di Marisa Salabelle
Chi la fa, l’aspetti! dice il proverbio. Cioè: Chi danneggia gli altri deve aspettarsi risposte e reazioni dello stesso tipo. Ma i proverbi dicono mezze verità (e valide per il mondo di una volta). Che danni agli altri ha fatto don Massimo Biancaloni? La persecuzione (più che ispezione) fa parte della guerra agli immigrati e ai poveri, che è in atto in maniera esplicita da parte del nuovo governo e in particolare dalla sua punta al Ministero degli Interni, il leghista Matteo Salvini. Non so perché ma mi è passato per la mente il titolo della commedia di Bertolt Brecht “TESTE TONDE E TESTE A PUNTA”. Non ricordavo la trama è l’ho ripescata sul Web (qui). Ne riporto l’essenziale lasciando a voi i necessari aggiornamenti e adattamenti : “Nello stato immaginario di Jahoo, la situazione economico-sociale è disastrosa. Non ci sono più soldi, c’è troppo grano e quindi il suo prezzo è crollato, i proprietari terrieri hanno sfruttato i contadini al massimo e questi hanno deciso di fare la rivoluzione. L’ambizioso Iberin riesce a farsi affidare pieni poteri dal re che, molto preoccupato, abbandona il paese. Iberin deve riportare la stabilità nel paese, stabilire l’uguaglianza, ascoltare i contadini. Invece decide di dividere la popolazione per tratti fisiognomici. A seconda della forma della testa, se tonda o a punta, i cittadini vengono infatti divisi in Cik e Ciuk. Si stabilisce così che le teste tonde sono quelle coscienziose, laboriose e fedeli e quelle a punta, al contrario, sono la causa della rovina e per questo debbono essere arrestate, processate e giustiziate. ” [E. A.]
Il 27 agosto 2017 a Pistoia, presso la parrocchia di Vicofaro, il cui parroco, quel Massimo Biancalani diventato famoso per i suoi “profughi in piscina” e bersagliato da migliaia di post offensivi sul suo profilo Facebook, la Messa domenicale fu “presidiata” da un drappello di forzanovisti venuti a vigilare sull’ortodossia del don. La Pistoia solidale e antifascista quella volta reagì alla grande: la chiesa, enorme, e il sagrato erano pieni di persone venute a solidarizzare con l’amico dei migranti.
In seguito a quell’episodio si formò l’Assemblea permanente antirazzista e antifascista, che nel corso di questo anno si è riunita regolarmente nei locali della parrocchia, ha svolto attività di volontariato, ha organizzato incontri, ha espresso la sua vicinanza al prete che da un lato è diventato un personaggio pubblico, ospite di programmi televisivi e radiofonici, dall’altro ha continuato a essere bersaglio di insulti e provocazioni. Tra gli episodi più significativi ricordiamo striscioni con frasi aggressive esposti nelle vicinanze della parrocchia e persino di alcune scuole, la minaccia di un presidio da parte prima di CasaPound, poi di Forza Nuova, in occasione della visita di Laura Boldrini, infine gli spari, a salve, esplosi da un paio di adolescenti contro un ospite del Centro di accoglienza.
Il 27 agosto 2018, a un anno dall’episodio della Messa, l’Assemblea ha organizzato un incontro tra gli amici di don Biancalani, gruppi, assemblee, cooperative e centri di accoglienza, singoli cittadini. Il tendone allestito nel piazzale davanti alla canonica era pieno e ciascuno ha portato la propria esperienza e la propria solidarietà. Ma proprio negli stessi momenti in cui molte testimonianze venivano espresse, colui che avrebbe dovuto essere il protagonista della serata, Massimo Biancalani, era chiuso nel suo studio a cercare una soluzione a quello che lui stesso ha chiamato “un tegolone” che gli è caduto sul capo. Dopo aver subito l’ennesima ispezione (ASL, Questura, Vigili del fuoco…) e dopo aver fatto dei lavori per mettere a norma i locali del primo piano, stavolta ha ricevuto la notizia di inagibilità dei locali del piano terra, in particolare della cucina, e l’ordine di chiudere.
