Nel 1999 come “Associazione culturale IPSILON” organizzammo a Cologno Monzese un incontro-dibattito con lo storico Pier Paolo Poggio, autore di “Nazismo e revisionismo storico”(Manifestolibri 1997). Ne ricavai quello che doveva essere il n. 1 de “I quaderni di Ipsilon”, rimasto poi impubblicato per il venir meno dell’Associazione proprio quando si stava per festeggiare i suoi dieci anni di attività. A vent’anni da allora, in coincidenza con la “Giornata della memoria”, che l’Amministrazione Comunale leghista ha creduto di dover controbilanciare aggiungendovi un “Giorno del ricordo 2019” (qui) con tanto di proiezione del film sulle foibe “Rosso Istria”(giustamente criticato: qui) e testimonianza di un “esule e figlio di infoibati”, mi sembra quasi doveroso contrapporre il contenuto di quel “quaderno-fantasma”. Di fronte agli sproloqui propagandistici e presuntuosamente disinformati che s’incontrano sui social quando si parla di Shoah, fascismo, nazismo, gulag e lager, testimoniare la qualità di una riflessione storica e culturale andata del tutto persa mi pare questione elementare di igiene mentale. Bisogna pur tentare di uscire da questo oggi informe, in cui come diceva Fortini nell’intervento in Appendice «mentre continuiamo a scoprire inimmaginabili fosse comuni, accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cattivi là, tutto chiaro.» [E. A.]
Note i numeri fra parentesi rimandano alle pagine del libro di Poggio. Le sottolineature sono del curatore di questa sintesi. |
NELLA ZONA GRIGIA DELLA STORIOGRAFIA DEL ‘900
PREMESSA
Comincio col sottolineare la particolare coincidenza della discussione su questo libro con quanto sta succedendo in Kosovo. Riparliamo di nazismo e sterminio degli ebrei nel momento in cui la guerra – come è stato detto da più parti – non solo è tornata, inquietante e tragica, nel cuore dell’Europa, ma si presenta come “guerra di sinistra”: abbiamo i democratici americani, che la impongono come operazione “umanitaria”, e i governi europei di sinistra che l’accettano e la sostengono.
Di fronte agli eventi in corso lo sguardo al passato, che il libro di Poggio sollecita, non ci rassicura.
Esso conferma con l’autorità dello studioso la consapevolezza di quanto il nazismo abbia rappresentato un salto oscuro e non riassorbito nella storia umana (Ricordate Le uova del serpente, il film di Ingmar Bergman?) e che si può (si sta per?) ripresentare sotto altre divise.
Vorrei evitare le più facili formule, che pur mi si affacciano alla mente: quelle della propaganda corrente (Milosevic=Hitler) o dell’antiamericanismo “viscerale” (Usa= nuovi nazisti con consenso democratico di massa).
Mettiamo pure molti punti interrogativi a queste formule.
Ma la mia opinione è che abbiamo da risvegliarci soprattutto dal troppo prolungato sogno americano, visto che da quello sovietico giocoforza ci si è già risvegliati (chi dal ’68 e chi molto dopo (pare dal 1989).
Questo è per me un libro prezioso: sia per chi crede di potersi ancora muovere in pieno nella polarità Destra/ Sinistra, sia per chi, insoddisfatto o allarmato dalle disillusioni fisse che la Sinistra procura vuole affacciarsi oltre.
E’ un libro utile per non sbandare, perché in entrambi i casi, oggi incappiamo nel terreno paludoso dell’incertezza, della “crisi d’identità”, dell’ambiguità del “né di destra né di sinistra”.
E, quindi, nei fenomeni che Poggio studia (nel suo campo, separato ma prossimo al nostro – di Ipsilon dico – e della sua critica politico-culturale): quelli del revisionismo storico (certo che dobbiamo revisionare e rivedere, ma come?), del negazionismo, della ricerca di un anticapitalismo “vero”.
Cioè su un terreno pieno di insidie ideologiche, dove si ha – nolenti o volenti – un “uso politico della storia” (41); dove i negazionisti sono presentati come “gli unici ad aver compiuto il passo decisivo, ad aver rotto con gli schieramenti del passato, con il fascismo e l’antifascismo, la destra e la sinistra” (97).
Il discorso di Poggio è un riesame complessivo degli studi sul nazismo.
E’ un discorso – come vedremo – sulla storia e sulla storiografia (seriamente e non esageratamente specialistico), attentissimo al pubblico d’oggi (del quale noi pure facciamo parte), colonizzato fin nel suo inconscio politico dai mass media, abituato ad un “giornalismo semplicistico e pasticcione che ha bisogno di definizioni rozze e totalmente prive di sfumature”; un pubblico “che spesso si aspetta che lo storico dica le cose che lui vuole sentirsi dire” e che è composto dai tanti “per i quali qualsiasi messaggio che prometta di mettere una pietra sul passato si rivela estremamente rassicurante”.[1] Un pubblico di sinistra, che oggi – come Poggio scrive – “in quasi tutte le sue varianti, dalle più moderate alle più radicali, sembra aver perso interesse per la storia, se ne vuol liberare in nome di una completa integrazione e normalizzazione”.(41)
Quali sono i temi centrali del libro?
- Il revisionismo storico e la sua appendice (volgare, massmediale, estremistica e impresentabile a livello degli studiosi): il negazionismo;
- Il rapporto capitalismo-nazismo;
- La centralità e l’attualità (per l’oggi, per noi, non solo per i tedeschi o gli ebrei) della Shoà;
4. La figura di Hitler.
Proverò a riassumere questi temi…
IL REVISIONISMO STORICO
Il revisionismo storico sul nazismo non è una novità.
Poggio ricorda che è cominciato fin dal secondo dopoguerra, contrastando l’antifascismo e la sua volgarizzazione, che avevano semplicisticamente il nazismo come “regressione, barbarie, irruzione di pulsioni primordiali, interruzione della civilizzazione”. (15)
Il revisionismo storico, per contrasto, ha teso a leggere il nazismo non più come antimodernità (per la sua esaltazione dei legami di sangue e di terra), ma come un fenomeno di modernizzazione: o involontaria (Dahrendorf[2]), o “spuria”(i francofortesi[3], che parlarono di “catastrofica integrazione fra modernità e sterminio, tecnica e potere”), o “negativa”[4].
Ma perché il revisionismo si è rafforzato così tanto dopo gli anni ‘70?
Poggio lo legge come “un’operazione di restaurazione neonazionalista” a sostegno della Germania riunificata, desiderosa di sciogliersi dall’“ipoteca nazista” (“il passato che non passa”); ma esso ha acquistato slancio “sull’onda del crollo del comunismo sovietico”(41).
Non a caso ha avuto impulso in Germania (e forse diramazioni anche in contemporanea con l’unificazione europea…), perché alla Germania non bastano le risorse economiche: deve riacquistare una forte identità.. che passa attraverso la riappropriazione del passato. (49). E non a caso il suo maggiore rappresentante, il capofila del revisionismo, è il tedesco Nolte.
Nolte
In Europa abbiamo avuto una “guerra civile”. Il nazismo è stata una reazione (un po’ esagerata ma necessaria) alla minaccia bolscevica, cioè una reazione allo sterminio di classe dei bolscevichi. Anche il fascismo non ha fatto che reagire ad una minaccia, quella del marxismo. L’antisemitismo è un semplice surrogato dell’antibolscevismo (perché gli ebrei erano presenti o alla testa dei moti comunisti). Lo sterminio di razza è stato, in fondo, la risposta cruenta dei forti e dei civilizzati alla barbarie (ben più orrenda) della lotta di classe comunista. Hitler non era un fanatico razzista, ma soprattutto un antibolscevico e gli errori che ha commesso sono imputabili all’indebolimento del suo anticomunismo. Del resto Hitler (testamento politico del 29 aprile 1945) non era forse molto favorevole all’idea dell’uccisione con metodi “umanitari” e non pensava che le camere a gas avrebbero consentito appunto “esecuzioni umanitarie” (144)?
Queste, in breve e semplificando, le tesi principali di Nolte.[5]
Perché sono culturalmente e politicamente nocive?
Poggio sottolinea che:
– sul piano storiografico si ha un arretramento a posizioni liberali, conservatrici e cattoliche: nazismo come risposta speculare e necessaria al comunismo (42), con la cancellazione dei risultati della storiografia più interessante del ‘900)(127);
– la sottovalutazione dell’antisemitismo e la banalizzazione del nazismo (l’opposto di quel che intendeva la Arendt con la formula della “banalità del male”, che sottolineava la capacità nazista di coinvolgere “uomini normali” in un’impresa distruttiva di persone vicine, familiari, amici, concittadini (24));
– strumentalizzando la tesi – corretta e correttiva dell’antifascismo semplicistico e manicheo – che il nazismo non va considerato come “altro”, ma fa parte integrante della storia tedesca ed europea (e non è slegato dall’industrializzazione capitalistica), Nolte lo relativizza, ma per giustificarlo o addirittura valorizzarlo (assolvendo così la Germania, e non soltanto questa, da un passato orrendo, e minimizzando i rischi di neo-nazismo del presente, non riducibile certo ai naziskin.
