Bella la via imboccata da Giorgio Mannacio: partire dai segni che la storia imprime nella memoria dei singoli e poi connetterli all’oggi, ai pensieri o ai dubbi che ci travagliano su quello stesso passato/presente/futuro. Per incoraggiare altre riflessioni simili in Appendice aggiungo gli appunti di lettura tratti dal magnifico libro di Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», che ho finora pubblicato in “Poliscritture su Facebook” in coincidenza con le polemiche (non solo locali) che ogni volta la celebrazione del 25 aprile suscita. L’intento è collegare memoria e storia, sentimenti e ragionamenti dei singoli a sentimenti e ragionamenti in nome del *noi* possibile. [E. A.]
di Giorgio Mannacio
1.
A chi leggerà questo scritto raccomando vivamente di saperne definire i modestissimi limiti individuando in esso ciò che può servire e ciò che non può o non deve servire.
Il 25 aprile 1945 avevo tredici anni e mi trovavo “ sfollato “ in un paesino di circa duemila abitanti nel profondo Sud (Calabria). Al primo bombardamento di Milano (1942) mio padre – convinto che la guerra si sarebbe combattuta anche mediante massicce incursioni aerei sulle città industriali – decise di affidarmi a suoi parenti che mi accolsero molto volentieri. Mio padre era un “ crociano “ puro , convinto ma tiepido antifascista. Nel paese di sfollamento la guerra era davvero lontana in tutti i sensi. Nel senso puramente fenomenico e nel senso politico. Dalla collina che sovrastava l’abitato vedemmo in qualche occasione bagliori di guerra sul mare; dalla radio sapevamo di battaglie, vittorie, sconfitte, avanzamenti, arretramenti . Tutto ciò era vissuto come in un film. E poi ero un ragazzino e ragazzini erano i miei compagni di scuola. Quanto agli adulti registro – secondo memoria – una vaga riprovazione verso la guerra, l’alleanza con i Tedeschi e l’ansia che la guerra finisse. Quanto ai risvolti sociali e politici del conflitto riferisco – per quello che può avere significato – che tre miei compagni di scuola avevano genitori indicati come “ comunisti “. Non c’era nei loro confronti e nei confronti dei loro genitori alcun atteggiamento ostile. I “ comunisti “ vivevano in pace nel paese sotto “ sorveglianza “ quasi inavvertibile di un fascista locale. Un giorno una sparuta pattuglia tedesca attraversò il paese convinta che ci fosse al fondo di esso una via di fuga. Delusa tornò indietro. Da quel passaggio un po’ tutti arguirono che i Tedeschi erano in fuga e che – presto – il conflitto sarebbe finito. I miei parenti parlavano poco o nulla di politica e le vicende – portate sulle onde radio di Mussolini, e della Repubblica di Salò furono lette – più antropologicamente che politicamente – come una sorte di inevitabile fine di una avventura giudicata prima di tutto come abbastanza stupida. Della persecuzione degli Ebrei, nessuna notizia.
Anche l’insurrezione di Napoli riscosse approvazione ma come manifestazione del coraggio di un popolo occupato contro gli occupanti. Nulla di più e nulla di meno. Il termine partigiano fu, per me, una scoperta del 1946.
2.
Nell’anno sopra indicato ritornai a Milano. I miei genitori che erano rimasti in città durante tutta la guerra mi raccontarono qualche episodio di bombardamenti, paure, difficoltà pratiche. Mio padre aggiunse di essere andato in Piazzale Loreto e di aver visto i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi fascisti. Non mi sfuggì una velata disapprovazione di mia madre, dettata esclusivamente da pietà cristiana.