Non c’è dubbio che l’agibilità dei locali in cui delle persone sono accolte e vivono sia importante, così come si sa che molto spesso i Centri di accoglienza migranti vengono allestiti in ex conventi, canoniche, appartamenti… che non sempre sono in condizioni perfette. Recentemente a Pistoia c’è stato un avvicendamento al vertice della Prefettura: la Prefettura, d’altronde, fa capo direttamente al Governo… sono partite ispezioni a tappeto e almeno tre CAS (tra cui quello di don Biancalani) sono stati chiusi. In questi casi la Prefettura è tenuta a ricollocare gli ospiti, e anche ai ragazzi del CAS di Vicofaro è stato trovato posto. Sono dodici, alcuni dei quali saranno spostati a Ramini, l’altra parrocchia di don Massimo, e altri alloggiati direttamente in casa sua.
Il problema è che questi dodici sono solo una piccola parte dei migranti ospiti di Biancalani: il prete infatti ha scelto di aprire la sua porta a tutti coloro che gli chiedono aiuto, italiani e stranieri, regolari e irregolari. Così i locali di Vicofaro e Ramini sono diventati il rifugio di un’ottantina di senzatetto, tra i quali anche diversi italiani, anche se chiaramente in maggioranza stranieri, provenienti da vari Paesi africani come il Gambia, la Nigeria, il Senegal. Persone che sono uscite dal percorso di accoglienza per decadenza dei termini, o che si sono viste rifiutare il permesso di soggiorno, lo status di rifugiato o la protezione umanitaria. Gente senza lavoro, senza un posto dove stare, letteralmente tolta dalla strada. Una scelta che don Massimo spiega dicendo: «Sono un prete, è mio preciso dovere accogliere chi bussa alla mia porta, indipendentemente dal fatto che abbia le carte in regola o meno.» E poi: «Mi sono attenuto alle parole di Papa Francesco, che ha invitato tutte le parrocchie a offrire ospitalità ai migranti.»
Tutta Pistoia sa che don Massimo accoglie “clandestini” nella sua parrocchia e le forze dell’ordine non lo ignorano, ma finora, pur tenendolo strettamente sott’occhio, hanno lasciato che facesse il suo lavoro.
«In fin dei conti» gli ho detto qualche tempo fa «il tuo è un servizio alla città, perché se non stessero da te queste persone dormirebbero per strada e creerebbero disagio alla popolazione. Per questo secondo me lasceranno che tu continui a ospitarle.»
«Non lo so» mi ha risposto. «A qualcuno fa comodo che gli immigrati ciondolino per la strada e dormano ai giardini pubblici, prima di tutto perché possono più facilmente essere coinvolti nel lavoro nero o nello spaccio di droga, e poi perché alimentano il senso di disagio della cittadinanza e quindi giustificano l’adozione di misure repressive.»
Che ne sarà ora degli ospiti “irregolari” di don Biancalani?
AGGIUNTA ALLA MIA PRESENTAZIONE DELL’ARTICOLO DI MARISA SALABELLE
Quest’affermazione:
“La persecuzione (più che ispezione) fa parte della guerra agli immigrati e ai poveri, che è in atto in maniera esplicita da parte del nuovo governo e in particolare dalla sua punta al Ministero degli Interni, il leghista Matteo Salvini.”
andrebbe accostata (anche se il legame non è immediato) alla notizia delle voci di lotte al coltello ( altro tipo di “lotte sulle cime”(Brecht)) nella Curia romana ( e sue propaggini negli USA ). Cfr. ad esempio http://stanzevaticane.tgcom24.it/2018/08/26/ecco-cosa-ce-dietro-la-lettera-di-vigano/
1938- Hitler in Italia incontra il Duce
2018- Orbàn a Milano incontra il Sultano-Ministro
Gino Rago
Per non dimenticare
Lettera dalla sopravvissuta di Theresienstadt
(per il giorno della Memoria, 27 gennaio 2018)
“Caro Signor Treves, Cara Signora Bauer,
Vi scrivo dal confine svizzero
fra Como e Lugano
perché da questo posto non mi sono più allontanata.
