di Luigi Paraboschi
con gli APPUNTI DI LETTURA di Ennio Abate
Cerchi ancora la pietra d’angolo
Cerchi ancora la pietra d’angolo
uno scoglio sul quale edificare
ti lasci scarnificare da relitti
che pensavi sepolti nel cemento
in un punto profondo dell’oceano.
Anche i fiumi carsici all’improvviso
si sotterrano come fai tu e fanno perdere
le tracce. Pure se non sono aridi di acque
si rifiutano di finire in mare
e annegano nel sottosuolo
quasi a pentirsi d’avere amato il sole
poi – senza preavviso – riappaiono
più a valle ad irrigare altri terreni
meno sassosi di quelli di montagna.
Le scorie invece no, non sedimentano
con il tempo, rilasciano veleni tossici
rendono amare le acque attorno ai sogni
che la vita porta in giro e che coltiviamo
anche se spesso ci stanno troppo larghi
come un paio di scarpe nelle quali
il piede s’è smagrito e le trasciniamo.
Vecchia parte di città
All’occhio resta la ferita dei vecchi muri,
il rosa antico steso sopra la parete smossa
di una camera da letto, il verde salvia forse
di un soggiorno, tracce sbiadite di progetti.
Tegole impilate con meticolosa cura
all’angolo del cortile, testimonianza
di quasi un secolo di piogge riparate,
foglie raccolte in fondo alla grondaia
piena di sabbia che il vento ha raggrumato
per smerigliare il cotto e farlo spento.
Pochi i suoni, un silenzio piatto
dietro le persiane che un sole addenta
tiepido in questa vecchia parte di città
dove la massicciata arroventa
le lame dei binari di stradelle strette
dentro le quali la luce taglia i muri
come in certi quadri di Morandi.
Cortili angusti per i troppi vasi d’oleandri,
cancelli dalle colonne sormontate
da leoni in gesso, balconi liberty
dai quali sgocciola una pioggia di gerani.
Così ti vivo, strada della città vecchia
dentro un languore di primavera tarda,
sotto un cielo dalla calura triste
che stonda i sassi nel giardino all’ombra
ma non uccide l’erba, ove nervosa guizza
una lucertola che s’abbevera alla pozza
sotto il fico dalle foglie come palmi aperti.
Raccontami l’acqua che è già corsa
Dici che temi la vita virtuale,
lega le mani e non ha confini, ma
quella che trascorriamo è più reale?
Pensi che l’occhio in cui ti specchi
non ti nasconda ciò che osserva
quando non ci sei o che la mano
che ti fruga sia più sincera ?
Forse sei nel vero.
È già difficile indovinare il tempo
che farà nel pomeriggio, come capiremo
se e quanto diromperà una parola
quando sappiamo già che il fruttivendolo
ruba sempre sul peso mentre col mignolo
allontana il piombo sopra l’asta della stadera?
Raccontami invece l’acqua ch’è già corsa
le radici che hanno dita lunghe
e le campane e i suoni che ascoltavi
prima che la vita ti accorciasse la cavezza,
parlami anche di tutti i padri
che fai sedere sulla tua panchina
e di come li guardi e li perdoni
dimmi la sofferenza di non avere
che memorie in bianco e nero
e lasciami cambiare le mura che cerchi
di costruirti attorno – fortezza
senza ponte levatoio – con semplici mattoni
o sassi uno sopra l’altro e con una
porta dove chi entra resta e non ti lascia
dubbioso al chiavistello nella sera
e poi descrivi le siepi che circondano
i tuoi sogni senza recinzioni e i fiori
che non puoi cogliere nei campi del ricordo.
Il vento che ci spinge ai margini
Il vento che ci spinge tutti ai margini
impedisce d’arrestare le distanze
e dentro il giorno resta la voglia
di parole tonde senza angoli:
“fiore, bue, cane, girasole, gatto”.
È la gratuità a fare meno arido
un incontro tra due cespugli
rotolanti dentro quel vento
la capacità di pronunciare
solo parole brevi crea una storia
e incide la pietra che grava
sopra ogni speranza.
Concerto per donna sola
Ci fu un tempo in cui mi frugavi dentro
come questo vento che accartoccia il fogliame
al fondo delle grondaie prima che piova.
Allora visitavi le mie contrade devastandole
con la tua arroganza dentro errate latitudini
e nuvole d’amianto sotto cumuli di piombo,
corteggiavi lo scuro caffellatte dei miei seni
ed i miei fianchi erano stoppie di collina
per le tue mandrie in corsa di rapina.