La Storia di quegli anni – sepolta per così dire dall’innocenza dell’età e dagli anfratti campestri della mia terra natale – entrarono piano piano nella mia esperienza (personale e indiretta) attraverso i nuovi compagni di scuola e un minimale episodio avvenuto un giorno davanti al Liceo Berchet. Uno dei miei compagni la cui casa frequentavo per studio e divertimento ,era figlio di un comunista imprigionato durante il ventennio. Era un uomo basso di statura, iroso come si dice siano quelli dai capelli rossi, affetto da una grave forma di diabete e quasi cieco. Era stato riassunto – a guerra finita – in una Amministrazione pubblica dalla quale era stato espulso, ma raramente andava al lavoro. Raccontava (a me e ad altri compagni di suo figlio) delle persecuzioni subite e così feci conoscenza di un altro tipo di comunista. Un giorno ci disse che il fascismo non era morto e, in un certo senso fu buon profeta, perché, all’uscita dal scuola suo figlio, io ed altri fummo aggrediti da un gruppetto di ragazzotti della nostra età vestiti di nero ed inneggianti alla RSI. Erano piombati lì forse perché il Preside del nostro liceo era Ebreo? Altre notizie sugli Ebrei e la loro persecuzione mi arrivarono da un altro mio compagno, figlio di un abruzzese e di una ebrea. Infine – a completare il quadro – conobbi dei partigiani o sedicenti tali perché il padre comunista del mio compagno – saputo della scaramuccia davanti al Liceo – ci aveva quasi imposto di riferire l’episodio ad una articolazione organizzativa dell’ANPI.
Insomma la Storia mi si rivelava in dettagli di cui poco o nulla sapevo.. Da un altro compagno di liceo – già convinto comunista e molto addentro ai fatti storici recenti (a lui debbo tra l’altro la scoperta di Cesare Pavese: riposi in pace tra le sue colline sotto la Cisa) seppi del Movimento partigiano nell’appennino ligure-emiliano e in quello tosco- emiliano (la Repubblica di Montefiorino) e poi di quella più importante esperienza della Repubblica dell’Ossola.
3.
Mi sembra giunto il momento di abbandonare i ricordi personali e meditare su di essi connettendoli con l’oggi. Avverto in quello che ho descritto, con qualche approssimazione, che è esistita una diversità di esperienze tra quella parte del Sud nella quale ho vissuto per qualche anno. Come risulta da quello che ho scritto le persone che allora fecero parte della mia vita (non c’erano solo i “ benestanti “ ma anche persone povere o addirittura poverissime) non ebbero conoscenza o ebbero conoscenza scarsa di alcuni tratti del Fascismo (la persecuzione dei dissidenti politici e degli Ebrei; la profonda divisione tra Fascisti e Antifascisti culminata in una vera e propria guerra civile; la costituzione reale di una Resistenza in armi e nel pensiero).
In particolare – per quanto riguarda l’Insurrezione – mi interessano due osservazioni. La prima riguarda la difficoltà a definire la Resistenza come una delle parti di una Guerra che ho chiamato civile. Tale definizione non è valutativa, ma esprime solo la contrapposizione violenta e reale tra due parti della popolazione di una stessa nazione. La valutazione può nascere solo da una analisi del “ valori e delle ragioni “ che hanno determinato tale contrapposizione. La seconda riguarda appunto tale valutazione. Non si comprende bene e a fondo il valore del 25 aprile – nei suoi fondamenti e nelle sue conseguenze – se non si riflette a fondo sul disvalore del Fascismo.
Una diversa analisi da un lato porta a sottovalutare e a screditare (togliere ragione) alla celebrazione del giorno della Liberazione (fino addirittura a contestarne il nome); e dall’altro porta, forse, qualche elemento alla comprensione di certe marginalità politiche che affliggono il nostro Mezzogiorno. Viene trascurata – in questa marginalità – l’apporto della incidenza della classe operaia sul movimento antifascista, rilievo che – penso – sia degno di una continua riflessione.
4.
I fatti avvengono e passano ma alcuni di essi – che definirei significativi – sono, debbono essere conservati nella Memoria. Uso la maiuscola non perché intendo riferirmi a qualche entità quasi metafisica ma perché Memoria è la conoscenza vera e non superficiale di ciò che ci ha preceduto e che ha avuto determinati esiti. Insomma è sempre alla Buona Scuola della conoscenza storica che si deve puntare.
Ho buttato giù questo testo in tutta fretta perché mi sento debitore verso il 25 aprile. Delle imprecisioni o approssimazioni che esso presenta mi scuso con i lettori.
