La morte di Meeten Nasr (Sergio Chiappori) è stata per me l’occasione di un ripensamento della sua figura (qui) e della sua poesia (qui). Che restano inseparabili , però, dal tentativo di un gruppo di poeti attivi soprattutto a Milano, i quali, a partire dal 2003-2004 e sotto l’egida di Giampiero Neri, promossero la rivista di poesia “Il Monte Analogo” dalla vita contraddittoria e breve(l’ultimo numero, il 13, uscì nel 2011). A distanza di tanti anni intendo, comunque, riflettere pubblicamente sul senso di quella esperienza, alla quale partecipai come direttore fino al n. 4 (maggio 2006), sostituito poi proprio da Meeten Nasr. Cosa impedì ai suoi redattori di amalgamarsi quel tanto che serve in ogni gruppo per confrontarsi e consolidare un progetto? Pubblico qui una mail che mandai ai redattori il 10 ottobre 2006, che chiarisce con riferimenti concreti quello che era per me il problema irrisolto della rivista. Non ho nessun intento di rinfocolare una tardiva e sterile polemica. M’interrogo e invito chi fosse interessato a interrogarsi sulla crisi tuttora irrisolta della poesia. Proprio partendo da un’esperienza fallita come questa. Pubblicherò volentieri tutti gli eventuali contributi critici che dovessero giungere a Poliscritture (poliscritture@gmail.com) . [E. A.].
Mail di Ennio Abate alla redazione de “Il Monte Analogo” (10 ottobre 2006)
Cari amici e amiche del Monte Analogo,
vorrei spiegare pubblicamente (in privato l’ho già fatto con R.) la ragione immediata e quella più profonda che mi hanno spinto a fare delle obiezioni alla sua richiesta di co-presentare il n. 4 della rivista assieme a me; e a parlare di direttore “sotto tutela”.
La ragione più immediata è quasi banale: perché due introduzioni o due presentazioni? Uno presenta (e può essere benissimo R. che lo fa ormai quasi “di mestiere”), ma possono essere anche altri redattori a turno: basta che si facciano avanti, come fece L.B. presentatrice del n. 3 alla Sala verde della Corsia dei Servi o O.R. per lo stesso numero alla Rizzoli; ecc.). Confesso che ho temuto che R. volesse intervenire anche per smentire o accomodare – come ho scritto – quello che io avrei ancora detto sulla falsariga dell’editoriale del n. 4. R. mi ha chiarito la sua posizione e il mio timore è venuto meno. Quindi problemi per questa presentazione non ce ne sono.
La ragione, però, più profonda e ben più seria riguarda invece proprio il contenuto del mio intervento, che avrebbe ripreso l’editoriale del n.4 [Cfr. Appendice], il quale – è bene ricordarlo – fu all’inizio contestato (soprattutto da M. e R.) e fu poi pubblicato grazie a un compromesso “neriano”: io lo firmavo e i contestatori palesi (e magari anche quelli occulti) si sentivano più tranquilli e distanziati dalle opinioni lì espresse. Il problema sussiste tuttora ed io non voglio eluderlo, anzi ve lo pongo apertamente in questa lettera chiedendo a tutti/e di andare fino in fondo e di non cavarsela col silenzio o il diplomatismo. Soprattutto perché la rivista si trova di fronte a decisioni importanti da prendere e già i due primi incontri con i possibili editori fanno apparire ancora più urgente un chiarimento, che riguarda la mia persona ma anche tutta intera la redazione.
Si tratta in sostanza dell’indirizzo o dell’identità che la rivista deve avere (e che non ha ancora, secondo me). Personalmente fin dall’inizio ho fatto vari tentativi per definire questo indirizzo o identità4. Oggi mi sento di dover arrivare a un bilancio dei miei sforzi e a trarre delle conclusioni. Quali?
Devo ammettere di essere, per usare la formula di M., un direttore presunto o, per essere più preciso, un direttore apprezzato o accettato per i compiti organizzativi che svolge (conduzione delle riunioni di redazione, verbalizzazione della discussione che vi si svolge, ecc.), ma ostacolato o appena ascoltato o ignorato per quanto afferma sull’indirizzo o identità della rivista. Questa scissione per me poco piacevole tra direzione organizzativa e direzione culturale, che dovrebbero invece saldarsi, indebolisce sia la comunicazione tra me e voi sia il grado di collaborazione che una redazione dovrebbe esprimere.