Accanto e dietro al capofila Nolte abbiamo una numerosa schiera di storici. Ricordiamo: Hilberg e Zitelmann[6].
Da non confondere col revisionismo storico, oltre a Peukert[7], sono le correnti del:
– funzionalismo (Mommsen), che ha per Poggio il merito di aver colto la fondamentale irrazionalità distruttiva del nazismo (37). Fra le sue tesi quella che non ci fu un “ordine formale” di Hitler per lo sterminio e che l’antisemitismo fu pura propaganda (36). Esso tende anche alla sottovalutazione della responsabilità individuale (38) e del potere dell’ideologia, (37);
– la corrente che studia la vita quotidiana durante il nazismo, che è partita alla ricerca delle forme nascoste di resistenza e ha finito per analizzare e prendere atto della rilevanza del “l razzismo latente nella vita di ogni giorno” (30);
– l’intenzionalismo, che fa derivare azioni e comportamenti da scelte personali coscienti; e, estremizzando, una tragedia storica come la Shoà dalle intenzioni di un solo uomo, Hitler (40). Oppure – come avviene in Goldhagen[8], autore de I volenterosi carnefici di Hitler – da un popolo intero, i tedeschi.
NAZISMO E CAPITALISMO
Per Poggio il nazismo risulterebbe incomprensibile, se si trascurassero i suoi legami con il capitalismo. Ma egli non ne fa lo sbocco necessario, la “fase suprema” e inevitabile di un processo capitalistico.(48)
Quindi, contrasta la tesi liberale, secondo la quale “il capitalismo ha prodotto la democrazia” e non ha avuto legami profondi col nazismo, ma si distanzia anche dalla storiografia marxista, che almeno fino al “crollo del comunismo” (9) ha fatto di quel legame un tema di ricerca divenuto classico.[9]
Se la storiografia liberale riduce il nazismo all’azione dell’individuo Hitler, la storiografia marxista lo riduce a una forma estrema di economicismo.
Sono posizioni che non fanno i conti con l’originalità e la novità del nazismo.
Per Poggio, infatti, “non è possibile ridurre il nazismo ad una forma di capitalismo o di anticapitalismo. Esso ha una sua originalità, che consiste nell’assumere il razzismo, la faccia nascosta della modernità, e riversarlo sull’Europa (Aimé Césaire)”.(92)
Riconosce dunque al nazismo una “novità” e “unicità” rispetto al capitalismo e anche all’anticapitalismo.
Nazismo e sterminio degli ebrei “non possono essere derubricati a livello di una delle tante dittature, di uno dei tanti massacri del passato e dell’oggi” (32). Sono un dato fondamentale, una catastrofe, un evento di assoluta novità storica che si manifesta nel cuore stesso dell’Europa, nel centro di una civiltà e “cambia la storia, distrugge l’idea di Progresso, e pone un’ipoteca al futuro”. (25)
Insiste perciò sulla Shoà come “passaggio d’epoca”, “parte integrante della storia del nostro tempo” (Marrus) (40); sul fatto che “ le questioni poste con estrema violenza dal nazismo non sono state superate (e) la generalizzazione dell’economia capitalistica ripropone l’intreccio di classismo e razzismo, come “tendenza profonda della modernità”. (48)
Simpatizza perciò per una ricerca come quella di Sofsky[10], che pone al centro del nazismo non l’economia ma il potere, l’uso del terrore non come “strumento per ottenere uno sfruttamento illimitato della manodopera schiava”, ma come principale fine in sé del sistema concentrazionario. (212)
La sua posizione mi sembra abbastanza vicina a quella di Agamben,[11] che da tempo si è soffermato, da filosofo, proprio sull’esperienza fuori dall’umano del campo di concentramento, “centro non meramente simbolico del nazismo” per Poggio, che da storico insiste sullo stesso “limite”: “la disumanizzazione si è spinta così avanti da non essere più del tutto alla nostra portata”. (40)
E fa esplicito riferimento positivo ad Hannah Arendt.[12]
STERMINIO DEGLI EBREI
Dopo quanto si è detto, è evidente che la Shoà, per Poggio, deve essere al centro della riflessione sul nazismo e la guerra (33). Anche se non va isolata dagli altri stermini (33) ed è opportuno che venga sottoposta a paragoni.
Essa non fu frutto di un piano o di un ordine del solo Hitler (35). Dipese certo dall’andamento della guerra ad Est contro l’Urss,[13] ma non del tutto, perché “il genocidio è inscritto sin dall’inizio nel programma politico del nazismo”.[14](38)
LA FIGURA DI HITLER
Ho già detto che a privilegiare il ruolo degli individui è la storiografia liberale.
Mettere Hitler al centro degli studi sul nazismo equivale a “ridurre il nazismo a hitlerismo”, trascurando del tutto – cosa inaccettabile – l’analisi, pur criticabile, del marxismo o smarrendo le dimensioni economiche e sociali dei fenomeni storici. (55) In Italia, la stessa operazione l’ha fatta Renzo De Felice con la figura di Mussolini.
Resta però, per gli storici non liberali, un problema aperto: il carisma di Hitler presso milioni di tedeschi. (60)
Se si accettano le conclusioni degli studi di Kershaw, secondo il quale “Hitler non fu un tiranno imposto alla nazione, ma in larga misura, e fino a poco tempo prima della conclusione della guerra, un leader sostenuto dall’appoggio delle masse” (62), restano aperte e inquietanti le domande su “come un’intera società cosiddetta avanzata, moderna, ecc., possa [essere finita in un] rapporto di subordinazione mistica col il capo” (61) o “perché i tedeschi [abbiano] fatto di Hitler il loro dio”(78).
Quali i tentativi di risposta?
C’è la spiegazione della massificazione: a causa della disintegrazione dei vecchi assetti comunitari e alla atomizzazione del corpo soclaie, la massa finisce per esistere come popolo, ma soltanto nella comunione mistica col capo. (61)
Vi è poi la spiegazione che vede il razzismo[15] come punto d’incontro decisivo tra normalità (popolo) e “eccezionalità negativa” (Hitler).(63) Razzismo diffuso e razzismo fanatico si sposano (70):
“erano ben pochi i tedeschi o gli europei che condividevano il razzismo fanatico di Hitler, e però nella cultura politica dell’epoca, nella mentalità e nell’immaginario, nelle scienze come nell’organizzazione sociale ed economica, c’erano gli elementi e i presupposti per una dilagante affermazione del razzismo nel cuore dell’Europa”.(74)
Si pensi, ad esempio, alle scienze biologiche che in Germania preparano il terreno alla politica dello sterminio.[16] (90)
Il problema è dunque aperto e ferve il dibattito fra i portavoce della tesi intenzionalista (Lo sterminio degli ebrei risale a prima della guerra contro l’Urss ed è il filo rosso di tutta l’esistenza di Hitler (71) e quelli della tesi funzionalista o policratica (Hitler ha responsabilità nello sterminio, è ossessionato dagli ebrei, ma non ci fu programmazione dello sterminio, né ordine formale).[17]
Poggio ne evidenzia i limiti. Trova invece spunti interessanti per l’approfondimento del ruolo storico di Hitler in Schmitt, che di lui così parlò:
“Hitler era un individuo completamente vuoto e oscuro.. che si è riempito delle parole e dei sentimenti della Germania che allora si era costituita. Che cosa prendeva sul serio? I sentimenti e le formule che si trovava di fronte… Adesso c’era qualcuno che faceva sul serio, uno che non era null’altro che un realizzatore… un esecutore di quelle che fino ad allora erano state solo idee, un mero scagnozzo”. (78)
IL NEGAZIONISMO
I revisionisti-negazionisti[18], che entrano in scena alla fine degli anni ’70 e sono – come si è detto – più rozzi rispetto al “raffinato revisionismo accademico” (100) fanno però breccia sul senso comune storicamente disorientato degli ultimi decenni, specie nelle nuove generazioni, insofferenti di passato e storia.
Poggio in proposito cita la lettera di un giovane tedesco ad Amery[19]: “Siamo stufi di sentirci ripetere che i nostri padri hanno ucciso sei milioni di ebrei”.(95)
Essi non sono filocapitalisti e liberaldemocratici come i revisionisti, ma alla ricerca del “vero anticapitalismo”. (104) E hanno seguito soprattutto in Francia[20](Abbe Pierré, Garaudy).
