Continua la lettura di Una poesia e alcuni pensieri di Eugenio Grandinetti
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Riordinadiario 7 ottobre 2022
SULL’ASSEMBLEA DELLE LISTE CIVICHE (ARTLISTA E CSD)
6 OTTOBRE 2022 IN VIA PETRARCA A COLOGNO MONZESE
Ieri sera sono stato all’”auditorium” di Via Petrarca per seguire l’assemblea pubblica di ArtLista e CSD. La prima dopo il commissariamento del Comune di Cologno Monzese ma anche dopo la clausura per Covid e lo sconquasso per la guerra in Ucraina. Un po’ di pubblico (di anziani, molti di loro con un certo passato politico alle spalle) e anche qualche giovane.
Che delusione, però!
Riordinadiario 16 novembre 1980
Narratorio
di Ennio Abate
In una notte piovosa. C’era uno omino con una testa grossa che, mentre correva, perdeva pezzi del suo corpo.
Perse dapprima un piede. Poi la mano, mentre il fascio di luce di un lampione (che subito dopo si spense) gliela illuminò, squarciandola).
Biancore tremendo. Si sentì l’inizio di una musica: un andante disperato. Un cane latrò. La musica si arrestò.
L’ombra dell’uomo che correva – aveva perduto ormai tutto il petto, cuore compreso – schizzò davanti a lui.
Fermati, ti prego! – gli disse – Non sei più quello di una volta.
Fatti in là, maledetta – sibilò l’omino – Non mi hai voluto coprire quando avevo freddo. Adesso vattene!
Passavano alcuni giovani. Uscivano da un cinema discutendo della trama del film appena visto. Esprimevano impressioni bambinesche e se le ributtavano addosso l’un con l’altro. Ad alta voce. L’omino voleva intervenire. Aveva visto anche lui quel film.
Ormai, però, aveva perso quasi tutti i suoi pezzi. La sua testa tonda stava finendo di rotolare verso un muro in fondo alla strada. Il suo occhio, prima che la testa si fermasse dolcemente sul ciglio del marciapiedi tra mozziconi di sigarette e cartacce colorate, staccandosi saltellò oltre sull’asfalto come una biglia .
Riordinadiario 17-18 dicembre 1983
Rileggendo «Questioni di frontiera» (1977) di Fortini. Appunti.
di Ennio Abate
Fortini critica il concetto di proletariato di Pasolini, degli operaisti, del PCI in nome di un proletariato terzomondista, che l’intellettuale può/deve pensare da esterno. Continua la lettura di Riordinadiario 17-18 dicembre 1983
Riordinadiario 1975
Stesura del dicembre 2020
di Ennio Abate
Riapro la cartella 1973-1975. I fogli sono dattiloscritti. Alcuni sono di carta velina. (Allora si usava ancora per ricavare una o più copie di un documento dattiloscritto, mettendo tra i fogli la carta carbone[i] Continua la lettura di Riordinadiario 1975
Riordinadiario 28 giugno 2002
Prima del Laboratorio Moltinpoesia di Milano.
Lettera a Maurizio Cucchi su moltitudine e poesia
Caro Maurizio,
ti ringrazio per le osservazioni al mio scritto. Vorrei rassicurati circa i timori che mi pare di cogliere in alcuni passaggi della tua lettera. Gli incontri in preparazione sulla poesia fra i redattori milanesi di INOLTRE e alcuni poeti (Majorino, tu, Neri, ecc.), proprio perché seminariali e d’approfondimento, dovrebbero evitare le battaglie da pollaio. Lascio da parte la questione del successo letterario, estranea alle mie ambizioni(su questo punto credo di essere, con tutte le conseguenze anche negative, un asceta, un eremita). Invitando voi, che comunque avete pubblicato e conoscete dal di dentro (o più da vicino) i meccanismi di selezione e riconoscimento di editoria e accademia, non ho inteso tendervi una “trappola” per dar sfogo ai latenti (e pur presenti, lo sai bene) mugugni di poeti o scrittori “non ufficiali” contro altri “ufficiali”. Sono convinto, quanto te, della ingenuità di una manichea divisione tra ufficialità e non ufficialità e in quel che scrivo e faccio credo di contrastarla decisamente. Meno convinto, invece, resto sulla inutilità di una fortiniana verifica dei poteri delle corporazioni (o, se la parola infastidisce, degli aspetti istituzionali ed organizzativi sui quali la