Senza parole, di gesti squilibrati,
quel transitare dentro me, lasciavi
nebbia ed umidore, rabbia dolorante
soffocata dentro un grido oscuro e fondo
nella gola, sabbia arroventata dal tuo ansimare.
Così hai lacerato la mia carne ed i pensieri
di quella giovinezza che occhi forestieri e nuovi
leggevano dorata, questa figura era diventata
la trama di un tappeto afgano che invece bruciavi
come un kilim polveroso sotto i piedi
del nostro amaro disamore, ed hai rubato anche
la mia passione per sezionare le tue povertà,
ma ora che sto frugando fra i miei detriti
provo rancore per quel supporti l’unico uomo.
Più non grido, soffoco l’angoscia di questa assurda vita
che talvolta mi scippi ancora all’inguine la notte,
urlo forte dentro me per l’abortita attesa di un amore
che non sia solamente lo spasimo di una tenia,
ma so che imparerò a conversare in una lingua
poco praticata, costruita con sguardi di sottecchi
e qualcuno finalmente carezzerà il mio muso triste
di cagna che ha riscattato il suo destino.
A un’amica
Sono deserte e vuote l’ urne dei forti,
le nostre Madeleines le dobbiamo avvolgere
nella stagnola per proteggerle dall’umidità
di questa stagione che annacqua, dilava
e infine omologa ogni velleità di differenza.
Porti per sentieri faticosi il peso
di un silenzio e di distanze, ti domandi
se e quando arriverai alla tua baita,
ed io ti rispondo con la scorta
del pensiero di coloro che s’erano illusi
d’alleviare la durezza del nostro scorrere
usando le parole dei Maestri.
Inutilmente
ci appartiene qualche verso, il fruscio
di un languore nella memoria,
il respiro di chi una volta s’è addormentato
nel nostro accanto, la tenerezza
di una mano che s’inumidiva,
cose, immagini di gesti, parole
ancora, per accompagnarci
verso quel silenzio dal quale
per molte volte abbiamo
tentato di allontanarci.
———————————————–a V.
Le vecchie litanie
Ho lasciato sopra gli scalini di casa tua
quattro versi sciolti nel poco miele che restava
della mia estate di san Martino, come
l’obolo della vedova, tesoro tenuto in grembo
frutto di rinunce e non ciò che le esuberava.
Conservali per quei momenti in cui s’affaccerà
alla tua finestra un velo di rimpianto
non rileggerli con distacco, sono il prezzo
che anche tu paghi all’illusione che ci fa sperare
al di là del suono dolente delle campane.
Io ripeto gesti ed azioni collaudate,
intono vecchie litanie, mugugno cori muti
di paturnie, ma tutto avverrà com’è giusto sia
il sole completerà il suo giro, l’asse della terra
non subirà inclinazioni, ed il gelo sopra i fili
del nostro bucato non si scioglierà perché
è senza luce questo giorno d’inverno
che altri hanno già battezzato dello scontento.
Ne passeranno ancora come questo, con pause
brevi come quelle dei nostri pasti, e se qualcosa
s’avanzerà dentro il piatto diremo con disinvoltura
di non avere fame, e tutto sarà più facile:
ci basterà dimenticare di non avere vissuto.
Il silenzio è da catturare
Soltanto quando avrai osservato a lungo ogni paesaggio
sperando di catturarlo con le pennellate che distendi
quando avrai girato l’interruttore tra te e il mondo
e sullo schermo apparirà la linea piatta del confine,
——————————————————–tu saprai
————————————————-d’essere vivo
e non ti lascerai più condurre in giro dal rumore.
——————————————————–Allora
———————————————vi sarai vicino,
——————————————————–allora
avvertirai che quel brusio si è assopito dentro te
e potrai toccare la consistenza del silenzio.
Nel buio la tua pena si farà più lieve
sciolti i lacci che trattengono il flusso del respiro
ascolterai ogni eco che s’allontana dalla mente
e quando scoprirai che nell’accettarti
figlio d’un Padre silenzioso ma non assente
sta l’inizio e la fine d’ogni ricercare,
la tua storia diventerà un libro chiaro.
Allora, non prima
Allora, non prima, sarà il non detto,
la parola non uscita il suono tronco
il gesto generoso non compiuto, a fare aggio
su quel poco che la nostra illusione
penserà d’aver portato a compimento,
e non servirà il rammarico o il disappunto
per le scelte troppo a lungo rimandate.
