Archivi categoria: LETTURE D’AUTORE

Incontri e confronti con gli autori che ci parlano

L’intelletto delle erbe

Prove per un approccio ecocritico ai versi di Fortini: Una obbedienza

Ripubblico in versione completa questo importante saggio già comparso   nel n. 9 cartaceo di  Poliscritture (gennaio 2013) ma mutilato di alcune importanti note. [E. A.]

di Marcella Corsi Continua la lettura di L’intelletto delle erbe

anche le tartarughe forse nella pioggia

di Marcella Corsi

Elemosina di persi amori la poesia”)// feci la scelta quella sera, fortunata/ di portar via Camminando un libro in versi/ da subito bello poi stupefatto di verde d’azzurro/ stupefacente e ancora grandemente bello// m’ha rallegrato di buona compagnia/ più d’una giornata: sguardi aperti, sapienti/ corteggiamenti, piogge leggere scrosci luci silenzi/ un’attenzione al dettaglio affettuosa, esperta// una vita in versi risolta e risolutamente/ amorosa, anche le tartarughe forse nella pioggia.

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Riordinadiario 2006. “Prossimamente” di Giancarlo Majorino

Intervista di Ennio Abate a Giancarlo Majorino (2006)

Alla rilettura d’oggi (2024) due cose colpiscono: – l’affermazione amarissima di Giancarlo Majorino: «il comunismo dovunque arretrato /non il terrorismo!» (p.75);  la sua speranza (ancora blochiana) che “la torcia”, esprimente una distruttività crescente (essendo, allegoricamente, una torcia, può tuttavia tanto disgregare e annientare, quanto rischiarare). [E. A.]

Perché questo titolo ambiguo, che fa pensare sia a una “profezia” sia – come si dice nel risvolto di copertina – ad un anticipo del [tuo] poema? [1] Continua la lettura di Riordinadiario 2006. “Prossimamente” di Giancarlo Majorino

“No, no, ch’io non mi pento”

di Alessandra Pavani

Ricordo il quadro vivente che vidi una volta. Un bellissimo giovane, proprio un beniamino delle ragazze: scherzava con alcune fanciulle, tutte in quell’età pericolosa in cui non sono né donne né bambine. Tra l’altro si divertivano a saltare un fosso. Il giovane stava presso all’orlo di questo fosso e le aiutava nel salto, e così facendo cingeva loro la vita, le sollevava leggermente per aria e le deponeva dall’altra parte. Era uno spettacolo graziosissimo; godetti tanto a guardar lui come a guardar le fanciulle. E pensavo a Don Giovanni. Sono esse stesse che gli corrono nelle bracciaegli le afferra e, non meno svelto, non meno agile, le depone dall’altra parte del fosso della vita.”

   (da S. Kierkegaard, “Don Giovanni. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico”)  
Quando giù all’onda sotterranea sceseDon Giovanni, e a Caronte ebbe pagatoL’obolo, un triste mendicante, l’occhioCome Antìstene fiero, afferrò i remiCon braccio fermo, da vendicatore.Come d’offerte vittime una grandeGreggia, coi seni penduli e le vestiDischiuse, sotto il nero firmamentoDonne si contorcevano traendoDietro di lui un muggito prolungato.Ridendo gli chiedeva SganarelloLa paga, e Don Luigi, con il ditoTremante, ai morti erranti sulle riveIndicava quel figlio tanto audaceChe rise della sua candida fronte.Rabbrividendo sotto le gramaglie,La casta e magra Elvira, accanto al perfidoSposo che fu suo amante, domandargliSembrava quasi un supremo sorrisoIn cui brillasse tutta la dolcezzaDel primo giuramento. Dritto e fermoNell’armi, divideva il nero fluttoAlto un uomo di pietra sorreggendoLa barra del timone. Ma l’eroeCalmo guardava, chino sulla spada,La spuma, e disdegnava altro vedere.

(da C. Baudelaire, “I fiori del male”, Don Giovanni agli Inferi
Non si picca se sia ricca/ Se sia brutta, se sia bella/ Purché porti la gonnella/ Voi sapete quel che fa”   

(da Lorenzo Da Ponte, “Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni”)  

