Riordiadiario Poliscritture 2012
di Ennio Abate
E’ uno dei tanti commenti che ho lasciato su LE PAROLE E LE COSE. Questo si riferisce alla discussione sul post di Mauro Piras su del 5 marzo 2012 (qui)
Questo Paese (più precisamente lo Stato che dice di governarlo), invecchiato e in declino, divora sul nascere i movimenti. Come – si dice – facesse Crono con i suoi figli. E gli intellettuali, anche quelli che su LPLC si sono interrogati pensosi su «Il destino dell’intellettuale» o su «Lo spazio della critica sociale» assecondano. È la prova (richiesta?) che hanno portato a termine «l’elaborazione del lutto utopico».
Che delusione vedere quanto sfoggio di sottile dialettica giustifica, alla fine della fiera, le scelte imposte dai più forti. O vedere fare le pulci con massicce dosi di buon senso “democratico” agli argomenti elementari (ma rozzi, localistici, antimoderni) di questi “nuovi albigesi” della Val di Susa contro cui presto si muoverà la crociata benedetta dal presidente della repubblica (in supplenza dei papi). O ascoltare la lezioncina agli studenti contro i rischi della violenza, ovviamente – a differenza di quelle dei baroni del ’68 – più paterna, tremebonda, persino sofferta.
Vorrei notare che c’è un punto (la valutazione economica e politica degli effetti della TAV) tuttora controverso. E’ grosso più della montagna che sarà scavata dopo che questa lotta verrà repressa e dimenticata dal lotofago “popolo italiano”. Ma viene dato con disinvoltura per risolto da Piras. E (con mio stupore) da Seligneri, che profetizza «i benefici reali e futuri della tav» per un’Italia finalmente “europeizzata” (ma s’è informato sulla fine del “sogno europeo”? ha visto la fine della Grecia?); e pure da Massino, che ancora – beato lui! – riesce a distinguere destra e sinistra (Repubblica è di destra o di sinistra?) e ripone fiducia nelle Istituzioni e non invece nel Popolo becero, che tali Istituzioni hanno plasmato a loro immagine e somiglianza. (Egli paventa pure l’arrivo del nazionalsocialismo o del «fascio» che, come la storia insegna, le Istituzioni del primo Novecento coraggiosamente arginarono e tennero a bada). E ancora che delusione i tremolanti dubbi che, per salvarsi l’anima di intellettuali critici, spingono alcuni a tentare in extremis la solita “terza via”: il referendum, che poteva esserci in teoria («su questo ha ragione Chiamparino: il referendum andava fatto sei anni fa, quando si è riaperta la partita»), ma non c’è stato e meno che mai ci potrà essere ora; o la “moratoria”, che non ci sarà, perché le squadre d’assalto sono già state benedette e pronte per le strafexpedition necessarie.
Se una ideale discussione habermasiana sui pro e i contro della TAV da concludere con un verdetto equanime e salvando capra e cavoli (democrazia e affari) non c’è stata, è perché tale discussione è possibile solo nella testa dei filosofi. Nella testa degli uomini reali le discussioni sono inquinate da interessi, passioni, pregiudizi particolari e generali. E la decisione è venuta. Imposta dai più forti e furbi e corruttori, adusi al comando capitalistico. Quelli, sì. che sono capaci sempre di mascherare la loro violenza gridando alla violenza (purtroppo sempre rudimentale) di quelli che devono resistere alle prepotenze dei don Rodrigo di turno. Hanno pagato e pagheranno ancora ancora di più giornali, sindaci renitenti o incerti e scienziati e opinionisti “di valore”, per averli tutti dalla loro parte. A preparare il terreno “psicologico”, proprio come si è fatto di recente con la Libia di Gheddafi. Il tutto dietro la mascherata della democrazia, che nessuno più sa strappare dal loro volto.
Che dire? Siamo ridotti a sperare che i “nuovi albigesi” della Val di Susa trovino qualche potenza “umanitaria” (A proposito Obama che ne pensa della TAV?) disposta ad appoggiare la loro lotta, com’è accaduto per le “primavere arabe” o i “rivoltosi di Bengasi”? No, questa è amara fantapolitica. La crociata è quasi compatta. Se la dovranno cavare come possono, resistendo un minuto in più o arrendendosi (come i No Dal Molin). E con l’amarezza di passare per “luddisti”, per “violenti” o tolleranti verso i “violenti”, per gente, pronta «a rinchiudersi nella logica del riot, a cercare lo scontro per lo scontro». Che schifo. Ricordatevi della favola di Esopo.
Ma insisto: e gli intellettuali critici? Tutta qua la loro capacità critica? Tutti allarmati solo e soprattutto dalla violenza degli “estremisti”, degli “antagonisti”? Tutti a raccontare i loro patemi d’animo per evitare che i “giovani” – le pecorelle innocenti – non si lascino traviare dai lupi “estremisti” (e non una parola sui lupi che van dietro e su per i Monti)? Tutti a discettare della «radicale, vertiginosa crisi della rappresentanza politica», “arcana imperii”» , a dire persino (finalmente!) che i politici «hanno perso totalmente di credibilità, dopo avere portato il paese in questo disastro», ma solo per concludere poi – (con «quale lucidità», caro Zinato? Confrontala con quella dei Marx, dei Lenin, dei Gramsci, dei Fortini, di cui vi siete disfatti carriera facendo) – che sia questa stessa classe dirigente «a farsi carico della cosa». Ma quale cosa? Della repressione! Questa è la medicina che una classe dirigente malata e confusa sa usare e userà e che non ha usato finora solo per apparire ancora sana e “democratica”.
L’unica
obiezione che mi sento di muovere (ma in disparte, evitando di “farmi
Stato”) a Stan, che voglio immaginare giovane e non scafato,
com’ero io nel ’68, è questa: ammesso che al «Movimento No Tav
interessasse proprio la produzione di quel collasso», cosa viene
dopo il collasso? O chi agirà dopo il collasso e per quale scopo?
Cos’è quell’ “altro” a cui si dedicano quelli come te, ai
quali «non interessa cercare un interlocutore nell’ambito politico
attuale» perché «sanno di non poterlo trovare»? Anche ammesso che
si arrivasse alla «de-militarizzazione della Valle e [alla]
sospensione dei lavori», cioè a una tregua, dopo che si fa?
(Da
un’eco del passato: «Non si lotta efficacemente contro
l’autoritarismo se non se ne sa il perché. Bisogna sapere in nome
di quale autorità si combattono le forme e le armi di cui si veste
l’autorità che rifiutiamo. In nome, insomma, di quale
prospettiva», F. Fortini, Il dissenso e l’autorità, «Quaderni
piacentini», VII, 34, maggio 1968, pp. 91-100)