poesia pur poggia; a meno di non vederla come colomba spirituale che volteggia sulle umane miserie e si posa imprevedibile sugli eletti ora in un casolare di montagna ora in un vicolo napoletano ora in un ufficio metropolitano). Riconsiderare gli aspetti “materiali” e “socio-istituzionali” del fare poesia può sembrare oggi superato. Tu giustamente sottolinei alcuni dati che scoraggerebbero un impegno in tal senso: le corporazioni ci sono sempre state, e semmai peggiori [di quelle d’oggi]; chi è dentro ha più o meno lo stesso ascolto di chi è fuori. Vale a dire sostanzialmente nullo; mai la ricerca letteraria che conta ha avuto un vero pubblico; e comunque, malgrado le corporazioni, i poeti veri (Fortini, Penna, Sereni, ecc.) non sono mai stati trascurati. Di mio aggiungerei addirittura altri inconvenienti. Ad esempio, che questo tipo di ricerche potrebbero dar la stura a chiacchiere sui poeti, sulle biografie, sulla dimensione sociologica della poesia a scapito delle questioni più interne (formali, psicologiche, linguistiche, stilistiche, interdisciplinari, tecniche, metriche, di rapporto con il “mondo”, la “realtà”, ecc.). Eppure, malgrado queste nubi incombenti sulla serietà dei miei intenti, credo che serva oggi una riconsiderazione della poesia in grado (se ne fossimo capaci!) di criticare con ponderazione sia la routine accademico-editoriale, che si è ritagliata prevalentemente [il compito del]la trattazione specialistica – spesso raffinata e ammirevole – degli “interni” della poesia, trascurando boriosamente o stoicamente o cinicamente le crepe della sua facciata, il crollo dei cornicioni, ecc., sia l’ossessiva e tumultuante ripetizione di arrembaggi inconcludenti da parte di esclusi o rampanti: dotati o meno, scrittori in ombra o scriventi, bisognosi di terapie più che di poesia o termometri di un disagio vero non solo esistenziale ma anche del sapere poetico (e, in generale, letterario o artistico o umanistico).
E proprio per incrociare e far valere alcune delle esigenze che tu pure – mi pare con una certa disperazione – hai presente (quando parli di un qualunquismo e una confusione generale organizzata; o quando sottolinei che chi pur sta dentro se la vede brutta). Perciò, malgrado le obiezioni, la tua lettera mi incoraggia. Sei scettico sull’ esodare e mi poni la questione: come si fa a uscire quando non si è davvero dentro? Quando nessuno ti vuole davvero dentro? Qui censuro la mia molla “utopese” che si troverebbe forse in attrito (e a mal partito) col tuo lombardo realismo. Intendendo il termine dentro da te usato non semplicemente riferito – che so – ad un’istituzione, ad un ambito pubblico visibile, mi limito per il momento a constatare che siamo tutti dentro un affanno esistenziale e storico che ci impone, appunto, mercato o lamentazione. L’esodo forse deve essere da questi due ghetti: uno oggettivo (terribile!) e l’altro soggettivo (logorante fino alla follia).
Un caro saluto
Ennio
Riordinadiario 5 maggio 2002
Dopo la lettura di «Nuovi poeti italiani contemporanei» di R. Galaverni, Guaraldi 1996
di Ennio Abate
Il noi usato nel testo si spiega con le speranze di potermi interrogare in quel periodo sulla “questione poesia” non più da solo ma con i collaboratori che si erano raccolti attorno alla redazione milanese della rivista «Inoltre» (1996-2003). [E. A.]
Anche quest’antologia di Galaverni ritaglia una fetta di poeti italiani contemporanei “di qualità” (come fanno, del resto, le altre antologie recentemente uscite). È una scelta forse obbligata dovuta alla frammentazione esasperata della attuale ricerca sia in poesia che nella critica. (E Il problema di confrontare e valutare i criteri di giudizi sui quali si basano le varie antologie mi pare soltanto accennato ma non affrontato. Così mi pare di capire leggendo Cortellessa a proposito dell’antologia di Niva Lorenzini, Poesia del Novecento italiano, Carocci editore. Cfr. Alias n. 18, 4 maggio 2002).