Le nostre non azioni, l’indifferenza,
quell’accidia sottile che accompagna sempre
la mancanza di carità saranno lì
oggetti di natura morta per aridità
quadro dipinto con poca conoscenza
tappeto sopra un telaio privo di movimento
e non si potrà disfare alcun disegno
o cambiare di posto ai componenti,
ma sulla nostra assenza prolungata
si stenderà il giudizio o la chiusura.
La non appartenenza
Trapassa anche te il malessere
della non appartenenza come se
viaggiassi dietro vetri oscuri?
Al risveglio ti succede
d’indossare abiti non tuoi, poveri
indumenti che coprono le debolezze
e fanno vergognare dei pensieri?
Oppure ti sembra che la vita
talvolta sia un fiato tronco,
e cerchi il respiro del giorno
dentro gli occhi di chi incontri?
Bivacchiamo con addosso squame
congelate da troppi inverni d’astinenza,
lasciamo tracce di morte mascherata
da vitalità, lanciamo l’illusione
d’essere gli anelli forti d’una catena
ma la secchia che gettiamo in fondo
al pozzo non porta su che fanghiglia e sassi.
Il malessere che trastulliamo come fosse
un capogiro non è un calo di pressione
per il quale può bastare una zolletta
ora che il fumo dei vulcani s’è allontanato
resta questo ansimare persistente che qualcuno
-per mia ironia- ritiene tosse cardiopatica.
© Terra d’ulivi edizioni di Emanuele Scarciglia Strada Prov. 131, n. 91 73100 - Lecce info. 0832 378754 - 329 5327158 www.edizioniterradulivi.it emanuelescarciglia@libero.it ISBN 978-88-99089-
APPUNTI DI LETTURA
di Ennio Abate
1.
L’ultimo libretto di poesia di Luigi Paraboschi si presenta in toni raccolti e dimessi già dal titolo non casualmente in minuscolo, che viene ripreso e chiarito in «Il ghiaccio della gronda»: le nostre esistenze sono abiti stropicciati, non stirati, non più di festa; e li indossiamo (metaforicamente: indossiamo noi stessi, cioè i nostri corpi-maschere), come per una recita solitaria o davanti a pochi spettatori noti ( molte le dediche a persone care ), ai quali dire l’essenziale della nostra vita e di vicende, dalle quali prendiamo ormai pacatamente «a caso ciò che serve». Chi parla fa un bilancio di vita e questa raccolta è un po’ il «De senectute» di Paraboschi. Vi contempla un se stesso ormai compiuto innanzitutto nella sua memoria. E richiama a fare lo stesso al lettore. (E a me in particolare, suo quasi coetaneo, che l’ho conosciuto da pochi anni e subito – anche se finora non ci siamo incontrati – l’ho sentito per molti tratti amico-fratello, molto vicino alla parte giovanile del mio percorso: uno, mi sono detto talvolta, che avrei forse potuto essere io, se non mi fossi strappato alla mia città di provincia e sporcato con il ’68-’69, gli anni Settanta, le periferie, le sirene rivoluzionarie).
2.
La poesia non serve più a Paraboschi per inseguire la vita, ma per sistemare i suoi ricordi e prepararsi alla morte con meditata e convinta adesione alla tradizione ascetica cristiano-cattolica. E nei componimenti, disposti in ordine sparso e divagante, tra sussulti di resistenza e di vigore ancora costruttivo (in «Cerchi ancora la pietra d’angolo» ad esempio), non impetuosi però e continui ma da fiumi carsici, che «all’improvviso / si sotterrano come fai tu e fanno perdere / le tracce», a dominare è una inconsolabile e orgogliosa mestizia esistenziale. Che – per fare esempi che a me vengono in mente – talvolta sfiora quella crepuscolare di Marino Moretti e più spesso quella cordiale di Carlo Betocchi. Di sicuro è più sobria e meno in posa che in Eugenio Montale. Ha anche esiti ideologicamente postmoderni (ma senza intellettualismi) come in Guido Mazzoni, un contemporaneo più giovane di noi. Ed ho notato che il rendiconto dell’esperienza mi pare anche abbastanza simile a quella di un altro poeta amico, Eugenio Grandinetti. Entrambi partono quasi sempre da una descrizione di natura “dal vero”[1] per arrivare ad una meditazione lirica più che filosofica, anche se il fondo del pensiero in Paraboschi è religioso e in Eugenio materialistico. Il distacco rassegnato è, però, il medesimo.
