di Franco Tagliafierro
Questo è un capitolo di un romanzo di formazione inedito, a cui sta lavorando Franco Tagliafierro. E’ una narrazione epica – per me bellissima, calibrata e sapientemente ironica – dello scontro avvenuto in Piazza S. Paolo a Roma il 6 luglio 1960 tra manifestanti antifascisti e polizia. Il punto di vista è quello di un giovane “piccolo borghese” che fa il suo primo passo politico immergendosi in una folla organizzata e decisa di lavoratori («gruppi più o meno numerosi a seconda dei cantieri di provenienza, si formano macchie di berretti di carta di giornale nella marea di teste nude»). (E. A.)
Roma, 6 luglio 1960. Quanti sono in piazza Albania gli esseri umani che oggi vogliono far sapere che sono antifascisti, che sono contro il nuovo governo formatosi in marzo con l’appoggio determinante, ora che il Partito Liberale si è defilato, del Movimento Sociale Italiano, cioè del partito neofascista? E chi è il nuovo presidente del Consiglio? Fernando Tambroni, un democristiano più destrofilo del suo predecessore, che aspira a passare per l’uomo forte di cui l’Italia ha bisogno in un momento in cui non si può tollerare che le rivendicazioni sindacali smontino il tanto sbandierato “miracolo economico”, né si può consentire che l’Italia faccia dinanzi al mondo intero la figura di un paese in preda al disordine e perciò indegno di ospitare le Olimpiadi. Sono cinquemila, sono diecimila, ancora non si può dire, seguitano ad affluire gruppi. Intanto la massa si immette nel viale della Piramide Cestia, si trasforma in corteo, il corteo avanza a passo non da funerale, ma nemmeno a passo di popolo che va a distruggere bastiglie, avanza a passo ragionevole, la ragionevolezza la fissa chi sta in testa, e in testa c’è una prima linea di deputati, che si tengono sottobraccio e formano una barriera, e sembra che questa barriera sia pronta allo scontro frontale con la barriera di un corteo procedente in senso inverso. I deputati, che la cronaca conterà (34 del partito comunista, 11 del socialista; quelli del partito socialdemocratico e del repubblicano e del radicale, messi insieme, non arrivano a 11, poi magari si scoprirà che erano più di undici), non gridano slogan, non cantano le canzoni della Resistenza, almeno non si vedono bocche aperte nel canto. C’è chi scambia parole con il sottobraccio di sinistra o con il sottobraccio di destra, o esprime una convinzione, o formula una previsione, o enuncia in frammenti una considerazione che esula dalla politica, dalla economia privata e pubblica, e va ad alimentare la immensità universale delle voci dimenticate. Il corteo marcia verso la meta nonostante in piazza Albania il commissario con la faccia azzurra abbia gridato che la manifestazione era vietata, vietata dalla sera prima. Davvero vietata? O si tratta di una menzogna poliziesca a scopo intimidatorio? Il divieto, sì, è stato emesso, ma troppo tardi è stato comunicato ai rappresentanti politici e sindacali, i quali hanno risposto: impossibile. Era impossibile avvisare la massa decisa a partecipare. La manifestazione si sarebbe realizzata comunque. Però i deputati, in ottemperanza al legalismo parlamentare, hanno risposto al divieto dicendo che non di manifestazione si sarebbe trattato, bensì di corteo commemorativo. Con quale fine? Deporre corone di alloro dinanzi alla lapide che ricorda i primi caduti della Resistenza contro il nazifascismo: caduti il 10 settembre 1943 intorno a Porta San Paolo. Ma l’indomani sarebbe stato il 6 luglio, non il 10 settembre, quindi non il diciassettesimo anniversario di quella battaglia. Fino a prova contraria le corone di alloro si depongono negli anniversari, non nei giorni di non anniversario. Così come non si celebrano i non compleanni, che sono 364 (365 se l’anno è bisesto). D’accordo, si dice nelle sedi del partito comunista e di quello socialista, non celebreremo l’anniversario, ma bisogna commemorarla lo stesso quella battaglia ogni volta che la gente si ricorda della Resistenza, e stavolta la gente se ne ricorda perché si sono rifatti vivi i fascisti. Si sono rifatti vivi a Genova.
