Storia, cosmologia e fine dei tempi

di Matteo Meschiari

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Stralci:

1.

 Solo dopo due settimane di sfibrante lavoro di prelievo, trasporto, pulitura e registrazione delle tavolette, nella corte della casa della Missione cominciarono ad allinearsi ben 99 casse di tavolette predisposte per la consegna dei reperti al Museo di Aleppo. In quelle casse erano racchiusi i resti di un tesoro di documenti di ogni tipo da cui sarebbero stati ricostruiti, in decenni di futuri studi, 40 anni di storia, politica, sociale, economica, amministrativa, religiosa, di una grande città del 2350 a.C. – Ebla – che aveva aspirato senza successo a un dominio universale e di cui già intorno al 1200 a.C. si era perso ogni ricordo.

2.

Oggi la storia sta scomparendo, come un gas volatile, non solo dalle scuole ma nella stessa coscienza delle persone. Ebla era una città del Bronzo antico, prima c’era il Neolitico, e ancor prima il Paleolitico superiore, millenni e millenni che nei manuali di storia vengono liquidati in poche righe e di cui quasi nessuno avverte il peso culturale. Non crede che il recupero del senso della storia, specie di fronte alle nuove paure della fine, dovrebbe partire proprio da un racconto delle origini?

La scomparsa della Storia, o comunque un crescente spregio nei suoi confronti, tipica dei nostri giorni, deriva dalla pur raramente esplicita negazione di valore della famosa definizione antica che la Storia è “maestra di vita”. Questa espressione di forte impatto è tratta da un passo del De Oratore di Cicerone, assai illuminante nel suo insieme, in quanto il grande oratore romano rivelava quanto ritenesse essenziale la conoscenza del Passato per creare un Presente nella prospettiva di un Futuro per i suoi valori degno dell’Umanità: la Storia è «testimone dei tempi, luce di verità, vita della memoria, maestra di vita, araldo dell’antichità». Senza la Storia l’Umanità è destinata a disumanizzarsi. La Storia delle origini, del formarsi delle prime civiltà, è fondamentale per il Presente e per il Futuro, soprattutto ai nostri giorni, perché è la storia del rapporto armonioso, pur con mille varianti, tra Umanità e Natura. Questo rapporto, essenziale e ovviamente ineliminabile, tra Umanità e Natura è stato mediato, nei secoli e nei millenni, dalla Cultura e la Storia è la storia, infinita, della mediazione tra Umanità, Cultura e Natura. Oggi, una parte non irrilevante del nostro mondo, in una sorta di cieca follia, attraverso gli argomenti di una pseudo-cultura, ritiene che il progresso materiale dell’Umanità possa compiersi facendo violenza alla Natura. Ma quando l’incontro, il rapporto, l’armonia tra Umanità, la Cultura e la Natura si pongono su un itinerario in cui domina la violenza, ogni equilibrio si stravolge: la Natura, ferita in modi sempre più irreparabili, si ribella convertendo la sua neutralità positiva in catastrofici eventi negativi; la Cultura, rinnegando principi etici e scientifici che sono i suoi fondamenti, si perde in un vortice di argomenti fallaci, determinando un proprio pericoloso degrado; l’Umanità, che nei secoli ha cercato, seguendo tragitti innumerevoli, un’armonia, delicata e fragile, con la Natura attraverso la Cultura, si trova, sgomenta e attonita, a riflettere sulla probabile irrevocabilità di una rovina di cui è stata largamente causa.

3.

In che modo Ebla ci racconta questa necessità della specie di fare luogo, di ordinare lo spazio, di tenere il caos al di fuori?

