica jeep che non ha preso fuoco sale alla guida Astuzia, così chiamato da quando, nel tentativo di rubare una confezione di whisky nascosta dentro il giaccone al supermercato, gli si è sfilato e rotto il vetro per terra di fronte alla cassa. Fa un carosello trionfale.
Le forze dell’ordine s’incattiviscono. Non sparano più i candelotti lacrimogeni con un’inclinazione di 45 gradi, secondo le norme, ma mirano direttamente ad altezza d’uomo. Alle 17.10, fuori contesto, mentre cercano di sorprenderci alle spalle, colpiscono a morte in pieno volto un anziano e ignaro passante, Giuseppe Tavecchio, tra Via Verdi e Piazza della Scala.
Si fanno scudo dei fermati, poi li trascinano nelle retrovie tra due ali di neofascisti che collaborano sputando, minacciano con le pistole in pugno, picchiano a sangue, spaccano teste con il calcio dei moschetti, urlano: – Ammazziamoli! –. Ma poliziotti e carabinieri, nonostante il colossale spiegamento e ben tre ore di violenta repressione, non ne vengono a capo.
Non ci scoraggia nemmeno la sezione Palmiro Togliatti del PCI di Via Palermo, che si rifiuta di soccorrere un nostro ferito ritenendolo un teppista. La solidarietà ci arriva dagli autisti dell’ATM, che dispongono gli autobus di traverso a mo’ di barricata, e dagli abitanti dei quartieri di Brera e Garibaldi, allora popolari, che ci gettano i limoni per poterci inumidire i fazzoletti e sopportare il gas dei lacrimogeni. Ci sciogliamo solamente al termine del comizio volante in Piazza Gramsci.
Di sera il cielo si è rasserenato. Torno a casa con la filovia, sulla 92. L’ufficio politico della questura non vieterà più le nostre dimostrazioni per almeno cinque anni, giusto fino al giorno dopo il 14 maggio 1977.
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Il 12 dicembre del ’73
Ricordo con amarezza il pomeriggio scuro e freddo in cui il Movimento Studentesco di Mario Capanna, Salvatore Toscano e Luca Cafiero, uscì pomposamente dall’Università Statale in Via Festa del Perdono con un enorme stendardo raffigurante Stalin. Una svolta, un avvertimento, una minaccia, e non per gli avversari di classe. Mi colpiva nel periodo pure lo striscione di Potere Operaio, montato sulle aste più alte dei cortei, nonostante avesse uno scarso seguito a Milano. Non mi stavano antipatici quelli di PotOp, aderivano a ogni iniziativa, non rompevano le scatole, lottavano. E non lo gridavamo forse tutti noi, per le strade della città, “Po-te-re-opera-io!”? Non ero ancora consapevole della deriva estremistica se non proprio terroristica che molti di loro avrebbero intrapreso. Erano intanto al nostro fianco, sempre, mai settari. Il MS invece vedeva scemare l’egemonia sulla contestazione milanese e s’incattivì dedicandosi all’intimidazione delle altre formazioni della nuova sinistra, tranne Lotta Continua allora troppo forte e messa bene in piazza. Cominciò con Lotta Comunista, piccola fazione anch’essa totalizzante e particolarmente rognosa. Capanna la additava nelle assemblee: – Lotta Comunista, gruppo fassista… (sì, diceva letteralmente “fassista”) –. Passò a noialtri: ormai maggioritari in fabbrica e a scuola, nei quartieri, ma per ciò che concerne la difesa dell’agibilità politica, eccetto i compagni del Molinari, preparati quanto i vigili urbani. Alle manifestazioni ci limitavamo perlopiù a fermare il traffico, con le bandiere.
Si avvicinava così il 12 dicembre, dal 1969 sacro, uno spartiacque, la presa di coscienza che lo Stato, in fatto di violenza, era smisuratamente feroce. La bomba nella Banca dell’Agricoltura l’avevano collocata materialmente i fascisti, istigati, utilizzati e coperti nelle indagini, però, da certi governanti e dai servizi segreti. Contro la madre delle stragi e contro la repressione, e per non dimenticare Pinelli, ci saremmo di nuovo mobilitati.
Il 10 dicembre 1973, diversi nostri studenti medi vengono offesi davanti agli istituti. L’11, poco prima dell’assemblea convocata alla Statale per preparare la manifestazione dell’indomani, gli stessi medi con gli universitari entrano nell’aula magna quando è ancora, stranamente, buia. Si accendono all’improvviso le luci, vengono aggrediti. Tornano malconci in sede. Si muovono immediatamente gli operai, Cippone in testa, e riescono a imporre un intervento al microfono sebbene il tavolo della presidenza sia presidiato da un branco d’isterici. Inveiscono, questi ultimi: – Trotskisti di merda! –. Mi domando: – Ma dove sono i trotskisti?
È il 12. Mi mandano con un furgone a montare preventivamente il palco per il comizio conclusivo, assieme a Stakanov. Lo posizioniamo nell’arco nord-orientale di Piazza Fontana, là dove sorgeva lo storico Hotel Commercio. Mentre stringiamo i bulloni dei morsetti ai tubi Innocenti non posso non pensare a questo ex albergo abbandonato, occupato nell’autunno del ’68 e trasformato in una Casa dello Studente e del Lavoratore, sgomberato e raso al suolo nell’agosto del ’69 su sollecitazione dell’allora consigliere comunale Bettino Craxi. Un pugno nell’occhio quotidiano in pieno centro cittadino per la borghesia! Quattordicenne, avevo fatto in tempo a visitarlo e ad apprezzarne l’affollata comunità, l’attività culturale e di controinformazione, i coloriti dazebao. Posate le assi sopra il telaio, rimane il problema dell’allacciamento degli altoparlanti alla corrente elettrica. Abbiamo una prolunga di oltre cento metri. Il comando della polizia locale in Via Beccaria si rifiuta. Combino con un ristorantino nei paraggi.
Giunge il corteo, da Via dell’Arcivescovado. Per prima, la nostra organizzazione, la più numerosa con i vari simpatizzanti. Facciamo l’errore di disporci per il largo, a partire dai Comitati Unitari di Base delle fabbriche, dal palco fin quasi alla banca. È la volta dello spezzone degli stalinisti. Come arrivano, senza alcun pretesto, a bruciapelo, caricano il Comitato di Agitazione delle scuole. Sprangano, si accaniscono, s’inebriano nel farlo. A chi domanda cosa stia succedendo rispondono che sono quelli della Quarta Internazionale che se le danno tra di loro. Ma LC, pervenuta per ultima, non abbocca e si mette di mezzo.
Più tardi, in sede, i medici suturano i tagli di tanti ragazzi. Chi è qui è fortunato, i feriti gravi si trovano ricoverati negli ospedali. Vivo una notte sconvolgente che non potrò scordare. Scoprirò degli eccessi, addirittura l’omicidio di un neofascista. Ma non le avremmo più prese.
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Lo Scannatoio
Avevamo preso in subaffitto da Sergio, combattivo e vispo tranviere del Comitato Unitario di Base dell’Azienda Trasporti Municipali, un monolocale con cucinotto sulla Ripa di Porta Ticinese, al numero 11. Pagavamo all’incirca quindicimila lire al mese. Per l’esattezza, la rata del trimestre dal 29 giugno 1974 al 29 settembre 1974 ammontava a L. 46150.
Il monolocale stava in una vecchia casa di ringhiera, con il cesso alla turca all’inizio della ringhiera medesima e in comune agli altri appartamentini dello stesso piano. Nel nostro caso, il primo. Fortuna che noi restavamo appartati al termine di tale ringhiera e che nel cucinotto non mancava il lavandino.
Ci andavamo per fare l’amore, perché allora si diceva così, non ancora a scopare.
Quando entravamo nell’appartamentino, sentivamo un freddo becco. A me bastava in ogni modo che passasse un minuto dall’accensione della stufa a cherosene. Ma Elisabetta respingeva il primo assalto e guadagnava tempo. Vestiti di tutto punto, sotto le coperte, lei leggeva intanto il suo settimanale preferito, Grazia. La femminista… Cercava magari la segnalazione del ristorante dove avevano girato una certa scena del film Anonimo Veneziano per quando saremmo andati a visitare, realmente, Venezia. Io riassaltavo. Lei quindi sfogliava in fretta e furia un’altra pagina ed esclamava: – Bricolage! –. Pazientavo. E nel momento in cui la temperatura della stanza era diventata per entrambi sopportabile, lei abbandonava la rivista e finalmente ci scannavamo.
E proprio Scannatoio venne chiamata la nostra minicasetta. Successe quando gli altri compagni dell’organizzazione, approfittando della vicinanza con la sede, cominciarono a chiederci le chiavi del monolocale in prestito. Per qualche ora. Per più tempo. Quelli del mordi e fuggi, ci lasciavano dei bigliettini dolci e allegri di ringraziamento. Astuzia, dopo che la sua compagna se n’era andata da un pezzo, lo ritrovammo una volta, io ed Elisabetta, che stava dormendo lì solo soletto da due giorni difilati.