Ed ecco come era andata. A Genova il 28 giugno 1960 si era tenuta una manifestazione per protestare contro il congresso del Movimento Sociale Italiano, ossia del fascismo morto e risuscitato, anzi, mai morto, che si sarebbe dovuto svolgere proprio a Genova. Proprio a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza? Città che tanto patriotticamente aveva lottato, proclamarono gli oratori ufficiali, contro il regime fascista storico, contro i repubblichini di Salò e i tedeschi loro complici? Un congresso del MSI quando ancora non si erano pianti e rimpianti abbastanza gli antifascisti genovesi morti? Il governo, presieduto dal democristiano Fernando Tambroni, che si reggeva grazie ai voti, appunto, del Movimento Sociale Italiano, non voleva cedere. Il congresso del MSI, scoppiasse o non scoppiasse una protesta di popolo, del solito popolo istigato da Mosca, avrebbe avuto luogo a Genova come avevano chiesto i neofascisti. Ah sì? E allora sciopero generale per il giorno 30 giugno dalle 14 alle 20. Lo sciopero cominciò con la dichiarazione trionfalistica che “La Resistenza continua”, che “Indietro non si torna”, e con striscioni similari, alcuni venati di nostalgia. La manifestazione procedette ordinata fino a metà pomeriggio, poi scoppiò quello che doveva scoppiare, ossia il finimondo. Quanti erano i manifestanti? L’indomani «l’Unità» avrebbe scritto centomila, ma era un giornale con il debole per le grandi cifre tonde, come la “Pravda” sovietica. I centomila si trovarono di fronte la polizia in assetto di guerra. La polizia obbligata a difendere i neofascisti. Obbligata a difendere la Democrazia Cristiana. Obbligata a difendere il capitalismo. Obbligata a difendere gli industriali che si arricchivano come mai più gli era accaduto dai tempi della Belle Époque, perché potevano mantenere bassissimi i salari con la scusa che c’era eccedenza di manodopera, e quindi assumere chi si contentava di guadagnare di meno pur di sopravvivere. E allora avanti, contro tanta arroganza difensiva, all’attacco! Con le mani nude, con bastoni improvvisati, con bastoni preparati e nascosti da qualche parte, con le sedie dei bar, con tavole e attrezzi prelevabili a piacere dai cantieri situati nelle vicinanze, con pali della segnaletica, con pietre, con qualunque oggetto che avesse un peso, con le mani nude. La polizia contrattaccava con lancio di lacrimogeni, col gettito degli idranti, con le camionette che andavano contro i gruppi compatti frenando un attimo prima che ci scappasse il morto, o facevano il carosello intorno ai gruppi meno compatti e allora da ognuna si sporgevano due o tre agenti che manganellavano fin dove arrivava la lunghezza di braccio più manganello. Dopo ore di battaglia, 40 manifestanti feriti, numero fornito dagli ospedali; 162 agenti feriti, numero strombazzato dalla questura di Genova per rivendicare la mitezza della polizia, che non aveva fatto uso delle armi da fuoco; 50 arrestati, numero non si sa se convenzionale o aumentabile; quante camionette rovesciate non si disse, quante incendiate nemmeno.