Ebla, in maniera inattesa e imprevedibile anche per il suo scopritore, è stata una città che dovette apparire ai suoi contemporanei come una città di un particolare significato, segnata da un destino particolare. In un poema bilingue pervenuto fino a noi in forma sfortunatamente molto frammentaria, denominato il Canto della liberazione, che celebra con accenti mitici la sua definitiva distruzione, verso il 1600 a.C., a opera di un principe hurrita, Pizikarra di Ninive, certo alleato di Mursili I di Hatti, il famoso sovrano paleohittita che riuscì nell’impresa di conquistare prima Aleppo e poi Babilonia, Ebla viene definita la “Città del trono” e il suo re la “Stella di Ebla”. Questi epiteti indicano che per Hittiti e Hurriti Ebla era città sede di una regalità di grande prestigio, derivante probabilmente dal fatto che era la massima sede di culto di una grande dea, Ishtar di Ebla, nelle cui mani erano i destini dell’umanità. Ma soprattutto, per motivi ancora sconosciuti perché non ci sono conservati testi mitici suoi propri, Ebla deve essere stata il luogo di un’antichissima elaborata visione del mondo come un luogo, a un tempo, sede delle forze negative del caos cosmico e dell’ordine della civiltà. Nell’età degli Archivi Reali, sui sigilli dei più alti dignitari appare una figura di Atlante che sorregge sulle spalle un disco formato da quattro teste, contrapposte a coppia, due umane e due leonine: chiaramente simboliche rispettivamente dell’ordine della civiltà promossa dall’uomo e del caos della natura selvaggia.

4.

Limmaginario collettivo dell’Antropocene ci regala innumerevoli varianti di un mondo senza di noi, dove persone e civiltà sono l’ombra di ciò che erano. In scala archeologica questa lezione è la norma: gli imperi crollano. Il crollo può essere lento o improvviso, ma le civiltà prima o poi scompaiono. Quello che mi pare interessante è che il lavoro dell’archeologo consiste nell’operazione inversa: partire dalle rovine per restaurare una visione “preapocalittica”, restituire all’immaginario del proprio tempo la vita meravigliosa e complessa di un gruppo umano prima della sua fine. Lei pensa che oggi ci sia bisogno anche dello sguardo dell’archeologia per restaurare la visione di un presente in frantumi?

L’Archeologia è una disciplina di un grande fascino, spesso ritenuto tanto bizzarro quanto incomprensibile. Ma di questo fascino vi sono ragioni non banali. L’Archeologia è l’unica disciplina in cui le scoperte sono squisitamente fisiche: nell’archeologia militante, l’archeologia sul campo, ciò che prima era “coperto” dal deposito archeologico, viene materialmente “scoperto” con la sua rimozione. L’Archeologia è una delle pochissime discipline, umane o naturali, in cui l’operatore, che sia un esperto direttore di Missione impegnato in una complessa strategia di scavo o il più giovane responsabile della più limitata unità operativa, agisce sempre in una continua e ineliminabile interazione tra lavoro mentale e lavoro manuale, unico antidoto all’alienazione del lavoro tipica del nostro mondo contemporaneo. L’Archeologia, soprattutto, è la disciplina in cui si opera costantemente, nell’analisi del più modesto ritrovamento singolo come nell’interpretazione dei più complessi rinvenimenti nel terreno, seguendo un itinerario che oscilla necessariamente tra Identità e Alterità, in quanto ogni ritrovamento di qualcosa prodotto dall’uomo ha aspetti di familiarità che inducono a far prevalere nella valutazione l’Identità, ma, al tempo stesso, ogni ritrovamento, per il suo semplice collocarsi in un passato anche prossimo, ha aspetti di Alterità perché il suo contesto non è quello della contemporaneità. L’itinerario tra Identità e Alterità nell’esaltante momento del giudizio di valutazione storica è un percorso interpretativo rischioso, perché se si privilegia il versante dell’Identità si può cadere nella banalizzazione e perfino nella falsificazione, mentre se si esalta il versante dell’Alterità può accadere che la comprensione sia difettosa, manchevole, incompleta. L’Archeologia, che per questi ultimi motivi ho spesso definito una “scuola di tolleranza” offre “uno sguardo”, come lei dice, ancor più che opportuno, necessario nel nostro “presente in frantumi”, perché l’Archeologia opera, in ogni occasione, per recuperare realtà scomparse, vicinissime a noi o a noi remotissime, che sempre contribuiscono ad arricchire la Diversità Culturale. E se è vero, come è vero, che la Diversità Culturale, come è stato limpidamente proclamato dalla Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale dell’Unesco di Parigi del novembre 2001, è una ricchezza irrinunciabile e un patrimonio da conservare dell’Umanità, non v’è dubbio alcuno che l’Archeologia sia in prima linea su questo fronte, sempre aperto, che questa ricchezza tende a negare.

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