Finché uno dei miei fratelli, assiduo frequentatore anche lui dello Scannatoio, si prese le piattole. Lui e la sua ragazza, quella che doveva diventarne la legittima sposa. Per senso di responsabilità avvisai i miei numerosi ospiti e per un’intera giornata fu un continuo andirivieni, nei bagni della sede dell’organizzazione, di compagne e compagni, allarmati, a controllarsi. Ma ci andò bene, nessuna epidemia. Mia sorella, perfida, sostenne che nostro fratello se le era prese per suo conto, andando a puttane. Elisabetta, in tutti i casi, disinfettò la stanza e pure il cucinotto.
Un anno, in particolare, cercai di vivere con continuità nello Scannatoio. Fu l’anno in cui i gestori della Trattoria Toscana di Corso di Porta Ticinese ci chiesero di tenere nell’ampio cortile della nostra sede il loro cane Rolf, che non potevano più custodire. In cambio ci portavano tutti i giorni qualcosa da dargli da mangiare e se noialtri andavamo a mangiare a nostra volta in trattoria ci facevano degli sconti significativi.
Rolf era grande e bellissimo. Un pastore tedesco completamente nero, figlio di un campione del mondo. La domenica mattina che un compagno, all’insaputa della sua presenza, scavalcò il muro di cinta perché non c’era nessuno ad aprirgli, gli morse il sedere.
Di notte, quando sul tardi mi recavo da solo a piedi nello Scannatoio per andare a dormire, portavo con me Rolf. Non si sapeva mai, dati i tempi. E Rolf era un formidabile dissuasore nei confronti della malavita e degli eventuali agguati fascisti. Percorrevamo quasi tutto il corso. Attraversavamo Piazza XXIV Maggio e la darsena dei Navigli. Poi, Rolf, se ne stava buono buono nel cucinotto. E al mattino, regolarmente, apriva con il muso la porta della camera e mi faceva capire che era venuta l’ora di riportarlo fuori.
Dovetti però presto rinunciare ad abitare stabilmente nello Scannatoio. Un muro trasudava troppa umidità e mi ammalavo ripetutamente. Ritornai, facendo una figuraccia, a casa dei genitori.
Ma in un fine settimana riuscii almeno a portare Rolf su con me all’Alpe Veglia. Il cagnone gioiva come un bimbo, saltando a giugno per le macchie di neve che non aveva mai visto e che incontrava lungo il prato immenso e sospeso. Tra i larici e i mirtilli, i rododendri e i sogni.
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Gaetano
Non eravamo violenti.
Ma dopo la bomba di Piazza Fontana in risposta al Sessantotto dei giovani e all’autunno caldo dei lavoratori nel 1969, dopo l’insostenibile suicidio di Giuseppe Pinelli, dopo una repressione che colpiva unilateralmente gli operai ai picchetti delle fabbriche e gli studenti riuniti in assemblea nelle scuole, dopo le brutali cariche della polizia ai cortei che rivendicavano diritti e domandavano riforme, dopo i fermi e di nuovo le botte e gli arresti sempre e solo a sinistra, dopo che per anni era stata concessa ai fascisti la licenza di accoltellarci e di spararci, dopo un’infinità di provocazioni, dopo le ulteriori stragi come quella di Brescia nella quale morirono anche due compagni dell’organizzazione, dopo i golpe in Grecia e in Cile e lo stesso tentativo arrivato in Italia al punto che il pur non benevolo Partito Comunista ci allarmò affinché i nostri dirigenti dormissero fuori di casa una certa notte, dopo che il popolo vietnamita aveva dimostrato di saper resistere al più potente aggressore del mondo, fummo indotti a difenderci e a prevenire altri attacchi.
Spiace che il 99% del nostro impegno, limpido e irripetibile, verrà sottaciuto nei motori di ricerca del prossimo millennio.
Gaetano aveva i capelli rossi e portava una sciarpa rossa. Indossava l’eskimo persino nelle gite che facevamo in montagna. Era del mio quartiere e quando si accomiatava da noi al di là di Viale dei Mille lo vedevo ripercorrere Via Goldoni, stretta ma lunga, tra le più lunghe di Milano. Anche senza nebbia non ne scorgevi il fondo. Questa strada lo perderà. Gaetano. Aveva compiuto ventun anni, era puro, convinto, determinato, da operaio lottava assieme al padre in fabbrica, completava gli studi artistici alla scuola serale del Castello, dava una mano alle povere famiglie che occupavano il grande caseggiato sfitto di Piazza Risorgimento, aderiva al Comitato Antifascista di Porta Venezia. I fascisti. Provenivano, la sera del 27 aprile 1976, dalla sede in Via Guerrini del MSI. Ancora: del Movimento Sociale Italiano! Quello di cui sollecitavamo la messa fuorilegge, come prevedeva d’altronde la Costituzione. Erano dunque usciti dal covo in nove per assecondare il loro intento principale, la caccia ai comunisti. Giravano sulle automobili. S’imbatterono presto nel gruppetto di compagni che stava rientrando da una riunione del comitato. Un ragazzo e una ragazza si accorsero in tempo del pericolo e riuscirono a scappare. In tre vennero intrappolati. I nove non conoscevano i tre, bastò la sciarpa rossa di Gaetano. Scesi dalle macchine, lo picchiarono. E una volta che fu a terra, all’angolo di Via Goldoni con Via Uberti, infierirono. Cominciò Gilberto Cavallini a piantargli il coltello nel corpo già privo di sensi, gridando: – Sporco comunista! –. Poi l’arma passò di mano in mano, così che ogni squadrista potesse conficcarla. Volevano propriamente ammazzare. Ferirono gravemente pure i due amici di Gaetano. Lui si spense il 30 aprile in un ospedale.
Quanto mi era vicino Gaetano? Al suo funerale pianse tutta la nostra compagnia da adolescenti. Ricordo gli occhi lucidi di Francesca, in particolare. Fossi stato a casa a quell’ora, il 27, avrei potuto sentire le urla.
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Pacifici, non pacifisti
Alla violenza ti costringono. La violenza, la impari. Difendersi è difficile, mentre le stai prendendo hai già perso e cerchi solamente di limitare i danni. Passi alla prevenzione, al contrattacco, con l’esperienza. E qui rischi di nuovo, se non sai quando fermarti. Potresti entrare nell’abominevole spirale. La prima volta che colpisci qualcuno o qualcosa scuoti te stesso. L’eco dell’impatto ti rimbomba dentro. E non puoi più rimpiangere, per esempio, quella “brigata lepre” che per ingenuità e imperizia veniva così derisa da quasi tutti gli altri gruppi. È tardi. Tuo malgrado, sei diventato un guerrigliero urbano. Sempre più bravo, siete egemoni a Milano. Usi le molotov, sono come la marijuana, ti consentono di alleggerire magari una brutta situazione. Purché non le tiri alla cazzo addosso a una persona o in un ambiente chiuso e popolato. Fanno scena, un po’ di confusione, possono risolvere una carica demotivando i poliziotti ragionevoli ma inibendo anche quei fascistoni in divisa che si riprodurranno davanti agli oppositori del G8 a Genova, a Federico Aldrovandi a Ferrara, a Stefano Cucchi a Roma. Quelli a cui prudono le mani e che vanno a caccia delle zecche. Milano, ancora, è casa tua. La giri disinvoltamente, persino al buio nella notte. Ti ritrovassi, altro esempio, sotto il porticato di Via Hoepli all’angolo con Via Agnello, e dal fondo dov’è la stessa Libreria Hoepli cogliessi un’improvvisa agitazione, sentissi un uomo elegante gridare: – Al ladro, al ladro! –, vedessi un eroinomane malmesso in bicicletta pedalare forsennatamente verso te indossando un bel borsello, ecco, ti scanseresti e lasceresti passare il fuggitivo. Rinunciando alla spintarella laterale che interromperebbe sul nascere lo scippo non per un desiderio sommario di redistribuzione della ricchezza. Ma per l’immediata percezione che se intervenissi lo sciagurato sbatterebbe inevitabilmente contro le vetrine o peggio contro le colonne squadrate, aggravando addirittura il contesto. Ti muovi bene. Conosci i rapporti di forza e adegui le forme della lotta. Non fai un passo troppo più lungo della gamba delle masse. Senza lo scontro di classe in atto saresti pacifista, oltre che tendenzialmente pacifico.
