di Luigi Greco
Questi brani sono tratti da «Ziantò (e nonna Lenuccia)» un bel libro, per ora inedito e a circolazione amicale, di memorie familiari che s’intrecciano con quelle della storia di una citta del Sud, Taranto, dai primi anni del Novecento ai Sessanta. Ziantò e la moglie Lenuccia – le due leggendarie figure rievocate con affetto e con toni da narrazione popolare dal nipote Luigi Greco, autore del libro – attraversano gli anni duri del fascismo, quelli della sua capitolazione e quelli del dopoguerra e della ricostruzione. E compaiono con i tratti netti e senza fronzoli o ambivalenze della umanità resistente di quell’epoca: lui, militante anarco-comunista assuefatto alle dure leggi della clandestinità antifascista ma anche spirito beffardo e capace di ironia e generosità anche contro chi lo perseguita; lei, di formazione cattolica e più esterna all’ideologia antifascista del marito, ma altrettanto combattiva e, pur sempre accanto a lui, capace di indipendenza femminile. Faccio notare che Ziantò è il padre di Michele Turi, che ho ricordato qui. [E. A.]
1
Non ho mai conosciuto, né avuto notizie del terzo fratello. La nonna lo aveva allontanato da molti anni dalla famiglia: in quanto dirigente del PNF si era prestato ad una truce manovra contro Antonio. Fu tale l’ostracismo che non era mai citato nelle discussioni. Semplicemente, non esisteva. D’altronde, anche suo padre don Cosimo non esisteva più. Egli si era convinto (forse per non avere rimorsi) che i due, Lenuccia ed Antonio, non fossero più insieme per amore. Durante il periodo fascista il nonno subì arresti, condanne al confino e così via. Quando accadeva, lei ed i figli nati fino a quel momento si trasferivano nella grande casa di don Cosimo e se ne tornavano a casa loro al ritorno del “pericoloso” antifascista. In occasione del secondo o terzo (?) arresto, don Cosimo parla a sua figlia Maddalena. Il succo del discorso è: “ho parlato con tuo fratello. La soluzione del tuo problema è semplice. Quando tuo marito rientrerà a casa, uccidilo. Tuo fratello, grazie all’influenza che può esercitare, ti farà nominare eroina del PNF, in quanto hai eliminato un pericolo sovversivo, ti farà dare un vitalizio e, quindi, potrai rifarti una vita”. La reazione di nonna Lenuccia fu una sola, si alzò, prese i figli e se ne andò, dicendo al padre che quella sera lei era diventata orfana ed aveva perso anche un fratello. Questo ci spiega perché nessuno dei figli di Antonio e di Lenuccia fu chiamato Cosimo, pur essendo i due strettamente legati alla tradizione per cui i figli dovevano chiamarsi come i parenti più prossimi secondo una stretta gerarchia. La nonna acconsentì che la figlia femmina ultima nata si chiamasse Angela, come sua madre. Nessun Cosimo, però: su questo fu irremovibile e ruppe, così, la legge non scritta del rispetto del clan familiare.