In questi anni ho accettato, un po’ a malincuore, un po’ pazientemente, che comunicazione e collaborazione con ciascuno di voi si svolgessero quasi prevalentemente sugli aspetti organizzativi della rivista. Ho sperato che col tempo si potessero estendere anche ai campi fondamentali per una rivista: quelli riguardanti le pratiche poetiche che ciascuno di noi porta avanti, le idee che ha della poesia e del suo senso, i giudizi sullo stato della poesia italiana contemporanea, gli obbiettivi che il nostro gruppo-rivista si propone di raggiungere. Il passaggio però non è mai avvenuto e non intravedo al momento spinte interne decise anche solo a tentarlo.
Avevo scritto nell’ottobre 2005, rispondendo all’inchiesta di L’Ulisse/ Lietocolle libri:
Fare rivista ci pare comunque una scelta ancora valida. Significa, certo, intervenire nel dibattito in corso sulla poesia e prendere posizione, indurre alla riflessione e all’aggiornamento, conoscere in modo approfondito le linee e le tendenze del panorama culturale attuale, stimolare il lettore nell’analisi critica, senza direttive monolitiche. Ma fare rivista implica oggi soprattutto impegno per uscire e fare uscire molti dalle proprie solitudini e confrontarsi con altri/e. Compito urgente della nostra, ma anche di ogni rivista che si rispetti, pare proprio quello di funzionare da cerniera tra il momento della ricerca in solitudine dei singoli poeti e il momento dell’incontro con gli altri, diventando scuola di cooperazione, nella quale ciascuno può imparare, se vuole, dagli altri su un piano di rapporti paritari, malgrado differenze di orientamenti e tensioni inevitabili. Questa uscita dal proprio io per arrivare al confronto con altri/e su quanto ciascuno scrive e su quanto gli altri scrivono o sui modi di interpretare o sulle idee di poesia non è automaticamente garantita dal fare rivista. Ma la rivista può essere un’occasione per mettere in comune e trasformare quello che spesso da soli appare immutabile. La fondazione de Il Monte Analogo e gli impegni pubblici che ne sono seguiti non ci hanno portato però alla negazione o sottovalutazione della dimensione solitaria e singolare che è propria della ricerca poetica. (Per alcuni aspetti i poeti sono monaci che, partecipando a una rivista, abbandonano solo in parte il loro abito). La tensione esistente tra solitudine e cooperazione resta. Ma sarà positiva quanto più si avrà la consapevolezza di evitare nel confronto sia le tentazioni solipsistiche ed elitarie sia le scorciatoie della «burocratizzazione della poesia». Se prevalessero, una rivista diventerebbe amministrazione (fallimentare) di una rendita culturale imbalsamata, gestione del reclutamento di adepti, promozione antologica dei propri amici e conoscenti. Solipsismo e burocratizzazione non hanno nulla a che fare con la dialettica inquieta ma costruttiva tra la ricerca poetica più orientata allo scavo nell’interiorità, nell’inconscio, nell’esistenziale o nella dimensione metafisica e ricerca proiettata verso la storicità, la socialità, la materialità e quotidianità del vivere. Questa dialettica ha caratterizzato la poesia per tutto il Novecento. Noi la ereditiamo e la dobbiamo vivere a fondo e, se possibile, oltrepassare.
A distanza di un altro anno devo dire che quel plurale era tutto idealistico: queste idee restano mie e solo mie; e non sono state né riprese né discusse o contestate. Si preferisce, credo, convivere diplomaticamente, vicini/distanti al contempo: ciascuno/a si fa le sue cose altrove; e più o meno una volta al mese ci s’incontra come redazione e si scambiano – pacatamente o con punte d’ira – alcune opinioni sulle questioni più urgenti e immediate.
Con tale passo Il Monte Analogo più che «funzionare da cerniera tra il momento della ricerca in solitudine dei singoli poeti e il momento dell’incontro con gli altri, diventando scuola di cooperazione», come io auspico, funziona da classica rivista-contenitore di quello che gira nei nostri circuiti amicali; e la redazione resta un noi precario, non sostenuto a sufficienza o troppo parzialmente, a mio parere, dagli io dei componenti la redazione. Ciascuno dà “quello che può”, cioè poco.
Vi dico onestamente che, fatta la tara sulle incombenze quotidiane in cui ciascuno/a è assorbito/a e sugli impegni di lavoro, mi resta una brutta impressione: che molti degli Io-redattori danno poco non per le suddette incombenze e i suddetti impegni lavorativi, ma perché condividono il modello o la moda di un diffuso nomadismo individualistico. In altri termini preferiscono spendere le loro energie “libere” dovunque sia possibile autovalorizzarsi individualisticamente; e cioè nelle numerose iniziative culturali metropolitane e provinciali che varie istituzioni e l’industria culturale abbondantemente offrono.