Qui ho lasciato l’anima
perché qui fui tradita
[venduta dai «passatori» per poche monete]
Qui mi hanno arrestata.
L’anno 1944. Era primavera.
Liberata a Theresienstadt nel 1945 [era di maggio]
[…]
Da allora fui per tutti «la sopravvissuta».
La «scampata» al fumo, ai forni.
Fino al 7 del mese di maggio del ’45
Da Fossoli ad Auschwitz verso l’ultimo campo
Sono stata meno di un’ombra.
Sono stata senza Parole. Ero nell’Ombra delle Parole.
Vissi di Parole che non facevano più ombra.
Perché mi rivolgo a Voi?
Perché volete ridare la carne a nuove Parole.
Perché nuove saranno le parole
da ciò che l’Armata Rossa trovò nei vagoni,
nei magazzini, negli hangar,
la mattina del 24 gennaio del 1945
[840.000 capi di abbigliamento femminile. 44.000 paia di scarpe.
400 arti artificiali. 7 tonnellate di capelli rasati, compresi i miei].
Montagne di occhiali. Valigie. Denti. Giocattoli.
Casacche a strisce con la stella nel fango.
[…]
Caro Signor Treves, Cara Signora Bauer,
la «sopravvissuta di Theresienstadt» amò le parole che non riuscì a dire.
Ditele voi ora per lei. Pronunciatele voi nella nuova poesia
quelle parole di cenci nel fango
[pigiami a righe, mutande, bretelle, pizzi, calzini, veli, borsette,
spazzole, scarpe, pupazzi, rossetti, cappelli, magliette].
[…]
Versi a seppellire «la cagna di Dachau»
e i paralumi umani per la belva.
Parole nuove da quegli stracci che ospitarono uomini
[un tempo furono anch’essi uomini vivi]
Gino Rago
Grazie di aver riproposto la sua poesia, che ho già letto su L’Ombra delle Parole, anche su POLISCRITTURE.
L’Ungheria di Orban non mi pare accostabile, però, alla Germania di Hitler e Salvini, pur ministro, non mi pare ancora “il Siltano”; e dunque trovo forzata l’analogia:
1938- Hitler in Italia incontra il Duce
2018- Orbàn a Milano incontra il Sultano-Ministro
Nella storia dell’umanità e nelle dottrine politiche non contano tanto i fatti quanto la percezione che si ha di essi.
Sono iperboli, forzature, ha ragione Lei, ma tese a tenere alta quanto basta l’asticella dell’attenzione contro possibili trabocchetti…
Mio padre è stato uno dei tanti prigionieri di guerra, dal 1942 al 1946, nel fiore della sua giovinezza, giovinezza evaporata fra pidocchi, umiliazioni e fame…
Certo Orban non è Hitler e Salvini non è Mussolini, almeno per il momento… ma quanti, all’epoca, riconobbero la pericolosità di quei soggetti e quanti invece sminuirono fino a che le cose non precipitarono? L’idea d’Europa che hanno questi due è spaventosa, sebbene per altri versi lo sia anche l’idea di Europa attualmente in essere; le prossime elezioni europee possono realmente incidere, dar vita a un cambiamento che sarà gravissimo.
E la politica antimigranti portata avanti sia dalla brava Europa liberale (ancora ieri, elogi a Minniti da parte della cosiddetta “sinistra”) sia da quella “sovranista”, come ama definirsi, non è forse una Shoah condotta con altri mezzi?
Gentile Marisa Salabelle,
intendo, desidero ringraziarLa per le Sue meditazioni a forte postura etica e ben sostenute dagli eventi della recente Storia di quella Europa che in fondo ha scelto il suo suicidio anche culturale nel panorama intero del mondo, meditazioni peraltro che condivido in pieno e delle quali, ed è ciò che più a me preme rimarcare non senza ringraziarLa per l’acutezza che vibra in ogni Sua parola, segnalo con gioia l’icasticità e la sobrietà esemplari … La ringrazio, gentile Marisa, come forse meglio mi riesce e cioè con questi versi [inediti] e con gli stessi versi desidero ringraziare Ennio Abate per l’ospitalità che mi concede sulla sua rivista peraltro scoperta da pochissimo tempo.
