Materiali (4) per una storia sociale e politica di Cologno Monzese
MICROSTORIA DELLA SCUOLA MATERNA DEL QUARTIERE STELLA (1969-‘72)
Tra i partecipanti a questa microstoria c’era anche Samizdat. Un suo taccuino è stato trovato tra riviste e volantini in una soffitta. Leggiamo cosa scriveva. Anche se ad un certo punto questa specie di diario s’interrompe e non sappiamo perché. [E. A.]
1. [A] conferma i miei sospetti. I bambini vengono castigati spesso. E qualche volta picchiati. Potrei anche non credere completamente alle sue parole. Ma due donne come fanno a curare da sole più di sessanta bambini? E per un’intera giornata? E in un ambiente ben poco attrezzato per svolgere un’azione educativa?
2. Confido le mie preoccupazioni a [B], che da poco collabora col Gruppo Operai-Studenti di Cologno. Parlando, ci viene l’idea di rivolgerci d alcune studentesse che stanno partecipando al movimento studentesco di Milano. Sono sue amiche e abitano all’Edilnord di Brugherio. Forse accetteranno di fare gratis dei turni ad ore nella Sala Custodia. Gliene parlerà. Verrebbe alleggerito il lavoro delle due donne.
3. [B] mi telefona. Quattro studentesse hanno accettato. Al pomeriggio, quando vado a ritirare i miei due bambini, chiedo alla signora sarda un colloquio in disparte. Le dico le mie preoccupazioni. Le dico pure delle studentesse volontarie che io e [B] abbiamo trovato. S’irrigidisce. Tiene a farmi sapere che lei non ha figli e che ha aperto la Sala soltanto per aiutare le famiglie di immigrati. Delle studentesse non vuol saperne. Non vuole gente estranea nella sua Sala.
4. Informo del problema alcuni genitori. Portano anch’essi i loro bambini nella Sala. Sono operai e operaie. Ci conosciamo poco, ma anch’essi si lamentano e vorrebbero che i loro figli fossero curati di più. Di quel che ho saputo sulla Sala Custodia parlo anche in una riunione del Gruppo Operai-studenti. Sono d’accordo a sostenermi, a fare qualcosa. Decidiamo di scrivere un volantino di denuncia. Lo distribuiamo ai genitori, agli abitanti del Quartiere Stella e, in centro città, alla gente che passa per strada. Scoppia il bubbone. È un casino. Al mattino dopo troviamo la porta della Sala Custodia chiusa. Pensiamo ad un ritardo, ad un malore. Si forma una piccola folla di genitori e bambini sconcertati. Qualcuno va ad informarsi a casa della signora sarda. Ritorna con la notizia che lei, dopo quel volantino, terrà la Sala chiusa per sempre. La signora sarda fin quando non ha uno sfratto, può tener chiusa la Sala. Così ci dice un impiegato dell’Immobiliare del Quartiere Stella. Non possiamo farci nulla. Sbandamento, polemiche. Chiamiamo rinforzi. Prendiamo in consegna anche i bambini dei genitori che non hanno la possibilità di chiedere permessi o arrivare in ritardo al lavoro. Poi si va a trattare con le suore della Scuola Materna di Corso Roma. Accettano di ospitare provvisoriamente i bambini.
5. Alla gente che protesta si è unito anche [C]. Da diversi giorni ci dà una mano. Partecipa ai volantinaggi. E’ diventato uno dei nostri. Non so se lo fa con secondi fini, ma finora nessuno ha avuto a ridire sul suo comportamento. Ci ha detto lui stesso che è stato in carcere a San Vittore e ha partecipato alla rivolta dell’aprile scorso. Ha conosciuto dei compagni. Si è interessato di più alla politica. E ora cerca lavoro. Gli dico che assumono operai in un colorificio al Bettolino. Ma mi confessa che lui non riesce a stare chiuso in una fabbrica. Parlando con lui che di scassi se ne intende, prepariamo un piano. Di notte, passando per l’esterno del quartiere, dalla parte che dà sullo stradone, dove non c’è anima viva, romperemo un vetro ed entreremo nella Sala. [C] forzerà la serratura della porta d’ingresso della Sala. E al mattino la troveranno miracolosamente aperta. Così i genitori potranno portarci i bambini e le studentesse organizzare delle attività con loro.
