di Alessandro Scuro
Che meraviglia, per il viandante solitario che si addentra in una foresta intatta e rigogliosa, immergersi nella natura incorrotta, sollecitato dal terreno e dalla cadenza di pensieri cangianti, suggestionato dall’infinita varietà di dettagli e dall’armonia con la quale il paesaggio li combina. Curioso, scopre ad ogni passo uno scorcio ameno, una composizione inedita, vedute sconfinate e zone selvagge, fitte di vegetazione incorrotta. In quello spazio vergine ogni possibilità si estende al suo intorno. Dimentico della propria provenienza, senza meta, vive l’esperienza di una libertà inusitata; primi fra gli uomini contempla, scopre ed inventa il vagabondo perso in territori inesplorati, a contatto con ciò che non ha ancora forma definita né nome.
Impossibile, in principio, abbracciare l’insieme di quell’ordine caotico e spontaneo, mutevole, variato e accresciuto ad ogni svolta. Lo sguardo rapito mano mano si fa più attento, focalizza con precisione crescente i dettagli che gli si mostrano. Che sorpresa quando l’occhio incomincia a sommare i dettagli, a distinguere proporzioni, costanti, architetture premeditate, prospettive studiate e rese a regola d’arte. Allora la visione si trasforma e l’inclinazione della luce, le curve aggraziate dei colli, gli strapiombi netti o i corsi d’acqua sinuosi, non disegnano più passo passo la mappa di un paesaggio primigenio, ma tracciano le intenzioni di un anonimo costruttore si manifestano negli elementi, nella loro disposizione, e perfino i percorsi, prima dettati dal caso e dalla curiosità, si dipanano ora in una rete progettata di sentieri e zone inaccessibili. La natura selvaggia e incorrotta dell’istante prima mostra ora i segni dell’artefatto: il simulacro di un giardino paradisiaco si svela. Il quotidiano evaso riaffiora e trascina con sé la consapevolezza dell’illusione appena svanita.
Simili sensazioni accompagnano l’ascesa e il declino dell’utopia, che delle idee conserva la consistenza e dei sogni le sembianze; non ha luogo per definizione e, così come nessuna collocazione può esserle attribuita sulla mappa del reale, nessuna pratica si è mai dimostrata adeguata alle aspirazioni dei suoi idilli teorici. Improvvisa come l’idea, sorta dalla banalità senza speranze, durante la quotidianità irrimediabile che condanna aspirazioni e slanci ai doveri dell’immediatezza, assomiglia ad un sogno ad occhi aperti l’utopia. Un universo di puro godimento indifferente ai limiti, alle proibizioni, agli intoppi della pratica; un’esperienza irreale, ma pertanto significativa, uno spiraglio verso mondi e umanità altre. Si distinguano però questi sogni, dalle trasfigurazioni oniriche alle quali l’uomo assiste impotente durante il sonno. Si tratta qui di visioni lucide, speranze malleabili e fertili, se coltivate. Ad accomunarli ai sogni notturni è l’esistenza precaria ed effimera, l’eterea consistenza che il brusco risveglio, in entrambi i casi, rivela. Come i rumori della veglia riducono a un’inquietudine il terrore o la meraviglia delle fantasmagorie del sonno, si dissolvono i sogni diurni nell’istante in cui l’abitudine riaffiora e la realtà richiama all’ordine. Di quegli universi straordinari resta allora un abbaglio, una fantasia personale, un’ambizione velleitaria, una mania segreta, un desiderio inconfessabile. L’idea, intuizione fulminea che dipana il filo dei pensieri, ancora indefinita ed ambigua aperta ad ogni possibilità, senza orizzonti né mete precise, rischia di svanire nell’attimo stesso in cui si rivela ed è nell’intento di conservarla e trasmetterla, che l’uomo deve necessariamente, manipolarla, addomesticarla, comprometterla, delimitarla. Nel fare questo si deve confrontare con i pregiudizi, le conoscenze e i modelli accumulati e acquisiti nel tempo e sono spesso la soggezione, il timore reverenziale e la paura di esplorare territori sconosciuti, a dirigere il percorso della sua evoluzione e della sua diffusione. Così sterilisce ogni facoltà umana ridotta ad arte, nel momento in cui gli uomini non trovano più nulla in grado di amplificarla, come trovavano quando esse erano ancora informi, senza nome e senza leggi proprie. Da qui si comprende la necessità dell’utopia, la sua ambizione di integralità, l’ansia di originalità, di stravolgimento totale, la pretesa di abbattere tutto e costruire ex novo su una tabula rasa. Sono forse queste le ragioni stesse del suo fallimento e della sua apparente assurdità; ma quale alternativa resta quando pare che ogni cosa abbia raggiunto il suo completo sviluppo, che non resti altro da aggiungere, quando si può solo proseguire ma non più creare, vivere, ma non più esistere. Oltre alla rassegnazione resta soltanto l’esigenza di violare, disprezzare, accantonare per intero le conoscenze acquisite in precedenza.