Mi trovo adesso in sede. Stiamo caricando con calma nel furgone, in una quindicina, gli striscioni e il materiale vario per la manifestazione rituale del sabato pomeriggio. Sopraggiunge da fuori un compagno trafelato e ci avverte che in Piazza della Resistenza Partigiana hanno appena fermato l’auto di due nostri militanti della provincia, vi hanno rinvenuto una borsa con delle bottiglie molotov, li stanno portando via. Via, subito, anche noialtri! Afferrata ciascuno una bandiera, corriamo per Via Arena, svoltiamo in Via De Amicis, imbocchiamo Via Cesare Correnti. Avvistiamo in lontananza, incredibilmente rispettosa del semaforo rosso al Carrobbio, una macchina dei carabinieri. Si sentono a quel punto certi dell’arresto. Li raggiungiamo e li circondiamo. Scendono, sorpresi, dall’abitacolo. Brandiamo le aste delle bandiere. Ci temono, esitano, ci lasciano fare. Invito i due compagni a uscire dalla macchina alla svelta. Mi rispondono che non possono, che ormai le loro carte d’identità sono state sequestrate. Noto i documenti sul cruscotto. Li riprendo. Torniamo tutti quanti, accorti e in salvo, indietro. Un dirigente di Lotta Continua, che transitando per caso sul marciapiede opposto ha assistito alla fulminea azione, ci darà dei pazzi. Fra tre mesi soltanto, in effetti, potranno per molto meno spararci.
Non capisco poi, ai cortei, i pochi ma insistenti masochisti del MS, di LC o dell’Autonomia, che ci sfottono tuttora con la trita storia della brigata lepre, veloce nel sottrarsi agli incidenti. Si rivolgessero a me, soprassiederei, lasciandoli pure rosicare per aver perso o mai avuto il comando della piazza milanese. No, lo dicono proprio in faccia a Giorgino, il quale reagisce a modo suo.
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Violenza e violenza
È successa una cosa brutta, anzi bruttissima, roba da diecimila potenziali dannati in un giudizio universale.
Già lo sapevo, del fattaccio. Non sapevo però che ci riguardasse direttamente. E non so ancora che saremo citati, da una memoria selettiva e digitale, quasi esclusivamente per questo.
Un po’ come per le Brigate Rosse, delle quali sostenevamo all’inizio nelle piazze che avessero sede in questura e fossero figlie di Freda e Ventura. Salvo poi riconoscere che con le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo. Prestando inoltre il fianco a chi vorrà storicamente confondere un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole, con l’incattivimento successivo, col piombo.
Ciò non toglie che Sergio Ramelli nel 1975 in Via Paladini lo abbiamo ucciso per davvero noi. L’ho scoperto soltanto un mese fa, quando hanno arrestato a sorpresa e con clamore alcuni compagni della nostra organizzazione di allora. E adesso, sabato 12 ottobre 1985, vado nuovamente a un convegno per capire.
Che c’è da capire? L’indagine è chiarissima: un magistrato in carriera, con un passato da contestatore nelle file dei socialisti libertari, ritrova fra i pentiti di Prima Linea una sua vecchia conoscenza; hanno parecchio da raccontarsi e il pentito, che dopo averci gridato contro nel ’77 in Piazza del Duomo “Via, via, la nuova polizia!” ha proseguito con un’arma da fuoco sino in Via De Amicis ammazzando propriamente l’agente Antonio Custra, a proposito del delitto Ramelli, rimasto insoluto, indirizza l’ex compagno di attivismo giovanile, diventato giudice istruttore, verso noialtri; tre pentiti ulteriori, bergamaschi, confermano, e uno di loro restringe il campo alla sezione milanese di Città Studi (glielo aveva confidato una morosa); un medico, anch’egli in carriera, precisa che i colpevoli vanno cercati nella cellula degli studenti, per l’appunto, di Medicina; almeno la metà degli arrestati, ormai professionisti, mariti, padri, presunti uomini fatti, è rea confessa. Dunque non c’entra la Banda Bellini, che certe voci e leggende metropolitane sembravano coinvolgere. C’entrano dieci militanti nostri, sì, appena l’uno per mille. Ma il resto, cioè il grosso degli iscritti, non è forse corresponsabile? Ma io?
Mi viene il dubbio: hanno esagerato nella circostanza a colpire, o tutte le altre volte è andata miracolosamente bene (“bene” perché non c’è scappato il morto, “miracolosamente” perché i neofascisti a Milano li abbiamo combattuti alquanto)? Un dubbio atroce e comunque sia quello di Ramelli è un omicidio concreto e non posso umanamente non dispiacermi, comunque sia lui è morto dalla parte sbagliata. Oh, non ho mica scordato le bombe, le stragi, le impunità, i tentati golpe, il calcio dei fucili nei fianchi e gli spari addosso, le coltellate, i tanti di sinistra soppressi e fra questi gli intimi amici perduti, il cuore in gola ogni qualvolta passavo per Corso Monforte diretto al centro con la E (la futura linea 54) e avvistavo i camerati sanbabilini della Giovane Italia che avrebbero potuto individuare sull’autobus il mio eskimo e la mia sciarpa rossa! In divisa o meno non l’ho dimenticato, il fascismo, e so chi l’ha iniziata, la violenza.
Sono al convegno. La familiare Sala della Provincia in Via Corridoni è piena zeppa. Non lasceremo che processino una generazione.
Introduce un eccellente Mario Capanna, da mo’ affrancatosi dal Movimento Studentesco. E sul palco dove si alternano gli oratori compare la grande scritta “1968-1976 le vere ragioni” e più in piccolo “La politica, le speranze, la ricerca del nuovo, le trasformazioni, la reazione del potere, gli errori, le lezioni per il futuro”. Per la giornalista dell’Unità e di Repubblica Miriam Mafai non avremmo alcuna attenuante e dovremmo recitare in massa l’Atto di dolore. Il poeta e marxista Franco Fortini invece ci assolve, sorridendo di chi sulla violenza fa della generica morale come se il quotidiano piatto di pastasciutta sopra le nostre tavole non fosse stato sottratto alle popolazioni che muoiono di fame altrove nel pianeta. Ad Adriano Sofri, leader in quegli anni di Lotta Continua, presto un’attenzione particolare. Lo seguo fin da un lontano pomeriggio estivo a Parma, dove per solidarietà ero andato ad ascoltare un suo appassionante comizio in ricordo del ventenne di LC Mario Lupo, assassinato dagli squadristi locali. Dice oggi Sofri: – Abbiamo fatto cose giuste, ma ci siamo macchiati di misfatti –. Invertendo l’ordine della frase, condivido: – Ci siamo macchiati di misfatti, ma abbiamo fatto cose giuste –. Potrei d’altronde averne mille, di dubbi, non certo sull’esito involontario dell’azione contro Sergio Ramelli. E c’è violenza e violenza…
Intanto può bastarmi. Quanto a impegno e partecipazione, sono scoppiato da un pezzo. Rincontro nella sala Piede, concordiamo di non attendere la conclusione degli interventi, andiamo a prendere la 54 in Largo Augusto.
La fermata è di fronte ai portici dell’Hotel President. In duecento, tra poliziotti e carabinieri, vigilano d’intorno sul nostro raduno. Sarebbero stati un tempo un po’ pochini, riempiono in ogni caso al momento l’area pressoché intera. Sono le otto di sera e c’è fiacca. Nemmeno io e Piede ci turbiamo o li scomponiamo. Nessun altro è in giro. Notiamo, tra loro, un’improvvisa concitazione. Sentiamo la chiamata di un’autoradio. Sentiamo dalla non distante Via Larga sopraggiungere un veicolo a gran velocità. Vediamo il responsabile del presidio, in borghese, disporre le forze dell’ordine a ventaglio. Chiudono lo stretto sbocco di Via Durini e lasciano aperta l’invitante entrata di Via Verziere. Vi puntano le armi. Sembra una scena da Blues Brothers. E per evitare eventuali pallottole vaganti noi due ci ripariamo dietro le colonne squadrate dalla parte del President. Il presunto delinquente in fuga e intercettato abbocca, svolta per sua sfortuna dal Verziere verso Largo Augusto, va incontro all’imprevedibile sbarramento. Dev’essere un pilota esperto e guida una macchina bianca, sportiva, assai potente. Riesce a decelerare senza sbandare e a bloccarsi a un secondo e a un metro dal disastro. Rimane immobile nell’abitacolo, ostenta le braccia e le mani sollevate. Gli si accosta, pistola in pugno, il responsabile di piazza in borghese. Quest’ultimo è di età media, non alto, ha una faccia normale. Saprei tuttavia riconoscerlo e circolarlo con un pennarello se me lo mostrassero in una fotografia, un domani, in mezzo a tanta gente. L’omino, probabilmente un commissario, avvia una breve trattativa. Dice al tipo al volante che se non opporrà resistenza non gli verrà procurato alcun male. Il tipo annuisce, libera la chiusura della portiera, rialza braccia e mani lentamente. L’omino lo strappa fuori dalla macchina, con il calcio della rivoltella gli spacca i denti che ha davanti, lo cede ai sottoposti. Non ci stupiamo e neanche commentiamo. Ci spostiamo in Corso di Porta Vittoria per rientrare con la 60, io a casa, Piede al bar.