Storia adesso
Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», Boringhieri, Torino 1991
Selezione dei brani finora pubblicati in “Poliscritture su Facebook”
APPUNTO DI LETTURA 1
* LO SFASCIO DELL’8 SETTEMBRE 1943
“I soldati passavano come un gregge disfatto” ha ricordato Primo Levi. Di “spettacolo umiliante” parlò, ancora a caldo, Roberto Battaglia. Uno dei più bei diari di vita partigiana, quello di Pietro Chiodi, registra: ” Mi si spezza il cuore vedendo gruppi di soldati sospinti come animali dalle SS”. E un altro testimone scrive: “Come tante pecore ci inquadrammo e scortati dalle SS percorremmo le vie di Cuneo che erano deserte”. Una donna rievoca ancora oggi con sofferenza la lunga fila di soldati che, un solo tedesco avanti e uno dietro, uscirono di caserma “col proprio fucile a testa bassa come ladri per consegnare la propria arma”. Dante Livio Bianco parla dello sfacelo della Quarta armata come “uno degli spettacoli più tristi e umilianti”, e descrive “la pena che ci stringeva il cuore e la vergogna che ci bruciava”. Eraldo Gastone così commenta un episodio analogo: ” Che di fronte a forze così esigue un’intera divisione, sia pure in fase di riorganizzazione, si fosse arresa col suo generale in testa mi sembrava inaudito”.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 16)
APPUNTO DI LETTURA 2
* LA SOLIDARIETÀ VERSO SBANDATI E FUGGIASCHI
“Era una solidarietà la cui essenza stava nel suo manifestarsi attraverso atti concreti. Accanto ai primi barlumi di resistenza attiva, in quei giorni furono largamente gettati i semi della «resistenza passiva», intesa come creazione di un clima e di un ambiente favorevole alla prima. I macchinisti rallentavano la corsa dei treni ed effettuavano fermate impreviste per permettere ai soldati di scappare, o facevano trovare nei vagoni seghe e martelli come strumenti di evasione. I contadini erano « mossi da un sentimento confuso e grande che era insieme commossa pietà per tutti questi figli di mamma senza casa e in pericolo, solidarietà per questi uomini di altri paesi, in massima parte contadini come loro». Un testimone parla ancora oggi con commozione di ragazze emiliane che «aspettavano i soldati, portavano da mangiare e poi dicevano” se volete fermarvi qua…”».Soldati smarriti venivano «attorniati da gente che voleva aiutarli». Tutti offrivano vestiti borghesi ai militari. La fraternizzazione fra civili e militari che non era riuscita sotto il segno equivoco di Badoglio, riusciva ora sotto il segno della comune disgrazia. Non ci si stringeva attorno all’istituzione del regio esercito, ma si veniva in soccorso di italiani piombati nell’estremo pericolo. I pochi soldati rimasti inquadrati che qualcuno, a Torino, aveva avuto l’idea di mandare a disperdere la folla, furono da questa applauditi e abbracciati; i soldati rinchiusi dai tedeschi in una caserma di Acqui furono liberati a furor di popolo.”
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 18-19)
APPUNTO DI LETTURA 3
* LA CLASSE OPERAIA PIÙ SOLIDALE E COESA DEI MILITARI
Un aspetto delle giornate di settembre [1943] va ancora sottolineato. Nel dissolversi delle istituzioni militari e civili e nell’emergere delle solidarietà, la classe operaia, almeno quella delle fabbriche principali, fu il gruppo sociale che rivelò maggiori tratti di coesione interna. Ufficiali e soldati fuggivano disperdendosi, ma gli operai tendevano a rimanere uniti e a trarre da questa loro unione la spinta a uscire dalla passività e dalla rabbia dell’impotenza.
“Stamane certi operai volevano follemente correre disarmati a prendere le mitragliatrici dei tedeschi; altri li sconsigliavano. Un signore sui quarant’anni, ben vestito, con una bicicletta fiammante, intervenne spiegando che è impossibile reagire ai tedeschi e tutti allora lo insultarono dicendo “Siamo stanchi di obbedire a voi borghesi; vent’anni di fascismo ci bastano””
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 22)
APPUNTO DI LETTURA 4
* L’ECLISSE DELLO STATO
Il venir meno della presenza statale poteva essere avvertito con un senso di smarrimento o come un’occasione di libertà. Prima ancora poteva essere immediatamente vissuto come eccezionale momento di armonia in una comunità sciolta dai vincoli del potere.