Doveva possedere una ben straordinaria carica seduttiva il leggendario Don Juan Tenorio, ovvero Don Giovanni, se, oltre alle migliaia di donne che conquistò, riuscì per secoli e secoli ad ammaliare fior di artisti e di intellettuali che si ispirarono a lui per le loro opere. Drammaturghi, romanzieri, poeti, filosofi e compositori vollero celebrare le sue gesta eroiche e soprattutto “erotiche”, poiché Don Giovanni, il libertino di Siviglia, questo era e ancora è: Amore e Morte, Eros e Thanatos. Approfondirò però più avanti tale questione. Cominciamo invece dall’inizio. Le origini del mito del diabolico ammaliatore si perdono nella notte dei tempi, tanto che viene da pensare che sia sempre esistito. Azzardando un’enorme e rischiosa forzatura, si potrebbe perfino ravvisare nel dio Zeus, il cui culto si sviluppò intorno al secondo millennio a. C., un prototipo del nostro donnaiolo spagnolo, per l’insaziabile appetito sessuale che li accomuna. Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard l’idea del Don Giovanni “appartiene al cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, al medioevo”; così giustifica la sua ipotesi: “Se io ora penso all’erotico sensuale come principio, come forza, come regno, determinato dallo spirito, cioè, determinato in modo che lo spirito lo escluda, se lo penso concentrato in un unico individuo, ho il concetto della genialità erotico-sensuale. Questa è un’idea che i greci non avevano, che è stata introdotta nel mondo soltanto dal cristianesimo, anche se solo indirettamente”. Quello che è certo è che nel medioevo esisteva una figura che per alcuni versi ne era precorritrice: era il giovane cavaliere innamorato, protagonista di farse e leggende, una marionetta come tante altre, priva di spessore e di drammaticità. Il primo a dare concretezza a Don Giovanni, mettendo nero su bianco le sue avventure e a trasformarlo in “personaggio” (sia pure fittizio), è Tirso de Molina, che nel 1632 scrive la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra.

La trama è a grandi linee quella che, con alcune varianti, verrà ripresa anche da vari artisti successivi: Don Giovanni, un licenzioso avventuriero, dopo una serie di inganni, seduzioni, travestimenti e l’uccisione del padre di una delle sue donne, si scontra con la statua di quest’ultimo, e senza alcun rispetto per il defunto si prende gioco di lui, e addirittura invita a cena la statua stessa (il convitato di pietra), per poi ricambiare il favore. La commedia si conclude con la statua che, rivelatasi simbolo della giustizia divina che pretende il castigo del burlador, trascina il peccatore tra le fiamme dell’inferno. In quest’opera teatrale, il personaggio di Don Giovanni ha già tutte le caratteristiche che lo renderanno immortale: il fascino, il coraggio, la temerarietà, ma c’è anche qualcosa di più profondo: una costante infatti del suo temperamento, oltre alla ben nota lussuria, è, fin da questa sua prima “apparizione”, l’empietà, la scelleratezza, il disprezzo per ciò che è sacro (non dobbiamo dimenticare che Tirso de Molina era un ecclesiastico). Se nel Settecento, secolo dei Lumi, questa peculiarità finirà per passare in secondo piano (senza tuttavia sparire), nel 1665, quando Molière scrive la tragicommedia in prosa Dom Juan ou le Festin de pierre, la tematica è ancora ben presente e fortemente sentita; è soprattutto la natura sacrilega del suo Don Giovanni a condurlo alla morte, non tanto il suo insaziabile appetito sessuale.