Grazie Marisa, grazie Ennio.
Gino Rago
La conchiglia senza polpa resta vuota
*[pensando a Emilio Villa, Edoardo Cacciatore, Armando Patti]
“Sei dipinti numerati. Da uno a sei.
Sembrano moti di un passo di danza.
La prima figura è protesa verso l’esterno.
La seconda verso l’interno.
Una si schiaccia si può dire a terra.
L’altra si libra senza peso verso l’alto.
La quinta si rilassa. La sesta si alza in piedi.
Nudo lo schiumarsi di mute solitudini alla riva.
[…]
Per anni l’arte ha tentato la stasi.
Ora cerca di mettere tutto in movimento.
I sei dipinti ornano i sei pilastri
della sala da pranzo d’una azienda.
Figure fluttuanti. Distesa di cielo
visibile appena dalle finestre alte della sala.
Il mondo. La carne. O la Parola che comprende entrambi.
[…]
«Siamo tutti coscienti del fatto che…?»
L’amministratore delegato non risponde.
Ignora l’artista. Che insiste: «Siamo tutti coscienti del fatto
che se la polpa cade la conchiglia si svuota?
Chi o cosa riempirà questo vuoto?…»
Emilio, Edoardo, Armando*.
Rondine. Rendici eguali al tuo giugno.
[…]
Da un angolo della mensa aziendale rispondono:
«Se la polpa fugge la conchiglia resta vuota.
Il vuoto lo riempie la parola nuova del poeta».
L’amministratore delegato non si scompone.
Pensa da solo soltanto al profitto.
La conchiglia senza polpa resta vuota.
Le immagini sono il silenzio inquinato.
Gino Rago
The shell without the pulp remains empty
“Six numbered paintings. From one to six.
(They seem like movements of a dance step).
The first figure pushes itself outwards.
The second (pushes itself) inwards.
One, you could say, crushes himself down to the ground.
The other flies weightless upwards.
The fifth relaxes himself. The sixth stands up.
Naked skimming of silent solitudes on the shore.
[…]
Art for years attempted the stasis.
Now it tries to put everything in movement.
The six paintings adorn the six pilasters
in the dining room of a company.
Floating pictures. A spread of sky
justbarely visible from the high windows in the room.
The world. The Flesh. Or the word that comprehends both.
[…]
«We are all conscious of the fact that …»
The managing director does not answer.
He ignores the artist. Who insists: «Are we all conscious of the fact
that if the pulp drops out, the shell gets empty?
Who or what will fill up this void? …».
Emilio, Edoardo, Armando.
Swallow. Make all of us the same as your June.
[…]
From a corner of the canteen they reply:
«If the pulp runs out, the shell remains empty.
The void is filled by the new word of the poet».
The managing director is not upset.
Alone, he only thinks of the profit.
The shell without the pulp remains empty.
The images are polluted silence.