Primo luglio: scontri tra manifestanti e polizia in varie città d’Italia. Due luglio: Genova ha vinto. Il congresso del MSI non si terrà, i congressisti risalgono sui treni da cui erano discesi con oltraggiosa sicurezza. Tre luglio: Genova celebra la sua ultima vittoria sul fascismo con i discorsi di importanti personaggi dell’antifascismo nazionale. Quattro luglio: nessuna segnalazione raccapricciante. Cinque luglio: a Licata, in Sicilia, gli scontri tra una protesta sindacale e la polizia producono un morto e ventiquattro feriti. Sei luglio: Roma, pomeriggio, un corteo di antifascisti si dirige verso la piazza di Porta San Paolo. Questo corteo, con in testa quattro portatori di due corone di alloro che camminano senza dare segni di stanchezza; con la prima linea che dopo aver percorso la via della Piramide Cestia è ancora costituita da deputati che si tengono sottobraccio; con una seconda linea di deputati che non si tengono sottobraccio perché è la prima linea quella che fa scena; con una terza linea costituita da sindacalisti e da presidenti di associazioni patriottiche; con un seguito di ex partigiani che portano un fazzoletto rosso intorno al collo; con fazzoletti rossi intorno al collo di uomini che non sono mai stati partigiani né gappisti (da Gruppi di Azione Patriottica, Gap); con la moltitudine dei comunisti puri armati di cartelli che invitano a far piazza pulita dei fascisti; con i gruppi dei manifestanti acculturati che mediante slogan esprimono il loro culto della uguaglianza e della libertà; con la massa dei manifestanti disciplinati che sono venuti per dare manforte perché il Partito ha detto che bisogna dare una democratica dimostrazione di forza; con le donne, non molte, che accompagnano fidanzati o mariti, e con i giovanissimi che gridano di essere pronti a farla loro, una nuova Resistenza, ma non sanno come, però sono pronti a scontrarsi con la polizia e con i carabinieri che difendono i fascisti… ebbene, questo corteo, possente di numero e di voci ma tranquillo nei gesti, sbocca nella piazza di Porta San Paolo. Su tre lati della piazza c’è tanta polizia schierata come c’era in piazza Albania, ci sono tanti automezzi in attesa di impiego antisommossa come c’erano in piazza Albania, ma nessuno si muove, non c’è nessun commissario con la fascia azzurra che grida di fermarsi o di tornare indietro o di andarsene ognuno per i fatti suoi, magari lasciando per terra le corone. Il corteo ora procede a passo funerario, si va a deporre corone, mica ad attaccare briga, si va a meditare sull’eroismo inutile di soldati e cittadini romani di diciassette anni fa, mica a gridare: forza Roma o forza Lazio. Una volta deposte le corone ci sarà il prescritto minuto di raccoglimento, sarebbe bello se un trombettiere suonasse il silenzio fuori ordinanza [anche se meno struggente di quello che sarà reinventato da Nini Rosso nel 1964. Nota del Correttore di Bozze]; il silenzio delle bocche e l’immobilità dei corpi finiranno prima che termini il minuto, poi qualcuno parlerà come si usa nei comizi preelettorali, si batteranno le mani, si griderà morte al fascismo, si griderà viva la Resistenza, si canteranno gli inni della libertà e della lotta e tutto finirà.
Il corteo avanza ancora, si calcola che in meno di un minuto verrà percorso lo spazio che separa le corone dalla lapide, e che separa la prima linea dei deputati dal coronamento della loro azione dimostrativa… Ma ecco che irrompe nella piazza un rumore fatto di rumori diversi, un rumore che aumenta il volume e varia di frequenza in frequenza. Ecco che l’udito cessa di percepire suoni, è la vista che manda messaggi di allarme al cervello. È la vista che trasecola, che quasi non crede a sé stessa, mentre irrompono nella piazza una decina, no, una ventina, no, una trentina di cavalli montati da cavalieri in divisa, cioè un plotone di cavalleggeri, o di dragoni, o di ussari, impossibile assegnargli una etichetta. Hanno in testa un elmetto grigioverde e in mano uno scudiscio. Nessuno ha udito la tromba che dà il segnale di carica, ma un segnale deve pur aver infiammato i cuori dei cavalli, altrimenti non si spiegherebbe il loro entusiasmo nel lanciarsi contro i manifestanti. Si consideri pure assurda l’irruzione di trenta cavalli in una piazza in cui si sta riversando un corteo di popolo, ma quella che i manifestanti si trovano di fronte è una carica di cavalleria valida a tutti gli effetti di legge perché premeditata in alto loco, ordinata da una autorità competente, ed eseguita senza discutere. Una carica giuridicamente ineccepibile. Ineccepibile anche dal punto di vista militare? No, perché i cavalleggeri non impugnano sciabole ma scudisci. Come qualcuno ricorderà, l’ultima volta che si impugnarono sciabole e si menarono fendenti mortali fu nella carica di cavalleria sferrata il 17 ottobre 1942 dal 14º Reggimento Cavalleggeri di Alessandria contro i partigiani iugoslavi in quel di Poloj, Croazia. Fu l’ultima carica dell’esercito italiano, e forse di tutti gli eserciti. Una carica sbagliata, superflua, ma se ne fece una questione di onore e l’onore fu salvo. Come fu salvo nella penultima carica, che sarà rievocata dai giornali più patriotticamente dell’ultima, perché ebbe luogo a Isbuscenskij, in Russia.