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Le Dolomiti di Brenta
Mi citofonano dalla portineria, dove sono presenti due poliziotti che devono consegnarmi una carta. Scendo con un po’ di apprensione, è il 13 ottobre 1986 e non me lo aspettavo, ritiro un atto di citazione. Devo comparire fra tre giorni alle ore 15 davanti al dr. Guido Salvini del Tribunale di Milano, per “affari di giustizia”, presso la terza sezione Digos della questura in Via Fatebenefratelli 11, per mia fortuna al secondo piano.
Penso subito a Giuseppe Pinelli. E cosa mai vorranno da me che non faccio politica attiva da quasi un decennio? Salvini è comunque il giudice istruttore che sta indagando sul delitto Ramelli.
Forse c’entra Piede, recentemente ha visto la Madonna e si è convertito a Gesù Cristo. Cimitero sostiene che la colpa è di tutte le donne della città perché nessuna gliel’ha data e così lui è impazzito. Fatto sta che Piede, un anno dopo gli arresti dei presunti colpevoli dell’aggressione mortale al giovane neofascista Sergio Ramelli, si è presentato spontaneamente di fronte al giudice per affermare che loro erano soltanto degli occasionali poveretti e che lui invece, lui sì, ne aveva combinate di ogni e voleva espiare. Tirando in ballo probabilmente e confusamente qualche amico. Il ragazzo è stato colpito il 13 marzo 1975. Dopo 48 giorni di coma muore. Gli indiziati vengono catturati nel settembre del 1985. Il processo comincerà il 16 marzo 1987. A un’udienza dello stesso dibattimento andrò per curiosità e per comprendere anch’io, osserverò Piede su una panca fuori dall’aula del Palazzo di Giustizia che mi dirà sconsolato: – Cosa fai, non mi saluti nemmeno? –, lo saluterò con le braccia allargate, entrerà nell’aula e pur non essendolo si posizionerà tra i maggiori imputati, finirà a gettarsi dall’alto della finestra di casa. Esorcizzando il dolore con una delle sue battute, Cimitero lo piangerà intimamente. Io lo ricorderò in quel condominio quando di sera mi aveva cotto una bistecca appena aveva intuito che non avevo cenato.
Vado in questura. Al bar nelle immediate vicinanze prendo un caffè, per concentrarmi. Guido Salvini è a sua volta figlio di un autorevole magistrato. Sarà un confronto nel confronto? Ha contestato, è passato inoltre per la Quarta Internazionale, è approdato al PCI. Credo che abbia approfittato del movimento in cui ha militato per incalzare da pentito i pentiti, che abbia peccato di protagonismo e di malafede stimolando nelle conferenze e nelle interviste certa stampa a retrodatare l’inizio degli anni di piombo al ’68, che sia incorso nella grave scorrettezza – stante il ruolo – di anticipare una sentenza. Adesso si atteggia fumando la pipa. Non lo stimo. E d’altronde ho già visto per una scomposta ambizione professionale laureati in scienze forestali programmare inutili e devastanti strade agro-silvo-pastorali, architetti degli studi di progettazione circuire impreparati amministratori comunali, giornalisti rinnegare la propria gioventù o rosicare non avendola pienamente vissuta. Con obiettività, avremmo perso ugualmente, con le nostre analisi ancora parziali e sopravvalutate avremmo procurato chissà quali disastri se fossimo andati al potere, con tanti errori e diverse responsabilità stavamo nondimeno dalla parte giusta. Bene, posso entrare.
Mostro la citazione al piantone dell’ingresso, mi affaccio con un brivido al cortile interno, salgo per le scale ed eccomi al cospetto del magistrato coetaneo. Non siamo purtroppo in un film, ma c’è il canonico appuntato in disparte pronto a battere a macchina. Salvini esordisce piazzando una gigantografia del mio volto sulla scrivania e mi domanda: – Lei è questo? –. Mi spavento. Mi tranquillizza spiegandomi che è un ingrandimento tratto da una vecchia carta d’identità. – Ah! –. Compie un passo falso. Mi sottopone alla visione una seconda fotografia di un volto e mi ridomanda: – E lei è questo? –. Vado in discesa. Non c’è niente che dia più sicurezza dell’avere un’indiscutibile ragione. Quest’altro, non sono affatto io. – Vede, abbiamo entrambi i capelli lunghi ma l’attaccatura è molto differente –. Lo ammette, non nascondendo la delusione. Segue un imbarazzante silenzio. Ci riprova. Tenta il tutto per tutto e sparpaglia una serie d’immagini scattate durante varie manifestazioni. Alcune persone vi risultano circolate da un pennarello rosso. Mi chiede se per caso ne riconosco qualcuna. Esamino attentamente e lentamente, no, gli segnalo però in mezzo ai dimostranti un nostro deputato… e un consigliere comunale. Ha un moto di stizza. Sbotta: – Siete tutti uguali, voi di Avanguardia Operaia! –. Allargo le braccia anche lì. Del resto ero ai margini, frequentavo le scuole serali.
Si ricompone. Mi congeda. Aggiunge: – Un momento! Lei mi ha accennato che di mestiere compila guide delle Dolomiti e io la prossima estate avrei intenzione di percorrere la Via delle Bocchette Centrali. Com’è, posso farcela? –. Lo rassicuro che è perfettamente attrezzata, basta non soffrire di vertigini. Tengo per me che in Brenta sarebbero da preferire le selvagge cavalcate di cresta.
***
Ennio Abate, Appunti su “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini
Ma voi senza parlare Mi rispondete: «Non ricordi quel ragazzo sfregiato la sera dell'undici marzo 1971 che correva gridando "Cercate di capire questa sera ci ammazzano cercate di capire!" La gente alle finestre applaudiva la polizia e urlava: "Ammazzateli tutti!" Non ti ricordi?» Si, mi ricordo. (da Franco Fortini, Italia 1977-1993, in Composita solvantur, Einaudi, Torino 1994)
1.
Luca Visentini ha scritto un bel romanzo composto da racconti densi e brevi. Una prima parte è dedicata ai suoi ricordi d’infanzia e d’adolescenza, una seconda agli anni della sua formazione politica e della militanza in Avanguardia Operaia. L’ambiente dominante è Milano. Ad uno come me, che a Milano è arrivato dal Sud nel ‘62 e a quella organizzazione politica ha partecipato (tra 1968 e 1976), la seconda parte parla di più, perché nomina luoghi, persone e fatti che ho conosciuto. E perciò dichiaro da subito che ho letto il suo libro con una disposizione d’animo fraterna, non pignola, mossa soprattutto dalla volontà di capire quanto le ragioni della sua militanza coincidessero con le mie, al di là di alcune differenze tra noi: lui «guerrigliero» nel servizio d’ordine e alle prese con gli scontri diretti con fascisti e polizia, io in quelle lotte un po’ “renzo tramaglino meridionale”[i] e poi, per scelta, “compagno periferico”; lui, molto più giovane di me, investito in pieno anche dai discorsi della rivoluzione sessuale e del femminismo, io di striscio o in altri modi, perché già ammogliato e con figli.
2.
Cominciamo dal titolo: «Sognavamo cavalli selvaggi». Nel verbo all’imperfetto sento una velata nostalgia, un rimpianto. L’immagine dei cavalli selvaggi rimanda, sì, al senso di una libertà vigorosamente giovanile che moltissimi in quegli anni provarono, ma ha (forse solo per me) un alone troppo romantico. E tuttavia c’è da dire che nei vari capitoli (ciascuno con un titolo) s’attenua e quasi svanisce. Visentini , infatti, usa un linguaggio chiaro, brioso, colloquiale e preciso anche nei dettagli.[ii] Il suo modo di descrivere è realistico, secco, senza sbavature intellettualistiche o psicologiche. A volte mi pare prevalga la schematicità di chi è abituato a parlare ai suoi, a gente che conosce bene e con le quali condivide lo stesso universo politico e ideale. Altre volte conserva quasi intatte persino le passioni partigiane e alcune chiusure settarie e competitive di allora.[iii] È come se quei compagni o quegli avversari fossero ancora presenti; e al presente, ancora oggi, si potesse parlare a loro dell’allora. Anche le sue valutazioni politiche sono taglienti e qualche volta viscerali. L’unità al romanzo la danno, secondo me, il percorso cronologico lineare e la voce narrante, sempre la medesima nei vari capitoli, che si snodano lungo una traccia autobiografica: dall’infanzia in un quartiere milanese alla formazione scolastica, alla militanza. Scorrono veloci – un montaggio quasi cinematografico – squarci di vita quotidiana: in una famiglia proletaria, in parrocchia, a scuola, con gli amici, durante le feste da ballo; e si delineano le sue passioni: per le prime ragazze, i Rolling Stones, il cinema, il calcio, la montagna. Poi il racconto delle prime manifestazioni, assemblee, occupazioni. Quando arriva agli anni più intensi della lotta politica, Visentini ridimensiona il tono svagato e quasi sbarazzino con cui ha rievocato l’adolescenza; e si fa soprattutto cronista obiettivo, limitando i commenti a lampi brevissimi dai quali è facile intuire il suo assenso o dissenso politico, le sue simpatie e antipatie. Non so dire se raggiunga fino in fondo un equilibrio tra la narrazione delle vicende sentimentali e di quelle politiche. Perché sono troppi i fatti – drammatici, incasinati, talvolta grotteschi e persino banali – che accumula in queste sue pagine e si sente quella «angoscia di spossessamento di fronte agli avvenimenti»,[iv] tipica di quegli anni convulsi che non permette di dominare del tutto il groviglio contraddittorio di paure, aspirazioni, ambivalenze e ideologie di allora. (A me pare che lo evidenzino soprattutto le due lettere «Dall’Inghilterra» e «Da un primo amore» per la parte emotiva; e i dieci capitoletti intitolati «Occhio!» per la parte politica).