(Traduzione in inglese di Carlo Cremisini)
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Gino Rago
@ Marisa Salabelle
E allora, se *almeno per il momento* Orban non è Hitler e Salvini non è Mussolini e la strage dei migranti *somiglia* ma *non è* « una Shoah condotta con altri mezzi » (ma potrebbe essere anche qualcosa di peggio…poi possiamo approfondire…), non è gridando:«Al lupo! Al lupo!» che si ferma il pericolo che essi *potrebbero* costituire. Vanno contrastati sulle scelte politiche concrete che vanno facendo – appunto – sulla questione delle migrazioni in particolare e, sì, per l’idea di Europa che vorrebbero imporre. Ma il dilemma è che, come tu stessa devi riconoscere, è “spaventosa” (eufemismo…) «anche l’idea di Europa attualmente in essere» o la «brava Europa liberale». Restiamo, dunque, tra l’incudine e il martello. O possiamo passare solo dalla padella alla brace. Almeno così sembra. O è proprio così e vale il si salvi chi può? Il frastuono delle propagande contrapposte di buonisti e cattivisti, di globalizzatori e sovranisti/nazionalisti sta stordendo non solo il “popolo” (almeno quello raggiunto dai media), ma anche le residue menti pensanti. Che, vedo, si vanno convincendo che il governo Salvini-Di Maio “qualcosa” stia facendo o potrebbe fare (anche se si tratta delle promesse vaghe di chiunque va al governo o di voce grossa con i deboli). O che siamo – ma da quanto tempo lo siamo? – all’ultima spiaggia; e bisogna tenersi il “meno peggio”. Che sarebbe ancora il PD o un suo succedaneo o *questa* Europa. Altri, invece di buttarsi con i (presunti per me) innovatori o consegnarsi ai (sempre presunti per me) riformatori, rischiano una sorta di “cerchiobottismo”: vedono le luci e le ombre degli uni e degli altri (come mi pare faccia il politologo Carlo Galli in questo articolo appena letto *) e rimangono in attesa incerta e perpetua nella «guerra delle parole». Ci vuole “ben altro”. Ma anche questo richiamo, purtroppo, fa parte di questa «guerra delle parole». E intanto il tempo passa e la gente muore.
APPENDICE
La guerra delle parole
di Carlo Galli
https://www.sinistrainrete.info/politica/12911-carlo-galli-la-guerra-delle-parole.html
Stralcio:
Sovranismo, dunque. Ovvero l’aggressivo particolarismo che sarebbe la presunta radice politica dei nostri mali. Il cui opposto positivo sarebbe invece l’universalismo collaborativo, declinato in globalismo o in europeismo secondo i casi (in realtà, si tratta di due prospettive che possono anche essere opposte). Una contrapposizione costruita per non parlare di sovranità, ovvero della pretesa di un soggetto politico, i cittadini nel loro complesso, che lo Stato che li rappresenta persegua gli interessi nazionali e protegga i cittadini stessi. Una pretesa che di per sé non ha nulla di reazionario e che è insita nell’essenza della politica: protego ergo obligo è il cogito dello Stato, la sua ragion d’essere, la sua mission. Una pretesa che può essere anche democratica, come appare dalla nostra Costituzione che collega il popolo alla sovranità e non ai mercati o ai trattati dell’euro. Una pretesa, del resto, avanzata e praticata, secondo le proprie forze, da tutti gli Stati europei, nessuno escluso. Lo Stato sovrano è un anacronismo? Pare di sì: la sinistra globalista lo minimizza, quella moltitudinaria lo deride (i risultati si vedono). Forse invece potrebbe essere una leva, o meglio un punto d’appoggio, transitorio ma obbligato, per rispondere alla sistemica insicurezza alla quale i cittadini sono esposti e sacrificati, e che non tutti trovano eccitante e ricca di opportunità – un dato che chi fa politica dovrebbe conoscere –.
Populismo, poi. È con ogni evidenza il nome che le élites mainstream danno a ciò che dice e fa il popolo quando hanno perso il contatto con esso. È come se dicessero: «se non ci obbedisci, sei plebe; se hai perso la fiducia in noi, ragioni con la pancia». L’opposto positivo è invece la “ragionevolezza”, il dare ragione alle élites, alle loro narrazioni. La verità è che il populismo con le sue semplificazioni è un segnale della crisi politica terminale di un intero ciclo politico-economico, quello democratico-keynesiano, crollato dapprima economicamente sotto i colpi del neoliberismo e, trent’anni dopo, anche culturalmente e ideologicamente. Una crisi di legittimità che si tratterebbe di decifrare nelle sue cause e non di deridere nei suoi effetti. Certo, impostare la politica sull’onestà e sulla lotta ai vitalizi, o sull’ossessione anti-migranti, è riduttivo e fuorviante, ma non perché è una mossa populista, quanto piuttosto perché non è per nulla radicale. Come altrettanto poco radicale è stracciarsi le vesti ad ogni uscita pubblica scorretta di questo o di quel governante, senza mai andare oltre la predica moral-superficiale; senza mai capire a quali problemi quel governante sta comunque rispondendo.