3.
Abbondano nella raccolta queste immagini di una natura osservata “dal vero” (come si diceva una volta per i pittori) ma in sostanza di memoria e di un’epoca ormai lontana, perché meno antropizzata e inquinata di quella d’oggi. In qualche caso, per contrasto, alludono ad attività industriali, alle scorie che «rilasciano veleni tossici», ma di solito vengono soprattutto dalla memoria infantile e giovanile e trattengono in sé il clima elegiaco dei paesaggi di provincia preindustriale. Sono tutte costruite con cura amorosa e precisione, ma sembrano pressate da una soggettività a disagio, in affanno: i «sogni / che la vita porta in giro e che coltiviamo /anche se spesso ci stanno troppo larghi / come un paio di scarpe nelle quali / il piede s’è smagrito e le trasciniamo». E con la loro seduzione rafforzano in Paraboschi un atteggiamento disilluso anti-razionale e antiscientifico, certamente discutibile, ma intenso, maturato da tempo e forse impossibile ormai da scalfire. Perché dal mondo moderno, illuministico e progressista, egli s’è sentito ingannato, anzi affondato: « la razionalità è un lago di abbandono / nel quale siamo andati a fondo». E ora , dalla sponda poetica, alla quale è definitivamente approdato, lo rimira a distanza. Non con disprezzo ma con amaro sarcasmo: « la scienza li chiama semplici gorgheggi /e parla di codici iscritti nelle radici, / ma io preferisco ripiegarmi nel rispetto / e non avvelenare il sangue per celebrare /l’esaltazione dell’intelligenza, e / lascio scorrere lo spirito dove vuole».
4.
Da qui, dunque, una liricità autocentrata e in controcanto rispetto alla tradizione poetica più intellettuale e ragionante. In «Raccontami l’acqua che è già corsa», ad esempio, le domande di taglio filosofeggiante rivolte ad uno scettico alter ego, a cui si dà facilmente e distrattamente ragione (« Forse sei nel vero»), si esauriscono presto. La riflessione non è tenace e non entra nella struttura stessa della poesia, nel linguaggio (come in Leopardi). Attraverso tre invocazioni («raccontami.. dimmi.. lasciami») il ragionamento è interrotto; e le immagini care a Paraboschi – quelle, appunto, naturali e umane affioranti dalla memoria di un passato concluso e circoscritto all’ambiente della campagna e della provincia (e, come ho detto, dell’infanzia e della giovinezza soprattutto, malgrado la sua esperienza di viaggiatore planetario per lavoro) – s’impongono . Solo quelle in fondo Paraboschi considera autentiche, perché sentite emotivamente, in profondità, fuori dall’intelletto.
5.
Parlerei di scelta necessaria per consolidare la sua fiducia, non tanto nella Poesia alla Sagredo, per nominare un altro autore ospitato spesso su Poliscritture, pur essa ancora più dileggiatrice della ragione, ma la poesia con la minuscola. Paraboschi, in coerenza con la sua visione ancora francescana del mondo e di una poesia che non si slega dalla prosa del sentire comune e bandisce sia il canto esclamativo e ispirato sia i paroloni concettosi, preferisce « parole brevi» o «parole tonde senza angoli:/ “fiore, bue, cane, girasole, gatto”». Che sono poi, in sostanza, quelle dell’infanzia e della campagna. O – per riprendere una sua animalizzazione autodifensiva e benigna di tono pascoliano – fragili parole-piume, le uniche che resterebbero ai poeti-passeri solitari e appartati. Solo con queste vuole «cercare un senso» a «briciole di una storia scritta a matita». Cioè alla sua controllata autobiografia interiore, che egli umilmente è sempre pronto a correggere e dalla quale onestamente non vengono espunte incertezze e provvisorietà. O alla vita quotidiana di familiari e vicini (il prossimo). Più che di «una storia», però, a me pare si tratti di una microstoria che Paraboschi vive ormai staccata dalla prima o dai «destini generali» (Fortini). E il vento che in essa soffia permetterà, sì, «un incontro tra due cespugli/rotolanti», ma a me pare improbabile che possa incidere sul duro e impenetrabile destino dell’umanità, su quella « pietra che grava / sopra ogni speranza».
6.