Ho anche un’altra brutta impressione: che una rivista come Il Monte Analogo risulta ai loro stessi occhi uno dei tanti contenitori dove deporre qualcosa (un saggio, delle poesie, ecc.) che si potrebbe deporre altrettanto in altri contenitori. E questo a me pare valga anche per i saggisti e i poeti affacciatisi nella nostra rivista.
Ritengo questo capriccioso e narcisistico nomadismo qualcosa di intellettualmente poco vitale e poco fertile per i singoli che lo praticano. Ma frenante soprattutto per le riviste che l’accettano o lo subiscono, perché viene dilazionato o rimosso il problema che un gruppo-rivista ha di definire meglio sia i punti di contatto che i punti di dissenso dagli altri gruppi-riviste, di allearsi o magari polemizzare con questa o quella istituzione, ecc. Ciascuna rivista finisce così per accudire più o meno sbadatamente al proprio orticello, accoglie lo stesso concime o quasi accolto in altre riviste. Quanto al singolo autore credo che per lui sia normale che, in assenza di alberghi-riviste a 5 stelle che lo invitino, si adatti anche a pensioni-riviste a 3 o 2 stelle. Ed è ben poco interessato a capire che aria tira in esse, che problemi si affrontano, che intenzioni o progetti si perseguono.
Il Monte Analogo, che per il momento fa parte delle pensioni-riviste a 2 o 3 stelle, può disinteressarsi della gerarchia vigente nel mondo culturale (e poetico) e accettare senza batter ciglio, acriticamente, il concime che viaggia un po’ dappertutto nelle pensioni-riviste a 2 o 3 stelle? Secondo me, no. Penso che ci voglia un mutamento di stile nei nostri rapporti interni e nei rapporti con l’esterno. Per quest’obiettivo lavorerò come direttore se da una buona parte di voi mi verranno segnali inequivocabili. Se invece dovessi convincermi che queste idee devono restare inerti o pura decorazione della prassi vigente della rivista, mi dimetterò senza prolungare più oltre il mio e magari il vostro disagio.
Appendice
Editoriale del n. 4 (maggio 2006)
FOTO DI GRUPPO CON RIVISTE
di Ennio Abate
Nell’ottobre 2005 Il Monte Analogo ha risposto con altre 26 riviste italiane di poesia a un questionario di 13 domande proposto da L’Ulisse, rivista on line diretta da Broggi, Dentati e Salvi. I risultati dell’inchiesta si leggono sul n. 5-6 della rivista nel sito www.liecollelibri.com/ulisse. È come rivedere Il Monte Analogo in una foto di gruppo. Analizzandola, sono spinto a un sano relativismo: riesamino il nostro operato alla luce di quello altrui e colgo il lavoro d’insieme svolto da un campione significativo di persone che a vario titolo si occupano oggi in Italia di poesia. Mi accorgo di quanto le ricerche attuali siano varie e dense di problemi. Vediamo con ordine.
Ho annotato pazientemente le dichiarazioni di programma (o di poetica). Vanno dal recupero del simbolismo in polemica con le neoavanguardie (es. Anterem, Smerilliana, Atelier) alle aperture socio-antropologiche (es. Atelier, Clessidra, La mosca di Milano, Pagine, Polimnia, Annuario, Le voci della luna); dal ripensamento critico (o storico-critico) dello spazio letterario o poetico (es. Kamen, Il segnale, Hebenon, Tratti) alla volontà di relazionare la poesia con l’extra-letterario, sociale e a volte politico (es. Daemon, La gru, Pagine zero, Re, Semicerchio, Versodove, Nuovi argomenti).
La differenza più forte la vedo tra le riviste dov’è prevalente o esclusivo l’interesse per la poesia (ad es. Anterem) o la critica (ad es. Kamen, Hebenon) e le riviste che non perdono di vista l’extraletterario. (Neonata, Il Monte Analogo, col suo sottotitolo rivista di poesia e ricerca, forse sta a mezza strada tra i due poli). Ma diversità e sfumature si colgono nella gestione organizzativa, che – sempre secondo le dichiarazioni e per esemplificare – ha forme varie: collegiale (Il segnale), iperindividualista (Steve), artigianale (Atelier) o professionale (Tratti). E pure tra riviste che si rivolgono a un pubblico non specializzato (e a lettori-scrittori sentiti su un piano di parità coi redattori) e riviste attive in ambiti universitari ed editoriali o legate ai mass media e a grosse istituzioni (Nuovi argomenti, Re, Semicerchio). Queste ultime sembrano avere col pubblico un rapporto più verticale e gerarchico.