Nazionalismo, inoltre. Ossia il ritorno di culture politiche improntate all’atavismo e all’aggressività xenofoba, viste come un regresso a quelle condizioni che hanno portato l’Europa a suicidarsi con due guerre mondiali. E quindi il nazionalismo è appunto ciò contro cui si è costituita l’Europa del dopoguerra. È il nemico. Il suo opposto positivo è invece l’apertura reciproca delle culture e delle istituzioni, l’interculturalità, il federalismo o addirittura la sovranità degli Stati Uniti d’Europa, che solo una inspiegabile e irragionevole resistenza nazionalistica non lascerebbe realizzare. La verità è che tutti in Europa perseguono interessi statal-nazionali, e che tuttavia di nazionalismo e di nazione (differenti e opposti, come da tempo sappiamo) oggi in Italia e altrove c’è poca o nessuna traccia (piaccia o dispiaccia; ovvero, che ciò sia detto in negativo o in positivo). Non c’è alcuna visibile richiesta, da parte della società, di identità, di comunità di destino, di tradizione, e neppure la cultura va in questa direzione: con una certa pigrizia intellettuale si scambia per nazionalismo (cioè le si dà un nome vecchio) la richiesta sociale di una protezione che si manifesti efficacemente dentro il livello storico e istituzionale esistente, cioè dentro il perimetro degli Stati nazionali. Certo, questi nacquero anche attraverso il mito della nazione, allora progressivo. Ma di questo mito identitario oggi non c’è neppure la caricatura, se non ai campionati di calcio: da tempo l’individualismo e il familismo hanno colpito a fondo, e modelli culturali internazionali si sono affermati irresistibilmente ormai da decenni. L’esigenza di condurre una vita in dimensione storica, sottratta all’eterno presente dell’universale raccolta di merci neoliberista, non sembra essersi ancora radicata nelle masse.
Razzismo, infine, è il nome dato all’insicurezza ostile dei poveri e degli incolti. Che si sentono minacciati non da un generico “diverso” ma da un concreto ingresso, al tempo stesso pubblico e clandestino, di persone fin troppo simili a loro. E i penultimi si specchiano negli ultimi, li temono e li esorcizzano, perché vi vedono certo persone bisognose di aiuto ma capiscono anche che non possono essere aiutati a spese loro, delle fasce più fragili, che dai migranti si sentono minacciati anche dal punto di vista economico. Né a spese esclusive di quel fragile vaso di coccio che è l’Italia nel consesso europeo, inchiodata da patti leonini, sottoscritti dalla destra e rinnovati dai governi seguenti, che hanno cercato di fare del nostro Paese il campo profughi del continente in cambio di altri benefici macroeconomici. Tanto più che gli altri Paesi d’Europa non smaniano certo per ricevere migranti, per sostituirsi all’Italia. Come che sia, l’opposto positivo è in questo caso il cosmopolitismo contrapposto alla chiusura egoistica, la pietà contrapposta alla spietatezza, oppure, da un punto di vista moral-politico, l’appello alla fraternità, il terzo trascurato della triade rivoluzionaria; ma si avanzano anche esortazioni ad apprezzare l’utile economico che dai migranti deriverebbe in termini di Pil e di pagamento delle pensioni agli italiani, come se i migranti trovassero facilmente, in Italia, lavoro stabile, legale e non servile, e come se in futuro le loro pensioni non dovessero essere pagate. La verità è che l’insofferenza, in sé deplorevole, verso i migranti nasce dalla sofferenza e dalla insicurezza reali dei cittadini, che nessuna promessa europea, sempre disattesa, o nessun sermone o catechismo riuscirà, da solo, a esorcizzare. Solo la politica ci riuscirà, se sarà una politica efficace e concreta.