Antonio e Maddalena si incontrano casualmente ad una festa dei ferrovieri. Egli era stato assunto in ferrovia ed era aiuto macchinista con capo don Cosimo. Alla gita il capo era arrivato con la sua famiglia compresa questa ragazzina di sedici anni, senza grilli per la testa ed osservante dell’onore della famiglia, pia e religiosai Maddalena aveva anche uno zio vescovo, che a sua volta aveva il privilegio di poter mandare suoi parenti in seminario senza che le famiglie avessero oneri finanziari a loro carico. 4. Grosso modo siamo nel 1912. I due si conoscono e, secondo la leggenda che li ha seguiti fino alla loro morte, si innamorano di colpo. Antonio era conosciuto come un grande sciupafemmine, ma di fronte a Maddalena è un timido che la guarda e tace, finché Lenuccia, con inconsueto ardire, taglia una fetta di anguria, rossa come il fuoco, e dice a quel giovane taciturno “Ma la volete una fetta di mellone?”. E’ fatta. I due iniziano a parlare ed a cementare la loro recentissima conoscenza. E l’amore continua a fiorire. Ricordo che i miei zii più giovani, Angela detta Lina e Nicola, dicevano che tutto sommato loro erano nati per una fetta di anguria. Alcuni raccolgono le confidenze di Antonio ed i loro commenti sono grosso modo così: “ma cosa ti sei messo in testa, quella è la figlia del capo, mica una delle tante zoccolette che frequenti”. Ma è amore con la a maiuscola, finché Antonio ne parla con don Cosimo, il capo, che gongola perché Antonio è un buon partito. Lavora anche lui in ferrovia, quindi posto fisso e stipendio adeguato; è un bel giovane e non sfigura al fianco di Maddalena. Unico problema, lei è giovane, lui ha dodici anni in più. Il giovane ha buone intenzioni, lei innamorata: non si può dire di no. Che vuoi, lui parla di abolizione dello stato e di governo del popolo, legge libri strani di Bakunin o di Errico Malatesta o di Pietro Gori, ma non ha la capa fresca, è un gran lavoratore. Il concordato Stato-Chiesa non esiste ancora e, quindi, tutti gli sposi devono sottoporsi alla doppia cerimonia. Don Cosimo, da perfetto pater familias, decide tutto lui, prima la cerimonia civile, dopo quella religiosa con zio monsignore che officerà. Antonio viene informato, ma non replica; sembra che abbia accettato la situazione. Antonio è già conosciuto nella Taranto politica, è un bravo allievo di Damiano Lachiesa, suo coetaneo e capo degli anarchici jonici. L’allora sindaco di Taranto svolge la cerimonia civile a casa di don Cosimo, che ovviamente è onorato di tale fatto, credendo che il sindaco fosse lì per lui e non per Antonio. Un festeggiamento di tono ridotto, i genitori degli sposi, i testimoni ed il sindaco. Arrivano in ogni caso telegrammi di auguri da amici e colleghi ed uno da zio monsignore, che, dopo essersi profuso in auguri e benedizioni, 7 chiede di sapere la data della cerimonia religiosa per poter programmare i propri impegni pastorali. A specifica domanda del suocero, Antonio chiede di quale cerimonia si sta parlando. “Del tuo matrimonio” esclama don Cosimo agitato. “Ma io sono già sposato, da oggi” è la replica di Antonio, calmo. “Tu questa donna, mia figlia, non l’avrai mai. Prima in chiesa!”. Vogliamo mettere: in quella famiglia timorata di Dio, con uno zio vescovo, una bestemmia simile. E vogliamo ancora mettere, dove va a finire l’autorità del capo famiglia? Raccontano che Antonio, con calma, finisce di mangiare, poi si alza e sempre con calma saluta i presenti, ringrazia il sindaco per l’onore che gli ha fatto (immaginiamoci don Cosimo, che si sente sputtanato fino alla fine), si avvicina a Maddalena, le dice “ci vediamo, Lenuccia” e va via nello sgomento di tutti e seguito dalle lacrime di Lenuccia. I due uomini si trovano al lavoro il giorno dopo sul treno che devono condurre, come ogni giorno, dalla stazione di Taranto ad un’altra. Alcune ore di tormento, ma solo per il capo. Antonio è taciturno come sempre sul lavoro, don Cosimo freme finché esplode: “quella piange, tu non parli ed io che figura faccio?”. Un pater familias umiliato non esiste, non può esistere. Invece sì. Antonio con calma gli risponde “io avevo preso un impegno, sposare Lenuccia, e l’ho fatto. Non so che altro volete da me” Si va avanti così per sei mesi, finché una mattina don Cosimo si presenta presto a casa di Antonio con Lenuccia e dice “affanculo tu e lei e zio monsignore”. Il matrimonio religioso non si farà né allora, né mai. Come diceva il nonno “il matrimonio non lo fa il prete né il sindaco, lo fa il letto”. Almeno così le mie fonti mi hanno detto per anni. Don Cosimo si prese comunque la sua vendetta religiosa. Approfittando di un arresto di Antonio, raccolse un paio di nipoti, li portò in chiesa e li fece battezzare da un prete compiacente, senza tutti i fronzoli di un battesimo regolare. Sfuggì a questa vendetta il figlio Michele, che si rifiutò con forza. Dovette, però, da adulto farsi battezzare, altrimenti non avrebbe potuto sposarsi. Saputo il fatto, Antonio raggiunse con Lenuccia un compromesso. I nati successivi potevano essere battezzati come rispetto del credo della nonna, ma senza la sua partecipazione né ai preparativi, né alla cerimonia, né a nient’altro: egli restava fondamentalmente ateo.Nel 1914 nasce il primo figlio, Michele, e nel 1915 la figlia Lucia così chiamati in onore dei genitori di Antonio. Poi, nel corso degli anni e nonostante le peripezie dovute alle attività di antifascismo militante che i due coniugi svolgono, nascono in totale undici figli, di cui sette saranno viventi a lungo. Oggi sopravvivono, al momento della scrittura di queste note, Lucia, mia madre, che ha raggiunto i 103 anni, e Nicola di 88 anni. Gli altri si sono spenti nel corso degli anni dopo aver messo su famiglia con relativa prole, salvo zia Cornelia.