Tra le questioni aperte, spesso comuni a varie riviste, ricorrenti sono: la critica all’accademia o alla grande editoria (a volte con accentuazioni esasperate e moralistiche: Atelier, Hebenon, Clessidra); la volontà di misurarsi con la «globalizzazione», aprendosi alle letterature straniere o alle cosiddette letterature “minori”; il bisogno di confronto e di dialogo (talvolta enfatico e astratto); l’investimento (poco problematico) sul valore etico della poesia (Atelier, Versodove); la pluralità delle ricerche in corso (accolta ora con generosità ora con sospetto). Mi colpisce il fatto che un tema di grande attualità impostosi col femminismo – quello della cultura della differenza – sia dichiarato centrale solo da Voci della luna, appare aggiunto ne Il Segnale ed è poco palese in altre riviste.
Alla fine spengo il computer. Ho perso tempo? Sono stato troppo meticoloso nel tentare questo rendiconto? In realtà provo solo un leggero disagio constatando che, anche stavolta, sia pure su un sito del Web molto frequentato (dai poeti!), le riviste sono state per così dire esposte “in vetrina”, ma ciascuna è rimasta nella sua bella celletta. Mi viene allora spontaneo porre una questione: a quando un dialogo non diplomatico, un confronto critico tra riviste (o almeno tra alcune di loro)?
Non mancano, infatti, le questioni che, affrontate francamente, permetterebbero di abbandonare una sorta di privatizzazione competitiva della ricerca poetica che serpeggia in certe risposte. E penso che sia possibile mettere in comune (e non solo in poesia) l’esperienza effettivamente plurale eliminando la coltre deformante del pluralismo di facciata. Lo fanno da tempo e con ottimi risultati – mi dico – microbiologi, genetisti e altri scienziati. Si sono convinti prima, e più dei poeti e dei letterati, che il sapere e l’informazione vengono prodotti da persone capaci di cooperare in collettività aperte e dinamiche. Questo principio vale anche per la poesia; o, a essere prudenti, almeno per il lavoro delle riviste. La natura sociale e comune della produzione odierna mette sempre più alle corde ogni privatizzazione dei saperi. E mi chiedo – sarà lo spirito del tempo o piuttosto la trasformazione del lavoro e della società – se questo non valga anche per poeti e critici.
Come mai, infatti, tanti singoli oggi tendono a fare rivista? È indubbio che si accetta più facilmente di “fare gruppo” (fare rivista è questo). Così i singoli sentono di anticipare qualcosa che li arricchisce e si misurano al meglio nel rapporto con il resto (chiamatelo come volete: materia, mondo, società, inconscio, moltitudine, altro).
Scetticismo e individualismo sono però sempre in agguato. Le redazioni restano spesso recinti patriottici e settari o palestre (a volte persino ring) per poeti e critici. In esse contraddittorie esigenze arrivano a volte a buone mediazioni, a volte colluttano. Ma l’individualismo romantico è acqua passata (molto inquinata e mitizzata, tra l’altro!). E convincono di meno anche i due modelli estremi, contrapposti e a loro modo classici, della storia delle riviste novecentesche – quello incentrato sulla forte personalità dell’Autore e quello avanguardistico solo apparentemente collegiale (i futuristi, la neoavanguardia, ecc.). Ripresi di tanto in tanto, paiono non reggere di fronte al presente, che lo si voglia intendere in convulsa transizione dal moderno al postmoderno o come disagio di civiltà senza sbocco rassicurante.
Cosa ne verrà fuori per il mondo e per la poesia? Non lo sappiamo. L’esperienza però dimostra che, se le riviste resistono, di solito acquistano in saggezza e in capacità di metamorfosi: il singolare si coniuga col plurale in forme meticce; e alla fine – se venti favorevoli spirano portando aria fresca – l’io dei redattori sarà meno io (chiuso, narcisista, a tutto tondo) e il noi della redazione meno noi (superegoico, rigido, burocratico).Posso sperare, dunque, che si passerà dalla foto di gruppo fatta da L’Ulisse a un fotografarsi e parlarsi reciproco? Sarebbe un bel passo avanti.
RIORDINADIARIO/MOLTINPOESIA
Prima de “Il Monte Analogo”
28 giugno 2002
Lettera a C. su moltitudine e poesia
Caro M. C.,
ti ringrazio per le osservazioni al mio scritto.