Raffaele Donnarumma, uno studioso di letteratura contemporanea, in un suo saggio dedicato alla narrativa italiana a carattere politico degli anni Settanta ha così sintetizzato la differenza enorme dall’oggi:
«L’impressione che gli anni tra il 1968 e il 1978, per scegliere come estremi imprecisi le date simbolo della contestazione e dell’omicidio di Aldo Moro, siano stati l’ultima età eroica della Repubblica – l’ultima età, cioè, in cui i destini personali si potevano identificare con quelli collettivi, in cui si consumavano i grandi conflitti, e in cui ciascuno poteva legittimamente pretendere di fare la storia – porta con sé una certa aria di retorica e di nostalgia, ma è tutt’altro che infondata». [5]
E nel romanzo di Visentini questa interpretazione mi pare trovare conferma. Nelle sue pagine, infatti, vengono rapidamente evocate le tante lotte di quegli anni per rendere più umani i rapporti nelle fabbriche, nelle scuole e nei quartieri di periferia, ma anche il loro stretto legame con le esperienze di vita proletaria e comunitaria di quei tempi (nel quartiere di Porta Ticinese soprattutto) euforica, scanzonata, erotica, spavalda, sboccata, che lui e i suoi amici, staccandosi spesso dolorosamente e non senza contraddizioni dalle forme di vita assorbite in famiglia o nella scuola, vissero godendo di libertà impensabili per le generazioni precedenti; e, credo, anche successive.
4.
Trasparente è la sua intenzione di salvaguardare proprio la gioia, la vitalità e la bellezza di tali esperienze e di non confondere gli anni della rivolta partita nel ’68- ‘69 con quelli successivi dei cosiddetti anni di piombo. Eppure a me pare che su quella innocenza della rivolta incombesse già da subito ( e la strage di Piazza Fontana è il primo segnale), accrescendosi poi nel corso del decennio, una cappa pesante, come quella evocata in un verso di Baudelaire:(«Quand le ciel bas e lourd pèse comme un cuvercle».[6] E ripensando a quegli anni la nostra memoria cozza proprio contro questo ostacolo duro, impenetrabile, che – me ne sono convinto – è politico ma anche esistenziale e antropologico.
5.
Il romanzo di Visentini, per quel che ne so, è una delle pochissime testimonianze di carattere letterario venute finora da ex militanti di Avanguardia Operaia. Un’altra, di cui sono venuto a conoscenza di recente, è quella di Claudio Cereda. Perché così poche? Mi ha sempre colpito la scarsa o mancata rielaborazione pubblica dell’esperienza di Avanguardia Operaia, specie se si fa il confronto con le memorie, i romanzi, le storie (Ricordo la «Storia di Lotta Continua» di Luigi Bobbio) di militanti di altre organizzazioni politiche. So che sono state avviate anche raccolte di storie di vita.[7] La ricerca storiografica è pur andata avanti (coi lavori di Giovanni De Luna, Paul Ginsborg, Guido Crainz), magari in modi che a me paiono sfasati rispetto alle raccolte di storie di vita e alle testimonianze individuali, anche letterarie (o cinematografiche: Bellocchio, Giordana, ecc.), per cui i risultati poco s’incrociano o s’integrano. E ho l’impressione che tuttora manchi una cornice storica abbastanza chiara entro la quale una singola vicenda autobiografica o un bilancio soggettivo possa collocarsi, riducendo i punti oscuri o incerti. (E non parlo – sia chiaro – di memoria condivisa, che non c’è e non so quanto mai ci potrà essere, come dimostrano, per la Resistenza le ricorrenti polemiche ad ogni 25 aprile e per gli anni ’70 quelle sulle apparizioni televisive di ex lottarmatisti.[8] Ma resta per me la domanda: perché quelli di Avanguardia Operaia hanno, finora almeno, taciuto o scritto così poco? Non conosco le ragioni di una tale autocensura e evito in questa occasione ogni illazione. Posso soltanto pensare al fatto che nella discussione pubblica gli eventi accaduti negli anni ‘70 restano tuttora un terreno minato e rischioso.
6.
Ed, infatti, tanto per far capire ai più giovani quanti nodi irrisolti ci sono in quegli anni Settanta, basta ricordare che sono gli anni della «strategia della tensione» e poi del «compromesso storico» e, nel 1978, dell «affaire Moro», che vide DC e PCI rifiutare le trattative per la liberazione dello statista democristiano, mentre il PSI, che dal ’76 era guidato da Bettino Craxi, si mostrò più “flessibile”. E poi nel 1980 ci fu la sconfitta della CGIL alla Fiat sancita dalla “marcia dei 40.000 quadri”, dopo un inefficace sciopero di 35 giorni. La lotta politica, che allora si svolse, fu più complessa di quanto appaia o si sappia, proprio perché su quegli anni è prevalso «complessivamente un atteggiamento di nascondimento della realtà», come in un suo saggio scrisse Gianfranco La Grassa.[9] E nel frattempo si ebbe nel 1989 il crollo dell’Urss e «la sconfitta del “socialismo”. Le nostre revisioni personali o storiche degli anni Settanta (e più in generale della storia novecentesca dell’Italia del dopoguerra), dunque, sono particolarmente difficili. Senza dimenticare che parliamo – e la cosa non è secondaria – da sconfitti. Se la Resistenza ebbe almeno i suoi Istituti storici[10] e, pur con ambiguità, un suo riconoscimento, questo non è stato possibile per i movimenti degli anni Settanta. Ecco perché, a mio parere, Visentini di quegli anni è costretto a salvare soprattutto il sogno comunitario e rivoluzionario giovanile; e a fermarsi – non credo solo perché lì si chiude la sua militanza – al 1977 , scrivendo pagine secondo me abbastanza dilaniate su alcuni scontri tra Avanguardia Operaia e l’Autonomia; e senza affrontare il resto, e cioè il nodo del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.
7.
Torniamo al punto di vista del narratore. Che è, come Visentini stesso dichiara, quello del «guerrigliero».[11] Parla qui il compagno che ha avuto pratica nel servizio d’ordine di Avanguardia Operaia e che ha vissuto direttamente e più da vicino di me episodi anche tragici.[12] In questi passaggi del romanzo la distanza dell’io biografico dalla voce narrante diventa minima. Non so se, nello scrivere il suo romanzo, Visentini abbia usato consapevolmente dei filtri letterari o abbia guardato ai western o alla narrativa di Fenoglio. Forte mi pare soprattutto la traccia lasciata in lui dalle esperienze pratiche, fatte di incontri e di idee assorbite soprattutto in quegli incontri, più che dai libri. E si capisce che conosce le regole che guidano chi nei momenti dell’azione può trovarsi in pericolo.[13] Si tratta di una consapevolezza che non era così ben presente a molti di noi, militanti impegnati soprattutto nelle discussioni o nella propaganda; e che spesso degli assalti della polizia o delle aggressioni fasciste avevamo solo un’eco indiretta. Visentini affronta con sincerità e senza compiacimenti questa zona più opaca ma necessaria della militanza di quegli anni. Si tratta di un’attività ingrata, che ho sempre difeso contro chi, dopo la sconfitta politica, l’ha demonizzata o esorcizzata, indicandola addirittura come una delle cause di essa. Parlando con amici e amiche di quei tempi, molti dicevano che il tema della violenza l’avevano sempre “saltato”. Eppure si militava in Avanguardia Operaia, un gruppo politico allora «extraparlamentare» e che dichiarava di voler costruire un’organizzazione comunista (e mi pare di ricordare che in qualche documento apparve anche l’aggettivo «combattente»). Com’era possibile rimuovere questo aspetto della militanza E con tutto quello che succedeva allora nelle strade e in piazza durante le manifestazioni a Milano e in Italia? Meravigliarsi della presenza nelle manifestazioni dei servizi d’ordine, per me, ancora oggi, è come chiedersi perché si apre l’ombrello, quando piove. Pioveva o non pioveva in quegli anni?
8.
