di Paolo Mazzocchini
La vita di un ragno prigioniero di una soffittatura è tetra. Non offre molti svaghi, egregio Caronte. La gioia più grande, per me, era quando si accendeva la luce, di sotto. Già, la luce, quella filtrava tenue attraverso le stecche della soffittatura. Insieme a lei passavano spesso, attraverso le fessure, i cari insetti che mi davano da vivere: zanzare, moscerini, farfalline notturne. Cibo per il mio stomaco non mancava. Ma era la luce che nutriva la mia anima intristita dal buio, opprimente come quello che domina qui, nel regno dei trapassati. La mattina mi arrivava una luce bianca, come la voce della donna che si aggirava nella stanza. Ma era l’irrompere della luce gialla, di sera, a segnare il momento speciale della mia giornata. Più o meno al secondo scoccare delle dieci, infatti, sentivo ogni volta rumori, uno sbattere di porte, un calpestio di passi e la voce acuta di un bambino che strillava e rideva, e quella di un adulto che discorreva con lui: «Su andiamo a letto, che il papà ti legge la storia di Ulisse!». «Sì, Ulisse e le sirene, papà!».
«No, che prima ti devo finire quella della maga Circe nel palazzo incantato!». E così ascoltavo la voce profonda dell’uomo che narrava di navigatori che arrivavano in un bosco e poi a una radura con un palazzo bellissimo al centro ed ascoltavano la voce della maga che cantando li invitava ad entrare. E quelli entravano ed erano trasformati in maiali… «Dai, leggimi delle sirene, ti dico!». E il padre leggeva modulando la voce, come se cantasse anche lui «Intanto rapidamente giunse la nave ben fatta all’isola delle Sirene…». Il mare, il bosco, la nave, il sole – Caronte mio – io non li avevo mai visti: esistevano per me solo per le parole di quel padre che raccontava al bambino per farlo addormentare. Ma era come se, ascoltandolo, i miei occhi li vedessero proiettati là in alto, sullo sfondo cieco della mia mansarda. Poi, d’improvviso, il padre taceva e si avvertiva solo il respiro leggero del bambino addormentato. La luce si spegneva. E così finiva il mio viaggio fuori di quella tana. Già perché, per quanto fantasticassi ogni sera sulle alate parole di Omero, quel buco nero era il mio vero ed unico mondo, egregio Caronte, non molto diverso da questo dove sono finito adesso. Lì ero nato e di lì non riuscivo a scappare, grosso e peloso com’ero. Ma nemmeno avrei voluto, perché tutto sommato, quanto a mettere insieme il pranzo con la cena, ci campavo benino. Ma un giorno, Caronte mio, accadde il miracolo. E pure la catastrofe. Era mattina. Lo deducevo dalla luce bianca che disegnava le solite strisce sul soffitto. «Ecco la scala. Salite sul tetto e cominciate pure subito il lavoro, ché il caminetto deve essere pronto per l’autunno» disse la solita voce femminile. Tutt’ad un tratto sentii sopra di me dei passi pesanti e suole di scarpe che sfrigolavano sulle tegole e poi un rumore assordante, come se il tetto mi precipitasse addosso. Uno squarcio si aprì, grande, enorme. Calcinacci polverosi mi caddero vicino minacciosi. E poi una cascata di luce abbagliante, candida, allagò la mansarda. Non vidi per un po’ più nulla, accecato da quel mare di luce. Poi risalii piano piano il muro, fino al bordo scheggiato dello squarcio e mi affacciai, tremando di gioia e di paura, a guardare: colli verdi, ondulati, coperti di boschi, punteggiati di case, come nei racconti di Omero! E giù, in fondo, una baia e una striscia di un azzurro intenso, luminoso, tremolante di sole: il mare di Ulisse, il mare! Ero come ubriaco. Mi gettai a correre giù a precipizio per le tegole, perché volevo arrivare al mare. Era lì, mi pareva di toccarlo… «Ragnaccio schifoso, dagli, pestalo che è di quelli grossi e pure velenosi!» urlò qualcuno sopra di me. Poi l’ombra minacciosa di una suola gigantesca. Poi più nulla, il buio, nuovamente il buio. Il buio senza ritorno dello Stige. Caronte mio, non ho il becco di un obolo da darti. Ma se la mia storia ti ha commosso, traghettami lo stesso, te ne prego. L’anima di un ragno è leggera come il suo corpo. Non sarà di peso alla tua barca.
(da Paolo Mazzocchini, Nota di addebito, Edizioni Ensemble, Roma 2018)
Un ragno che narra la sua vita ( che scorre lenta e monotona nella soffittatura di una casa) e soprattutto la sua morte improvvisa mentre cerca di correre al mare ( che gli si rivela -come pure tutto il mondo esterno- improvviso e folgorante) è certamente argomento poco ricorrente nel pur variegato universo narrativo. Sicuramente inedito è il fatto che la narri -questa sua vita- a Caronte, nocchiero infernale; non comuni anche i riferimenti e le allusioni al mondo omerico (Circe, le Sirene, Ulisse, ecc.). Gli spazi narrativi sono occupati con misura e giustezza, i tempi ben coperti e distribuiti. Un miniracconto scritto con proprietà e sicurezza di linguaggio; e con un senso della misura che arriva da lontano, precisamente dal mondo classico.
Proprio un bel racconto che, per chi voglia, può caricarsi di sensi metaforici, neppure tanto velati.
E’ bene ricordare che Paolo Mazzocchini è già stato ospite di Poliscritture con sue poesie:https://www.poliscritture.it/2016/04/28/inediti/
…raccoglie tutta la mia simpatia questo ragno raccontato da Paolo Mazzocchini. Molto umano. Dall’ombra del rifugio di una ragnatela posta nella soffittatura di una casa, compie un viaggio di ascesa verso la luce, penso della conoscenza, come Dante, di cielo in cielo, in Paradiso. Ma, all’apice della sua visione, discende i regni e chiede al traghettatore, Caronte, come grande favore, di condurlo all’Inferno, tra i peccatori e i miseri, che tutti siamo e affrontare la vera conoscenza…Una lettura, soltanto