Ghetto Italia, di Yvan Sagnet e Leonardo Palmisano, Fandango 2016
di Marisa Salabelle
Qualche settimana fa ho avuto l’occasione di ascoltare Yvan Sagnet, un giovane camerunense che ha studiato e vive in Italia da molti anni. È ingegnere, ma ha voluto fare il bracciante agricolo per un periodo di tempo per conoscere la condizione dei migranti nelle campagne italiane. Fa parte del sindacato USB e ha portato avanti diverse lotte, riuscendo a ottenere un risultato importante: che cioè la realtà del caporalato venisse riconosciuta e che venisse istituito il reato di caporalato. Questo è avvenuto nel 2011. Da allora Yvan gira sul territorio dove lavorano al nero, sotto l’egida dei “caporali”, sottopagati, sfruttati e costretti a vivere in condizioni indescrivibili, moltissimi immigrati, regolari e no, e anche molti italiani.
In collaborazione con Leonardo Palmisano ha scritto questo libro, Ghetto Italia, che consiglio a chiunque voglia informarsi su come funzionano le cose nella nostra agricoltura e capire qualcosa sui motivi che rendono i nostri prodotti tanto economici e convenienti. In tutto il profondo sud, ma anche nelle altre regioni d’Italia, ovunque ci sia bisogno di manodopera stagionale per raccogliere pomodori, olive, mele o per la vendemmia, esiste una fitta rete che possiamo grossomodo riassumere come segue: i proprietari, che possono essere piccoli possidenti o grandi aziende agroalimentari, si servono della collaborazione di persone esperte nel reclutare manodopera a basso, bassissimo costo. Questi “capi bianchi” a loro volta hanno sotto di sé un certo numero di “capi neri” (o rumeni, albanesi, etc) che reclutano braccianti e raccoglitori col vecchio sistema del caporalato, un tempo imperante nelle nostre campagne, poi (apparentemente) sconfitto da decenni di dure lotte, infine risorto in grande stile. I capi di ogni colore si occupano di raccogliere la manodopera, di portarla al lavoro su appositi camion o furgoni, di trovarle alloggio in baracche e casolari fatiscenti, di procurare cibo, strumenti da lavoro, ricariche per i cellulari e altri servizi indispensabili. Se un bracciante riesce a guadagnare 20 o 30 euro in una giornata di lavoro che può durare anche più di 12 ore, almeno metà gli va via per pagare l’affitto del posto letto, il mangiare, il bere e qualsiasi altro servizio di cui abbia bisogno. Sagnet e Palmisano hanno visitato i ghetti in cui vivono queste persone: interi quartieri di tende e baracche assemblate alla meglio, dove non c’è la corrente elettrica e il bagno è un buco scavato per terra. Alcuni invece vivono in casolari sparsi nella campagna, ciò che resta di antichi insediamenti, ugualmente in condizioni di grave degrado.
Se i caporali, bianchi o neri che siano, sono a contatto coi braccianti, affittano loro baracche o posti letto, toccano con mano le condizioni in cui li costringono a lavorare, non bisogna dimenticare che al vertice della filiera, apparentemente distaccate e neutrali, ci sono le grandi multinazionali del settore agroalimentare, che hanno tutto l’interesse a mantenere bassi i prezzi dei prodotti agricoli. Ogni volta che mangiamo i pomodori o le deliziose mele del Trentino, ogni volta che gustiamo un calice di vino della Franciacorta o dell’astigiano, dobbiamo ricordarci cosa sta dietro queste nostre eccellenti produzioni e sapere che se il lavoro dei braccianti fosse remunerato quanto merita e fossero loro garantite condizioni di lavoro e di vita decorose, sicuramente non potremmo comprare questi prodotti a prezzi tanto accessibili. Il nostro “stile di vita”, del quale siamo tanto fieri, si basa su questo.
Eppure la frutta e la verdura sono aumentate di prezzo. Stamane ho comprato limoni argentini, avrei però potuto scegliere quelli uruguaiani. Al supermarket c’erano due retine di limoni italiani, secchi e con la buccia rugginosa. Venti anni fa sono venuta a vivere in abruzzo, mio marito ama il lavoro fisico e anche la fatica, si offriva per raccogliere uva e olive, lo pagavano più dei raccoglitori di oggi, parecchio di più, poi non lo hanno più voluto, quando sono cominciati ad arrivare i romeni. Poi arrivarono i polacchi, poi i neri ma adesso anche gli italiani hanno le paghe dei neri. C’è qualcuno che incamera le differenze? Ma si è anche abbassato il reddito per molti, anche proprietari, per la concorrenza dell’olio tunisino e… dei limoni argentini. Il lavoro che fa Sagnet e l’USB è indispensabile. Occorre anche un lavoro di informazione e riflessione sul globalismo, sugli incoraggiamenti alle migrazioni, sui partiti che si candidano a governare su diritti civili e non su quelli sociali, e che si accapigliano nella reciproca delegittimazione. La riduzione del ceto medio serve anche a questo: a ridurre la politica a “sentina di tutti i vizi”, a delegittimarla. Invece solo la politica può affrontare l’insieme delle questioni, che sono collegate. Quanto alle mele trentine e al calice di Franciacorta, sempre meno se li potranno permettere.
I prezzi li stabiliscono alla base le multinazionali dell’agroalimentare. Si accordano al ribasso coi produttori: comprano da chi fornisce casse di pomodori o mele ai prezzi più bassi. È chiaro che quello che è destinato a scendere sempre di più è il salario dei braccianti. Inoltre c’è un altro grande business, ed è quello dei servizi che sono rivenduti ai lavoratori e che decurtano la loro paga già bassa: dall’affitto del posto letto in baracca al passaggio in camion o furgone per raggiungere il posto di lavoro alla doccia alla ricarica del cellulare…
La politica del governo e, anche se meno brutale a parole, dei governi precedenti, di contrastare l’immigrazione dai barconi e invece chiudere tutti e due gli occhi su queste realtà di lavoro schiavistico, in cui sono indifferentemente coinvolti immigrati regolari e clandestini, rifugiati con lo status riconosciuto e irregolari col foglio di via in tasca, fa molto comodo… Del resto, anche se in percentuali più basse, uomini e donne italiane fanno parte della stessa manodopera a bassissimo costo e ad alto tasso di sfruttamento. Ascoltando Yvan ho capito che solo dalla lotta di queste persone, che realmente “non hanno nulla da perdere fuorché le loro catene”, può nascere un riscatto.
grazie a Cristiana Fisher. ha chiarito tutto con brevi parole.
…nella realtà di periferia urbana dove vivo non esistono ghetti ma piuttosto dei muri invisibili innalzati dalla paura, dalla diffidenza e dalla rabbia a separare tenacemente le persone. Le case popolari diventano uno spazio abitativo da contendersi…Gli appartamenti vuoti e le soffitte vengono occupati da poveri, clandestini o residenti. Ai caporali si sostituisce la malavita organizzata ad assoldare migranti clandestini ma anche giovani italiani senza futuro per l’attività di spaccio…Da qualche tempo però è attiva una rete di associazioni, dove giovani e meno giovani portano avanti dei progetti di riqualificazione del quartiere…Anche dal punto di vista architettonico per creare “luoghi liquidi” di incontro e spazi di condivisione. Mi sembra che qualcosa si stia muovendo