a cura di Ennio Abate
Riprendo la rubrica Scrap-book dove seleziono stralci significativi di articoli significativi. [E. A.]
1.
I poeti e la pubblicità
Note su Fortini copywriter per la Olivetti
DI SERGIO BOLOGNA
Franco Fortini e Giovanni Giudici invece dovevano inventare i testi da collocare esattamente nello spazio che il formato scelto dal grafico ti lasciava, dovevano trovare il nome alle macchine da scrivere e alle macchine da calcolo, dovevano trovare le parole con cui dare un senso ad uno stand fieristico, dovevano creare un linguaggio che fosse espressione e crittogramma. I poeti abituati ai vincoli della metrica, i poeti epigrammatici, si muovono a loro agio nel mondo della pubblicità. Franco, che dell’epigramma era un maestro, doveva eccellere in quel mestiere ma, ripeto, s’era dovuto creare quel background di conoscenza dell’ambiente sociotecnico di fabbrica che la frequentazione dei «Quaderni Rossi», negli anni dopo la morte di Adriano, gli consentirà di leggere con occhio marxiano, con uno sguardo rovesciato. Si è parlato molto del rapporto tra Olivetti e gli intellettuali, io penso che l’esperienza all’interno dell’organizzazione di una grande industria abbia avuto un’importanza decisiva nella sprovincializzazione di una parte della cultura italiana. Se non come poeta, l’esperienza all’Olivetti, proprio per queste sue caratteristiche, a mio avviso per Fortini ha avuto un grande peso nel suo modo di essere un intellettuale, deve avergli dato una carica di modernità che faceva la differenza rispetto a tanti suoi colleghi, Pasolini compreso, rimasto ancora legato all’immagine di un’Italia rurale che s’inurba ma rimane lontana dall’industria.
Nella Germania di Weimar più di uno scrittore si mise al servizio della pubblicità, Frank Wedekind per i dadi e le minestrine Maggi, Bertold Brecht per la fabbrica di automobili Steyr, Erich Kästner per il suo giornale. E tuttavia sin dall’inizio di questo rapporto tra talento letterario e pubblicità ci fu chi lo giudicò un “tradimento”. Un’accusa toccata solo ai copywriter, a nessuno è venuto in mente di rimproverare i grafici. Non so come Fortini giudicasse la sua collaborazione con l’Olivetti, se ne parla così poco vuol dire forse che non ne era tanto orgoglioso? Non saprei rispondere, ricordo solo di essermene andato di mia iniziativa, per non essere al servizio del capitale. Uno stupidotto? Probabile, ma se non lo avessi fatto mi sarei perso il maggio francese e l’autunno caldo.
2.
«La situazione è eccellente». Verifica dei poteri e noi
Una prefazione inedita di Fortini
DI SABATINO PELUSO
Stralci:
1.
Quello che segue – come si leggerà nella Nota introduttiva scritta per l’occasione – è la versione che Fortini pubblica sulla rivista «Azimut» nel 1983 col titolo complessivo Memoria e futuro.3 Riportato alla luce a quindici anni di distanza dalla sua stesura, Fortini lo accompagna inoltre con una breve nota del 1975 ritrovata in un quaderno di appunti e giustificata nella prima parte dello scritto. Posta a chiusura del testo, la nota finale si carica adesso di un senso che va ben oltre il contesto nazionale a cui si riferisce, offrendo una sintesi fulminea che comprende e anticipa ciò che è alle spalle e nell’avvenire del mutamento che si va compiendo nel giro di quegli anni. E infatti, è proprio qui che, a lettura compiuta, si espliciterà quell’«identità di problemi» e quelle somiglianze di cui Fortini parla già nella sua lettera e attorno alle quali ragiona la prefazione e oggi si confermano, tanto nitide quanto decisive. Lo stato di degradazione che la nota coglie, insieme al crescente odio che germina nel sottosuolo della falsa democratizzazione della vita di tutti è, all’altezza del ‘75, ciò che porta Fortini a una lucida presa di coscienza, di fronte alla quale però non smetterà di riproporre il tentativo di una lotta intellettuale finalizzata al combattimento contro lo stato di annichilimento che proprio in quegli anni va realizzandosi.
2.
Questo scritto, un vero e proprio inedito riemerso dal gran giacimento di materiali dell’Archivio Franco Fortini di Siena, può quindi a pieno diritto essere considerato come l’ultimo ritorno di Fortini sulle pagine di Verifica dei poteri: ultima “autocritica” e, al tempo stesso, saggio che sintetizza una riflessione sul destino dell’intellettuale nata nel centro degli anni in cui si palesa la sconfitta di ogni ipotesi rivoluzionaria e l’oblio indotto della storia. Quella mutazione con cui, oggi. ancora facciamo i conti, e che perciò è nostro compito documentare e interpretare.
Sono almeno due i punti su cui insistere per abbozzare una riflessione sul senso che queste pagine possono avere per noi oggi. E il primo di essi è quello del destino della forma saggistica, su cui Fortini torna a ragionare in queste pagine.