4. Politica e parole
La guerra delle parole è al tempo stesso un’arma, un diversivo, e un andar fuori bersaglio. Se la sinistra moderata europeista e quella radicale globalista e moltitudinaria non capiscono ciò, non hanno speranza. Vanno lasciate alle loro battaglie minoritarie, poiché hanno evidentemente rinunciato all’analisi politica realistica.
Certo, le parole e la propaganda sono anch’esse parte della politica. Ma le parole fanno politica quando indicano a questa una direzione, un obiettivo: non quando sono il punzecchiamento più o meno sdegnato, sempre e solo “reattivo”, rispetto alle parole e alla politica altrui. Se è così, il far guerra con le parole significa ripiegare, non saper fare nulla di politico, essere subalterni alle politiche e alla propaganda altrui.
Chi vuole cambiare qualcosa, posto che sia possibile, non deve schierarsi dalla parte di una propaganda o di un’altra. Al primo posto non viene la parola della propaganda, ma la parola dell’analisi e della critica: a questa può seguire l’azione, accompagnata, a questo punto, dalla parola di una propaganda non parassitaria ma autonoma ed egemonica. L’opposizione, se vorrà esistere, dovrà analizzare, criticare e parlare in proprio. Anziché forgiare una lingua di guerra all’interno della guerra delle lingue, deve costruirsi una lingua di verità, di realismo, di radicalismo non parolaio, di radicamento sociale, che spiazzi e trascenda il discorso politico corrente.
«Politica» implica insomma che con le parole si afferrino le cose, le strutture, i processi, i soggetti. La politica è l’attività di chi non si limita a opporre propaganda a propaganda ma di chi si chiede come si possa «mettere la mani negli ingranaggi della storia», col pensiero e con l’azione, senza limitarsi ad aspettare gli errori altrui – del resto, se il quadro politico-economico si sfascia, chi ne trarrà vantaggio difficilmente saranno i vinti di oggi –.
Per chiudere, un esempio. Si sta diffondendo l’idea che nel discorso pubblico di “sinistra” si debbano recuperare la nazione, e lo Stato nazionale, perché è su questi concetti, o temi, che si è stati sconfitti il 4 marzo (come ho detto, credo che ciò sia non esatto, e che la sconfitta si sia consumata sulla protezione e non sulla tradizione, sulla sicurezza e non sulla patria). Ecco allora le proposte di “nazionalglobalismo”, di “patriottismo europeo”, di “federazione sovrana di Stati sovrani”.
L’obiettivo è di non lasciare la nazione ai nazionalisti, lo Stato agli statalisti, la sovranità ai sovranisti, l’Europa agli europeisti. E fin qui va bene: si tratta di smarcarsi dalla polemica quotidiana, di guardare oltre, di tentare di imporre un altro terreno di gioco. Ma pur dovendosi apprezzare la direzione nuova che si cerca di intraprendere, resta da sottolineare che in alcuni casi si tratta di concetti di cui la storia (ad esempio, la guerra civile statunitense) ha dimostrato la non praticabilità, o in altri casi di provocazioni intellettuali che in quanto tali non sanno indicare alcuna tappa intermedia tra il presente e il futuro, tra il problema e la soluzione. Che vogliono costruire miti più che discorsi razionali.
Ma in politica anche la parola mitica per essere capace di mobilitare deve avanzare un progetto realistico e condivisibile, un obiettivo difficile ma raggiungibile attraverso una via che va indicata nella sua concreta materialità. E a maggior ragione questo è l’obiettivo della parola razionale.
Questi nuovi miti dovranno quindi essere preceduti da analisi critiche, e dovranno essere riformulati dopo che il pensiero critico si sarà misurato con la questione del rapporto fra sovranità nazionale e sovranità europea, nonché del rapporto fra politica ed economia. E ciò non per pedanteria accademica, ma per realismo, per efficacia tanto critica quanto propagandistica. In caso contrario si resterà ancora una volta in superficie. Detto altrimenti, questi nuovi “miti” non avranno la forza di smuovere alcunché, e meno che mai i popoli, fintanto che attraverso di essi non verrà veicolata un’idea credibile di sicurezza sociale e di reale integrità della persona, finalmente sottratta al suo presente destino di essere in balia di potenze economiche incontrollate, di processi che li trascendono. Fintanto che del mito politico non farà parte anche la consapevolezza che «finanza è una parola da schiavi».