6. Ci diamo appuntamento verso le due di notte. Alcune mamme, che stanno dalla nostra parte, passeggiano nel cortile interno del quartiere. Nel caso ci fossero movimenti sospetti ci avviseranno. In quattro andiamo a rompere il vetro. Penetriamo nel salone buio della Sala. [C] tenta varie volte di aprire la serratura. Che però non cede. Bisognerebbe sferrare dei colpi più forti. Si farebbe però molto rumore. Ci consultiamo. Proprio sopra abita un anziano e irascibile inquilino. Già una volta si è scagliato contro noi del Gruppo Operai-Studenti e ci ha scaricato addosso un secchio d’acqua sporca. Potrebbe svegliarsi e dare l’allarme. Desistiamo.
7. Fallito questo piano, ci rassegniamo al “pellegrinaggio istituzionale”. Dobbiamo pur uscire da questo pantano. Incontriamo la dottoressa [D]. È un’opaca e grassa funzionaria dell’ONMI [1]. Ascolta con indifferenza la nostra piccola odissea. Alla fine quasi irridente ci liquida: – Ma avevamo detto da tempo che l’ONMI era disponibile a impiantare un vero asilo nido nel quartiere. Bastava che il Comune procurasse i locali.
8. In senso inverso al nostro “pellegrinaggio”, dopo la denuncia dello scandalo su «Il Giorno», al Quartiere Stella viene a fare un sopralluogo anche una certa [E]. Mi dicono che è una dirigente provinciale della DC. È accompagnata da Giallombardo e da un funzionario (della prefettura?). Quelli del PCI pensano male di quello che stiamo facendo noi del Gruppo Operai-Studenti. Fingono d’ignorarci. Semmai parlano con alcuni dei genitori che sono tra i loro iscritti o elettori.
9. Continuiamo le riunioni del Gruppo Operai-Studenti nel sottoscala del bar di via Kennedy. Da Milano vengono Vinci e Cerasoli, dirigenti della nascente Avanguardia Operaia, a cui ho aderito. Assieme ad alcuni operai della Bravetti e della Panigalli abbiamo preparato un volantino sulle condizioni nocive di certi reparti delle due fabbriche e chiarito quali sono le norme contrattuali non rispettate. Poi abbiamo organizzato uno sciopero con picchettaggio. Al picchetto c’erano vari altri dirigenti di Avanguardia Operaia e anche studenti di Milano. Conclusa la lotta con un accordo sindacale, ora Vinci e Cerasoli ci tengono delle lezioni sul “Manifesto” di Marx. Serviranno per formare dei “quadri” e intervenire meglio nella realtà di Cologno? Cerco di convincermene. L’attenzione dei compagni milanesi è però tutta rivolta alla fabbrica. Soprattutto alle grandi fabbriche. Si stanno formando “cellule” alla Pirelli e alla Borletti, dove avvengono mobilitazioni di operai straordinarie ed entusiasmanti. Qui, invece, nelle piccole fabbriche la situazione è pesante. Gli operai sono quasi tutti immigrati e neppure sindacalizzati. Quei pochi che si sono avvicinati a noi vincendo le diffidenze verso gli studenti “borghesi” faticano a seguire certi discorsi su Marx, il marxismo o la storia del movimento operaio. Io, che faccio lo studente-lavoratore, mi sono ritrovato di botto e senza saper nulla di cose sindacali o politiche, a rispondere alla richiesta di alcuni operai a fare qualcosa anche qui a Cologno. E però, siccome in questa città dormitorio ci vivo, sono anche stato più pronto di altri a darmi da fare anche sul problema della Sala Custodia del Quartiere Stella. Anche perché c’erano dentro i miei due bambini. Loro – i “milanesi” – no. Sono scettici o addirittura ostili a quello che stiamo facendo al Quartiere Stella. Sarebbe «lavoro di quartiere», come lo si comincia a chiamare adesso. Lo considerano roba da cattolici. O da “spontaneisti” di Lotta Continua. Cose che distrarrebbero dal vero lavoro politico: quello rivolto agli operai di fabbrica. Mi sento combattuto e a disagio.