2.
Nel 1929 in occasione di una riunione, ovviamente clandestina e dedicata ai temi dell’organizzazione del partito in terra jonica, i compagni della segreteria clandestina gli propongono di assumere l’incarico di segretario provinciale del PCI. Antonio, ancora una volta, è vittima delle sue contraddizioni, l’anarchico libertario e l’organizzatore di uomini. Accetta l’incarico, ma a condizione che egli vi decada alla liberazione di Voccoli, il vero capo dei comunisti jonici. Trovato il compromesso, il PCI riprende il suo lavoro clandestino che irrita l’OVRA, la polizia segreta del fascismo. Aumentano i controlli, i fermi, gli arresti, le condanne al confino o il deferimento al Tribunale Speciale. Nostro nonno passa attraverso tutto ciò, salvo il Tribunale Speciale perché le accuse sono decadute nel frattempo. Antonio decide di mettere un po’ di humour nelle sue azioni. Così, quando arrivava a casa la squadra per l’arresto, egli chiedeva di potersi preparare: si ritirava in bagno, si radeva, si lavava, ma tutto ciò con molta calma. Si sa, ragazzi, dove stiamo andando non avrò comodità come quelle di casa. Nonna Lenuccia, che gli è stata una compagna di vita anche nella battaglia politica, comincia a scrutare questi militi e, se ne riconosce qualcuno, comincia a chiedergli se è il figlio di Tizia o di Caia e come sta la madre e di portare i suoi saluti alla famiglia e se vivono ancora in via Tale o no. Momenti di intimità fra le famiglie, che fanno male all’interrogato, ma fanno anche passare il tempo. Una volta il nonno fu informato qualche ora prima dell’arrivo della pattuglia. Pur avendone il tempo preferì non scappare per evitare rappresaglie alla famiglia. In casa c’era un soppalco ben mascherato, dove erano riposti alcuni suoi ricordi, fra cui alcune stampe. Marx, Engels, Lenin, ma anche Benito Mussolini che usciva da una pagina dell’Avanti!, all’epoca della sua direzione. Armato di martello e chiodi appese quelle stampe incorniciate alla parete e restò in attesa della pattuglia. Beata ignoranza, verrebbe da dire: salvo il capo pattuglia, nessuno aveva riconosciuto i volti dei quadri, escluso Mussolini. C’è sempre uno più zelante degli altri. Nel nostro caso, questo zelante si avvicinò al quadro di Mussolini e lo salutò a braccio teso dicendo la formula tipica, onore al duce!, ma il nonno sempre con la sua calma gli disse che aveva sbagliato persona, quello era il quadro del suo ex compagno direttore del giornale. Il capo pattuglia lo fa arrestare e dispone il sequestro dei quadri perché ritraggono i volti di noti sovversivi (sic! anche quello del duce) e sono, quindi, elementi di propaganda antifascista. Il figlio Michele ha più o meno quindici anni ed ha assistito a tutta la scena. Chiede al capo pattuglia se 16 anche le cornici devono essere sequestrate. Alla risposta negativa, prende un coltello e con quello strappa i quadri. Ridotti in brandelli sono ancora una prova contro, ma vuoi mettere la soddisfazione…
3.