Dove stavano i cavalli prima della carica? Probabilmente dietro il palazzo delle Poste, a meno che non siano venuti da più lontano, nel qual caso, quando il corteo è entrato in piazza di Porta San Paolo, il comandante del plotone è stato avvisato via radio che l’ora ics era scoccata, e lui ha fatto suonare la tromba. I cavalli sono partiti al trotto, appena in piazza è scattato il galoppo. Sono i cavalli in testa al plotone quelli che determinano lo sfaldamento del fronte nemico, se il nemico è costituito da uomini inermi e non da mitragliatrici. I cavalli di seconda e di terza ondata non hanno davanti più nulla di compatto che meriti un urto, per cui si sparpagliano dovunque ci siano spazi in cui zigzagare e nuclei di nemici da aggredire. Nella piazza di Porta San Paolo i cavalli in testa al plotone galoppano con tanta foga che sembrano riprodurre una delle migliori cariche viste al cinema, pare che gli zoccoli non tocchino terra, galoppano mirabilmente affiancati – così li descriveranno i cronisti – finché non sfondano la densità di corpi del corteo. Restano a terra i manifestanti che non riescono a fuggire perché si ostacolano gli uni con gli altri. I cavalli che hanno sfondato, orgogliosi del proprio successo, vorrebbero continuare il galoppo, imboccare via Ostiense, e chissà, magari spingersi fino a Ostia, fino al mare. È in occasioni come questa che i cavalli rivelano la loro ansia di libertà e il desiderio di lanciarsi in avanti, sempre più avanti, perché più avanti c’è il vuoto, mentre dietro c’è ancora tanta gente che è rimasta in piazza perché le vie di fuga sono sbarrate dalla celere. Pur avendo voglia di imbizzarrirsi, di spingere verso il cielo le zampe anteriori e disarcionare i propri aguzzini, sono tenuti a disegnare ghirigori intorno a ogni malcapitato che fugge, che sente sul collo il fiato equino, che riceve sulla testa o sulle spalle o sulla faccia o sul petto un colpo di scudiscio, che si ferma all’improvviso mentre il cavallo prosegue, che riprende la corsa mentre il cavallo torna indietro, che si ferma di nuovo, una specie di dribbling, che inverte la corsa facendo impazzire cavallo e cavaliere, ma il cavaliere non molla la possibile preda, la quale, o riceve una scudisciata tremenda che lo lascia tramortito, o si butta a terra sperando che il cavallo sia umano e non lo calpesti. È una carica di cavalleria giuridicamente ineccepibile, con la sola attenuante che i cavalleggeri, o ussari o dragoni che siano, non lanciano bombe a mano nei nidi di mitragliatrici, non strappano le bandiere al nemico, non fanno scorrere sangue a ogni fendente di sciabola. Infatti, non impugnano sciabole ma scudisci. Lo scudiscio antisommossa che ogni armato agita nell’aria prima di calarlo a folgore sul malcapitato di turno è una specie di bastone semiflessibile fatto di tendini di bue essiccati e intrecciati, che viene chiamato nerbo, con il quale è possibile assestare delle gran nerbate con effetti non devastanti ma nel complesso funzionali alla repressione dei moti di piazza. È una carica di cavalleria istituzionalmente ineccepibile in quanto ordinata dal governo, ma non si pensi che sia stata realizzata dall’Arma di Cavalleria come quelle dei film. E allora da chi? Dai carabinieri a cavallo. Addirittura dai carabinieri a cavallo? Sì. Gli stessi benemeriti carabinieri a cavallo che vengono guardati con ammirazione dai bambini e con compiacimento dagli adulti, che vanno in perlustrazione intorno ai centri urbani o passeggiano a scopo decorativo per le vie delle città, ora sono gli artefici della prima carica della Repubblica Italiana contro una moltitudine di italiani inermi. E il suo comandante, il capitano Raimondo D’Inzeo, gran cavallerizzo di fronte all’eterno, conquisterà due mesi dopo, alle Olimpiadi, la medaglia d’oro nel salto ostacoli.