10. Diversi genitori si lamentano. Hanno perso la Sala Custodia e non c’è niente con cui sostituirla. La Scuola materna vera, di cui abbiamo parlato nelle assemblee, chissà quando nascerà. Alcuni di loro poi – proprio quelli che avevano fatto la voce grossa contro la signora sarda e avevano difeso il volantino e il Gruppo Operai-Studenti – mi fanno una proposta che mi lascia di stucco. La fanno a me e a [F] in segreto. Durante una visita sollecitata da uno di loro. Ci dovremmo accordare, quattro o cinque di noi genitori, per trasformare il Comitato genitori, che abbiamo appena formato, in una “società privata”. Questa dovrebbe accumulare un piccolo capitale con le quote pagate dagli altri genitori per la frequenza dei bambini, da investirle successivamente in altre iniziative. Mi cascano le braccia. In pratica dovremmo fare in quattro o cinque quello che faceva da sola la signora sarda. E ovviamente “per il bene degli operai”, anche se gli altri genitori non avranno il tempo per controllare la gestione dei fondi. Altro che l’”autogestione proletaria” che ho in mente! Afferro poi che, dietro alla proposta, ci sono interessi ancora più personali: tenere la moglie a casa, procurarsi un lavoro meno pesante di quello in fabbrica. Gli dico subito che non ci sto. Il mio rifiuto è istintivo. Non posso accettare che di proposito la gente venga tenuta all’oscuro nella gestione di quel potere, fosse pure minimo, che costruiamo lottando insieme. Passerò volentieri per poco furbo o fesso. Sono così deluso che non ho neppure voglia di polemizzare con loro, di fargli cambiare idea. Io e [F] ce ne andiamo rintronati. Ci rifugiamo in un bar per un caffè e commentare l’accaduto. Se questi sono i proletari politicizzati, le “avanguardie delle lotte”, stiamo freschi! Cosa succederà appena dovessimo cedere alla corruzione, come abbiamo saputo che hanno fatto certi sindacalisti conosciuti in questi mesi? Tutto tornerà come prima.
11. Per seguire la faccenda della Sala Custodia non sono partito per le ferie. In pieno agosto, nelle strade semideserte, mi ritrovo da solo a cercare una qualche soluzione. Dobbiamo trovarla per la ripresa agli inizi di settembre. Vado perciò ad elemosinare (questa è la parola giusta). L’abbiamo già fatto con le monache e col prete. Adesso lo devo fare da solo. Giallombardo farà da mediatore con l’immobiliarista che è proprietario di gran parte del Quartiere Stella. Mi aggiro così per la prima volta nella mia vita in certi budelli economico-burocratici. Inimmaginabili per me, che ho avuto una formazione da liceale classico. Attesa nell’anticamera di un lussuoso ufficio a Milano, vicino piazza Missori. Telefonate. Altre attese. Accorgimenti diplomatici. Mi sento umiliato di fronte a questo strapotere economico, a cui sono del tutto estraneo. Appena entro in uno di questi uffici e do uno sguardo agli arredi, ora pretenziosi ora squallidi, in me ogni energia si depotenzia. È come se respirassi con una bombola ad ossigeno ridotto. Non riesco a tenere svegli sensi, cervello e corpo. Mi sento invecchiare velocemente.
12. Inizi di settembre. Il ragioniere [G] non è rientrato ancora dalle vacanze. Inutile anche citofonargli sotto casa. Quindi non posso andare con Giallombardo da questo [H], per farci concedere in affitto, come gli ha promesso, un altro locale. Sempre a pianoterra e sempre nel quartiere. Il locale della Sala Custodia affittato alla signora sarda non è possibile ottenerlo. Non ci spiegano perché. Avverto alcuni compagni e alcuni genitori. Teniamoci pronti per imbiancarlo se ce lo affitteranno. Ci procuriamo subito dei barattoloni di tempera. Al ritorno dei genitori dalle ferie dobbiamo farlo trovare pronto. Saranno più invogliati a portarci i bambini. Chi ci osteggia dovrà azzittirsi. Facciamo riparare anche la saracinesca. A nostre spese: 8000 lire.