Per loro (si dichiarino di destra o di sinistra) l’antisemitismo è “una forma permamente di anticapitalismo”. “Gli ebrei sono il capitalismo e i “registi occulti della finanziarizzazione dell’economia (100); e solo il nazismo ha cercato veramente di combattere il capitalismo”. (99)
Combattono dunque la tesi dell’“unicità” del genocidio degli ebrei. E vedono nel colonialismo il suo antecedente storico, che pone l’Occidente sullo stesso piano del nazismo.[21]
Quindi, come ha notato lo studioso Taguieff, i negazionisti, in un’ottica economicista, assimilano due tipi di razzismo: quello di sfruttamento (colonialista) e quello nazista del genocidio degli ebrei e il concetto di genocidio non è più distinto da quello di sfruttamento.
Poggio fa notare che, in un’ottica economicista, le camere a gas appaiono del tutto illogiche; e di conseguenza i dubbi sulla loro esistenza risultano rafforzati da quest’ottica. (102)
I negazionisti anticipano la tendenza ormai diffusa anche in Italia: quella dell’“incrocio e l’interscambio tra destra e sinistra”, presente anche all’inizio del secolo. (103) “Fascismo e comunismo sono uguagliati”. (105)
Un brevissimo richiamo, in questo contesto del discorso, va fatto alla Nuova Destra.
Gli intellettuali portavoce di questa tendenza (De Benoist) evitano di cadere nel negazionismo.
Essi mirano a un confronto e un dialogo costanti con la sinistra. Valorizzano i temi dell’anticapitalismo e dell’antindustrialismo, della critica dell’Occidente e del sistema liberal-democratico” (121). Respingono politicamente nazismo e neonazismo, ma si ispirano comunque alla sua cultura: naturalismo neopagano (contro l’eredità giudaico-cristiana e di fronte al fallimento ecologico dell’industrialismo), razzismo (ma sotto forma di differenzialismo neoetnico[22]).(121)
Per loro Il limite dei: nazisti è di aver imitato i giudei, cioè di “non aver rotto fino in fondo con l’universalismo e l’assolutismo della tradizione giudaico-cristiana”(120). Anch’essi però svuotano o distorcono il concetto di genocidio. Ne fanno, ad esempio, un uso metaforico: genocidio sarebbe la “distruzione delle culture da parte della dilagante civiltà americana che ha già omogeneizzato ed omologato l’Occidente”. (120)
LAVORO DELLO STORICO E USO PUBBLICO DELLA STORIA
Avviandomi alla fine, vorrei sottolineare che tutti i saggi di Poggio sono intessuti di notazioni sul mestiere dello storico e mirano a precisare, in funzione antirevisionista, quale debba e possa essere oggi una funzione civile del sapere storico.
Senza entrare nei dettagli, si possono annotare alcune osservazioni.
Gli storici contribuiscono, attraverso opere divulgative, discussioni, ecc., alla formazione del senso comune. C’è dunque un “uso pubblico della storia” (Gallerano) e negli ultimi decenni il revisionismo storico ha teso a ribaltare la precedente visione egemone degli storici e del loro pubblico (negli studi sul nazismo, ma non solo).
Fra storicizzare (e, al limite, banalizzare) gli eventi o astoricizzare (e, al limite, mitizzare in un’assoluta trascendenza), Poggio riafferma la legittimità e la necessità di storicizzare , pur riconoscendo che resterà “uno scarto incolmabile tra ciò che è stato (la storia) e quel che la storiografia ci restituisce” (162) che c’è un “limite costitutivo del sapere storico” (dell’idealismo, della ragione) e mancherà “una spiegazione esaustiva” o “una piena comprensione”.
Si tratta – afferma con apparente modestia e realismo – di evitare che “lo scarto diventi un baratro in cui il passato viene annullato”, come si può vedere nelle opere dei postmoderni. (162)
Inoltre, lo storico deve stare ai fatti. Ma i fatti non sono soltanto i comportamenti o dati empirici deprivati apparentemente di ogni valutazione o interpretazione. Nei fatti rientra la stessa ideologia razzista (31). E lo storico interpreta, costruisce – non si trova bell’e pronto – il proprio “oggetto”.
Su un campo di ricerca pieno di insidie e conflitti come quello del nazismo, lo storico deve mantenere aperta la prospettiva di ricerca contro rimozioni, manipolazioni e anche attese immediatamente politiche: “una verità storica.. non può essere fissata una volta per tutte”. (31) E in particolare non lasciarsi paralizzare dalle tesi teologico-filosofiche,[23] che sfociano nella non spiegazione, nel Mistero o nell’Indicibile.
Poggio- e l’ampiezza del panorama storiografico è uno dei più stimolanti pregi del libro – tiene in debito conto queste e molte altre posizioni.[24]
E’ vicino alla posizione di Türcke (E’ possibile paragonare Aushwitz ad altri genocidi), di Friedländer[25] (La contemporaneità non può allontanarsi da Auschwitz)
Della già nominata Arendt[26] (Democrazia e unificazione politica dell’umanità non ci garantiscono dal ripetersi della pura distruzione), di Anders (I nazisti hanno anticipato nella Soluzione finale “l’esito storico della modernità”: illimitata potenza del fare, ridotta capacità umana di pensare intellettualmente ciò che è stato fatto (162) e soprattutto di Primo Levi[27], anti-Nolte e antirevisionista antilitteram, che ha insistito a “pensare Auschwitz” per quanto è possibile (166), evitando sia le trappole dell’assoluta unicità, che sfocia nel silenzio, sia la banalizzazione relativistica, che inghiotte Auschwitz. in una “sequela indistinta di massacri”.
IN CONCLUSIONE
Devo precisare alla fine anche alcuni dubbi che qui enuncio, senza argomentarli:
– Il dubbio/quasi dissenso (e senza timore di confondermi in proposito con le tesi negazioniste) sulla “unicità” del genocidio degli ebrei[28] (rafforzatomi da una rilettura di un saggio di Fortini)[29] e dalla esigenza di muovermi una visione non eurocentrica.
– la sensazione che Poggio, a proposito della “contaminazione destra/sinistra” riconduca troppo facilmente certe posizioni (genericamente indicate nella pubblicistica corrente come “antiamericane” o “antisioniste”) alla Destra classica e le veda come ripetizione di dibattiti d’inizio secolo. (Dubbio mio: davvero “Lo Stato di Israele [non è, non è stato a lungo] la punta avanzata dell’imperialismo, una proiezione nordamericana nel Terzo Mondo”? (99))
A me pare che non solo bisogna considerare delle evidenze (l’oppressione israeliana e la mutazione di quello Stato; la politica statunitense, che non credo sbagliato definire imperialista) ma fare ragionamenti radicali sul ‘900 e sulle varianti del sogno americano; e non credo – ripeto – che ci si debba fermare per timore di confondersi con i negazionisti dell’“anticapitalismo vero”, come non ci fermammo attorno al ‘68-‘69 nella critica allo stalinismo di fronte alle accuse allora consuete di anticomunismo.
3. la sensazione (complementare) di un certo silenzio – appunto – sul comunismo reale, lasciato eccessivamente sullo sfondo (anche se capisco che l’“oggetto” del suo studio era nettamente delimitato al nazismo).
Appendice
1. Pier Paolo Poggio, Brevi note in forma di lettera
2 giugno 1999
Caro Ennio,
per impegni inderogabili non riesco a mantenere la promessa di un commento alla discussione di Cologno e per non far passare troppo tempo mi limito ad alcune brevi considerazioni sui problemi da te sollevati.
Per quanto riguarda l’unicità del genocidio degli ebrei condivido pienamente la posizione di Primo Levi, si tratta di un’unicità storica quindi comparabile e oltrepassabile (sul piano dell’orrore).
Per quanto riguarda gli Usa, penso che non si debba considerarli il male assoluto né la peggiore incarnazione del male nella storia. Sgombrato il campo da ciò (che ritengo esiziale) è possibile-necessario combattere contro il sogno americano che in questa fase storica rappresenta il pericolo maggiore per tutti quanti.
Per quanto riguarda Israele, bisogna partire dal sionismo e dai progrom. In questo senso la sua base di legittimità è maggiore di tutti gli Stati costruiti dagli europei fuori d’Europa. Quanto all’imperialismo, non solo gli Usa ma molti stati europei (e asiatici) non hanno nulla da invidiare ad Israele. Perché solo Israele sarebbe un’eccezione?
Aggiungo un’ultima cosa, visto che all’inizio richiami la formula Milosevic=Hitler. Io non penso che si tratti solo di propaganda o di imposizione manu militari del revisionismo storico (relativizzazione e banalizzazione). In realtà in questa formula si riassume tutta quanta la giustificazione della guerra della Nato.
Cordiali saluti
2. Franco Fortini, da Corriere della sera, in “Extrema ratio”, pagg. 108-115, Garzanti 1990
E ogni volta che toccai argomenti in qualche modo relati a Israele ebbi a sentirmi rifiutato e contestato (e proprio dal direttore o almeno per sua bocca) quel che avevo inteso scrivere. D’altra parte l’interesse a diffondere
la storia del sovrano buono e dei suoi mali consiglieri e del direttore sopraffatto dai vice direttori fa parte dei fonda menti di qualsiasi management e mi pare se ne trovi già traccia nei poemi omerici.