Vorrei rassicurati circa i timori che mi pare di cogliere in alcuni passaggi della tua lettera. Gli incontri in preparazione sulla poesia fra i redattori milanesi di INOLTRE e alcuni poeti, proprio perché seminariali e d’approfondimento, dovrebbero evitare le «battaglie da pollaio». Lascio da parte la questione del «successo letterario», estranea alle mie ambizioni (su questo punto credo di essere, con tutte le conseguenze anche negative, un asceta, un eremita). Invitando voi, che comunque avete pubblicato e conoscete dal di dentro (o più da vicino) i meccanismi di selezione e riconoscimento di editoria e accademia, non ho inteso tendervi una “trappola” per dar sfogo ai latenti (e pur presenti, lo sai bene) mugugni di poeti o scrittori “non ufficiali” contro altri “ufficiali”. Sono convinto, quanto te, della ingenuità di una manichea divisione tra ufficialità e non ufficialità e in quel che scrivo e faccio credo di contrastarla decisamente. Meno convinto, invece, resto sulla inutilità di una fortiniana «verifica dei poteri» delle corporazioni (o, se la parola infastidisce, degli aspetti istituzionali ed organizzativi sui quali la poesia pur poggia; a meno di non vederla come colomba spirituale che volteggia sulle umane miserie e si posa imprevedibile sugli eletti ora in un casolare di montagna ora in un vicolo napoletano ora in un ufficio metropolitano). Riconsiderare gli aspetti “materiali” e “socio-istituzionali” del fare poesia può sembrare oggi superato. Tu giustamente sottolinei alcuni dati che scoraggerebbero un impegno in tal senso: le corporazioni «ci sono sempre state, e semmai peggiori; chi è dentro ha più o meno lo stesso ascolto di chi è fuori. Vale a dire sostanzialmente nullo;mai la ricerca letteraria che conta ha avuto un vero pubblico»; e comunque, malgrado le corporazioni, i poeti veri (Fortini, Penna, Sereni, ecc.) «non sono mai stati trascurati». Di mio aggiungerei addirittura altri inconvenienti. Ad esempio, che questo tipo di ricerche potrebbero dar la stura a chiacchiere sui poeti, sulle biografie, sulla dimensione sociologica della poesia a scapito delle questioni più interne ( formali, psicologiche, linguistiche, stilistiche, interdisciplinari, tecniche, metriche, di rapporto con il “mondo”, la “realtà”, ecc.). Eppure, malgrado queste nubi incombenti sulla serietà dei miei intenti, credo che serva oggi una riconsiderazione della poesia in grado (se ne fossimo capaci!) di criticare con ponderazione sia la routine accademico-editoriale, che si è ritagliata prevalentemente la trattazione specialistica – spesso raffinata e ammirevole – degli “interni” della poesia, trascurando boriosamente o stoicamente o cinicamente le crepe della sua facciata, il crollo dei cornicioni, ecc., sia l’ossessiva e tumultuante ripetizione di arrembaggi inconcludenti da parte di esclusi o rampanti: dotati o meno, scrittori in ombra o scriventi, bisognosi di terapie più che di poesia o termometri di un disagio vero non solo esistenziale ma anche del sapere poetico (e, in generale, letterario o artistico o umanistico).
E proprio per incrociare e far valere alcune delle esigenze che tu pure – mi pare con una certa disperazione – hai presente (quando parli di «un qualunquismo e una confusione generale organizzata»; o quando sottolinei che «chi pur sta dentro se la vede brutta»).
Perciò, malgrado le obiezioni, la tua lettera mi incoraggia. Sei scettico sull’ «esodare» e mi poni la questione: «come si fa a uscire quando non si è davvero dentro? Quando nessuno ti vuole davvero dentro?». Qui censuro la mia molla “utopese” che si troverebbe forse in attrito (e a mal partito) col tuo lombardo realismo. Intendendo il termine «dentro» da te usato non semplicemente riferito – che so – ad un’istituzione, ad un ambito pubblico visibile, mi limito per il momento a constatare che siamo tutti «dentro» un affanno esistenziale e storico che ci impone, appunto, «mercato» o «lamentazione». L’esodo forse deve essere da questi due ghetti: uno oggettivo (terribile!) e l’altro soggettivo (logorante fino alla follia).
Un caro saluto
Ennio
P.s.
La mia riflessione su questi temi è andata nel frattempo avanti. E stimando la tua opinione, mi permetto ancora una volta di inviarti in allegato un altro lungo scritto, dove mi pare di aver toccato anche alcuni dei punti sui quali tu mostri perplessità. Senza fretta, ti chiederei la fatica di una lettura e, quando i tuoi impegni o le vacanze (suppongo imminenti) permetteranno, volentieri accetterei la tua offerta di parlare a voce di entrambi gli scritti.
Grazie di tutto.