In questa di Galaverni prevale il criterio della vicinanza generazionale fra il critico, che è nato nel 1964, e i poeti da lui selezionati, in prevalenza nati negli anni ’50. Dai suoi richiami alle personalità più affermate delle generazioni poetiche precedenti – ricorrono soprattutto i nomi di Montale, Luzi, Sereni, Caproni e talvolta Fortini – colgo (indirettamente) le sue preferenze. Nell’introduzione Galaverni si dichiara per una poesia «alta» e «nobile». Che, dopo l’esaurimento dell’azione (per lui) chiassosa e superficialmente dirompente dello «sperimentalismo espressivo», cioè della neoavanguardia, sarebbe cominciata «sullo scorcio degli anni Settanta – penso con l’antologia de La parola innamorata di Pontiggia e di Mauro – per affermarsi negli anni Ottanta soprattutto con Giuseppe Conte e l’esperienza della rivista Niebo (1977-1980), che avrebbero riaffermato con forza il principio della «verticalità» della poesia contestato dagli sperimentatori. Non a caso, perciò, Galaverni sceglie il 1980 «come più opportuno anno d’inizio per una possibile antologizzazione». Perché in quell’anno vennero pubblicati «tre libri di particolare significato» (di Benzoni, D’Elia e Magrelli, ai quali aggiunge Mussapi, Ceni e Pagnanelli) per la loro «novità tonale ed emotiva» ed il «carattere propriamente augurale, di auspicio».
Le preferenze di Galaverni si orientano su tre filoni:
– verso la poesia dove c’è «alleggerimento del controllo razionale» e «fiducia totale nella verità delle insorgenze sentimentali»; cioè verso una poesia che, sulla spinta di un’inquietudine religiosa, esprime un «sentimento sacrale della parola poetica» (Mussapi, Ceni, Rondoni, Scarabicchi);
– verso la poesia descrittiva e classicista (Magrelli, Albinati, Pusterla (in parte), Fiori, Gibellini, Riccardi);
– verso la poesia «altamente letteraria» e manieristica (D’Elia in quartine; Valduga petrarchista e barocca e dantesca; Anedda, che rende le parole «diamantine»).
Le sue scelte sono coerenti e omogenee. (Dubito solo per la collocazione di Pusterla, proprio per quel «radicamento in uno spazio storico» della sua poesia che Galaverni gli riconosce).
La lettura di quest’antologia mi fa capire come le cose erano o sono vissute da un critico che considero sull’altra sponda. Sia in senso generazionale (cioè dei più giovani di me) sia in senso culturale. Galaverni, infatti, è guidato da un’idea di poesia autonoma, separata dal resto; e cioè proprio la storia, la politica, il sociale, i linguaggi non letterari e massmediali, che io non riesco affatto a considerare resto. Non vedo la novità di questi «poeti nuovi…in cui ancora si rinnova il volto più antico della poesia». Li sento, anzi, dei restauratori: gente che s’è adattata alla rimozione del lavoro (non solo poetico, ma storico, politico e sociale) della generazione precedente che aveva voluto collegare poesia e realtà, poesia e storia, poesia e vita sociale. Certo, questi poeti hanno dovuto ricominciare da capo, hanno dovuto fronteggiare la «disillusione storica e politica» del post ‘68 (pag. 15), ma tutti abbiamo dovuto farlo. Non mi attira, dunque, il loro «rifiuto di ogni sperimentalismo espressivo» (pag. 16); l’atteggiamento «postumo» (riferito a Benzoni, a D’Elia, a Pusterla, ma anche ad altri); la loro «ipotesi di una nuova etica comunicativa del discorso poetico, da definirsi proprio a cominciare da un sentimento di rottura nei confronti dei presupposti e delle componenti di una tradizione non soltanto letteraria ma culturale» (pag. 18); la loro «fiducia assoluta nel linguaggio della poesia» (pag. 47) o – addirittura – nel «senso assoluto e sacrale della parola poetica» (pag. 127); la ricerca, che mi sembra retorica, di padri spirituali (pag. 58); la volontà di «controllo definitivo sul mondo esterno e le proprie emozioni» (pag. 64); l’accettazione quasi soddisfatta (o rassegnata) che «si parla solamente del parlare» (pag. 65) o del parlare per «enigmi continui» (pag, 73), parole riferite a Giampiero Neri, come se i suoi «enigmi» non potessero essere interrogati alla luce della storia; l’adesione all’idea della «poesia come rituale» desunta dal modello petrarchesco (pag.158); la facilità con cui essi convalidano – dopo Freud! – il candore da fanciullino pascoliano e sabiano tutto raccolto dentro un «suo piccolo mondo poetico» (pag. 243), eccetera.