La collaborazione con Lenuccia avveniva attraverso atteggiamenti consolidati nel tempo. Per esempio, la federazione clandestina del PCI jonico si era dotata di una bandiera, che – a turno – i compagni della segreteria conservavano a casa loro ed a loro rischio e pericolo. La bandiera rossa, con falce, martello e stella e con la scritta Partito Comunista Italiano Federazione Jonica. Quando era dovere del nonno conservarla, egli la dava a Lenuccia, che provvedeva a metterla via e nessuno sapeva dove veniva nascosta. Successe anche che l’OVRA fosse informata che la bandiera era a casa di Antonio Turi. In effetti, la sera precedente Antonio era tornato dal negozio con la bandiera, l’aveva data a Lenuccia. Alle sei del mattino seguente una squadra dell’OVRA si presenta a casa (il nonno era già uscito per recarsi dalla città vecchia a via Principe Amedeo, ovviamente a piedi) e chiede a nonna Lenuccia di dar loro la bandiera. La nonna reagisce in malo modo, reclama che le stanno spaventando i figli più piccoli, li prepara perché il loro riposo è stato interrotto e dice ai fascisti che non c’è nessuna bandiera e che se la cercassero, visto che erano convinti della sua esistenza. I personaggi cominciano a rovistare e buttano per aria coperte e lenzuola, aprono armadi e cassetti. Tolgono i fiocchi rossi che le figlie usano per raccogliere i capelli, li misurano e cercano di capire se uniti e cuciti possono avere le dimensioni di una bandiera. Nulla, maledetti sovversivi, l’hanno nascosta bene la loro maledetta bandiera. Se ne vanno incazzati neri. L’informatore è sul loro libro paga ed è degno di fiducia. Eppure, la bandiera non c’è. Eppure, eppure… quella bandiera era stata nelle loro mani almeno un paio di volte. La nonna aveva passato tutta la notte a scucire le lettere ed i simboli, che aveva nascosto altrove, ed aveva cucito con ago e filo un trasparente sulla bandiera, che era diventata una grande coperta, messa sul letto all’arrivo dei fascisti. Altra beffa? Può darsi, sicuramente coscienza di quello che stava facendo per proteggere la famiglia ed Antonio. Non grandi gesta, ma l’antifascismo resistente fu fatto da piccoli gesti che non hanno lasciato traccia nei libri di storia con la esse maiuscola.
4.
Il 28 ottobre 1939 il leccese Starace, segretario nazionale del PNF, ideatore della svolta ginnica del partito, deve partecipare ad una manifestazione fascista in città, a Taranto. In giro c’è aria di guerra e la città è una base militare della Marina Militare molto importante. È un luogo ideale per risvegliare l’onor di patria. Grande fervore per realizzare un programma che culmina, dopo la visita all’Arsenale Militare, con un corteo di auto scoperte che si reca fino al Palazzo del Comune nell’isola attraversando la città. Lì il podestà dell’epoca farà gli onori di casa, consegnerà a Starace una benemerenza civica e così via fra orpelli retorici. Gli antifascisti si pongono il problema del che fare. Gli occhi della nazione saranno rivolti alla città, che è fascista apparentemente. Mischiando impegno ed ironia Antonio propone un’azione simbolica e si offre di eseguirla in prima persona. Dopo un vasto dibattito nella segreteria clandestina, la sua proposta è accettata ed egli, ovvio, è incaricato di metterla in opera. Così il 27 ottobre, nel pomeriggio, si intrufola a Palazzo Latagliata (probabilmente aiutato da qualche compagno) e vi si nasconde. Il Comune è tutto imbandierato, i fascisti fanno le prove dell’accoglienza al loro segretario nazionale. Mi racconteranno che il nonno si è portato appresso un bandierone rosso: vi si è avvolto e si è vestito con giacca e cravatta al di sopra della bandiera. Nascosto nella sala d’onore, si spoglia, srotola la grande bandiera, si riveste ed aspetta il momento giusto, rimanendo in quella sala tutta la notte. Quando si capisce che il corteo sta soggiungendo, si affaccia sul balcone, sgancia la bandiera nera del PNF e la sostituisce con la sua bandiera. 14. Ancora oggi Palazzo Latagliata è la sede nobile del Comune di Taranto con gli uffici del Sindaco, la sala giunta e quella del Consiglio comunale, la segreteria generale ed i saloni di rappresentanza. Il corteo arriva a Palazzo Latagliata, Starace tende il braccio e dice con voce stentorea Saluto al du… Il resto della parola gli si strozza in gola, la sorveglianza ha fallito, i sovversivi sono lì, vanno stanati. Antonio è già uscito, sempre forse con l’aiuto di qualcuno, ha già raggiunto il suo negozio, sta lavorando da ore. Almeno così saranno le testimonianze raccolte dall’OVRA. È andata bene ancora una volta. Piccoli gesti forse, ma importanti. 21 Ovvio che l’attività complessiva del PCI clandestino non era solo questa. Accadeva che, alle volte, un compagno subisse delle forti rappresaglie dai fascisti, qualcuno era morto in queste occasioni, per esempio uno dei fratelli Melloneii, operaio dei Cantieri Navali, o Francesco Latartara, operaio dell’Arsenale Militare. Latartara, giovane, fu fatto cadere sul Ponte Girevole, pestato e poi buttato sotto un camion che stava sopraggiungendo e che lo schiacciò in modo irreparabile. Qualche anno dopo il capobanda che gli aveva teso l’agguato morì per cause naturali e venne sepolto nel posto a fianco della sua vittima. La giovane vedova tirò in piedi un forte casino fino a quando il podestà non decise il disseppellimento del fascista, che fu traslato altrove.