Quando il presidente del Bundestag fu costretto alle di missioni per un discorso sulla Schuldfrage tanto coraggioso quanto, o così parve, inopportuno e molto ne parlarono i giornali, scrissi un articolo e lo portai personalmente al di- rettore invece che al responsabile della Terza Pagina perché, gli dissi, mi pareva toccare un tema che, se a Jennin ger era costata la presidenza, a lui avrebbe potuto costare il posto. Infatti me lo respinse. Non molto prima sorte analoga aveva avuto un intervento dove, a proposito della scomparsa di Primo Levi, rammentavo come diversa dal-
la sua la mia opinione circa la “unicità” dello Shoa (la pa rola “olocausto” mi ripugna, mistico-dannunziana quale è). Forse non ero ancora informato che qualsiasi dubbio su quella unicità e singolarità sarebbe stato considerato equivalente a complicità con il terrorismo mediorientale.
Lo trascrivo, insieme ad un appunto di allora.
«Caso Jenninger, crimini nazisti, consenso di massa. Di quel che l’ex presidente del Bundestag avrebbe dichiarato, non so più di quanto i giornali hanno scritto. Avrebbe, fra l’altro, affermato che il nazismo aveva goduto del consenso della maggioranza dei tedeschi. Un incidente protocollare, il suo; come di chi aves se indossato calzini a losanghe rosse e blu per esser ricevuto in Vaticano. O un trionfo della ipocrisia internazionale. Traduciamo: il nazismo possedeva profonde radici culturali, precedenti la propaganda hitleriana.
«Due anni fa, venne recitato a Milano il testo teatrale L’istruttoria di Peter Weiss, montaggio di verbali di un processo contro criminali nazisti celebrato a Francoforte. Una istituzione culturale tedesca mi invitò a parlarne in pubblico. Scrissi il mio intervento e ritenni opportuno mostrarlo, per un parere preventivo, a chi me lo aveva richiesto. Il mio cortese ospite mi informò di un vivo dibattito che ignoravo, allora in corso in Germania, sulle tesi cosiddette revisioniste, sostenute dalla autorità dello storico Nolte (ma anche da personaggi, come si suol dire, infrequentabili) e avversate da una delle massime figure dell’attuale pensiero tedesco, Habermas.
«Alcune parti delle mie pagine – mi disse – avrebbero potuto venir interpretate come di appoggio alle tesi, politicamente equivoche, dei cosiddetti revisionisti. Questi avrebbero voluto combattere l’idea di una mostruosa (e quindi diabolico-divina) singolarità storica dello sterminio nazista degli ebrei e accreditarne una di sostanziale identità (per barbarie se non per metodo) fra quelle ed altri grandi massacri di popolazioni civili, inclinando ad associare a quelli nazisti i crimini dell’era staliniana, anzi, di tutti gli eventi successivi all’Ottobre 1917. Quanto a me, oltre ai grandi eccidi di Amburgo, Dresda, Hiroshima e Nagasaki, ricordavo il macello di milioni di slavi compiuto dai nazisti e, più in genere, la distruzione di popoli interi e culture compiute dal colonialismo e dalle rivoluzioni industriali dell’Occidente. Non fa grande differenza sopprimere due genera-
zioni di esseri umani in cinque o in cinquant’anni.[30]
«Convenni col cortese interlocutore, tolsi, attenuai. Ma quel che pensavo allora, ancora oggi lo penso anche se mi dispiac que sapermi in disaccordo con chi tanta maggiore autorità del la mia aveva nell’argomento, cioè un uomo dall’altezza intellettuale e morale di Primo Levi.
«La questione è quella delle radici dei sistemi autoritari. Fin ché ci si limiterà a parlare di “personalità autoritaria”, in termini di sociologia freudiana, temo si farà poca strada. Si ridefiniscano le nozioni di consenso, di democrazia rappresentativa, di finalità della politica; si cerchi di farlo, evitando le sedi (che non sono solo i parlamenti e i mass-media) dove le menzogne siedono in scranno, convenzionali e necessarie. Per questa pe-
riodica e quindi relativa e provvisoria “verifica del linguaggio” si discriminino gli interlocutori e i destinatari con un atto preliminare, che è già politico; e non si pretenda ad una ingannevole universalità. Penso ad alcuni nodi della riflessione storico-politica, che porta i nomi (simbolici, naturalmente) di Arendt, Bloch, Merleau Ponty, Adorno, Lukàcs, Sartre, Weil, Althusser, Bateson, Marcuse, Foucault. Quella della generazione che
nel ventenni o successivo alla guerra si interrogò sul cinquantennio precedente. Rimuovendo (non senza qualche buona ragione) quelle “letture del mondo”, il pensiero successivo si è però guardato dal sostituirle con altre interpretazioni. Ha esorcizzato un mezzo secolo, nella illusione di possedere così le chiavi del successivo. Nei confronti di una storia intollerabile ha emesso una propria “dichiarazione di inesistenza”, degna di Alice nel Paese delle Meraviglie.
«Per questo i discorsi di un Jenninger (e dei suoi critici) suonano, al di là delle loro ottime intenzioni, curiosamente infantili alle orecchie di una generazione avviata, come la mia, allo Exit. Forse siamo rimbambiti (o imbarbariti, è lo stesso). Udendo quei discorsi, il gesto di insofferenza, seppure inevitabile, è inutile; come certo è ridicolo quello che ho compiuto, poche righe sopra, rimandando ad una qualche bibliografia. Presuppo-
ne viva una decrepita illusione e cioè che gli “addetti” possano mediare le loro riflessioni e letture ai “non-addetti” quando invece questi ultimi sono essi, i consumatori della informazione di massa e illusi di partecipare direttamente alla menzogna cerimoniale, coloro che si alzano indignati alle parole di Jenninger, reagendo insomma secondo uno dei due o quattro modelli di formule accettate come tollerabili. Avete notato come quelli
che dibattono in TV sono sempre ben preoccupati di rispettare le regole della tolleranza ideologica? Anche quelli che si alzano e se ne vanno se odono quelle che loro paiono inaccettabili enormità, lo fanno (ma in genere non lo fanno) con un gesto-parola, come fossero rappresentanti di una nazione all’ONU e non già perché personalmente indignati. Laddove chi gridasse “Bugiardo!” o “Buffone!” sarebbe solo considerato un maledu-
cato.
« Eppure, qualche sussidio bibliografico … Qualche anno fa alcuni cosiddetti “nuovi filosofi” francesi ebbero un momento di volgarissima fama per certi loro libri dove si dimostrava che le grandi menti della Germania dell’età di Goethe e Hegel e fino a quella di Marx incluso erano le orribili madri dell’antisemitismo, del nazismo e del comunismo staliniano (equiparati tra loro, per non creare troppi problemi a chi deve solo annusa-
re il vento che tira). Erano sciocchezze. Però servirono, anche da noi, ad un preciso programma di demoralizzazione ideologi ca rivolto alla generazione degli anni 1967-1973. Dopo di che, eseguita la bassa bisogna, quei filosofi furono rimandati alle loro cattedre o redazioni.
«Parlare del consenso della maggioranza dei tedeschi verso la politica hitleriana, almeno fino al 1942; e di quella della maggioranza degli italiani verso il fascismo, almeno fin verso il 1938; e della maggioranza dei sovietici per quella staliniana, almeno fin verso la fine della guerra, pone interrogativi cui non è facile rispondere. Ci si avvedrà che una cultura, se non del nazismo, certo introduttiva al nazismo, “dai romantici a Hitler” (titolo di un remoto saggio dell’inglese Peter Wiereck) esisteva, eccome, e non coincideva con quella dei portavoce o dei portapenna delle S.S. ma di tutta una parte della grande cultura tedesca dall’età romantica a quella guglielmina e nella quale rientravano anche le massime figure dell’umanesimo deca dente, George o Rilke o Mann o Gundolf o Spengler o Junger.
«Non è forse questa una chiamata in correità di tutta l’eredità culturale europea? Di quel che abbiamo di meglio? Come è stato possibile che si sia giunti dove si è giunti? Chi è il responsabile, qui? Subito dopo la guerra, a fosse aperte, ce lo siamo chiesto.
Oggi, mentre continuiamo a scoprire inimmaginabili fosse comuni, accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cattivi là, tutto chiaro.