Se è vero che non è successo mai ciò che mai ha avuto successo, e che rischia di scomparire quel che alla lunga non trova nessuna diffusione, o non è più in grado di suggerire nuove elaborazioni, vanno ricondotti allo stesso metro gli effimeri trionfi che ogni epoca celebra, poiché porge il braccio a sua sorella la Moda, madama Morte. Risultano infine irrilevanti nel percorso della storia le celebrità e le abitudini che contraddistinguono il quotidiano di ogni epoca; misurate così la stragrande maggioranza delle opinioni, dei gesti, delle convinzioni e delle convenzioni, definiscono il tono e il colore di ogni epoca, lasciando pertanto immutato il paesaggio della tragedia umana.
È sempre da idee osteggiate, ridicolizzate, perseguitate, condannate, censurate o semplicemente ignorate dalla maggior parte dei contemporanei, prima di venire accolte nel dibattito pubblico, che scaturiscono le rivoluzioni e i progressi dei quali ogni epoca si fregia, negando al tempo stesso, per sua stessa conformazione, ogni ipotesi di cambiamento. Per questo poco si evince della portata di un’idea, della sua influenza e della sua versatilità, se si tiene conto esclusivamente del suo effetto sulla contemporaneità immediata, nel momento in cui essa viene concepita, elaborata, rivelata e realizzata, e dipende generalmente dall’opera dei posteri la sua sopravvivenza e dal collegamento ad una qualche tradizione definita la sua inclusione nel pubblico dibattito, la sua applicazione. La sorte si contraddistingue sempre per la sua ironia e, amica del tempo, svela in seguito il ridicolo del quale si copre ogni antica consuetudine che non trova più ragione d’esistere nell’attualità.
La supremazia della tecnica, motore del progresso e ragione del benessere, ci ha abituato al cambiamento continuo e accelerato; ma tanto più rapidamente si è delegato ad essa il compito di garantire il completo sviluppo della natura umana, tanto più quest’ultima sembra essersi trasformata, spogliata delle sue caratteristiche peculiari, abbandonata in favore dell’immediatezza. La tecnologia ed il suo impero sono stati fondamentali nel fornire a fasce sempre più ampie della popolazione agi e comodità che sarebbero risultati sbalorditive ed invidiabili agli occhi dei nostri antenati; ciononostante se essa ha saputo dar forma ai loro sogni, garantendo, con minor fatica e agi maggiori, la sopravvivenza ed i bisogni crescenti che le nuove condizioni hanno via via generato, non ha saputo variarne i timori e le preoccupazioni, né ha mutato in maniera sostanziale le aspirazioni umane. Alla fatica sono subentrate nuove forme di stanchezza alla schiavitù nuove forme di oppressione alla violenza nuove forme di condizionamento, alle necessità soddisfatte nuovi bisogni; tutto questo ha forse creato nuove varietà di un’esistenza millenaria, ma non ha di certo svelato nessuna forma nuova d’esistenza. Più pulito, più sano, più comodo, più istruito etc. l’uomo sopravvive ora con maggiore agevolezza grazie ai prodigi della tecnica, ma tali conforti sono una triste consolazione di fronte all’evidenza dell’immutata condizione delle capacità e delle abilità umane, invariate rispetto a quelle dei nostri antenati e dei nostri avi. È vero si hanno e si sanno fare oggi molte più cose che un tempo, e le conoscenze possedute oggi sono immensamente maggiori di quelle dei primi uomini o degli abitanti delle epoche che ci hanno preceduto, ma è sempre più limitato, specializzato, professionalizzato, commercializzato, ottimizzato etc. il loro utilizzo, la loro trasformazione.