13. Ancora critiche dai “milanesi” di Avanguardia Operaia. Qui a Cologno ci saremmo dimenticati di «agganciare il problema a quello complessivo della trasformazione della classe operaia». Ci staremmo comportando da «economicisti». Questo rimprovero me l’ha sibilato [I], venuto da Milano per osservare (ma da lontano) una delle nostre “processioni” che partono dal Quartiere Stella e vanno a protestare in Comune. Altri sussurrano che avremmo agito da «assistenti sociali» e non da gruppo politico. Tutto perché, per qualche giorno, chiusa d’improvviso e per ricatto la Sala, abbiamo spupazzato dalle suore un po’ di bambini?
14. Le critiche mi bruciano a livello personale. La lotta degli operai della Bravetti era ormai conclusa. E’ per questo che ho potuto fare più attenzione ai segnali allarmanti che coglievo ogni volta che entravo nella Sala per consegnare o ritirare i miei figli. E mi sono messo in moto. Avrei dovuto far finta di niente? O tener conto che i “milanesi” hanno le ferie da fare? O giustificare “teoricamente” davanti a loro se intervenire o no? [L] poi mi rimprovera di aver affrontato il problema «in termini moralistici e umanitari». Cazzo, questo mi vede come un filantropo dei quartieri bene di Milano che va in periferia a fare conoscenza dei terroni! Non abitassi qua, non fossi uno studente-lavoratore! E poi che male c’è a spingere dei genitori, in maggioranza operai, a curarsi di più dell’educazione dei loro figli? Non è una parola d’ordine socialista o rivoluzionaria o marxista? Ma dov’è scritto che la classe operaia non dovrebbe essere umanitaria?
15. Vivo in una casa in affitto, ho due figli, una moglie anch’essa immigrata e appena passata da operaia in una fabbrichetta a impiegata in un ufficio. Figurati che carriera! Viviamo col suo stipendio e del mio di operaio notturnista alla SIP. Non ho neppure l’auto e per andare avanti e indietro tra Cologno e Milano ho un motom. In cosa la mia condizione è diversa da quella di questi immigrati – operai, operaie e casalinghe? Per il fatto di avere un lavoro di meno ore, che mi permette di studiare per laurearmi e di spendere quasi tutto il mio tempo libero in attività politica. Sto in mezzo a gente abbrutita dalla fatica. Quando discuto nelle assemblee, devo smazzare le loro paure, i loro pregiudizi, i loro opportunismi. Gli slogan e le indicazioni che gli passano i sindacati e i partiti li mettono contro noi “estremisti”. So bene che si dicono d’accordo con noi perché abbiamo il coraggio di parlare a nome loro, ma ce ne sono di pronti a farsi corrompere di nascosto e a tradirci. Che fatica fargli capire che non era normale che i loro bambini fossero maltrattati o trascurati in quel modo. Alcuni sapevano prima che io sapessi. E tacevano. Per soggezione o complicità con la signora sarda. Eppure siamo riusciti a spezzare per attimi queste abitudini quotidiane. Ce li siamo trascinati. Hanno trovato anche loro il coraggio di protestare nelle assemblee in Comune. Non mi pare poco. E’ già la seconda conferma. La prima l’ho avuta dal lavoro di fabbrica con gli operai della Bravetti e della Panigalli.
16. Dalla Provincia arriverà a giorni il contributo di un milione. Ci darà una boccata d’aria per cinque mesi. Poi, se resisteremo con la Scuola materna autogestita, potrebbe essere rinnovato. Potremo reclutare qualche maestra. Ce ne sono di disoccupate. Accetteranno anche queste condizioni “arrangiate”.