«I bambini, credo lo sappiate, non sono portati dalle cicogne. La storia degli uomini non è un parlamento di brava gente. Quello Jenninger voleva essere (che dico: certo era) un signore dabbene. Ha avuto la dabbenaggine di dire quel che pensava e non avrebbe dovuto dire. Ma non innocentemente si
diventa così autorevoli personaggi. Peggio per lui. Contrariamente a quel che alcuni suoi critici hanno detto, quel che pensava e dichiarava era probabilmente cauteloso, circonlocutorio, generico. Se non si provvede, non già a dire o a scrivere (che serve a poco) ma a pensare anche in luogo suo e dei milioni di persone dabbene e di media buona coscienza, allora sarà tanto peggio per noi».[31]
Sarebbe bastato correggere con due o tre parole prese dal repertorio della ovvietà e quelle righe sarebbero state pubblicate senza difficoltà. Naturalmente, posso dirlo perché mi faccio volontariamente più ingenuo di quanto non sia e fingo di non sapere il senso e avviso che il rifiuto voleva avere, qualcosa come il gatto morto buttato sulla soglia di casa. Quel che oggi, in quelle mie righe, mi urta, non è già quanto vi è detto ma quanto non vi è detto o è appena accennato o sottinteso. Al limite, uno potrebbe parlare di rose e di nuvole invece che di Intifada e, nondimeno, introdurre nelle forme sintattiche o nelle scelte les sicali qualcosa che ferisca l’ordine più gravemente di un appello alla insurrezione. (Le polizie, manifeste o segrete, di tutto il mondo, queste cose le hanno sempre sapute). Sono probabilmente il solo autore del mio paese che a settantadue anni di età scrive un articolo inaccettabile per un grande quotidiano indipendente. Di che insuperbire.
[1] Dalla recensione al libro di Poggio di Enzo Collotti, La storia nella zona grigia, il manifesto 12 marzo 1998
[2] Ralf Dahrendorf nel 1965 sostenne che i nazisti avevano involontariamente preparato il terreno di una Germania democratica distruggendo l’assetto sociale feudale precedente. Poi Shoenbaum, che presentò il Terzo Reich come società “senza classi” (15). Poi Turner, che parla di “modernismo reazionario (fini antimoderni ,ma risultato modernizzante)(16).
[3] Poggio cita la riflessione teologico- filosofica dei: – “francofortesi” in esilio (Dialettica dell’illuminso, Eclissi della ragione (17); – del rabbino Richard Rubinstein (La Soluzione finale come metodo “razionale” per regolare la sovrappopolazione (18); – di Ignaz Maybaum (il genocidio è Olocausto, in cui le vittime fungono da offerte espiatorie (18). In quest’ultimo caso si potrebbe parlare di un revisionismo per “accentuazione” (nazismo come assoluta negazione, collasso di significati, Abisso dell’umano e del divino, negazione di ogni possibile indagine) (26)
[4] Vi ha insistito Zygmunt Bauman (19): “Il razzismo nazista è una forma d ingegneria sociale che viene applicata da una tecnoburocrazia irresponsabile guidata dal principio dell’efficienza”. Egli sottolinea l’ambiguità del processo di modernità ( o civilizzazione)
[5] Le posizioni di Nolte sono molto articolate. Poggio distingue fra un primo Nolte (anni ’60, autore de Il fascismo nella sua epoca, che cercava le radici del fascismo nella storia ideologica e politica dell’Europa.. ruolo dell’Action française) e il Nolte revisionista (post-’68) (123).
[6] Hillgruber collega lo sterminio degli ebrei alla resistenza opposta dall’esercito tedesco all’avanzata dell’Armata Rossa. I soldati tedeschi forse non dovevano resistere per consentire lo smantellamento dei campi di sterminio? (28) [Da invasori in fuga a resistenti! (Ndr)]
Zitelmann ( appartenente alla nuova leva di storici post.Nolte): accomuna fascismo, nazismo e socialismo sotto la categoria della modernizzazione: tutti avrebbero fatto una politica sociale favorevole alle classi popolari e in particolare agli operai (42) [ mentre – sottolinea Poggio – le idee sociali di Hitler erano solo un mezzo per raggiungere il fine della purificazione razziale e e della conquista (46]
Z. riafferma il criterio della “avalutatività” scientifica della storiografia (42), quindi positivismo e empirismo integrali, abbandono delle ideologie e del moralismo(43) eliminazione di ogni filtro teorico, rispecchiamento diretto, identificazione con l’autorappresentazione fornita dalle fonti (44); i valori (tutti) vengono considerati un residuo ideologico (44)
Per lui Hitler è un modernizzatore a tutti gli effetti, un socialdarwinista rivoluzionario ed innovatore (43) Accoglie cioè l’autorappresentazione hitleriana del nazismo come vero “socialismo nazionale, al di là di capitalismo e comunismo” (47); esalta i tratti“socialisti” e “anticapitalisti” del fascismo e del nazismo e tende a scindere completamente il loro rapporto con il capitalismo (47)
Esalta poi l’industria e il lavoro industriale e per questa via accosta il pianificatore Stalin a Hitler (45)
di se stesso e si incarna nel Führer” (53)]
[7] Peukert: Il nazismo è parte integrante della modernità , è “patologia del moderno” (51).Si manifestò in Germania perché qui la modernizzazione fu più veloce (51). Il nazismo offre una risposta efficace e catastrofica alla crisi della modernità, saldando razzismo ed economicismo, affermando una comunità salvifica: “fusi nel Wolk gernanico gli individui potevano vincere la paura della morte”, entrare in un rapporto mistico con Hitler [fine della politica, e sua estetizzazione: il popolo si rispecchia nello spettacolo di se stesso e si incarna nel Führer” (53)]
[8] Goldhagen ha sostenuto infatti che “non solo Hitler e i nazisti ma tutti i tedeschi volevano sterminare gli ebrei. Tutti quanti infatti condividevano la stessa ideologia eliminazionista” (216)
[Posizione inaccettabile per Poggio. Ecco le sue principali obiezioni. – Non si capisce per quale “miracolo”, la struttura caratteriale dei tedeschi, base per Goldhagen del loro comportamento nel periodo nazista, cambia di colpo dopo il ’45; – G. non solo elimina ogni domanda sull’“enigma del consenso” a Hitler (221), ma “isola completamente la Germania e l’antisemitismo tedesco,.. e fa del genocidio un fenomeno unico, incomparabile, in defintiva a-storico” , e finisce per rappresentare i tedeschi “in termini che ricordano quelli con cui i nazisti rappresentavano gli ebrei, cosa che in un lavoro scientifico è inaccettabile”.
Goldhagen ha invece il merito di dare rilievo centrale all’antisemitismo e di apportare nuovi dati (i capitoli sui battaglioni di polizia, quelli sulle “marce della morte”. Di fronte ad una realtà psicologica e antropologica che presenta uno scatenamento di pulsioni distruttive (218-219-220), Poggio chiede: A quale scopo esse venivano fatte? Perché non eliminare alla prima occasione quei morti viventi, invece di marciare con loro senza meta per centinaia di chilometri?
[9] Accetta la tesi che ci fu collaborazione piena fra nazismo e capitalismo e che essa si accrebbe durante la guerra.(Esempio: la I.G. Farben, una grande azienda tedesca, che finì per partecipare alla distruzione e al genocidio, 10).
Dà importanza alle ricerche di Tim Mason, storico inglese che nei primi anni ’70, in polemica con quanti vedevano nel nazismo una “tappa della modernizzazione” , mise a fuoco la regressione dovuta ai nazisti: distruzione del movimento operaio, annullamento del conflitto sociale attraverso un “primato della politica” basata sul terrore (11), ma anche una politica sociale affidata al sindacato nazista (12).
In un’ottica operaista “prudente”, Mason lesse la lotta operaia, anche solo economica, come tentativo di frenare e indebolire il nazismo (mentre per i revisionisti più oltranzisti il nazismo aveva la propria base proprio nella classe operaia tedesca).
Egli non si occupò dello sterminio degli ebrei, ma aveva notato “il carattere economicamente irrazionale dello sterminio” (mentre i revisionisti cercano un “nucleo razionale” nell’antisemitismo, proprio per giustificarlo, renderlo comprensibile, relativizzarlo) (13) [Mason sosteneva invece che il genocidio “non è stato ancora capito e digerito, non è pronto per essere messo nel cassetto. La valutazione del suo significato è ancora agli inizi, sia per il mondo accademico che per i mass media, sia per la sinistra politica che per l’establishment culturale”. 14)
Poggio scrive anche: “Il tentativo di trovare una spiegazione economica all’antisemitismo e allo sterminio caratterizza il marxismo novecentesco e ne mette in luce i limiti. Le interpretazioni marxiste finiscono con l’essere doppiamente subalterne: nei confronti del liberalismo, visto che ne adottano l’impianto categoriale imperniato sulla razionalità economica, nei confronti dell’irrazionalismo, dato che lasciano a quest’ultimo un intero continente che non può essere esplorato in base ad una concezione unilaterale di uomo, donna e società” (201).