Non saprei esattamente dire come Paraboschi si sia costruita questa sua visione del mondo che cala nella sua poesia. E se abbia orecchiato (poco o tanto) il dibattito politico-culturale degli ultimi decenni, che ha portato all’indebolimento del pensiero e alla cancellazione delle cosiddette Grandi Narrazioni, che pure l’hanno sfiorato. Ma la scelta su cui poggia la sua lirica è consolidata. È il suo stile. Respinti avanguardismi scientisti e orfismi che praticano o sguazzano nell’oscurità, ma anche i marxismi e le residue resistenze illuministiche, Paraboschi insiste in una liricità che si fa per forza sempre più soliloquio e diagnosi di una condizione esistenziale e umana definitivamente giudicata «senza risposte o spiegazioni». L’angoscia che ne deriva all’io poetante è tenuta sotto controllo dalla ritualità di un linguaggio poetico fermo, pacato, mai freddo o distaccato. E, come ho detto, dalla ricchezza di un immaginario, che attinge alla letteratura, al cinema e alla pittura. Si può anche ipotizzare che questa pacatezza copra o disciplini una spinta sotterranea più spasmodica, oscura e selvatica, che allusivamente affiora in «Concerto per donna sola»: «Ci fu un tempo in cui mi frugavi dentro/come questo vento che accartoccia il fogliame». Oppure in certe venature di un realismo prosaico e a tratti sadico («e t’accanisci con la lama /dentro una ferita che butta fuori / soltanto acqua e siero.») presente in vari suoi componimenti.
7.
In nome di questa scelta lirica Paraboschi ha ridimensionato ogni fronteggiamento attivo, magari più velato o mascherato, della dimensione sociale, politica e storica, che pure qua e là in passato è stata ben presente nella sua ricerca. In questa raccolta la storia appare degradata a miti inerti se non proprio a teatrino di cartapesta e vi compare ironicamente in forme oleografiche o di amarcord letterari. Come in «A un’amica»: «Sono deserte e vuote l’ urne dei forti,/le nostre Madeleines le dobbiamo avvolgere /nella stagnola per proteggerle dall’umidità/di questa stagione che annacqua, dilava/ e infine omologa ogni velleità di differenza.». Fino a cedere talvolta persino nell’autoflagellazione: «S’allontana la nostra ribellione verso le facce del potere / e fatichiamo ad accettare il fatto che non eravamo stalloni». Ne «Le vecchie litanie» compare perciò una temporalità astorica che si ripete e ci sovrasta. Paraboschi ha fiducia nella persistenza della natura e delle cose («il sole completerà il suo giro, l’asse della terra/ non subirà inclinazioni, ed il gelo sopra i fili / del nostro bucato non si scioglierà ) e conosce la vanità del possesso delle cose. Il cruccio, che pur ribolle sotterraneamente nella sua poesia per la vita non vissuta, non emerge più in grido. É bloccato dalla scelta morale dell’individuo che sa di essere un vinto e un isolato. E qualche volta sfiora ironicamente l’autoconosolazione: «ci basterà dimenticare di non avere vissuto». O addirittura la rassegnazione: «Siamo carte assorbenti che s’impregnano / di tutte le calligrafie durante ogni istante».
8.
La scelta di austerità riguarda in poesia anche le parole sporche, sociali, conflittuali («prosciugheremo ogni parola»). E qui si ha, secondo me, un passaggio più deciso dal piano esistenziale a quello schiettamente religioso. Lo starsene religiosamente ai margini della vita culturale, sociale e politica non ha – devo dirlo, anche se suonasse rimprovero – i modi di una religiosità militante: ieri alla Fortini, oggi alla Zanotelli. Paraboschi opta per una religiosità del silenzio. E, infatti, ne «Il silenzio è da catturare» colgo il viatico (parola da intendere davvero in senso religioso) all’incontro con Dio: «nell’accettarti /figlio d’un Padre silenzioso ma non assente/sta l’inizio e la fine d’ogni ricercare,/ la tua storia diventerà un libro chiaro.». Il silenzio è per lui caratteristica di Dio. E la storia (o, come ho ipotizzato, la microstoria) solo in questo incontro può farsi «libro chiaro». Questa raccolta, dunque, oltre ad essere riflessione sulla tarda età, svela una cifra più profonda: è una raccolta di poesie-preghiere, ancor più che un soliloquio o un dialogo con persone care. E trasmette un desiderio di riposo, di abbandono, di rinuncia al mondo. Il bilancio di una vita – tranquilla, non drammatica, disincantata, non più in dialettica inquieta con le vite altrui e sempre pronta all’autoascultazione che si fa scrittura[2]-, viene compiuto interamente alla luce delle virtù cristiane: «Le nostre non azioni, l’indifferenza,/quell’accidia sottile che accompagna sempre/ la mancanza di carità saranno lì/ oggetti di natura morta per aridità /quadro dipinto con poca conoscenza/ tappeto sopra un telaio privo di movimento/e non si potrà disfare alcun disegno/ o cambiare di posto ai componenti».