Inattuale e senza legittimazioni (così Fortini lo percepisce già nel 1968), il saggismo è attività e forma indissolubilmente legate a una figura che, col chiudersi dell’arco temporale che delimita questo scritto, si rivela estinta o degradata: l’intellettuale- massa. Se nel licenziare le pagine di Verifica tale situazione è in un certo senso aurorale o non pienamente manifesta, gli anni successivi non faranno altro che concretizzare ed estendere quel mutamento, proprio nel campo della cultura, mediante il dominio della specializzazione dei ruoli in tutti i campi del sapere. Ma sarà soltanto grazie a uno scatto decisivo, cioè quello che consolida l’egemonia culturale della tradizione del pensiero “debole” e vitalistico-esistenziale («dove turbinano Nietzsche, Freud e Heidegger»), che verrà finalmente liquidata e messa al bando ogni antitesi dialettica e storica capace di resistere al pensiero dominante. Lukács e Adorno, su tutti, i primi a farne le spese. Ma non è privo di significato sottolineare quanto questa operazione mirasse ad una rimozione ancor più decisiva, quella che ha il nome di Marx. A ben vedere, sono proprio questi gli anni in cui Fortini si dedica con sempre maggiore insistenza alla critica delle posizioni dello specialismo e della egemonia neo-nietzschiana5 che, saldandosi all’inconscio economico neocapitalistico, arriva ormai a investire i centri del sapere e della produzione di cultura, riuscendo a fissare capillarmente fondo irrazionalistico e visione postmoderna della società. Ed è soltanto oggi, forse, che ci è dato verificare con più chiarezza la necessità di un recupero – nel senso suggerito da Fortini – di quella tensione dialettica «che ha reso e forse tornerà a rendere possibile la saggistica», e dunque cogliere il suo invito a riaprire i libri coperti dalla polvere per riportare quel destino, degli intellettuali e della saggistica, al suo percorso (non ancora alla sua meta).
3.
Nota del 23 gennaio 1975
Quando l’equilibrio si spezzerà, nel nostro paese accadranno cose orrende; molto peggiori di quelle che accaddero trent’anni fa. L’odio che si è venuto accumulando ha una pressione feroce. Quest’odio non ha una direzione politica se non elementarissima e, come tale, votata al peggio. Quel che fa pensare che sia meglio scomparire dalla scena al più presto è l’impossibilità di lottare contro la catastrofe imminente ossia contro una di queste due ipotesi: quella di una indefinita prosecuzione dell’attuale stato di degradazione e quella di un passaggio dalla anarchia indotta del potere alla anarchia violenta della guerra civile.
Non è possibile lottare contro questa condizione catastrofica senza una visione politica complessiva – che è appunto quella che manca. Tutto quel che siamo capaci di fare è vedere bene che la situazione richiederebbe un grado di eroismo anche intellettuale, di cui siamo incapaci.
3.
La critica secondo Fortini
DI ROMANO LUPERINI
Gli anni Ottanta sono invece, come recita il sottotitolo di un libro postumo di Fortini, Disobbedienze, «gli anni della sconfitta». Sta qui la ragione della capitale differenza fra Saggi italiani del 1974 e Nuovi saggi italiani del 1987, militante, polemico, appassionatamente dialogante il primo, più astrattamente teorico e rivolto a un pubblico più specialistico il secondo, in cui le procedure analitiche di tipo tecnico-professionale sono più frequenti (quasi per una sfida agli studi accademici condotta sul loro stesso terreno) e il ricorso alla interruzione, la sprezzatura, le allusioni, le pause e le riprese sembrano altrettante figure della interlocuzione delusa, del vuoto sociale e dell’attesa: che è anche attesa di un destinatario nel frattempo venuto a mancare. «Non avrei mai creduto» – si legge nella Introduzione del 1987 – «che il senso delle pagine di critica e di principi letterari che venivo scrivendo avrebbero dovuto rinunciare a destinatari e consensi prossimi e attenderne di differiti».10 E poiché, come si legge in Due saggisti della inautenticità, il saggista deve presupporre di poter toccare «i gangli morali dei suoi lettori» e «ha bisogno di una società che non si neghi come tale, che non si ritenga fatta di atomi incomunicabili»11 e insomma necessita di un qualche mandato, e tutte queste condizioni sono venute a mancare, Fortini sembra suo malgrado costretto dal cambiamento di orizzonte storico ad abbandonare, per dirlo con le sue categorie, il campo della critica per quello dello “studio della letteratura”. «Oggi» – scrive nella Introduzione del 1987 – «suppongo di essere davvero mutato. Non perché abbia deposte alcune persuasioni, ostinazioni o certezze, ma perché mutato è il sistema entro cui ai giorni nostri qualunque discorso di critica letteraria esplicita il proprio ruolo sociale».12 L’analisi della nuova situazione è al solito lucidissima. Una parte della critica, osserva Fortini, ha virato verso l’intrattenimento giornalistico, «si è espansa e diluita sui media, confondendosi alla pubblicità e alla chiacchiera», mentre un’altra si è chiusa nell’accademia, nello specialismo delle «forme definite universitarie, con le loro terrorizzanti posture da combattimento poco dissimili da quelle delle mantidi», e «questo libro» – conclude l’autore – «non fa eccezione. Partecipa dei mutamenti intervenuti nell’ambito cui si destina»,13 cioè quello delle istituzioni educative. Fa parte di questi cambiamenti anche la trasformazione della letteratura che sembra perdere la propria identità, assumendo il volto, scrive Fortini alla fine della Introduzione citando Saba, della «menzogna inutile, che annoia».14 Alla scomparsa della critica corrisponde quella della letteratura divenuta futile e socialmente inerte.
(http://www.ospiteingrato.unisi.it/la-critica-secondo-fortini/#more-3454)