[10] Sofsky , autore di Saggio sulla violenza (Einaudi 1998) parla di un terrore che colpisce tutti i detenuti, sia pur con gradi diversi di intensità (214). La pratica nazista tende sistematicamente all’annientamento psichico dei prigionieri, alla cancellazione della loro dignità umana e infligge un trauma insopportabile agli stessi sopravvissuti. Nel Lager si riproducono amplificate le situazioni sperimentate durante la prima guerra mondiale: incertezza sul futuro, sulla durata della carneficina, ecc.(214)
[11] Cfr. Agamben , Quel che resta di Auschwitz, Bollati Boringhieri 1998
[12] Della sua opera sottolinea due concetti: “male radicale” e “banalità del male” (23) e accetta la categoria di totalitarismo nella accezione arendtiana, sia per il nazismo che per il comunismo sovietico (33). Da quest’ottica la vittoria della menzogna e della finzione sul vero e sul reale non è avvenuta con l’inganno o tecniche machiavelliche. Sia le masse che le élites “volevano credere”, del tutto incapaci di distinguere fra realtà e finzione (164) e i campi di concentramento hanno reso possibile il dominio totalitario, perché sono stati pensati e costruiti come un luogo in cui “tutto diventa possibile e proprio l’enormità dei fatti reali che vi accaddero li rende verosimili… l’enormità dei delitti fa sì che che agli assassini, i quali proclamano la loro innocenza con ogni sorta di menzogne, si presti più fede che alle vittime, la cui verità ferisce il buon senso”(165)
[13] A proposito del rapporto fra distruzione degli ebrei e guerra antisovietica, parlando del GeneralPlan Ost, Poggio sottolinea i limiti di un’impostazione che volesse spiegare l’attacco all’Urss solo in termini di colonialismo: “Il colonialismo va.. tenuto ben presente, anche per il ruolo cruciale del razzismo in questo tipo di dominio, non può essere però l’unica e principale chiave interpretativa della guerra ad Est, che non fu solo finalizzata allo sfruttamento economico ma bensì alla distruzione del nemico ideologico e all’annientamento completo della “razza” ebraica” (180). Si trattò di uno “sterminio mirato e sistematico.. una guerra di annientamento tendenzialmente totale senza precedenti”. E cita, per contrasto, il caso degli ebrei della Transistria vittime dell’antisemitismo rumeno:“il 40% di loro poté salvarsi.. perchè il massacro degli ebrei non era per i rumeni un fine in sé”(181).
[14] Fra gli storici, Enzo Collotti ha insistito sulla “programmazione iniziale del genocidio.. implicita sin dal primo momento nella programmazione della segregazione dei “diversi”. Esiste un documento delle SS del dicembre 1940 in cui si afferma che la Soluzione finale sarà raggiunta “attraverso la deportazione degli ebrei dallo spazio economico europeo del popolo tedesco in un territorio ancora da stabilire. Il progetto riguarda 5,8 milioni di ebrei” (39)
Per Poggio antisemitismo e anticomunismo sono dello stesso ceppo, quindi la tesi di Brosatz (la Soluzione finale comincio e fu motivata dal fallimento dell’offensiva ad Est, dal fallimento della “operazione Barbarossa”) non regge : “.. ci furono due grandi fasi: la prima condotta dalle Einsatzgruppen (Unità mobili) per mezzo di fucilazioni di massa si sviluppa contemporaneamente all’attacco all’Urss; la seconda, pur senza accantonare gli strumenti tradizionali, utilizza le tecniche e il personale sperimentato nell’ambito dell’“operazione eutanasia” e inizia artigianalmente alla fine del ’41, viene messa a punto.. nel ’42 e si sviluppa in grande stile nella primavera del ‘42” (183).
[15] E’ da un antisemitismo originario – costruito su una ideologia darwinistica brutale (l’uomo è un pezzo della natura; esattamente come in natura, anche nella storia vige la legge del più forte (64); gli ebrei sono incarnazione dell’antinatura, un’antirazza (66)), che non può essere ridimensionato a mera propaganda estremizzata, visto che “nella mente di Hitler guerra e Soluzione finale sono state tutt’uno sin dall’inizio” (70) – che Hitler elabora il suo razzismo e il suo antibolscevismo (63).. Tra l’altro egli viene influenzato da elucubrazioni di tipo magico e misterosofico della cultura viennese e di Monaco (68).
[16] Poggio cita Biagioli (Scienza, modernità e Soluzione finale, in “Intersezioni”, 1991,n.3): “quando arrivò il nazismo, il discorso scientifico preesistente consentì ai medici di diventare i sacerdoti del culto del sangue germanico, i suoi tutori medici e gli sterminatori di tutti coloro che avrebbero poptuto contaminarlo. La simbiosi tra la politica nazista e la medicina sembra essere radicata nel fatto che entrambe condividevano la medesima “ontologia” fondata sulla razza”.
[17]Secondo Mommsen, Hitler sapeva e approvava, lasciava che le cose facessero il loro corso, evitava posizioni chiare (73).
[18] Per Poggio i negazionisti rappresentano “una setta postmoderna frutto dell’incontro tra i nostalgici del nazismo con gli epigoni dell’estremismo di sinistra” (106). Con loro si afferma una tendenza neognostica: “Se tutto il mondo sta diventando un campo di concentramento e ogni campo è un luogo dove si stermina l’umanità dell’uomo, allora i campi nazisti non detengono alcun primato, ci sono orrori peggiori mascherati dall’assolutizzazione di Auschwitz”(115
Contro il negazionismo , c’è bisogno di una incessante battaglia intellettuale (“La verità non può essere imposta per legge”(110):
Essi o costruiscono “una fonte alternativa, ammantata di neutralità e oggettività”(111). E fa l’esempio di un falso documento della Croce rossa, che riduceva a 300.000 le vittime della persecuzione nazista (110). Oppure, svalutando la ricerca storica [ripresa dell’elogio nietzschiano dell’oblio contro la memoria(108), la storia sarebbe “una pura costruzione ed invenzione” al pari di un romanzo (108)], scambiano l’immaginario [l’autoraprpesentazione dei nazisti, le loro affermazioni propaganditistiche] con la realtà” (112). Per Poggio si tratta di riconoscere i rischi di una prospettiva giudeocentrica, che potrebbe isolare la Shoà dagli altri stermini, ma insiste sul fatto che gli studiosi ebrei sono stati “lasciati soli, sia durante lo sterminio che dopo” a rifletterci sopra e sull’importanza di questi studi per capire cos’è stato il nazismo (114).)
[19] Jean Amery, pseudonimo di Hans Mayer (1912-1978), internato ad Auschwitz, autore tra l’altro di Intellettuale ad Auschwitz. Amery aveva previsto la dissoluzione relativistica della soluzione finale: “ L’uccisione di milioni di esseri umani compiuta con… precisione pressoché scientifica da un popolo altamente civilizzato, verrà considerata deplorevole ma niente affatto unica.. Tutto si mescolerà in un sommario secolo della barbarie” (115).
[20] La Francia è stata “un paese laboratorio dell’ideologia fascista (ricerche di Zeev Sternhell) (98). Poggio ricorda che qualcuno ha visto nell’egemonia della storia sociale di “lunga durata” (Braudel) e nel relativismo post-moderno delle strategie per aggirare il trauma della sconfitta e della collaborazione coi nazisti (98).
[21] Werner Sombart: la colonizzazione venne finanziata dagli ebrei e così la tratta degli schiavi. I crimini del colonialismo e del capitalismo sono da imputare agli ebrei (101)
[22] E’ una visione dell’umanità che privilegia le differenze tra i gruppi (razze, etnie,popoli, nazioni, civiltà), considera incommensurabili le culture ( che vede irrimediabilmente chiuse in se stesse) e afferma “il diritto alla differenza e il dovere della differenza” ( da Taguieff, Il razzismo, Cortina 1999)
[23] Sono le tesi di Elie Wiesel (“Auschwitz non può essere spiegato perché l’Olocausto trascende la storia”(157)) o quelle di Agnes Heller (Inadeguatezza della scrittura di fronte ad Auschwitz (157)). Esse portano a considerare il genocidio degli ebrei come “ salto nel Male, gigantesco ma del tutto irrazionale), di Jankélévitch (Silenzio su Auschwitz, perché indicibile), dello stesso Levinas (“Il solo senso di Auschwitz è che non ne ha” (160). Di Auschwitz si sottolinea l’unicità, l’incommensurabilità, l’indicibilità (158). Sono posizioni molto diffuse in ambito filosofico e teologico.
[24] Fra le altre ricordo:
Hilberg (americano): non pensa ad un programma di Hitler (visibile solo retrospettivamente). “cerca di individuare uno per uno gli uomini che propugnarono o resero possibile il grande massacro” (172), esaminando una documentazione sterminata (carte d’archivio, provenienti da varie amministrazioni coinvolte); interpretandola però e non limitandosi a una storiografia di soli fatti (172). Arriva alla conclusione che il genocidio degli ebrei fu “un exploit della burocrazia” (173), che nonostante le implicazioni emotive realizzò una meta disumana “grazie alle risorse della razionalizzazione”, con la sua specializzazione tecnica, la delimitazione delle competenze, i regolamenti e i rapporti di obbedienza gerarchica (173). Questo evento per lui ha un’evoluzione lunghissima alle spalle (173) [Sintesi del suo lavoro, 174].