[E se confrontassimo il discorso di Galaverni sulla poesia con quelli di carattere storico-politico sui medesimi anni che lui ripercorre? Forse si coglierebbe meglio qual è il “contenuto” di queste “novità”. Ma Galaverni non tocca questi problemi; e – spesso in modo abbastanza piatto, specie nel caso di Villalta ma anche di Magrelli, ad es.) – si accontenta di seguire fedelmente l’ideologia poetica dei poeti che ha selezionato]
Non dobbiamo, comunque, vergognarci dei contenuti imbevuti di politica (o di filosofia politica) della nostra poesia; e neppure di quelli esistenziali legati ad una nostra condizione periferica e, di certo, meno “piccolo borghese” di quella dei poeti italiani.
- L’immagine di copertina è tratta da: https://neutopiablog.org/2017/02/07/una-situazione-della-poesia-contemporanea-italiana/
Su Fachinelli. Appunti di lettura
Riordinadiario 10-22 giugno 2022
di Ennio Abate
1.
Nel 1998 seguii a Milano un convegno su «Il desiderio dissidente. Il pensiero e la pratica di Elvio Fachinelli» e ne feci un resoconto (qui) che mi pare ancora punto fermo della mia riflessione su di lui. In un’ottica forse “scuolocentrica” (era il mio ultimo anno d’insegnamento, accennavo anche al «dibattito-scontro culturale, politico e pedagogico fra Fachinelli e Fortini», che ho ripreso nelle ultime settimane pubblicando la prima parte (qui). Continua la lettura di Su Fachinelli. Appunti di lettura
Riordinadiario 26 dicembre 1977
Trascrizione da dattiloscritto. Pre-narratorio.
SEMINARIO ARCIVESCOVILE DI SALERNO
accettai la medicina/ da mani amiche/ nauseante clausura/ ho fotografato ad anni di distanza e d’esperienza/ con tremito di breve sconfitta/ la mia prigione di una settimana nel tiepido autunno del 1951/ con quanta imperizia/ da bambino/ palpai frastornato le immagini del mondo che mi era stato assegnato/ mi avviarono oscuri filosofi/ parenti sfuggiti alla guerra/(non potevano morire/ senza gravarci del viscido ossequio/ ai gestori dell’angoscia)/ non bastarono le immagini campagnole raccolte da fanciullo/ (non fummo primitivi)/ me le avevano già spazzate via/ a 12 anni ero stato ripulito/ purificato/ come un impiccato di Villon/ cavia volontaria di gioie cattoliche da dopoguerra/ poche/ speranze neppure una/ scampato poi/ in esilio/ scampato per ribellione viscerale/ marchiato comunque/ ribelle comunque/ ah, la vergogna di camminare nella fila dei seminaristi/ teste già rasate/ l’orrore delle pulci nel letto/ la prepotenza del capo sala/ l’esempio inimitabile del fuggitivo riacciuffato/ il cibo scarso/ la solitudine/ peccati?/ e che peccati?/ l’indisponibilità al gioco/ lo sfottò negli sguardi della gente/ dipendenza da inconsapevoli torturatori/ angoscia pesantissima/ inesprimibile/ l’invidia addirittura di una persona conosciuta intravista nella strada/ compagno di sventura/ si chiamava Tisi Aldo/ nessuna concezione alternativa/ manco un comunista allora/ Salerno: manicomio clericale/ contro il capitalismo?/ ma se eravamo ignari leccaculi di un deputato democristiano e del prete?/ ci salvò il risveglio sessuale/ si ribellò il corpo/ l’intelligenza non poteva/ la voglia di amicizia/ la claustrofobia/ poche le fanciulle/ punti di appoggio per liberarsi ed esprimersi: quelli/ visto che anche fuori dal seminario le amicizie erano quelle/ le strade quelle/ aggirarsi sentendosi come traditori/ fra quegli stessi preti e stesse bigotte/ non aver soddisfatto la loro attesa/ e restavano potenti/ avevano centri d’organizzazione e autorità/