5.
Sono convinto che tutti noi abbiamo sottovalutato la nonna. Forse non ci si poteva aspettare una lunga discettazione teorica su Marx o sull’anarchismo, ma lei aveva fatto la sua parte durante la lunga lotta antifascista. Ho già accennato ad alcuni suoi contributi a sostegno del marito e della resistenza nel suo insieme. La sua avversione al padre dopo il “consiglio” (*) che le aveva dato derivava sì dall’amore che ha sempre legato i nostri nonni, ma anche da un’adesione non acritica contro la dittatura fascista e quello che aveva comportato per lei e per la sua famiglia. Si è temprata in quei frangenti. Anche lei, come il nonno, viveva le sue contraddizioni e chiedeva di venirne fuori. Si era abituata a non seguire i precetti della sua educazione religiosa. Non ricordo che andasse a messa né la domenica, né in altre feste comandate, ma – secondo me – le era mancata la funzione religiosa del matrimonio. Tutto sommato per i cattolici si tratta di un sacramento che solo il prete può somministrare. Secondo me. Una volta si parlava di Tizio che si era sposato nella chiesa tale, e poi Caio in un’altra chiesa ed io le chiesi tu, nonna, in quale chiesa ti sei sposata? E lei mi rispose, forse con rammarico, in nessuna. Come è facile arguire la famiglia viveva molto modestamente quando il nonno era presente. Quando era arrestato, si andava avanti con i salari dei figli, ma prima ancora nonna Lenuccia aveva impegnato, e poi venduto, i propri gioielli. Anche nei comportamenti quotidiani cercava di affrancarsi da alcuni usi da sempre consolidati. Aveva evitato accuratamente di chiamare un proprio figlio Cosimo come il padre per i noti motivi di forte contrapposizione politica. Anche nei propri confronti, però, aveva utilizzato lo stesso metodo. Ad ogni figlio ed ad ogni figlia che si sposava raccomandava di non chiamare Maddalena una figlia femmina. Bisognava rompere gli schemi, gli usi e costumi: tutti le obbedirono. Tutti meno zia Vera, ma sappiamo che le due, avendo forse lo stesso carattere, si battagliavano da sempre. Credo che per lei si sia trattato di un momento di emancipazione rispetto ai tempi che si correvano. La nonna amava il cinema. Il Dopolavoro Ferroviario aveva la gestione di una sala cinematografica in pieno centro di Taranto. Era tabù che una donna potesse andare da sola a vedere un film, per cui io od Augusto, i nipoti più grandi e più disponibili, a turno la accompagnavamo. Quando la tv rimanda in onda un vecchio film di quel momento, ricordo un periodo, ormai piuttosto lontano, della mia vita. Con tutte le nostalgie del caso. È scomparsa nel maggio 1968.
Note
Maddalena aveva anche uno zio vescovo, che a sua volta aveva il privilegio di poter mandare suoi parenti in seminario senza che le famiglie avessero oneri finanziari a loro carico.
Ai fratelli Mellone il PCI legale dedicò la sezione centro che era sede territoriale, ma anche delle sezioni del lavoro, in primis i Cantieri Navali e l’Arsenale Militare. Al giovane Latartara fu dedicato il Circolo della FGCI presso cui ho militato per alcuni anni.
(*) Il consiglio, a cui si accenna in questo brano, è quello di don Cosimo a sua figlia Maddalena ed è riportato nel brano 1.