9.
La forma di questa poesia è perciò elegiaca e quietamente limpida, rifugge da ogni oscurità ma anche da ogni inquietudine lacerante. Magari vi allude ma si ferma sul limite. E la metrica di «… e ci indossiamo stropicciati» è quella del verso libero, ormai novecentescamente “classico”, per lo più narrativamente continuo o spezzato in strofe, che rispettano quasi sempre l’andatura sintattica della frase compiuta; e qualche rara dislocazione graficamente irregolare di pochissimi versi (qui in «Il silenzio è da catturare»). Massima è anche la pulizia lessicale e sintattica. Direi che a livello formale una qualche inquietudine si manifesti ancora in una sorta di golosità per i paragoni e le metafore. E mi pare che «La non appartenenza», che rimanda alla poesia che dà il titolo alla raccolta, è il componimento che più svela questa predilezione ricorrente per un accumulo di metafore semplici e certi abbassamenti prosastici sul quotidiano ( il capogiro, la zolletta, la tosse cardiopatica). Sintomatico è anche che molte chiuse dei suoi componimenti ripetono la malinconica constatazione del vissuto non realizzato e del mondo svanito.[3] Paraboschi resta, comunque, nella ridotta schiera dei poeti che tengono a bada ogni estetismo compiaciuto. La Bellezza per lui non ha nulla a che fare con le concezioni sacralizzanti della mitopoesia di un Conte o di un Kemeny, ma si coniuga, con una desublimazione non certo sorprendente per quanto detto finora, con incertezza e tenerezza: «La parola che volevo usare era “bellezza”/ ma subito mi sono fermato per timore /d’essere invadente e per bilanciarla /ho aggiunto “incertezza”, e – dopo – / “tenerezza».
Note
[1] Paraboschi:«Dall’aria giunge l’eco rotolante / d’una betoniera, uccelli neri /starnazzano per la polpa / di qualche fico, il verde delle foglie /che si schiarisce, qualche zanzara / sul finire, silente ma fastidiosa». Grandinetti:«Nel verde marcio dura ancora un giallo / residuo di tarassaco, un dianto / schizzatalo sgualcito,/ ed un rossore quasi inavvertito / di sanguinaria./ Nella guazza rosseggiano limacce /viscide, si nascondono / tra le foglie umide cadute dagli alberi.». (https://www.poliscritture.it/2017/09/22/da-i-luoghi-i-tempi-le-parole/)
[2] « ma a chi racconterò i silenzi /di quando il giorno è un peso / senza ragione, e la fatica che si fa / a rimanere in piedi, vigili / ma disattenti, se non a un foglio /bianco con sopra tracce di parole?».
[3]
pag. 62
e resta l’indifferenza del tempo
che ci avvolge tutti , porta via desideri
li immerge e soffoca senza disperazione
dentro un’attesa che non ci lascia mai.
pag.63
perché la speranza è figlia orfana
del tempo, allora lasci un segno
dentro quel libro appena riaperto,
a futura memoria di ciò che avresti
voluto se avessi smesso di pensare…
pag.64
Mongolfiere senza lo spirito, siamo
condannati a ripiegare su terre desolate,
alianti che senza le correnti devono
planare sperando di non schiantarsi,
eppure questa attesa di conoscenza
non si tace, il vuoto dentro il quale
ci agitiamo non è un porto nascosto
dove sperare incontri di fortuna.
p.65
tutto tutto tutto
sarà avvolto e poi travolto
dentro quella nebbia che si scioglierà
soltanto con un incontro
e finalmente si respirerà la pace.
Cos’è la poesia?
È questa!
Grazie Ennio anche tu hai colto e scritto magistralmente la bravura
e la grande importanza di questa poesia.