Nasce normalmente dalla frustrazione, per protesta, in rivolta con l’intorno che l’accoglie, l’idea innovativa, originale, straordinaria; ma è con quella stessa realtà screditata e ripudiata che deve fare i conti al momento della sua realizzazione, per non restare una stravaganza. Sembrarono scandalosi, irragionevoli e ridicoli i progetti degli utopisti accreditati, agli occhi dei loro contemporanei, e non lo appaiono di meno ai nostri, né sono diventati più credibili con il tempo. Il futuro prevedibile non lascia adito a maggiori speranze di successo; ciononostante è tutt’altro che in diminuzione la loro necessità. Tutti i frequentatori dei castelli aerei dell’utopia cascano prima o poi dalle nuvole, giacché non c’è terraferma a sostenere le loro elucubrazioni. Non si conoscono inquilini di lunga data tra quelle stanze, e forse nessuno è riuscito nemmeno mai ad abitarle, eppure fra quelle mura non sono mai mancati visitatori e le cadute ripetute non sono mai riuscite a scoraggiare gli avvezzi. Ancor più che di utopisti, di creatori di fantasie solitarie, oggi c’è forse bisogno di utopiani, disposti ad abitare quelle architetture informi, senza trasformarle in fortezze inespugnabili delle proprie convinzioni. Suona come una profezia, ma tutte le idee che riescono a mantenersi vive durante i secoli trovano prima o poi terreno fertile per far crescere i loro germogli. Non ha bisogno di monumenti, celebrazioni od omaggi l’utopia, e si mantiene viva con l’assillo dei dubbi che le sue diverse interpretazioni e formulazioni hanno lasciato in sospeso. In ogni epoca esistono questioni taciute, domande evase tra lo sconcerto e l’imbarazzo, che non basterà eludere per evitare. Permangono dubbi del passato circa la sopravvivenza della nostra civiltà, circa la sua opportunità, circa la sua morale, le sue forme di governo e di vita ed è solo attraversando, esulando dai limiti che la norma impone che si potrà iniziare a discutere oltre i confini della consuetudine. Ci si domanderà finalmente allora, senza timore ne vergogna, se abbiano ancora senso le istituzioni, i meriti e le colpe, le leggi e le consuetudini, le forme di governo e di vita che condizionano la nostra esistenza e se non sia arrivato per caso il momento di condizionarle, di sopprimerle o trasformarle, di adeguarle insomma ad un’umanità che porti in sé i segni di una reale evoluzione, di ambizioni oltre la mera sopravvivenza.
…un testo molto bello questo di Alessandro Scuro, ed anche misterioso ed inquietante, come il mondo delle utopie in cui si inoltra con lo spirito del pioniere che “…si addentra in una foresta intatta e rigogliosa…a contatto con ciò che non ha ancora forma definita e nome…”. Ritorna a considerare il mondo del possibile e i suoi limiti, quel progresso tecnologico che, nella sostanza, ha lasciato tutto invariato: “…alla fatica sono subentrate altre forme di stanchezza, alla schiavitù nuove forme di oppressione….”, “lasciando pertanto immutato il paesaggio della tragedia umana”. Perciò il percorso dell’essere umano sembra inchiodato su se stesso in una spirale viziosa, sembra dirci l’autore, e, quando tutto è perduto, perchè non farci “utopiani”? Forse, credo, i tempi non sono ancora maturi per quel passo, l’utopia ci addita una via radicale e lontana dalle “mode”, dai facili e apparenti successi…ma può avere ragione, anzi l’unica ad avere ragione