da dove venivo?/ veniamo da dove/ compagni? da questo marcio/ marcio visibile per voi/ addosso/ dentro/ sotto la pelle/ per noi del Sud/ anni dovranno passare/ studi amicizie letture ribellioni impercettibili/ per prendere le distanze/ poter fotografare/ ancora quasi tremante/ quella prigione e non reliquia/ quel seminario arcivescovile/ mentre la DC perdeva voti/ diminuivano le vocazioni/ su Epoca conoscevamo le prime illustrazioni degli impressionisti/ imparavamo a cercare nei libri segni di mondi più respirabili/ altro che conoscenza libresca!/ per noi i libri erano un lusso/ al loro posto incontravamo gente/ assorbivano un po’ i nostri spurghi d’angoscia/ i nostri amori fiacchi/ carte assorbenti/ gente gente gente/ ma conosciuta in esilio/ e quanti altri vi restarono in quel seminario e furono preti?/ per un pezzo scartato/ quanti riusciti?/ e uno scarto resta sempre uno scarto/ porta il segno di un progetto nel suo corpo/ ma fallito/ e non basta l’invettiva/ contro i filosofi oscuri del dopoguerra che ci trasmisero il fardello/ il linguaggio di angoscia e di morte/ riusciti nell’impresa/ traspare ancora nel nostro linguaggio “nuovo”/ permanenza/ accanto alla scommessa disperata nel futuro/ la rende meno pericolosa/ virile e contenuta accettazione?/evita puerilità nelle rivolte?/ ora che siamo scampati anche ad un seminario rosso?/ appena in tempo e non senza danni?/ carte ancora scompaginate/ l’osservatorio che sembrava tanto in alto/ da permettere una visione unitaria del passato/ appare troppo in basso/ancora soltanto ai piedi della montagna/ ci si deve rimettere in cammino/ nuovo esilio/ vederci ancora ragazzi/ proletari/ vittime/ perché il cattolicesimo riguarda i proletari/ le vittime/ la parte più sguarnita dei nostri/ e non basta
Nota
Sede del Museo Diocesano di Salerno, l’antico Seminario Arcivescovile (adibito prima a sede della Scuola Medica Salernitana) sorto a ridosso della cattedrale, fu fondato dall’arcivescovo Gaspare Cervantes in ottemperanza ad una disposizione del Concilio di Trento (1543 -1563), al quale aveva preso parte, che ordinava ad ogni Diocesi di istituire un collegio nel quale formare i giovani decisi ad avviarsi alla vita sacerdotale. L’edificio venne, quindi, ampliato dal suo successore, Antonio I Colonna, nel 1570 e successivamente ancora rimaneggiato. Nel 1731, sotto l’Arcivescovo di Capua, la struttura venne completamente ricostruita e collegata alla Cattedrale con una scala ed infine assunse una fisionomia rigorosamente neoclassica nel 1832, quando l’arcivescovo Lupoli fece sopraelevare il secondo piano e trasformò l’intera facciata principale. Con l’Arcivescovo Mons. Marino Paglia (1835-1857), che avviò lavori di rinnovo (costruzione dell’altare in marmo nella cappella; rifacimento dello scalone; realizzazione dei grandi finestroni in ferro dei corridoi di affaccio delle camerate; affreschi con figure di santi e sapienti nell’atrio) la fama raggiunta dal Seminario di Salerno, quale luogo di erudizione scientifica e letteraria, fu tale da farlo ritenere uno dei migliori istituti del Regno. Per questo motivo fu visitato da Giacomo Leopardi nel 1836, da Papa Pio IX e dal Re di Napoli Ferdinando II nel 1849. Il terremoto del 23 novembre del 1980 causò notevoli danni alle strutture dell’edificio, tanto da rendere necessario, dopo oltre quattro secoli, il completo e definitivo trasferimento dei seminaristi in un complesso di recente costruzione.
© 2021 MiC – Ultimo aggiornamento 2020-05-21 14:53:25 (da qui)
Dieci anni di IPSILON
Peripezie di un’associazione culturale a Cologno Monzese
di Ennio Abate
Lavorando al mio Riordinadiario, ritorno sulle «peripezie di Ipsilon». Ne avevo scritto a caldo già nel 1999 in Samizdat Colognom n. 2 (“foglio semiclandestino per l’esodo”) e poi nel 2009 (qui ). Ad ogni rilettura mi rifaccio le stesse domande: perché ci dividemmo? era inevitabile? cosa non capii io o non capirono gli altri le altre (qui sopra nella foto)?
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