Dopo il grande scompiglio creato dai carabinieri a cavallo, che i piccoli seguiteranno a guardare ammirativamente e i grandi cominceranno a guardare con diffidenza, ecco che le camionette della celere si lanciano nei loro caroselli che sono da ricordare senza rancore per la bravura sia degli autisti, che non investono quasi nessuno frontalmente, sia degli agenti che, seduti sui sedili posteriori o in piedi e sporgendosi dai bordi, trattenuti per la vita dai colleghi, ossia per il cinturone, randellano gli inseguiti senza capitombolare sull’asfalto. I deputati sono i primi bersagli, perché i poliziotti non li conoscono o non vogliono riconoscerli sebbene siano compitamente vestiti da deputati, e se ne riconoscono qualcuno comunista lo manganellano con maggiore impegno oltre che con un gusto proporzionale all’indottrinamento anticomunista ricevuto in caserma. Se l’onorevole reagisce o inveisce o proferisce nome cognome e titolo lo acchiappano in quattro gridando che non hanno tempo di verificare le sue generalità e lo caricano sul camion adibito a prigione provvisoria. Manganellano con impegno maggiore della media gli operai vestiti da operai, i muratori vestiti da muratori, così risparmiano i piccoloborghesi democratici, anche quelli eccessivamente democratici, ma almeno non scomunicati come i comunisti [la cosiddetta scomunica, comminata con un decreto del 1949 dalla Congregazione del Sant’Uffizio, nel 1960 è ancora operante. Nota del Correttore di Bozze]. Nonostante l’impegno profuso nel manganellare a tempesta, gli agenti talvolta perdono terreno, incassano pugni, calci, colpi di oggetti contundenti, sassate, piovono su di loro sassi piccoli e grossi estratti dal suolo e da non si sa dove, l’esito del confronto dialettico e materiale tra manifestanti e forze dell’ordine è incerto finché non entrano in azione gli idranti. Però l’acqua fa il vuoto da una parte e il pieno si riforma in un’altra, segno che si fugge per ritornare, per non dargliela vinta a chi combatte con mezzi meccanici moderni contro chi dispone solo delle mani, dei piedi, di qualche sasso e di qualche spranga di fortuna. Prima del carosello e dopo il carosello, c’è la caccia ai giovani fuggiti che ritornano all’attacco. Quando i gruppi di celerini o di carabinieri appiedati ne immobilizzano uno, lo consegnano ai colleghi addetti a riempire i camion di corpi contusi o feriti. Appena pieni, i camion partono alla volta della caserma di Castro Pretorio dove i corpi verranno trattati come si tratta chi oltraggia e oppone resistenza alla forza pubblica, o chi partecipa a una adunata sediziosa, o chi le ha prese ma le ha anche date, o chi ha rovesciato e incendiato una camionetta.