Altra questione è stabilire il grado di controllo politico da parte dei dirigenti sui servizi d’ordine. E anche all’obiezione che mi è stata fatta: «Sapevano i nostri dirigenti che ci stavano usando?», mi è sempre parsa convincente rispondere che l’uso finalizzato di uomini (e donne) da parte di altri/e (i dirigenti, appunto) è previsto in una concezione comunista ed è un dato ineliminabile (o forse eliminabile, in teoria, solo alla fine di un lungo e faticoso processo). Come sapeva bene Franco Fortini, che senza addolcimenti lo ribadì ancora nel 1989 nella voce «Comunismo»: « Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita».[14] Quindi, soltanto due domande complementari erano da porsi allora (e oggi) nel ripensare questo aspetto della militanza: i dirigenti ci usarono bene? e noi, i diretti, li usammo bene?
9.
Non credo che questi problemi possano oggi essere considerati risolti per qualsiasi movimento di protesta o di rivendicazione. Non lo erano sicuramente in quegli anni, quando l’attività politica, specie delle organizzazioni sorte alla sinistra del PCI, aveva raggiunto un radicamento sociale e una potenza politica e culturale notevole. E quelle nostre esperienze erano continuamente oggetto di minacce ed agguati fascisti o di provocazioni poliziesche. E potevano sopravvivere solo imparando a contenere l’ansia e le tensioni continue anche nella normale vita quotidiana.[15] E perciò il giudizio che Visentini trae dalla sua esperienza mi pare ancora oggi del tutto condivisibile: « Alla violenza ti costringono. La violenza, la impari. Difendersi è difficile, mentre le stai prendendo hai già perso e cerchi solamente di limitare i danni. Passi alla prevenzione, al contrattacco, con l’esperienza. E qui rischi di nuovo, se non sai quando fermarti. Potresti entrare nell’abominevole spirale. La prima volta che colpisci qualcuno o qualcosa scuoti te stesso » (pag. 156). E il suo discorso è privo di qualsiasi astratta o estetizzante elogio della violenza: « Senza lo scontro di classe in atto saresti pacifista, oltre che tendenzialmente pacifico.» (pag. 157).
10.
E dunque ritorno al discorso della cappa, del couvert baudelairiano. Non Visentini, ma altri e persino alcuni (pochissimi) di Avanguardia Operaia «nell’abominevole spirale» ci finirono. E anche su questo egli non tace: «Ciò non toglie che Sergio Ramelli nel 1975 in Via Paladini lo abbiamo ucciso per davvero noi» (pag. 216). A questo punto del romanzo, secondo me, Visentini tocca una questione tuttora difficile da esaminare fino in fondo. E, pur rispettando il suo punto di vista, io vorrei affrontarla con una domanda apparentemente scandalosa : cosa avevamo in comune noi di Avanguardia Operaia e delle altre formazioni extraparlamentari (ma la domanda varrebbe anche per una parte del PCI d’allora) che ci avvicinava e allo steso tempo ci distanziava e contrapponeva duramente all’Autonomia, ai lottarmatisti e ai brigatisti rossi?
11.
Visentini insiste legittimamente sul carattere esclusivamente difensivo che avevano i servizi d’ordine e quello di Avanguardia Operaia in particolare. E va ricordato che tale carattere difensivo era coerente con l’analisi politica della nostra organizzazione, che rifiutava come deliranti le ipotesi di quanti parlavano di una situazione rivoluzionaria o prerivoluzionaria. Ma se poi tutti hanno dovuto riconoscere, come scrive Visentini, che «le altre formazioni armate di cosiddetti combattenti per il comunismo sono sortite dallo stesso movimento e hanno contribuito in modo significativo ad affossarlo» (pag. 216), proprio perché il peggio è accaduto e non si è stati in grado di evitarlo, la rimozione e la sottovalutazione da parte di Avanguardia Operaia e di tutta la “nuova sinistra” di quel che si preparava da parte dei lottarmatisti a me appaiono ancora oggi limiti gravissimi. Contribuirono, come minimo, anch’esse allo stritolamento delle nostre militanze nello scontro tra lottarmatismo e Stato. Proprio perché leninisti e convinti che nei conflitti sociali la violenza sia inevitabile, il fatto di non essere riusciti a impedirla nelle forme “pazze” che assunse, fu una tragedia. Per dirla con una metafora semplice, è come se noi fossimo saliti su un treno, sapendo che ad un certo punto del suo percorso dovesse entrare in una galleria buia e piena di rischi; e, proprio allora, ci fossimo addormentati e fatti sottrarre la guida di quel treno, dai “pazzi” appunto. Almeno per noi che vivemmo quella tragedia interrogarla non è neppure oggi un esercizio accademico. Luca Visentini conclude il suo romanzo rivendicando una sorta di realistica e disperata impotenza: «Con obiettività, avremmo perso ugualmente, con le nostre analisi ancora parziali e sopravvalutate avremmo procurato chissà quali disastri se fossimo andati al potere, con tanti errori e diverse responsabilità stavamo nondimeno dalla parte giusta». Io – è qui forse l’unico punto di dissenso – ricordo quel che scrisse Fortini nel 1985: «Se il terrorismo è stato vinto, i suoi vincitori non hanno convinto».[16] Quest’affermazione riguardava anche noi di Avanguardia Operaia. E scuoto perciò la testa, limitandomi a dire che no, non fummo «dalla parte giusta», anche se non so dire quale lo fosse allora. O come si poteva fare a difendere «un intero decennio di amori, amicizie e lotte alla luce soprattutto del sole» dall’«incattivimento successivo». (pag. 216).
Note
[1] Come di recente ho raccontato: https://www.poliscritture.it/2018/03/17/da-renzo-tramaglino-meridionale-a-samizdat-scavando-nel-mio-68/)
[2] «Un minuto buono per smazzare una risma di 500 volantini con la destrezza ormai di un giocatore di carte, un altro scarso per chiudere la sala dei ciclostili Rex Rotary e Gestetner».
[4]Raffaele Donnarumma, Storia, immaginario, letteratura: il terrorismo nella narrativa italiana (1969- 2010) in Per Romano Luperini a cura di Pietro Cataldi, p. 437, Palumbo, Palermo 2010
[5] Idem, pag. 437.
[6]C. Baudelaire, Le fleurs du mal, Spleen IV : «Quando il cielo basso pesa come un coperchio».
[7] Mi è capitato di leggere in questi giorni un documento di Stefania Voli per una ricerca storica sui militanti extraparlamentari nell’Italia degli anni Settanta e in particolare quelli di Lotta Continua: http://www.sissco.it/download/attivita/Voli.pdf
[8] Penso a quella recente che ha coinvolto Barbara Balzerani, di cui si è occupato un saggio di una giovane storica, Ilenia Rossini: http://storieinmovimento.org/2018/03/24/paragidma-vittimario-balzerani-2018/
[9] Cfr. Una mia recensione di un saggio di questo autore qui: https://www.poliscritture.it/vecchio_sito/index.php?option=com_content&view=article&id=203:anticipazioni-poliscritture-n8-ennio-abate-gli-anni-settanta-nel-lpanorama-storicor-di-g-la-grass&catid=1:fare-polis&Itemid=13
[10] Ad es.l’ Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.
[11] Scrive a pag. 156: « Tuo malgrado, sei diventato un guerrigliero urbano.»).
[12] A proposito della “caccia ai comunisti” da parte dei neofascisti ricorda a pag. 133: « Giravano sulle automobili. S’imbatterono presto nel gruppetto di compagni che stava rientrando da una riunione del comitato. Un ragazzo e una ragazza si accorsero in tempo del pericolo e riuscirono a scappare. In tre vennero intrappolati. I nove non conoscevano i tre, bastò la sciarpa rossa di Gaetano. Scesi dalle macchine, lo picchiarono. E una volta che fu a terra, all’angolo di Via Goldoni con Via Uberti, infierirono. Cominciò Gilberto Cavallini a piantargli il coltello nel corpo già privo di sensi, gridando: – Sporco comunista! –. Poi l’arma passò di mano in mano, così che ogni squadrista potesse conficcarla.»
[13] Cfr. pag. 64:« I nostri responsabili avanzano per trattare con i dirigenti delle forze dell’ordine. Ritornano prestissimo. Non hanno potuto accettare che consegnassimo gli striscioni e le bandiere, che ci facessimo perquisire. Ci dicono: – Su i caschi! In pochi secondi, in più di mille copriamo anche naso e bocca con i fazzoletti.».
Oppure pag. 101: «Di notte, quando sul tardi mi recavo da solo a piedi nello Scannatoio per andare a dormire, portavo con me Rolf. Non si sapeva mai, dati i tempi. E Rolf era un formidabile dissuasore nei confronti della malavita e degli eventuali agguati fascisti».
[14] Cfr. F. Fortini, Comunismo, in «Extrema ratio» pag 99 – 101, Garzanti, Milano 1990.