17. Siamo daccapo. Malgrado tutti gli sforzi anche nella nuova «Scuola materna autogestita» si ripete, con qualche difetto organizzativo in meno, il tipo di gestione autoritaria della signora sarda. [M] ha preso in mano le redini del Comitato di gestione della Scuola materna. E non vuole nessun controllo sul suo operato. Né sentire critiche. Si dà da fare con un attivismo nevrotico, rozzo e antipatico. Anche le due maestre d’asilo si sono legate a lui e non vogliono obiezioni sui loro metodi didattici. Oggi pomeriggio, quando sono andato a riprendere i miei bambini, ho dato un’occhiata intorno. C’era un bambino in castigo. Cerco di indagare e parlo con una maestra. Non vogliamo picchiarli – dice – ma ormai li conosciamo uno per uno. Ce ne sono di cattivi. E, per non guastare gli altri, qualcosa dobbiamo fare. Così ricorrono anche loro ai castighi! Tra l’altro temono la direttrice didattica, se ne tengono alla larga e non vogliono i suoi interventi. Capisco ancora una volta. Anche per loro è duro lavorare per tante ore in condizioni appena migliori di quelle della Sala Custodia. Ma ancora una volta non resisto. Suggerisco l’intervento di qualche psicologo. Apriti cielo! Il giorno dopo vengo a sapere che ai genitori del bambino castigato è stato riferito che io avrei giudicato “pazzo” il loro figliolo; e che avrei richiesto l’intervento di uno “psichiatra”…
[ continua]
*La sezione precedente si legge qui: Una microstoria in un quartiere di periferia
bello Ennio, continua…. sembra la storia “vostra” ma in parte è quella di tutti noi.
Non solo l’ottusità al potere, la diffidenza e l’oscurantismo di tanta gente, ma anche i limiti di pensiero umanitario e comprensione dei problemi sociali che ci riguarda in quanto storia di A.O.
Inoltre è utile che tutti, specie i giovani, sappiamo quanto ci sono “costate” le lotte, quanto è duro, difficile, faticoso rompere il muro di inerzia e trovare soluzione ai problemi. Ciao
…il racconto di Ennio Abate è la cronaca dettagliata di quella che B. Brecht chiamerebbe una lotta dal basso, quando ci si batte per bisogni e diritti non riconosciuti, in questo caso quello dei figli ad avere assistenza ed educazione adeguati…L’autore era coinvolto nei fatti, ma il suo racconto evita, pur riconoscendovi nella lettura la tensione ideale, toni epici per narrare le difficoltà, terra terra, incontrate, come le beghe burocratiche, l’ottusità o la pigrizia delle istituzioni e le incomprensioni anche da parte di chi condivideva gli stessi problemi…E’ davvero la storia di molti e, a distanza di tempo, viene fatto di chiedersi: come siamo riusciti ad uscire da certe situazioni?
La domanda da fare a me pare quella opposta: come mai non siamo riusciti ad uscire da certe situazioni?
…o anche: come mai da allora non siamo più riusciti ad uscirne da certe situazioni? Certo uscita parziale, precaria
…penso che, sulla scia del ’68, negli anni successivi, qualche lotta dal basso sia decollata con qualche successo, non solo quelle a cui ha accennato Franco Romanò nella sua testimonianza, lotte che approdarono a diverse conquiste nel sociale e nel mondo del lavoro, ma anche semplici lotte locali per la difesa di alcuni diritti fondamentali, come quello all’educazione, raccontato da Ennio Abate intorno alla Sala Custodia di Cologno Monzese, negli anni ’69-’72…
Ricordo anch’io alcuni fatti risalenti a quell’epoca e vissuti, se vuoi, in ambienti marginali dove tuttavia una buona dose di solidarietà da parte di molti e il coraggio di esporsi non mancarono. Ricordo che, negli anni ’66-’72 a Lodi, nel quartiere Robadello, dove da poco mi ero trasferita con la famiglia, diverse ‘categorie’ di lavoratori, studenti e studenti-lavoratori ( a cui anch’io appartenevo) per arrivare alla stazione ferroviaria e prendere “il fogna”, un treno locale stipato all’inverosimile di passeggeri e lentissimo, per recarsi a Milano, dovevano affrontare una fatica aggiuntiva considerevole. Infatti i viaggiatori-pendolari, Lodi era una città-dormitorio, erano costretti a fare un lungo percorso