SEGNALAZIONE
Migranti: opposti estremismi?
(Da “Conversazione con Adriano Sofri” https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10155421229126879&id=86556801878&__xts__%5B0%5D=68.ARAwNIC1mromHPEQNnl8TcdOpjVhAb284yWFDL7xOdTmGIQzCeRa3c3dBzMWgiDdpkBNbRFhKqpgx3Zi7hKviroY0oTfj7-U7NorN4wgjQz9Vhr_N16tffeVruWrRdvgFY3ezQQ&__tn__=-R
Stralcio:
Ma che cosa voleva dire “Accogliamoli tutti”? Che “i buoni” immaginino o addirittura auspichino un travaso totale dell’Africa e degli altri continenti a San Gimignano? Prendiamo davvero sul serio una cosa simile? Gli slogan sono slogan. Nella realtà concreta c’è un altro significato col quale si deve consentire o dissentire: “Soccorriamoli tutti”. E’ al tempo stesso un precetto morale (religioso, per chi è religioso) e una norma legale; non solo quando si tratti del mare e del suo codice, perché l’omissione di soccorso vale anche sulla terra. Qualcuno ha preteso e a volte realizzato di violare quel significato. Qualcuno ha operato, attivamente o per omissione, cinicamente o ipocritamente, così da far affogare esseri umani. Lo fa ancora, non l’ha mai fatto tanto. La differenza è la più netta: l’accoglienza salve le sue deroghe, o il ripudio salva qualche (retorica) deroga. Non c’è, temo, una terza via.
Proclami a parte, i governi di destra hanno “regolarizzato” più degli altri, e firmato trattati-capestro più degli altri. Gli altri hanno beccheggiato malamente fra dedizione e vanto del soccorso e strette brusche, tese a tagliare l’erba sotto i piedi dei rivali, di fatto regalando loro una prateria. La situazione era in bilico fino a quando la gente nova a 5 stelle non ebbe deciso definitivamente per i subiti guadagni, e anzi era stata o aveva simulato di essere più per la società aperta e l’accoglienza che per la caccia allo straniero; dunque fino all’aprile del 2017, alla precipitazione della convergenza fra il razzismo ancora caricaturale di Salvini, la vanità incresciosa di un alto magistrato di Catania e il pronunciamento di Grillo – “gli oscuri interessi delle Ong” – e di Di Maio – “i taxi del mare”. Si disegnò allora l’alleanza che, formalizzata per fare di Salvini il capo del governo e di Di Maio il cameriere, ha fatto tanto stupire cronisti e commentatori. Era già successo. Si è solo compiuta un’altra tappa, grossa. Una ancora più grossa si prepara, ufficialmente datata alle elezioni europee. Tutto grazie ai migranti.
I buoni dicono, io con loro per quanto posso, che non chiuderebbero mai la porta in faccia a chi bussi e abbia bisogno e sia inseguito. Hanno però eluso la consapevolezza che il mondo non è buono, e nemmeno i buoni: i cattivi sentimenti e le ragionevoli paure stanno anche dentro la loro anima, e finché è possibile si misurano con altri pensieri e sentimenti invece di correre impudicamente in piazza. I buoni non si sono misurati con la guerra poco meno che mondiale del vicinissimo oriente, con i sette anni e mezzo milione di ammazzati della Siria. Non hanno creduto abbastanza nello sforzo di ottenere dalle autorità nazionali ed europee un impegno diverso nell’affrontare il destino dei migranti all’indomani del loro sbarco. Hanno fatto e fanno cose meravigliose per supplire, non abbastanza per evitare l’avvento di qualcosa che non è certo il fascismo, ma è piuttosto come se lo fosse.