Con qualche esitazione per i rischi di narcisismo che potrebbero esserci in queste pagine, pubblico il pezzo del mio Riordinadiario riferito ad alcuni mesi cruciali di un anno, che –sia sul piano personale che politico – ha segnato un taglio traumatico delle speranze di maturità inseguite nel decennio precedente. Il corpo che s’ammala è – che coincidenza! – il mio e quello sociale e politico della “nuova sinistra”, nella quale mi ero fino ad allora riconosciuto. Le note registrano il brancolamento di un io estratto di colpo dalla vita quotidiana, non certo facile ma in apparenza più rassicurante di quella ospedalizzata. Contro la minaccia di cecità da intendere sia sul piano fisico e materiale, sia su quello politico e sociale (in entrambi i casi i segnali sembrano non poter più arrivare come prima) ma forse anche – ahi, Saramago! – su quello simbolico, l’io riconosce la sua fragilità e tenta di reagire come può. [E. A.]
io
obnubilato e poco obiettivo? Se ci fossero in giro intellettuali
obiettivi e non obnubilati mi sentirei davvero a disagio per
queste etichette che mi attribuisci. Ma non ne vedo. Né fra noi di
Poliscritture, che stiamo discutendo/litigando su questo dramma, né
tra più autorevoli opinion maker.
In questi miei appunti personali del 27 aprile 1983 è fissata la convinzione, che ancora mi guida nella riflessione sugli anni Settanta: «l’oggetto “terrorismo” non trova alcuna spiegazione soddisfacente. L’ammissione di non essere stati in grado di fermare il fenomeno o di averlo fermato con costi sociali e politici così rilevanti è rimasta a mezza bocca o addirittura respinta. Era inevitabile che si dovesse eliminare ogni movimento per sconfiggere il terrorismo? Se si risponde sì a questa domanda, bisognerà anche ammettere che il terrorismo, barbaro quanto si vuole, da noi è stato quasi un fenomeno di massa [o comunque di grande rilievo]». E mi accorgo, rileggendoli e pubblicandoli ora, che alcuni ragionamenti che ho fatto di recente su quegli anni lontani (ad es. partendo dal romanzo di Luca Visentini, Sognavamo cavalli selvaggi: qui) sono in sintonia con le cose dette in quell’occasione soprattutto da Gad Lerner («Quanto ai reati associativi, se «Rosso» tra 1973 e 1978 fu «banda armata» allora tutta la Nuova sinistra era banda armata», Romano Madera («Negare qualsiasi continuità? Significherebbe negare che non c’è differenza tra acqua, ghiaccio e vapore. Se è permesso dire certe cose per Potere Operaio allora bisogna dirle per tutti i gruppi. Se è caduta con fragore la nostra ipotesi, si deve dire che sono cadute tutte le altre [della Sinistra]»), Marco Boato («La testa in questi anni non se la sono spaccata solo i terroristi: nel 1968 e nel 1977 intere generazioni sono state devastate senza riuscire a trovare interlocutori validi: prima questi fenomeni sono stati trattati come eresie e poi, nel 1977, si è arrivati allo scontro frontale») e Alberto Magnaghi («Bisogna fare una distinzione tra partito armato, che si può criticare, e bisogno di lotta armata, che è fenomeno da capire perché nasce dalla sovversione per mancanza di sbocco politico di un movimento di massa nuovo. Altrimenti sarà la sinistra nel suo complesso a ridursi al pentitismo. Ecco la tragedia storica.»).
Diario. Venerdì 18 ottobre ore 18. Sono alla Libreria Odradek in Via Principe Eugenio 28 a Milano – erano anni che non ci tornavo – perché mi hanno avvisato che Greta Gandini e Tommaso Spazzali presentano i primi tre volumi del Diario inconsapevole della caccia all’ideologico quotidiano di Felice Accame – L’anno 1986, L’anno 1987 e L’anno 1988 (La Vita Felice editore). Ho conosciuto e in qualche occasione collaborato sia con Felice Accame che con Carlo Oliva, notissimi a Milano e altrove (e non solo per quella trasmissione domenicale di Radio Popolare). A me sono rimaste nella memoria soprattutto le impennate della voce di Felice e il brontolio pacato e avvolgente di quella di Carlo. Non potevo mancare quest’appuntamento. Ma quanti anni sono passati? Mentre arriva gente, mi siedo, sfoglio il primo volume appena acquistato e leggo nella seconda di copertina:
La Risoluzione del Parlamento Europeo Sull’importanza della memoria per il futuro dell’Europa (qui) continua ad essere commentata e discussa. Ho riportato in POLISCRITTURE SU FB l’analisi (condivisibile per me) dello storico Claudio Vercelli (qui) e segnalo altre discussioni in corso: sulla pagina FB della storica Maria Grazia Meriggi (qui) e l’intervento di Anna Foa sul sito della Fondazione Feltrinelli (qui). Per invitare ad un ripasso di storia, riporto quattro schede che preparai per il volume sul Novecento “Di fronte alla storia” (Palumbo ed. 2009) per ribadire che quelle vicende non vanno cancellate dalla mente ma ripensate e studiate. (Come avevamo scritto nel n. zero della rivista cartacea (maggio 2005), Poliscritture « pur memore della sconfitta delle esperienze di emancipazione o rivoluzione del Novecento e del fallimento delle dissidenze nei paesi del fu «socialismo reale», non rinuncia a costruire samizdat di critica elementare contro le menzogne dei potenti, anche quelle travestite da«senso comune» ».) Ma anche per capire – e lo dico con un po’ di sarcasmo – quali scoperte di altri documenti o riflessioni nuove abbiano messo in forse interpretazioni come queste riportate nelle mie schede, che paiono ancora oggi più chiare ed equilibrate di quelle prese da molti politici e studiosi odierni o addirittura del Parlamento Europeo [E. A.]