[15] Cfr. pag. 217: « Oh, non ho mica scordato le bombe, le stragi, le impunità, i tentati golpe, il calcio dei fucili nei fianchi e gli spari addosso, le coltellate, i tanti di sinistra soppressi e fra questi gli intimi amici perduti, il cuore in gola ogni qualvolta passavo per Corso Monforte diretto al centro con la E (la futura linea 54) e avvistavo i camerati sanbabilini della Giovane Italia che avrebbero potuto individuare sull’autobus il mio eskimo e la mia sciarpa rossa!»
[16] F. Fortini, Quindici anni da ripensare, in «Insistenze», pag. 219, Garzanti, Milano 1985.
Nota.
Il libro di Luca Visentini è reperibile su Amazon a questo link:
Accidenti… Ho letto pezzi che… ” mi sembrava di essere io…”. Dalla stanza sul Naviglio all’ingenuità di fronte alle prime violenze, dalla strada dei sogni e dell’ amore a quella degli incubi… La Milano, le persone ( Astuzia…) e l’età (era un ragazzino… io una ragazzina…). Giovanissimi insomma. E le domande, le incredulità… Siamo stati noi? Forse troverei in questo libro una nettezza di ricordi e magari anche qualche risposta a domande che ancora mi faccio… Per fortuna Luca scrive con verità e senza politicamente corretto o idee/ ideologie da sostenere. Mi piace, lo voglio leggere… Dove lo posso trovare? Grazie, poi leggero’ il resto con calma, ora sono al lavoro!
Qui su Amazon:
https://www.amazon.it/Sognavamo-cavalli-selvaggi-Luca-Visentini/dp/1976832853
SEGNALAZIONE
Un testo di Giulio Stocchi da leggere *accanto* a “Sognavamo cavalli selvaggi” di Luca Visentini:
https://www.facebook.com/giulio.stocchi.1/posts/10213627158690622
SEGNALAZIONE
COMMENTI DI ALTRI EX COMPAGNI DI AVANGUARDIA OPERAIA SUL LIBRO DI LUCA VISENTINI TRATTI DALLA PAGINA FACEBOOK “LAVORATORI STUDENTI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI”:
Notizie
Marco Dubini ha condiviso un link.
13 febbraio
Vi ricordate di Luca Visentini?
È uscito,
sia in versione cartacea che come e-book.
https://www.amazon.it/Sognavamo-cavalli-selvaggi-Luca-Visentini/dp/1976832853/ref=tmm_pap_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1517483062&sr=1-1
https://www.amazon.it/Sognavamo-cavalli-selvaggi-Luca-Visentini-ebook/dp/B079BSJ2K1/ref=tmm_kin_swatch_0?_encoding=UTF8&qid=1517483062&sr=1-1
Sognavamo cavalli selvaggi
Commenti
Marco Dubini
Sono cento racconti brevi o brevissimi che nell’insieme ricostruiscono, in un’unica vicenda, la Milano dal 1968 al 1977 di un ragazzo della nuova sinistra. Un compagno di base, non un dirigente, né un pentito. Non si parla di analisi politiche o dispute ideologiche, ma di amore, amicizie, famiglia, lotte e scontri concreti. Si legge un “clima”, un’umanità. Sono storie anche vere ma che trascendono, con la scrittura, l’autoreferenzialità. L’esperienza è quella di un giovane rivoluzionario di un’organizzazione la cui importanza e bontà rischiano con il tempo di perdersi. In Internet quest’organizzazione compare quasi esclusivamente per la sua responsabilità nell’omicidio di un neofascista. Ci sta, ma c’è ben altro!
Marco Dubini
Anche questi due romanzi parlano di quegli anni (e anche dei lav-stud…)
Se vi interessano ne ho qualche copia di entrambe ad € 15 la copia:
https://www.amazon.it/potessero-raccontare-Memorie-operaie-cemento/dp/8840019464/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1518621233&sr=8-1&keywords=se%20i%20muri%20potessero%20raccontare
https://www.poliscritture.it/2016/02/24/partita-doppia/
Francesco Ficchì
Grazie per le segnalazioni li leggerò sicuramente. Secondo me ognuno di noi dovrebbe scrivere qualcosa sulla propria esperienza. Servirebbe molto ai ragazzi ai quali quegli anni vengono raccontati, nel caso migliore, con stereotipi,luoghi comuni e menzogne.
Marco Dubini
Hai ragione Franco. Ecco la mia storia:
Quando diventai un lavoratore-studente (nel 1967).
Mio fratello aveva 15 anni, e non aveva voglia di studiare. Non c’era niente da fare; invece di studiare faceva ventimila altre cose. La principale bighellonare, il pomeriggio, per le strade dell’Isola (quartiere di Milano) con l’amico Roberto; oppure chiudersi per ore in cantina a costruire aeromodelli, saccheggiando le lamette da barba di mio padre. Dopo averle usate per tagliare la balsa le rimetteva al loro posto, senza filo. Mio padre si lacerava il viso, la mattina, quando si faceva la barba, senza capire il perché; sembravano nuove ma erano senza filo.
Io, invece, ero il primogenito e, per mio fratello, l’esempio da seguire. Avevo 16 anni, uno in più di Alberto. Studiavo con piacere ed avevo sempre bei voti.
Ma la famiglia era difficile da mantenete per mio padre operaio e mia madre portiera.
Una sera mio padre mi dice: devo parlarti. Eccomi, rispondo.
Mi parla della situazione economica della famiglia, del suo desiderio di vederci entrambe diplomati, delle difficoltà che aveva Alberto a scuola. Aveva deciso che uno dei due avrebbe dovuto andare a lavorare. Secondo lui dovevo essere io perché se avesse mandato Alberto a lavorare, con la voglia che (non) aveva di studiare, non si sarebbe mai diplomato.
L’argomentazione era semplice, realistica, concreta, e pure la soluzione proposta.
Dissi di sì senza pensarci due volte, con grande soddisfazione di mio padre.
A settembre mi iscrissi al Cattaneo serale.
Questa vicenda famigliare mi segnò profondamente. Più ci pensavo e più mi saliva il sangue alla testa. Non ce l’avevo con mio padre (con Alberto un poco sì, ma solo un poco). Mi chiedevo: ma come è possibile che in una grande città di una società ricca come l’Italia dell’epoca, un ragazzo che ha voglia di studiare, che fin dalle elementari ha sempre avuto ottimi risultati sia costretto ad andare a lavorare e studiare di sera? Perché accade ciò? E’ inevitabile? Sarà sempre così?
Non accettavo questa palese e profonda ingiustizia.
Con questo disagio iniziai nell’ottobre del 1967 la terza ragioneria al Cattaneo serale.
Il clima politico in quegli anni era vivissimo; quelle domande trovarono risposta dalle letture dei giornali, dalle persone che incontrai al scuola, dai volantini che lessi, distribuiti agli ingressi del serale. Anche mio padre venne coinvolto negli scioperi della sua fabbrica; la sera, a cena (il sabato e la domenica, le altre sere cenavo a panini, da ottobre a giugno, finito il lavoro correvo a scuola), spesso si parlava delle”ingiustizie sociali” che subivano i lavoratori ed i loro figli.
Il resto avvenne in modo naturale, non traumatico. Trovai delle risposte a quelle domande e le conseguenze furono un mio personale e profondo impegno nelle attività di protesta e organizzazione della protesta all’interno della scuola serale e del movimento dei lavoratori-studenti che contribuii a far nascere.
Mi fu di grande aiuto la mia passione per la lettura e per lo studio. Non amavo improvvisare e, prima di parlare, mi documentavo, approfondivo gli argomenti, soprattutto con la lettura dei giornali (Il Giorno era il mio preferito e le inchieste di Giorgio Bocca in particolare). Ma anche libri di saggistica sulla storia dell’Italia, in particolare del XIX e del XX secolo.
Mi piaceva anche organizzare le cose, coinvolgere altri nei miei progetti. Sembrava essere il mio destino, quello di finire sempre col prendermi delle responsabilità cosa che, evidentemente, non mi pesava affatto. Attività che invece, me ne sono reso conto presto, molti rifuggivano.
Per far capire cosa sto dicendo, racconto ciò che, l’altro giorno mi ha raccontato la mia vecchia madre. E’ una vicenda che mi è accaduta a l’età di 7 anni e che avevo completamente dimenticata.
Era estate e mia madre mi aveva accompagnato al mare, per passare un mese in colonia, a Cesenatico, con i salesiani. Mi lascia ai preti che mi inseriscono in un gruppo di bambini e si mette a parlare col direttore per definire con lui le questioni relative al mio soggiorno in colonia. Dopo la chiacchierata vuole salutarmi ma ero già andato con i miei compagni in spiaggia. Mi raggiunge in spiaggia e mi vede “a capo” di una squadra di ragazzi, tutto impegnato a gestire la situazione. Chiede spiegazioni e il prete di turno gli racconta che mi aveva poco prima nominato capo squadra.