La testimonianza forse più bella di questa esperienza, quasi di una felice, miracolosa e fugace aurora, ce l’ha lasciata un colonnello inglese:
“Quando un villaggio sta per settimane in terra di nessuno, fra le nostre linee e quelle nemiche, la gente non ruba e non si ammazza, ma s’aiuta l’un l’altro in modo incredibile. Tutto ciò èassurdo e meraviglioso. Arriviamo noi e mettiamo su gli indispensabili uffici dell’AMG [il gioverno militare alleato], e gli italiani subito si dividono, si bisticciano, si azzuffano per sciocchezze, si denunciano fra loro. La concordia di prima si disfa in faide e vendette di ogni tipo. Davvero incredibile”
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 24)
APPUNTO DI LETTURA 5
*DURANTE LA RESISTENZA LIBERTÀ SIGNIFICA DISOBBEDIENZA
Il primo significato di libertà che assume la scelta resistenziale è implicito nel suo essere un atto di disobbedienza. Non si trattava tanto di disobbedienza a un governo legale […], quanto di disobbedienza a chi aveva la forza di farsi obbedire. Era cioè una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù. […] La scelta dei fascisti per la Repubblica sociale [RSI o di Salò] – è una differenza che giova subito porre in rilevo – non fu avvolta da questa luce della disobbedienza critica. «L’ho fatto perché mi è stato comandato» sarà, com’è noto, il principale argomento di autodifesa dei fascisti e dei nazisti nei processi loro intentati dopo la guerra.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 25)
APPUNTO DI LETTURA 6
* LA SCELTA DEL PARTIGIANO È FATTA IN UNA “SOLITUDINE TOTALE”
Questa solitudine fu così profonda che ad essa non sfuggirono neppure i cattolici, che pur avevano alle spalle le uniche istituzioni che non fossero crollate [dopo l’8 settembre 1943]; ma anch’esse [le istituzioni cattoliche] avevano lasciato oscillare nel vuoto le coscienze. Una lettera inviata il 25 settembre da Cazzani, vescovo di Cremona, all’arcivescovo di Milano, Schuster, registra con sincerità questo atteggiamento. Il monsignore scrisse infatti al cardinale che lui non si «assum[eva] la responsabilità di indicare una linea di condotta decisa. Dico a loro che si prospettino chiaramente i pericoli dell’una e dell’altra via, e facciano quello che vogliono».
Una conseguenza della scelta compiuta in solitudine fu che gli italiani, quando la spontanea solidarietà dei primi giorni non fu più sufficiente, si trovarono costrettia riqualificarsi reciprocamente, a richiedersi l’un l’altro nuove credenziali, a sforzarsi di capire chi fosse un complice e chi un perseguitato. Nessuno poteva prevedere più con sicurezza, secondo i vecchi canoni, il comportamento altrui.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 26)
APPUNTO DI LETTURA 7
*QUALI LE MOTIVAZIONI INDIVIDUALI DELLA SCELTA DEL PARTIGIANO
Si può cogliere una varietà di motivazioni individuali molto ampia: insopportabilità di un mondo divenuto teatro di ferocia; ribellione contro i soprusi remoti e vicini, talvolta proprio contro quelli «piccoli»; istinto di autodifesa; desiderio di vendicarsi di un congiunto caduto; spirito di avventura; amore del rischio e insieme piena cognizione di esso; tradizioni familiari; antifascismo di vecchia e di nuova data; amor di patria; odio di classe. […]Qui giova solo sottolineare che le scelte, comunque motivate, si iscrivono in un clima di entusiasmo morale che è assai lontano da quello, volta a volta rassegnato, cupo o risentito, di molti combattenti dello stanco esercito che il regio governo tentava di rimettere in piedi nel lontano Sud. Valga per tutte la lettera che segue:
«Oggi la sola realtà che esiste è la nostra sconfitta con tutte le sue tremende conseguenze: fame disoccupazione, disorganizzazione morale. Non sentite anche voi in quali incerti momenti si viva, quanto impossibile sia il ricostruire alcunché di solido?».
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 31)
APPUNTO DI LETTURA 8
* LE INCERTEZZE E LE OSCILLAZIONI NELLA SCELTA
Il risentimento contro gli artefici della sconfitta, la rabbia contro i responsabili dello sfascio, il disprezzo verso il re, Badoglio e i generali fuggiaschi contenevano in sé un rischio […]. Potevano infatti dar luogo – mi riferisco sempre alle primissime settimane dopo l’8 settembre [1943] – a una fascia di reazioni incerte e oscillanti, ancora al di qua della scelta fra Resistenza e Repubblica sociale. […] Calvino aveva posto in bocca al partigiano Kim queste parole: «Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte.