Di questo operaio immigrato e anarchico-comunista che appare nella foto ho scritto in un inedito “Proletari a Colognom” narrando della nascita nel 1969 del Gruppo Operai e studenti:
Mio suocero, Michele Turi, era operaio in non so più quale fabbrichetta. Ci aveva lavorato all’inizio anche Rosa, sua figlia, e ancora, di tanto in tanto, portava del lavoro da fare a casa. Togliere la sbavatura dai tappi di plastica. Ci si metteva attorno al tavolo grandi e piccoli e si faceva, gareggiando, qualche oretta di lavoro prima di apparecchiare per la cena. Un giorno Michele aveva voluto farmi conoscere alcuni operai della Siae. Erano giovani.Avevano sentito parlare del movimento degli studenti dell’anno prima. Volevano sapere perché gli studenti occupavano le università, beffeggiavano i professori, si scontravano con la polizia e parlavano di rivoluzione.[...]
Qui sotto, invece, pubblico il discorso (non è una poesia, gli a capo mi servirono per dare le pause alla voce) che lessi il 24 giugno 1986 al suo funerale. E’ questa vita operaia semplice, amara e coraggiosa, simile a quella di migliaia di altri operai che hanno partecipato alle lotte sociali e politiche di questo Paese con la speranza di mutarlo e migliorarlo, che vorrei sventolare indignato – da qui il titolo polemico – sotto il muso dei cancellatori della memoria (tra cui persino l’ex sindaco di centrosinistra di Milano Giuliano Pisapia), che il 19 settembre 2019 hanno approvato al Parlamento Europeo di Bruxelles una risoluzione subdola e infame. Essa non solo liquida qualsiasi differenza tra fascismo/nazismo e comunismo ma pretende una “memoria condivisa” tra oppressori e oppressi; ed occulta e azzera proprio esperienze di vita come questa. E ce ne sono tante altre, di cui per stanchezza o disperazione, in questi anni di stordimento, ci siamo dimenticati.Esse contengono ancora quegli spunti di comunismo, che i dominatori di oggi hanno seppellito sotto montagne di menzogne e malefatte. Anche – è bene ricordarlo – con la complicità di chi a sinistra gli ha arato il terreno. [E. A.]
Queste tre poesie hanno per tema il legame profondo con un amico meridionale, insegnante, poeta e compagno. Alludono a argomenti presenti nelle conversazioni con lui (e sua moglie Franca) in quegli anni. Stabiliscono analogie immaginarie con un autore (Galeazzo di Tarsia), da lui amato e studiato. Ruminano sui non detti delle conversazioni che avemmo allora. Scavano nelle tensioni sull’amicizia, che la malattia – ambigua sorellastra, non si sa se più della storia o della natura – produce nei corpi e nelle menti, incalzandoci con la paura dalla morte. La terza poesia è accompagnata dal dettaglio di un mio disegno, del 1990, a carboncino, dove mi era parso e ancora mi pare fossero venuti fuori i tratti del volto sofferente di Eugenio, avvolto in un nero psichico mortuario, che in quegli stessi anni, per altri motivi, pesava anche su di me (perciò il titolo). Per questa pubblicazione ho appena ritoccato in qualche punto i testi, tratti dal mio Diario. Seguirà un mio ricordo di Grandinetti in prosa, che forse chiarirà meglio il contesto quotidiano e storico in cui i versi nacquero. [E. A.]
Ennio Abate a Lucio Mayoor Tosi (11 febbraio 2011)
Siamo, infatti, passati, quasi senza accorgercene, dal ”Siamo tutti intellettuali” (ai tempi di Gramsci, quando essere intellettuali era un privilegio per pochi e un’aspirazione per molti) all’ “Abbasso gli intellettuali” (ai tempi nostri, della TV, del Web, della società dello spettacolo). E nella nostra mailing list serpeggiano eufemistici o sibillini messaggi, che in sostanza dicono: Gli intellettuali sono non-concludenti.(Con il mio intelletto, traduco: inconcludenti; e cioè parlano e parlano ma non concludono un c…). La stessa solfa viene ripetuta in varie dosi. Con gran spreco d’intelletto e abbondanza di fumo, secondo me. Perché chi scrive un post o mette quattro frasi in fila di commento, di un po’ d’intelletto pur necessita.
La morte di Meeten Nasr (Sergio Chiappori) è stata per me l’occasione di un ripensamento della sua figura (qui) e della sua poesia (qui). Che restano inseparabili , però, dal tentativo di un gruppo di poeti attivi soprattutto a Milano, i quali, a partire dal 2003-2004 e sotto l’egida di Giampiero Neri, promossero la rivista di poesia “Il Monte Analogo” dalla vita contraddittoria e breve(l’ultimo numero, il 13, uscì nel 2011). A distanza di tanti anni intendo, comunque, riflettere pubblicamente sul senso di quella esperienza, alla quale partecipai come direttore fino al n. 4 (maggio 2006), sostituito poi proprio da Meeten Nasr. Cosa impedì ai suoi redattori di amalgamarsi quel tanto che serve in ogni gruppo per confrontarsi e consolidare un progetto? Pubblico qui una mail che mandai ai redattori il 10 ottobre 2006, che chiarisce con riferimenti concreti quello che era per me il problema irrisolto della rivista. Non ho nessun intento di rinfocolare una tardiva e sterile polemica. M’interrogo e invito chi fosse interessato a interrogarsi sulla crisi tuttora irrisolta della poesia. Proprio partendo da un’esperienza fallita come questa. Pubblicherò volentieri tutti gli eventuali contributi critici che dovessero giungere a Poliscritture (poliscritture@gmail.com) . [E. A.].