Da allora è (quasi) sempre andata a finire così, dopo poco che entro in un contesto mi prendo velocemente delle responsabilità.
Così è accaduto al Cattaneo serale e nel C.d.A. del lavoratori studenti di Milano e Provincia.
Al “destino” non si comanda ahimè.
Francesco Ficchì
Una storia molto bella e comune a tanti di noi
Marco Dubini
Francesco Ficchì, raccontaci la tua.
Francesco Ficchì
Certamente nei prossimi giorni provvedo. Intanto vi anticipo che sto raccogliendo notizie, impressioni e avvenimenti di quegli anni e di altri che hanno significato qualcosa nella mia vita, in un libro “romanzato” che conto di completare entro giugno. (Non è una minaccia… magari a qualcuno farà piacere leggerlo).
Marco Dubini
Certamente a Maurilio Rino Riva, visto che ne ha scritti due sullo stesso argomento.
Francesco Ficchì
OK mi sembra giusto iniziare. Un primo assaggio. Perché e quando sono diventato lavoratore studente? La mia famiglia e le mie origini sono calabresi, mio padre (non ne abbiamo mai parlato con lui, ed è questo un groppo in gola che mi è rimasto dalla sua morte) fu uno dei primi emigranti ad arrivare a Milano dopo il ’48. Si trasferì in cerca di “fortuna” nel ’53, lui e il cugino Armando. Lasciarono le terre del nonno, da coltivare, in cerca di una “vita migliore”. Come cercarono di fare in Belgio gli italiani che andarono a Marcinelle. Non racconto qui la sua storia, anche se lo meriterebbe, ma ne accenno soltanto perché l’immigrazione fu tanto, tanto importante per la nostra vita. L’emigrazione, sapete, in quegli anni, distruggeva l’identità delle persone, delle famiglie. Solo un Grande Regista, un Grande Artista come Visconti ha saputo raccontarla (a proposito, vi ricordate “Rocco e i suoi fratelli”?, se non l’avete visto negli ultimi 40 anni vi consiglio di cercarlo in qualche videoteca o su YouTube e rivederlo, merita). Però devo ringraziare Milano per la sua accoglienza. Magari ci chiamavano”tèrùn”, ma era come una pacca sulle spalle, e poi i milanesi si facevano in quattro per aiutarti… che tempi. Ricordo nel ’55 a Mursencìn (Morsenchio o Taliedo, vedete voi), come ci avevano accolti, aiutati, erano altri tempi… I miei a Milano lentamente si integrarono (non nel senso della “Vita Agra”) e cominciarono a piantare radici e fare altri figli. Io ero il terzo – anzi il secondo, in quanto mio fratellino maggiore morì in culla a 40 giorni, nel 1946)- di sette figli. Essendo mia sorella maggiore femmina, io ero il maschio maggiore dei fratelli. Ad un certo punto, per farvela breve, dopo le scuole di avviamento professionale parlammo con mio padre e mia madre del futuro. Vi ricordate che nel ’62 la scuola di Avviamento Commerciale, che io avevo frequentato a S.Giuliano mil.se (abitavamo a Certosa di S.Donato mil.se, quartiere che più operaio non si poteva) non consentiva l’accesso alle Superiori ?, solo le Medie lo consentivano… Quindi mio padre da buon capofamiglia calabrese disse: “hai studiato, e quindi adesso vai a lavorare”. Mia madre, che non era d’accordo, invece disse: “lui sa ben disegnare, deve continuare e diventare almeno Geometra!”. E su questo dissidio familiare si aprì una “contraddizione in seno al Popolo” che ebbe come sbocco il mio inserimento lavorativo nella Fonderia Aguzzoli, del cognato del Titolare della Ditta di mio padre, (presso il quale ci mise la buona parola), come apprendista meccanico attrezzista , e la mia iscrizione all’Istituto Zanella di Porta Romana, scuola privata, per frequentare la prima Geometri e poter arrivare agli esami di ammissione alla seconda Geometri nella scuola pubblica. Che per quella specializzazione, a Milano voleva dire solo Istituto Tecnico Carlo Cattaneo. Dove arrivai nel 1963. Ma questa è un altro pezzo di storia che vi racconterò più avanti, insieme ad altri fatti storici realmente accaduti, che mi hanno visto coinvolto, nel bene e nel male. Quanto poteva essere coinvolto un ragazzo di 14 anni nell’Italia e nella Milano del Miracolo economico degli anni 60.
SEGNALAZIONE
*Dalla bacheca di Luca Visentini su Facebook:
Luca Visentini
18 h ·
Ricevo questa mail da Marco, dal Trentino:
Finalmente ho letto il tuo libro. In due sere, non riuscivo a smettere.
E, cazzo, Luca, hai scritto un libro di storia!
Ma dalla nostra parte, stavolta.
Lo dovrebbero far leggere nelle scuole, davvero.
E con piacere ho scoperto quanto vissuto abbiamo in comune e quanto ci assomigliavamo (a partire dalla faccia di copertina che mi è sembrata la mia…): le sfide Beatles/Stones a Bandiera Gialla, le assemblee, gli scioperi, le occupazioni, i concerti, l’autogestione, il ciclostile e i volantini, i cineforum, le canzoni Contessa e La violenza, Lotta Continua per me (ma con AO siamo sempre andati d’accordo), la montagna, il jazz, una Baita in Val di Terragnolo al posto dell’Alpe Veglia, il primo lavoro in un’assicurazione (giuro, anch’io, ma ho resistito solo un mese), una Luigina al posto di Elisabetta, Il Guzzatoio al posto dello Scannatoio (ma altrettanto freddo e umido!) da cui ho portato via una copia di “In caso di golpe” che conservo ancora gelosamente, in autostop fino ad Orvieto per vedere Umbria Jazz, la R4 a tre marce…
E Piazza Fontana, Valpreda, l’assassinio di Pinelli, Piazza della Loggia, l’Italicus, la stazione di Bologna, le cariche dei celerini (beh, Rovereto non era certo Milano, ma una volta le abbiamo prese di santa ragione dalla Celere di Padova e siamo finiti in tanti all’ospedale), gli attacchinaggi notturni, il golpe in Cile, la garrotta, la grande illusione delle elezioni del ’76, lo stupore e l’incertezza quando LC decise, mi pare prima di voi, di “sciogliersi nel movimento” (tutti guardiamo Giovanni il Rosso, il nostro leader, e chiediamo “e adesso che si fa?” e lui: “beh, intanto finiamo di distribuire i volantini, poi domani vedremo…”) e c’ero anch’io (e magari ci saremo anche visti) al Parco Lambro e al Convegno sulla Repressione di Bologna nel ’77 quando, per quanto confusamente, si intuì che da lì in poi l’eroina e le P38 si sarebbero sostituite al linguaggio allegro e dissacrante degli indiani metropolitani e che gli anni a venire sarebbero stati “di piombo”. E, anche se non volevamo crederci, si capì che era finita.
E c’è tanto altro, ma ci vorrebbero notti intere per raccontarselo (e non mi dispiacerebbe farlo).
Insomma, mi hai fatto rivivere la mia gioventù e mi hai ricordato che possiamo esserne fieri ed orgogliosi. Quindi grazie, compagno Luca.
Ma quanta nostalgia, anche. “Sarà per aver 40 anni in meno, e avere tutto per possibilità…” (parafrasando il Maestro). Perché la gioventù per me era questo: l’entusiasmo e il futuro davanti ancora da scrivere.
Mentre adesso ho solo la paura di diventare un vecchio sempre più cinico ed egoista…
E soprattutto, Luca, ti prego: continua a scrivere.
Per i tuoi 25 lettori o anche solo per me.
Per non permettere che “tutti questi momenti vadano perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”.
Perché allora, come diceva il replicante in scadenza, sarà arrivato “il tempo di morire”.
Ti abbraccio forte,
Marco
P.S: non so se ti sono venuto in mente (come nell’ultimo post de “Il Paese”) quando hai citato Sharon Stone verso la fine del libro. Però mi piace pensarlo…
E gli ho risposto:
Che bello quanto mi scrivi, Marco!
E ovviamente ti ho pensato quando ho citato Sharon Stone, vi associo sempre (adesso, per me, Scarlett Johansson ne ha preso il posto).
La tua mail è tanto bella ed esaustiva che mi piacerebbe pubblicarla sulla mia bacheca di Facebook. Non per narcisismo, ma perché ho bisogno di promuovere il libro con il passaparola e non ho e non voglio altri modi “spettacolari”.
Direi solo che mi arriva da un amico, un “Marco” e basta, dal Trentino.
Me lo consenti?
Ti abbraccio comunque, grazie, Luca
SEGNALAZIONE
Sognavamo cavalli selvaggi (Luca Visentini) – recensione
Pubblicato il 19 giugno 2018 da Claudio Cereda
http://www.ceredaclaudio.it/wp/2018/06/sognavamo-cavalli-selvaggi-luca-visentini-recensione/