…trovo le poesie di Luigi Paraboschi molto intense e tormentate e, come dice Emilia Banfi, magistralmente presentate dal commento critico di Ennio Abate…Esprimono una forma di ascetismo cristiano dei nostri giorni, quindi danno voce a una lotta tutta interiore per arrivare a smascherare l’egoismo del mondo ma anche le forze interiori più selvagge e indomite. La meta per lo spirito è sentirsi “Figlio di un Padre silenzioso ma non assente…” ( “Il silenzio è da catturare”) e arrivare a respirare momenti di pace. Nella poesia “Vecchia parte di città” il poeta sembra voler salvare dall’oblio “l’ultimo paesaggio” degno di essere descritto , dipinto, ricordato. Un paesaggio, rimasto fermo nel tempo, che non si è fatto scalfire dai segni del “progresso” e perciò in via di disfacimento, ma pieno di colori e forme tenere e “…non uccide l’erba…”, cioè la vita vi è ancora presente…Nella poesia “Raccontami invece l’acqua che è già corsa” il poeta, in qualche misura rappacificato nello spazio ristretto di una tomba, doma il suo cavallo selvaggio che non lascia a briglia sciolta, ma tiene per la cavezza dell’autodisciplina, e finalmente può parlare all’acqua che scorre su di lui e chiedere il suo racconto sulle cose umane. Nelle poesie presentate c’è spesso un cambio di prospettiva nella percezione, il poeta si cala in forze della natura, come vento o acqua, o in persone che hanno subito oltraggi ripetuti e cercano il loro attimo di fuga, di dignità, come nella poesia “Concerto per donna sola”. In Luigi Paraboschi vedo un poeta viaggiatore indomito, ma sottoposto a grande autodisciplina, anche nello stile..
Queste poesie le ha scritte un gatto bianco e nero nel suo vagabondare in luoghi noti, che ripete in giri più larghi (come il periodare stesso della poesia) o su cui passa di taglio per cogliere di sguincio altre aperture, inoltrarsi magari in passaggi magici e sbucare in un luogo altro “come in certi quadri di Morandi”. Poi riposa e cattura una lucertola “che s’abbevera alla pozza/sotto il fico dalle foglie come palmi aperti”.
Ma un gatto non ha parole e Paraboschi trascrive grazie a un jack (filo iridescente nell’aria secca) i pensieri poetici del gatto, prendendolo anche in giro filosoficamente:
Dici che temi la vita virtuale,
lega le mani e non ha confini, ma
quella che trascorriamo è più reale?
Che si crede, il gatto, di pensare da solo la magia che apre il reale, che siano solo i propri pensieri ad animarlo?
Pensi che l’occhio in cui ti specchi
non ti nasconda ciò che osserva
quando non ci sei o che la mano
che ti fruga sia più sincera?
Mentre il gatto ascolta le campane e i suoni, e guarda tutti e li perdona, con la lunga abitudine alla scrittura Paraboschi divaga per certi suoi percorsi donneschi, ardue incursioni in un mondo che esplora esplicitando le sue intenzioni: offre un piatto guarnito di amicizia e offre condivisioni palpitanti. Da quel mondo donnesco io lo guardo con curiosità, mi chiedo perché mi presenta tante figure invece di parlarmi del tempo o di quello che accade, ma poi è un problema che si risolve presto: “ci basterà dimenticare di non aver vissuto”.
Altre poesie Paraboschi dedica a se stesso, alla accidia (il *leggero* peccato del non agire, del non amare, dell’assenza e dell’aridità), per cui si rimprovera “quel poco che la nostra illusione/penserà d’aver portato a compimento”, e a cui risponde il silenzio di un Padre non assente
e non si potrà disfare alcun disegno
o cambiare di posto ai componenti,
ma sulla nostra assenza prolungata
si stenderà il giudizio o la chiusura.
Amarissima somma di se stesso, la secchia che tira su dal pozzo sassi e fanghiglia si ricongiunge alla introduzione alla raccolta:
Le scorie invece no, non sedimentano
con il tempo, rilasciano veleni tossici
rendono amare le acque attorno ai sogni
che la vita porta in giro.
Il gatto ricompare, vecchia morbida sfinge accucciata sulla soglia, le unghie ritirate nelle dita arrotolate sotto le zampe, un po’ al sole un po’ all’ombra, come una non appartenenza dietro vetri oscuri.
In questa poesia, tutta ben riconoscibile nei luoghi e nei pensieri, passo passo sempre condivisibile, possiamo ritrovarci soli ma in qualche modo rassicurati; che il poeta sa di noi le cose disperse perché le ha vissute, e quando scrive fa un diario che potrebbe essere il nostro, di ciascuno.