Orlando aveva già messo in cantiere il proposito di partecipare alla protesta, ma non relegato nel grosso del corteo come gli spettava di diritto e come era suo dovere essendo un nessuno qualsiasi, bensì in testa, se non nelle prime file sottobraccio a deputati e sindacalisti, almeno in quella dei militanti “storici”. Dire fila, però, non sta bene. Le file sono quelle che si snodano in lunghezza e sono chiamate anche code: bisogna dire riga. La riga è quella che espone facce e petti, la prima riga è quella che viene contemplata dal generale o dal capo di Stato che passa in rassegna uno schieramento. La prima riga era quella in cui durante la Grande Guerra si sceglievano gli uomini per la decimazione. Orlando marciava nella quarta riga. Quando irruppero nella piazza i primi dieci cavalli, seguiti quasi subito da altri dieci e poi, senza perdere troppo tempo, da altri dieci, anche se dieci è un numero convenzionale, anche se l’ordine di carica fu diverso, i portatori di corone si voltarono verso i deputati della prima riga come chiedendo consiglio, i deputati della prima riga che avanzavano tenendosi sottobraccio riacquisirono in un baleno la scioltezza di movimento e cercarono scampo a destra, la seconda riga si diradò e cercò scampo a sinistra, la terza si allargò e cercò scampo sia a destra che a sinistra, e la quarta, che per qualche secondo si trovò a essere la prima, fu quella su cui piovvero le scudisciate più violente, le più cariche di ubbidienza militare agli ordini ricevuti, le più motivate dalla convinzione che servissero a salvare lo Stato, o per lo meno il governo Tambroni. Nella piazza ormai non c’erano più righe, non c’era più corteo, non c’era più lucidità di decisioni, non c’era più una massa compatta, urlante, sventolante vessilli e cantante Bella ciao. C’era solo una piazza da riprendere televisivamente dall’alto di un elicottero, per vedere come i cavalli dopo la carica, dopo lo sparpagliamento dei manifestanti, andavano avanti e indietro, dirigendosi dove c’era un gruppetto di quattro o cinque, o di due o tre, o anche dove c’era uno che fuggiva solitariamente. C’era solo una piazza dove l’istinto cercava di conservare la vita, e possibilmente anche la integrità fisica, mentre in qualche testa di fuggitivo già spuntava la antropologica voglia di guerra. Per questo motivo la piazza non si svuotò come per incanto. Non tutti erano fuggiti voltando le spalle ai carabinieri: molti erano fuggiti in avanti, cioè nella parte della piazza da cui era cominciata la loro irruzione. Orlando era tra quelli fuggiti in avanti, tra i quali c’erano vari deputati e sindacalisti e fazzoletti rossi, e insieme a loro era finito tra le braccia della polizia appiedata che li aspettava al varco, che li manganellò di santa ragione. In qualche caso gli agenti erano costretti al corpo a corpo, incassavano pugni sul naso, il naso sanguinava, e quando il rapporto di forza era di tre contro uno, o meglio di quattro contro uno, i quattro manganellavano quell’uno finché non cadeva a terra, dopodiché lo prendevano a calci, anche se ormai i calci erano solo un modo per sfogare la loro rabbia per il fatto che dovevano svolgere un compito fra i più sporchi assegnati ai dipendenti pubblici, e prendevano quell’uno, ormai inerte, e lo buttavano dentro il camion degli arrestati. Uno di quelli presi quasi subito fu Orlando, che così si perse sia lo spettacolo equestre, sia i caroselli della celere, sia la tecnologia degli idranti, sia gli inseguimenti dei fuggiaschi fin nelle vie del quartiere. Uno può dire che quello fu il pomeriggio più lungo della sua giovinezza, un altro può dire che fu il più corto. Orlando andava dicendo che fu il più corto, perché fu arrestato quasi subito.
Il giorno dopo, 7 luglio 1960, cinque manifestanti furono uccisi dalle forze dell’ordine a Reggio Emilia.
Buona la prima!
Bello il racconto di Franco Tagliafierro, si intravedono gli argomenti di un prossimo romanzo: storia, politica, concretezza, ironia, sarcasmo. Le descrizioni degli assalti della polizia richiamano quadri di vecchie battaglie, da Ishuscenskij a Paolo Uccello. C’è forse anche un richiamo al futuro. Vedremo e aspettiamo il seguito