Questo «nulla», capace peraltro di generare un abisso, poteva essere, soprattutto per i giovani di famiglia borghese, un incontro casuale con la persona giusta o con la persona sbagliata. […] Schietta è al riguardo la testimonianza di Nuto Revelli. Il 12 ottobre 1943 egli annotò nel suo diario:
«Senza la Russia, all’8 settembre, mi sarei forse nascosto come un cane malato. Se nella notte del 25 luglio [1943, quando Mussolini fu sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo] mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall’altra parte. Mi spaventano quelli che dicono di aver capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l’8 settembre non era facile!».
[…] Ufficiali che in una prima fase avevano fatto parte di bande «apolitiche» passarono poi al servizio della Repubblica sociale. Si tratta di un preludio dei mutamenti di campo che, nei due sensi, avverranno in seguito più di una volta. Un personaggio di rilievo come Davide Lajolo, il futuro comandante garibaldino Ulisse, fascista militante, dopo qualche settimana di travaglio – «Calosso da Londra non mi convinceva. Pavolini da Salò mi faceva vergognare», operò una scelta per la quale fu decisivo l’incontro con un vecchio zio socialista.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 33-34)
APPUNTO DI LETTURA 9
* LA SCELTA DEI FASCISTI (PER LA REPUBBLICA SOCIALE O DI SALÓ)
Per i fascisti il ricordo dell’8 settembre rimarrà sempre come un incubo. […] Soltanto pochissimi fascisti considerarono allora la catastrofe un atto liberatorio, come appare in questa lettera: «Il tradimento ci ha offerto, fra tante sciagure, la possibilità di far brillare le grandi verità del fascismo e d’impadronirci dell’anima popolare in questa *Seconda Rivoluzione*. […] Ma ben pochi prendevano tanto alla lettera il mito del ritorno alle origini da trarne per se stessi felicità. I fascisti più convinti, così come gli altri che comunque militarono sotto le bandiere della RSI [Repubblica Sociale Italiana o di Salò], furono più o meno tutti, anche coloro che si ostinarono a credere nell’immancabile vittoria, avvolti nella nera ombra di una catastrofe cupa e incomprensibile e dal terrore che essa potesse ripetersi. […]La scelta per la RSI fu spesso la fuga da un momento di verità che avrebbe dovuto costringere a ragionare fino in fondo: prospettiva questa, per i fascisti, fra tutte la più paurosa. […] Una scelta particolarmente drastica, ideologica e combattentistica insieme, fu quella dei fascisti che si posero direttamente al servizio dei tedeschi,senza attendere la resurrezione di Mussolini.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 36-37)
APPUNTO DI LETTURA 10
* IL PROBLEMA DEL TRADIMENTO E QUELLO DEI DUE GIURAMENTI
Tutte le parti in campo si scambiavano accuse di tradimento. […] Le persone tacciate di tradimento con la massima convergenza di giudizi, sia pur diversamente motivati, furono il re e Badoglio, che apparvero traditori ai tedeschi, ai fascisti, a larga parte dei resistenti, a un numero più o meno ampio degli internati in Germania, pur reticenti, per comprensibili motivi, a manifestare questo giudizio. Agli Alleati essi apparvero almeno degli utili voltagabbana, sembrando rinnovarsi l’antica prassi che vedeva i Savoia non concludere mai una guerra dalla stessa parte in cui l’avevano iniziata.[…]. Quel che preme qui sottolineare è che coinvolgere nell’accusa di tradimento Badoglio e soprattutto il re […] rendeva particolarmente scottante il problema del giuramento e della fedeltà che ad esso andava serbata o ritirata. […] Tutti gli italiani, o quasi, avevano prestato due giuramenti: uno al re, l’altro al duce. Più o meno tutti coloro che erano stati inquadrati nelle organizzazioni giovanili del regime avevano cantato: «Duce! Duce! Chi non saprà morir? Il giuramento chi mai rinnegherà?». Costretti ora a scegliere tra un giuramento o l’altro, lo schietto atteggiamento resistenziale fu di tagliare il nodo e non scegliere né l’uno né l’altro. […] Ma anche chi si sentì obbligato dall’uno o dall’altro giuramento, e qualificò come traditore chi si atteneva a un giudizio opposto fu indotto a far ricorso, per motivare la propria scelta, a […] un criterio prevalentemente formale, quale quello della legittimità-legalità, oppure si potevano richiamare motivazioni più profonde che investivano i contenuti. […] La volontà di non tradire il giuramento al re alimentò senza dubbio il fermo e dignitoso comportamento di tanta parte degli internati nei Lager tedeschi dove perfino il nome di Badoglio poteva costituire un punto di riferimento.