E’ quindi poesia inclusiva, che non crea difformità; e per quanto il reale resti inenarrabile nel suo esserci – se non per altro, le fatalità o le tante incognite – in qualche modo sembra fatto vero. Quindi possiamo chiederci se valga la pena starci, nel dolore voglio dire, perché tutto sembra passare, per volontà insondabile e inalterata. Come salire sull’autobus, certi che ci porterà a destinazione, però in viaggio gradevole, tra ricordi e ombre da dipanare sul posto assegnato. Forse da qui la malinconia, per quell’esserci lasciati trovare. O perfino di averlo voluto.
Luigi sa che immodestamente scrivo dell’incertezza, quindi mi rende distante un po’ il non sapere, che non è questione di voler essere moderni, magari perché si mette al bando l’elegia, ma perché trovo la realtà inenarrabile dal discorso compiuto, con il quale può non bastare una vita… quindi forma e linguaggio saranno per forza differenti. E tuttavia provo stima per Paraboschi, poeta dialogante – ad esempio nella poesia “A un’amica”, sembra rispondere anche a me. Ma forse sono soltanto diversi i Maestri.
non so come trovare parole di ringraziamento per :
Ennio :
che ha dedicato alla lettura dei miei testi un impegno che so di non meritare, con accostamenti dei quali sono lusingato.
Quelli che egli chiama ” vite diverse, percorsi diversi ” tra noi due sono reali differenze di esperienze nel vissuto individuale tra me e lui, però ammetto che ha saputo leggere bene tra le righe dei miei versi e lo ringrazio per non averli sottoposti a quelle analisi così ideologicamente pregnanti che spesso attraversano i suoi interventi, ma di avere usato un metro indulgente.
Non mi sono mai nascosto che per lui la figura dominante della poesia del 900 sia stato Fortini, mentre, con molta umiltà confesso di essere un ammiratore di Bertolucci, e di avere spesso ammirato l’irraggiungibilità esistenziale di Montale dal quale mi sono sentito spesso lontano da una certa forma mia di religiosità alla quale mi aggrappo per trovare le risposte ad una esistenza collettiva che non mi corrisponde pienamente.
grazie a
Emilia Banfi che ho imparato a conoscere meglio sulle pagine di FB e della quale ammiro quasi sempre l’intransigenza ideologica che appare da molte delle sue scelte nei ” commenti” e per una passione comune per il colore, il paesaggio, i fiori. Emilia dice spesso un gran bene dei miei versi al punto che i sui commenti spesso mi fanno sentire veramente inadeguato alle sue affermazioni sempre entusiaste.
grazie a Cristiana Fisher :
per la quale- pur non conoscendola che attraverso pochi commenti – ho da tempo un’ammirazione ed un stima veramente profondi e reverenziali, perché mi sono spesso sentito incapace ed impotente di fronte ad una cultura come la sua che so aver attraversato tutto il 900 ( e non solo )con particolare riguardo a tutti gli aspetti del femminismo e della rivoluzione socio-politica ad esso collegata.
Ed è appunto al suo femminismo che sento legata la sua riflessione in quella identificazione del gatto bianco e nero con il poeta, perché quelli che ella chiama ” percorsi donneschi ” sono vere e proprie intuizioni di lettura dei miei versi, molto spesso impegnati ( almeno nel mio intento ) in dialoghi con personaggi femminili che per essere decifrati richiedevano l’astuzia di un gatto, ma come si evince da alcuni miei versi, talvolta non è bastata.
a Lucio :
ci conosciamo a sbalzi, tra un post, un sms o un commento, però credo di intuire il suo percorso di artista sia in pittura che in poesia, e lo stimo per la ricerca che egli compie nel segno e nel linguaggio, anche se molte cose sul piano espressivo ci dividono, ma ciò non toglie che le sue osservazioni siano sempre degne di riflessione.
” però ammetto che ha saputo leggere bene tra le righe dei miei versi e lo ringrazio per non averli sottoposti a quelle analisi così ideologicamente pregnanti che spesso attraversano i suoi interventi, ma di avere usato un metro indulgente.” (Paraboschi)
Perché mai *indulgente*? Le mie riserve dovute a “reali differenze di esperienze nel vissuto individuale” ma anche a idee diverse sul mondo sono presenti anche in questo mio scritto e non c’è bisogno di marcarle o etichettarle con categorie marxiste o fortiniane. Ne riparleremo.