nelle albe nebbiose della bassa padana, a piedi o in bicicletta, sulle strade addormentate per poi affrontare “la transiberiana” come alcuni chiamavano negli inverni gelidi, il raccapricciante treno. Si era costretti a stare tutto il tempo in piedi -il treno arrivava già pieno, partendo da Piacenza- tra spintoni e gomitate, ogni volta che qualcuno saliva o scendeva in qualche stazioncina del percorso. A Milano poi, dove ancora non c’era la metropolitana, bisognava affrontare altri affannosi trasbordi cittadini. E la giornata lavorativa e di studio non era ancora incominciata! Tra le persone che conoscevo, c’era gente così stanca da confessare di non avere neanche l’energia per lavarsi alla sera. I treni di ritorno a Lodi, a fine giornata, erano più frequenti e si poteva trovare posto a sedere, così alcune amiche-i si si proponevano di sfruttare il tempo del viaggio per leggere o studiare, ma poi invece i vagoni, dopo qualche stanca chiacchiera, si trasformavano in dormitori. I primi tempi furono durissimi anche per me, ma tralascio i particolari. Per fortuna in breve tempo almeno un problema venne risolto: un gruppo di amici, per la più di Democrazia Proletaria, promosse un’azione presso il Comune affinchè si aprisse, con dei semplici lavori edilizi, un passaggio pedonale che permettesse alla popolazione di Robadello di accedere velocemente alla stazione, aggirando interi isolati. …Raccolta di firme, sottoscrizioni, una manifestazione a cui molti parteciparono e l’obiettivo fu raggiunto, migliorando così la qualità di vita di tutti.
Un altro ricordo è più personale e legato al diritto alla casa, che anche allora non era scontato. Siamo negli anni ’73-’74. aspettavo un figlio, anzi ero vicinissima all’evento, e piuttosto freneticamente cercavo con mia sorella un alloggio a Milano, entrambe desiderose di allontanarsi dalla nostra cittadina di provincia. Era difficilissimo trovare qualcuno che affittasse a due sole donne, sebbene io avessi tenuto al riparo dagli sguardi la mia maternità sotto un grande mantello, dato che per fortuna era inverno, ma comunque ricevevamo solo rifiuti. All’ultimo momento, ero già in Mangiagalli con le doglie, una signora, a cui avevamo lasciato il nostro recapito telefonico di Lodi, convocò mia sorella e le chiese se accettasse di firmare un contratto per l’affitto di un bilocale in zona Corvetto, periferia sud Milano, “ad uso ufficio”, sfuggendo così ai vincoli del canone abitativo. ..Mia sorella firmò, non aveva alternative. e, quando uscii dalla Maternità, con la mia neonata mi recai direttamente nel nuovo appartamento, arredato meno di un convento e neanche imbiancato. Non avremmo potuto sostenere a lungo il costo dell’affitto, se non che un nostro vicino di casa, tramite il SUNIA, prese le nostre difese e provvide alla ritrascrizione del contratto “ad uso abitativo”, che era la verità, secondo l'”Equo Canone”. Lei, la proprietaria, e lo era dell’intero stabile, non me la perdonò e una volta, incontrandomi in cortile dove portavo la mia bambina a muovere i primi passi, mi insultò davanti a molte persone. Sarei stata io in torto, non lei, la speculatrice! So che una mia amica sola con la sua bambina piccola, in quegli stessi anni, dopo aver bussato invano a tante porte per chiedere un alloggio, fu costretta a sfondare una porta per occupare una casa popolare. Diversamente non ce l’avrebbe mai fatta. Eppure allora per le vie di Milano cartelli con la scritta “AFFITTASI” erano numerosi, ma per noi, “diverse”!, la risposta implicita o esplicita era sempre: “no, mi spiace, qui sono tutte coppie normali”, testuali parole. Che dire? C’erano tante discriminazioni anche allora, le donne si dovettero attivare per vedersi riconosciuti i diritti paritari, generando un movimento in qualche modo “rivoluzionario”, anche se non tutte lo accolsero, in quanto l’egoismo non fa distinzione di genere, vedi il mio caso…
Oggi sono soprattutto i migranti ad essere discriminati, i “diversi”, che si trovano ad affrontare i problemi di sempre: casa, figli, lavoro…