George Steiner: insiste sulla continuità fra antigiudiaismo cristiano e antisemitismo nazista (196). Tesi criticabile [“c’è uno stacco tra antigiudaismo fra antigiudaismo di matrice cristiana e antisemitismo nazista, (che) condanna in blocco la religione cristiana e quella ebraica così come le ideologie universalistiche frutto della secolarizzazione”, 197], ma che merita considerazione per capire che la Soluzione finale ottenne ampio concorso attivo, passività non solo in Germania ma in tutta Europa, “senza dimenticare le molte protezioni di cui godettero i responsabili dopo la guerra”(196)
Browning: affronta il tema della partecipazione della “gente comune” ( non nazisti o antisemiti fanatici ma funzionari con scarse motivazioni ideologiche, intenti a far carriera, persone mature)(228) [“Il perchè questo possa accadere solleva interrogativi sulla natura umana e sulle ambivalenze della modernità, ma anche sui metodi e gli strumenti concettuali della storiografia” (228). Ancora più allarmante che quei meccanismi continuino ad operare oggi (229)]
[25] Il presente è “indelebilmente segnato dalla frattura della soluzione finale. Il nazismo non è solo una parentesi di follia e di irrazionalità. Esso si ripresenta continuamente nel nostro mondo “e non ci fa il favore di vestire nelle vecchie divise”.
[26] “E’ perfettamente concepibile, e in pratica politicamente possibile, che un bel giorno un’umanità altamente organizzata e meccanizzata decida in modo democratico, cioè per maggioranza, che per il tutto è meglio liquidare certe sue parti” (161).
[27] Egli riconosce che la storia dello sterminio ha dei punti deboli (l’hanno scritta i “salvati” non i “sommersi”) e ha parlato sempre di “due fatti fondamentali di questo secolo”: genocidio degli ebrei, ma anche bombe di Hiroshima e Nagasaki(167) , considera il negazionismo prima maniera una forma insidiosa di neonazismo (168) e sottolinea non solo le differenze ma anche la contiguità e continuità fra negazionisti e revisionisti accademici (169). Il loro punto d’incontro sta nei mass media, dove essi giocano la partita del controllo sul passato. Il suo metodo: rendere testimonianza, parlare solo di quello che si è visto e vissuto, “materia prima” della sua opera di scrittore.
[28] Sulla questione dell’unicità mi pare di cogliere in Poggio delle oscillazioni. In alcuni saggi [ad es. nel primo trovo: nazismo e sterminio degli ebrei “non possono essere derubricati a livello di una delle tante dittature, di uno dei tanti massacri del passato e dell’oggi”, (32). In altri viene ridimensionata, come in questo passo dell’ultimo capitolo:
“Se per Shoà si deve intendere solo la distruzione degli ebrei escludendo i milioni di non-ebrei uccisi in nome della stessa politica, allora tale parola potrà essere corretta dal punto di vista della religione ebraica.. ma ci restituisce una rappresentazione distorta della realtà. Per lottare contro un falso universalismo non è necessario cadere nel differenzialismo, che erigendo barriere insormontabili tra le culture, le memorie, le storie nazionali consente al razzismo nazista.. una sua vittoria postuma” (187).
[29] Fortini, Corriere della Sera, in “Extrema ratio”, Garzanti 1990, pag.105 e segg [Cfr. appendice]
[30] Nota 1990. Naturalmente fa grandissima differenza. I processi di rimozione di cui godevano i ceti borghesi del secolo X1X consentivano una falsa co scienza che la concentrazione della violenza nazista non permise a nessuno.
Ma il discorso della storia è appunto una accelerazione innaturale della mo- viola o un suo tremendo rallentamento. Non diverso, in questo, da qualsiasi discorso profetico o di nèmesi. Nell’opera di Peter Weiss, dove tutte le battute sono trascritte da verbali del processo di Francoforte ad aguzzini nazisti, un sopravvissuto dice una verità irrespingibile: «Se eravamo in tanti / nel Lager / e se furono tanti / a portarci dentro / il fatto si dovrebbe capire / ancora oggi. / Molti di quelli destinati a figurare come Haftlinge (prigionieri) / erano cresciuti con gli stessi principi / di quelli / che assunsero la parte di guardie. / Si erano dedicati alla stessa nazione / impegnandosi per uno sforzo per un guadagno comuni / e se non fossero finiti
Haftlinge / sarebbero potuti riuscire guardie. / Smettiamo di affermare con superiorità / che il mondo dei Lager ci è incomprensibile. / Conoscevamo tutti la società / da cui uscì il regime / capace di fabbricare quei Lager. / L’ordine che vi regnava / ne conoscevamo il nocciolo / per questo riuscimmo a seguirlo / nei suoi ultimi sviluppi / quando lo sfruttatore poté / esercitare il suo potere / fino a un grado inaudito/ e lo sfruttato / dovette arrivare a fornire / la cenere delle sue ossa» (ed. it. pp. 131-132).
[31] Un anno più tardi, queste sono opinioni correnti, persino sul «Corriere».
Jenninger può essere intervistato dalla TV italiana. Più significativo il modo
con cui si è recentemente introdotto in Italia lo studio di uno storico tedesco “revisionista”. Chi lo presenta accetta l’idea, fino a oggi considerata aberrante, della non unicità storica degli eccidi nazisti compiuti contro gli ebrei; ma lo fa al fine di dimostrare che l’origine della persuasione della inconfrontabilità e unicità risiede nella mitologia dell”’antifascismo”, troppo tenero, come Roosevelt, con i Comunisti. Si afferma che altri e altrettanto efferati massacri si dettero: quelli russi, sovietici, staliniani contro la popolazione civile tede sca. E che quella mitologia ha contribuito a farli dimenticare o passare sotto silenzio; per di più tacendo della complicità degli alleati occidentali.
Così si assume la gradevole figura di chi combatte pregiudizi ben radicati e,
nel medesimo tempo, invece di chiedersi quali siano, e quali cause abbiano, i grandi massacri nel mondo contemporaneo, si aiuta a fissare identità (Stalin eguale a Hitler, comunismo pari a nazismo, Lenin gemello di Ceausescu) che seppelliscono qualsiasi giudizio storico sotto la contabilità dei cadaveri. Quel la contabilità, lo so bene, è insensata. Eppure non posso trattenermi dal chiedere perché si rimproverano gli inglesi e gli americani di non aver fermato la mano delle « bestie marxiste» (ossia di non aver rovesciato le alleanze prima che i sovietici fossero a Berlino … ) quando le armate bolsceviche, entrando in Germania, fecero strage di civili tedeschi; tuttavia tacendo delle centinaia di migliaia di civili senza nessuna seria ragione militare arsi a Dresda, Hiroshi ma e Nagasaki.
Mi intriga il titolo del post, mi chiedo cosa vuol dire zona grigia della storiografia. Non so se l’espressione è dello storico Poggio o di Abate, comunque ne fanno parte: i “negazionisti”, nostalgici del nazismo e “setta postmoderna” di tendenza neognostica (se nella storia si è sempre sterminata l’umanità, lo sterminio nazista non ha alcun primato); e i “revisionisti” impegnati in una “restaurazione neonazionalista a sostegno della Germania riunificata”, posizione che si rafforza dopo il crollo del comunismo sovietico. Mi pare allora che negazionisti e revisionisti siano storici interessati a fornire una lettura del passato in funzione del loro interesse politico presente, e vengano definiti “zona grigia” in quanto sostanzialmente ne attenuano il tremendo portato distruttivo.
Posto la conclusione di un testo di Brunello Mantelli, noto storico della Germania del ‘900 e della shoah, che invece prende in considerazione molti dei punti di vista degli storici citati nel testo di Poggio, ma insieme “storicizza” in senso pieno il periodo nazista: è successo allora, con quei personaggi, quei problemi, quelle azioni e reazioni:
“perché la ‘soluzione finale’ potesse coincidere con l’eliminazione totale, bisognava prima che dalla *coincidenza dei numerosi fattori* (c.vo mio) più volte ricordati potessero essere edificati i VL [Vernichtungslager, campi di annientamento] usati in un primo tempo per stragi parziali, ma tecnicamente adatti al genocidio. Resta in ogni caso un punto fermo: perché la Shoah diventasse possibile occorreva l’antisemitismo radicale e la ripetutamente annunciata necessità, da parte delle istanze di potere nazionalsocialiste di “liberarsi” degli ebrei. Non fu la dimensione ideologica ad essere la causa prima dello sterminio, ma fu essa a renderlo pensabile” http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/2467/Testi%20di%20Brunello%20Mantelli/Mantelli%20-%20Campi%20di%20sterminio%20-%20version
L’articolo di Fortini traccia un quadro più ampio: occorrerà affermare che “tutta una parte della grande cultura tedesca dall’età romantica a quella guglielmina e nella quale rientravano anche le massime figure dell’umanesimo decadente, George o Rilke o Mann o Gundolf o Spengler o Junger” era una “cultura introduttiva al nazismo”. Una critica che contemporaneamente elaborava anche il filosofo cattolico Augusto Del Noce, radicale nei confronti del razionalismo e della modernità.