[…] Che il giuramento al re avesse un peso maggiore nella coscienza degli ufficiali, specialmente se anziani, che in quella dei soldati è anch’esso un fatto attestato.[…].[Comunque] il giuramento al re apparve a molti più vincolante di quello al duce […] [per]una più forte e antica interiorizzazione del senso della patria-Stato, impersonati dal re, di fronte a quello del governo-regime, impersonati dal duce.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 42- 50)
*
APPUNTO DI LETTURA 11
* IL PROBLEMA DEL GIURAMENTO NELLE BANDE PARTIGIANE
Il problema del giuramento si sarebbe ripresentato ll’interno del partigianato in conseguenza del suo stesso sviluppo; dando luogo a risposte significativamente discordanti. Chi insisteva sul carattere di libera scelta da rinnovare continuamente, per non sminuire l’impegno che l’aveva determinata, non poteva avere che scarsa simpatiA per l’introduzione nelle formazioni partigiane del giuramento. Una ripulsa assai netta la troviamo formulata in queste parole di Mario Giovana, quando spiega che nel gruppo dei Damiani, nel Cuneese, il giuramento non viene introdotto
«perché lo si considera un atto contrario al carattere genuinamente volontario della lotta e quindi di maggiore tensione morale; inoltre l’esperienza fascista aveva dimostrato la vanità di questi impegni non accompagnati da una autentica adesione della coscienza ideale, per cui ripugna risuscitarne anche solo la formalità».
Ma non tutti gli azionisti-giellisti [ i membri del Partito d’Azione o di Giustizia e Libertà] si mostreranno così intransigenti. Nella banda Italia Libera (sempre nel Cuneese) fu richiesto di impegnarsi «con il giuramento di uomo d’onore» a combattere i tedeschi e i fascisti e «perseguire ideali di giustizia sociale e di libertà democratica»: per chi avesse tradito era prevista la morte. E Dante Livio Bianco ricorda di averla inflitta «con la coscienza perfettamente serena» a tre partigiani che si accingevano a disertare in previsione di un rastrellamento. […] In realtà sulla pratica del giuramento influivano […] elementi culturali di varia natura. L’onore cui fanno appello i militari e, a loro modo, i giellisti […] è certo qualcosa di diverso dal moto che doveva attraversare l’animo del sedicenne Walter Atti quando, mentre dal carcere di Castelfranco Emilia veniva condotto alla fucilazione, salutava con queste parole: «Mi portano al muro perché ho giurato fedeltà a Stalin». Qui la categoria di giuramento (e, implicitamente, quella contrapposta di tradimento) prescinde da ogni riferimento istituzionale.
(Claudio Pavone, «Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza», pag. 54- 56)
Su Pavone.
Degli stralci dal libro di Pavone riportati meritoriamente da E.A mi è piaciuto prima di tutto il metodo. Pavone va per lampi di esperienza reale, scrive cioè della guerra partigiana nei suoi risvolti rigorosamente storici.
Seguendo la numerazione di E.A vorrei poi sottolineare il particolare senso di alcuni episodi.
Punto 2.
L’esperienza della resistenza passiva individua inequivocabilmente una “ partecipazione comunque possibile “
Punto 3
La coesione interna degli operai – a parte il valore intrinseco – rivela una comunanza di interessi reali che fanno di essi – in quello specifico momento – “ un popolo “ in senso proprio. Si smaschera in tale coesione la discrasia tra interessi del popolo ( di quel popolo ) e altri interessi
Punto 4
E’ interessante la “ proposta teorica “ della disobbedienza come libertà: nel contesto descritto da Pavone dove era utopistico richiamare dei principi e serviva solo la reazione al più forte non legittimato da nulla.
Punti da 6 a 8.
In essi si intravvede una sorta di etica della responsabilità dei propri atti di fronte a situazioni estreme Vd Partigiano Kim ) e acquista senso la famosa osservazione di Benjamin secondo cui il Giudizio universale si presenta in ogni momento.
Punto 10.
Il piccolissimo credito a Badoglio cui accenna lo stralcio segnala – in via generale – una sorta di
Residuo valore attribuito alla comunità di soggetti comunque esistente. Valore che – passata la tempesta – può definire un diverso modello di aggregazione.