Questo post intende valorizzare la riflessione storica e culturale in un oggi (2019) “informe” in cui ancora “accettiamo che la storia del secolo, cioè la nostra vita, ci sia raccontata come una favola di burattini, i buoni qui e i cattivi là”, come scriveva Fortini più di 30 anni fa.
Si tratta quindi del valore della storia per un oggi in cui molti temono il riemergere di pulsioni razziste e i comportamenti irrazionali (e strumentalizzabili) nelle forme di “rapporto mistico” con il/i capi.
Si può infatti rimeditare rispetto al presente: se la shoah sia stato un evento unico o se non sia ripetibile; se, come per le attuali destre di impianto gnostico, il mondo non sia comunque da considerare “un luogo dove si stermina l’umanità dell’uomo”; se la follia di un capo o di élites possa condurre un paese allo sfacelo; se il baco che ha eroso la cultura collettiva produrrà volonterosi esecutori di future operazioni disumane; se l’antisemitismo (originario cattolico) non sia incunabolo per altro nuovo razzismo; se le difficoltà in cui si dibatte il capitalismo non porteranno ad applicare misure straordinarie di oppressione…
Ma la ricerca storica non decide su queste possibilità. Con l’espressione zona grigia Primo Levi ne I sommersi e i salvati assomma riflessioni filosofiche, antropologiche, etiche… e perfino l’impotentia judicandi.
Il titolo di questa sintesi è mio e indica molto semplicemente che le varie posizioni della storiografia degli anni ’90 del Novecento apparivano a dei lettori periferici ( a cui ci rivolgevamo come Associazione Ipsison) confuse e quindi metaforicamente sul grigio.
Il link al testo di Brunello Mantelli non funziona.
A rafforzare l’attenzione su questi temi davvero epocali e padroneggiati da pochissimi oggi su “Poliscritture FB” ho pubblicato questo post:
SAMIZDAT/LETTURE DI IERI
(dalla bacheca di Franco Senia)
Auschwitz come alibi?
– di Robert Kurz –
https://francosenia.blogspot.com/2016/01/spiegare-auschwitz.html?fbclid=IwAR1zIfeZIchL3Lo5bOmVrKNQaYQ8msZbmdM3-zHsWXBIu1vY3Q8oy2DbQP8
Sintesi mia:
1. Il marxismo tradizionale (del fu movimento operaio) ha abbandonato la critica dell’economia politica.
2. Oggi molti – Kurz li definisce “marxisti culturali” ma in effetti non li considera più marxisti – hanno sostituito la lezione di Marx con la sociologia di Bourdieu ( per Kurz “ragionamento pop-culturale”, sociologismo) o il “discorso” post-strutturalista.
3. Effetto: « Il vecchio economicismo completamente mutilato viene sostituito da un culturalismo altrettanto ottuso.».
4. In passato la sinistra – si tenga presente che Kurz scrive questo saggio nel 2000 e si riferisce in particolare alla situazione in Germania – spiegava Auschwitz e i crimini del nazionalsocialismo contro l’umanità ricorrendo al concetto dell’ «interesse del capitale» (alias: la teoria marxista tradizionale del fascismo si riduceva all’«interesse di classe») limitandosi così a descrivere «i processi sociologici superficiali della trasformazione dell’apparato di dominio capitalista durante la crisi economica mondiale [e] relegando in secondo piano il potere dell’ideologia biologico-antisemita in quanto specificamente tedesca».
5. Oggi, invece, la sinistra ha perso di vista del tutto « il contesto capitalista del regime nazista» e mette in primo piano uno « stato di cose cultural-ideologico “puramente tedesco”».Di fatto «strumentalizza Auschwitz al fine di seppellire la critica radicale dell’economia» fatta da Marx e ben presente in Adorno, perché « la Teoria Critica non ha mai smesso di vedere Auschwitz nella sua relazione con il sistema produttore di merci».
6. A differenza della sinistra per Kurz è, invece, importante cogliere« una relazione sistemica fra la storia dello sviluppo capitalista ed una specifica “ideologia tedesca”» ( invece di contrapporre l’una all’altra).
7. Per Kurz, infatti, « Auschwitz non può essere spiegato in funzione di qualsivoglia “calcolo di utilità”, essendo radicato profondamente nell’irrazionalità e nel risentimento, i cui elementi, da un lato, hanno caratterizzato fin dal principio la socializzazione del valore in quanto tale e, dall’altro lato, si sono costituiti in Germania, a partire da Herder e Fichte, sulla base di un contenuto specifico: la legittimazione culturalista della “ideologia del sangue” già presente nella formazione della nazione tedesca.».
8. Bisogna, perciò, spiegare « la relazione fra la forma feticistica del valore ed Auschwitz», perché studiare «l’antisemitismo nella sua relazione con il lavoro astratto» non è una limitazione ma un ampliamento dell’analisi.
9. Bisogna, cioè, ricorrere ad « una critica radicale del valore e, quindi, [ad] una critica del lavoro» se si vuole intendere a fondo Auschwitz e l’antisemitismo. Solo così «l’affermazione marxista secondo cui l’essere determina la coscienza» non si riduce a mera ideologia di classe e torna ad essere una categoria fondamentale per intendere la società capitalistica.
10. « L’ideologia antisemita moderna in quanto tale, allo stesso modo del razzismo, è presente nella società borghese fin dall’Illuminismo, ed in tal senso è un fenomeno capitalista universale. I nazisti non solo hanno tratto dal liberalismo anglosassone la loro ideologia social-darwinista, ma anche tutta una serie di altri elementi repressivi della modernità (fra di essi, ad esempio, i campi di concentramento)». E, dunque, «Auschwitz è parte costitutiva della totalità storica del capitalismo», anche se c’è da precisare che «soltanto in Germania l’antisemitismo, in un contesto di formazione della nazione legittimata dall’ideologia del sangue, si è convertito in un processo eliminatorio»; e perciò « è parte costitutiva essenziale della specifica storia tedesca» e in particolare di una sua precisa fase: quella che Kurz chiama del « nazi-fordismo».
11. Generale o nazionale? Qui mi pare di capire che Kurz intenda dire che «l’olocausto [1] per la sua tonalità sia stato sia «in ultima analisi una conseguenza della generale catastrofe capitalista» e sia «una conseguenza dello specifico antisemitismo tedesco». Per cui «l’uno non può essere pensato senza l’altro». E da questo legame discende per Kurz la convinzione che quella storia ( e Auschwitz come simbolo che la riassume nel senso comune) non è affatto «superata». Proprio – intendo io – per la persistenza del capitalismo. Lo potrebbe essere « soltanto mediante una critica categorica della socializzazione attraverso il valore » ( quindi una ripresa della Teoria critica marxista?). Altrimenti rischia di restare «un giocattolo astorico del “discorso”» (post-strutturalista?) o di diventare « un atto di arbitrarietà incondizionata». Questo accade quandola riflessione si concentra sulla « morale individuale puramente borghese» ritenendo «l’individuo responsabile di per sé”, e niente di più», discorso che s’impose ai tempi della Tatcher.
[1] ma il termine era contestato, a ragione secondo me, da Fortini: « la parola “olocausto” mi ripugna, mistico-dannunziana quale è».
forse così il link è scaricabile http://scienzepolitiche.unical.it/bacheca/archivio/materiale/2467/Testi%20di%20Brunello%20Mantelli/Mantelli%20-%20Campi%20di%20sterminio%20-%20versione%20definitiva.pdf
…quello che mi ha maggiormente colpito di questo saggio veramente completo sulla storia della shoah è l’aver evidenziato la potenzialità criminale dell’essere umano quando vengono a crearsi dinamiche circolari di sostegno e di potenziamento tra un leader e il “suo” popolo, sulla base di una determinata ideologia politico-economico saldata con quella della “supremazia del sangue”. Penso che tale situazione si può ripetere e come…Non so se i confronti sono esatti: Mussolini potette procedere nel suo progetto di dittatura, rinsaldando il suo potere con sostegno popolare, quando scampò le sue responsabilità nel delitto Matteotti…oggi, e la storia sembra ripetersi, un uomo di governo, Salvini, cerca di consolidare il suo potere sfuggendo, avvalendosi dell’immunità parlamentare, al suo dovere di rendere conto davanti alla giustizia delle sue azioni…Un salto di “qualità”