In Moliére, la vicenda non si discosta molto da quella messa in scena dal suo predecessore spagnolo: anche qui donne e ragazze sedotte e abbandonate, intrighi, duelli, e infine la statua vendicatrice. Fanno però la loro comparsa una schiera di personaggi comici che controbilanciano quelli nobili e tragici: il servo buffonesco Sganarello, ad esempio (erede diretto degli zanni della commedia dell’arte), che non nutre alcuna stima per il suo padrone ma lo teme, la coppietta di contadini che, nella loro ignoranza, storpiano le parole (lei ingenua e civettuola, lui pavido e geloso), la paesana invidiosa, e il creditore che, per quanto faccia, non riesce a riavere i soldi prestati all’astutissimo Don Giovanni, maestro nell’arte di liberarsi degli scocciatori. In questa commedia c’è anche il vecchio padre del protagonista, ed è proprio nelle scene in cui i due si fronteggiano che il libertino mostra il suo lato peggiore e sacrilego. Già nel terzo atto, discutendo di religione con Sganarello, afferma che la sua unica fede è che “Due e due fanno quattro (…) e che quattro e quattro fanno otto” (la traduzione è mia); inoltre, a un devoto eremita che chiede l’elemosina, risponde che gli regalerà una moneta d’oro purché egli bestemmi di fronte a lui (al rifiuto del povero, Don Giovanni gliela dona ugualmente, in quanto si tratta pur sempre di un personaggio che possiede una sua nobiltà e un forte senso dell’onore). Io credo che in qualche modo sia opportuno considerare questo lato del carattere di Don Giovanni senza preconcetti o bigottismi; nel contesto in cui il personaggio vive e agisce, la cattolicissima Spagna (o, nel caso di Molière, la Sicilia), il suo atteggiamento ribelle ed empio può essere visto come un atto di coraggio. In fondo, chi non è credente, se da un lato non teme la giustizia divina, dall’altro rinuncia anche al conforto che la fede può dare. Per questo motivo il comportamento del Don Giovanni di Molière ne fa, almeno fino al quarto atto, un “eroe”, anche se sui generis. Ma la tragica svolta (e la vera novità rispetto a de Molina) avviene nel quinto e ultimo atto; è qui che assistiamo alla sua definitiva degradazione, quella che gli costerà la discesa agli inferi. La finta conversione, recitata davanti al padre, e il successivo elogio dell’ipocrisia segnano il suo destino (e anche quello della commedia stessa, che infatti verrà messa al bando non molto tempo dopo). A Sganarello che esclama scandalizzato: “Come? Voi non credete a niente di niente, e volete tuttavia erigervi a uomo di sani principi morali?” il libertino risponde: “Perché no? Ce ne sono tanti come me, che si impicciano di questo mestiere, e che si servono della stessa maschera per ingannare il mondo! (…) L’ipocrisia è un vizio che va di moda, e tutti i vizi che vanno di moda passano per virtù”. L’ultima malefatta di Don Giovanni lo condanna definitivamente. “Padrone (…) questo è molto peggio del resto, e vi preferirei di gran lunga come eravate prima. Ho sempre sperato nella vostra salvezza; ma è adesso che non ci spero più; e credo che il Cielo, che vi ha sopportato fin qui, non potrà assolutamente tollerare quest’ultimo orrore”. E infatti è così che si conclude la commedia: la statua afferra la mano di Don Giovanni per trascinarlo nel fuoco, e in scena rimane solo Sganarello, disperato per non aver ricevuto il suo sudato salario. Scrive Sandro Bajini (drammaturgo, traduttore e scrittore dei giorni nostri): “La società devota non viene più derisa nelle persone, ma si sente offesa nei sentimenti. Invano il diavolo si è fatto frate, e Molière, diventando a sua volta ipocrita, ha affidato la provocazione a un personaggio che, essendo ateo, deride i devoti per istituzione. Ma il linguaggio di Don Giovanni non ha indulgenze e Molière non prende sufficientemente le distanze dal suo personaggio. Lo manda all’inferno ma, per così dire, senza condannarlo in proprio. Viene il sospetto che l’irrisione di Don Giovanni per le cose sante sia l’irrisione di Molière per chi crede in esse (…) Benché il poeta non lesini gli elementi farseschi, la ferocia rimane intatta in molte situazioni, e la famosa scena in cui Don Giovanni invita il mendicante a bestemmiare è sconvolgente: Molière la sopprime alla seconda rappresentazione. Il sacrificio non basta, il resto dell’opera parla a sufficienza”. 

Se la commedia di Molière è legata a doppio filo a quella di Tirso de Molina, esiste un dramma per musica con protagonista Don Giovanni (scritto nel 1651 da Giovan Battista Andreini e intitolato Il nuovo risarcito convitato di pietra), che, nonostante abbia più o meno la stessa trama delle due opere già analizzate, la inserisce in un contesto tipicamente barocco, con tanto di personaggi allegorici (Furore, Vendetta, Punizione, ecc.) o tratti addirittura dalla mitologica classica (Giove, Vulcano, i Titani e altri). Questa “cornice” fiabesca a volte si intreccia alle avventure di Don Giovanni, a volte è invece un mero pretesto per intermezzi musicali e balletti, tanto cari al teatro del Seicento. Di certo uno spettacolo di questo tipo doveva rappresentare una vera delizia per gli occhi e le orecchie del pubblico di allora; oggi, probabilmente, questa ridondante sovrapposizione di livelli narrativi, insieme ai relativi “inserti” celebrativi, risulterebbe indigesta. Il nuovo risarcito convitato di pietra nasce come opera barocca, e nei confini del barocco rimane intrappolata; questo Don Giovanni, novello Titano, si rivela troppo distante dalla nostra sensibilità, e troppo poco umano per coinvolgerci o affascinarci. Questo, tuttavia, non ha impedito al regista Massimo Machiavelli di portare in scena, quattro anni fa, (con qualche taglio e con la musica del nostro contemporaneo Umberto Cavalli) il Don Giovanni creato da Giovan Battista Andreini; è stata un’operazione coraggiosa, e in un certo senso rischiosa, ma, fortunatamente, grazie all’intelligenza e all’impegno di chi vi ha lavorato, è riuscita a ottenere un discreto successo, con grande soddisfazione degli autentici appassionati delle varie forme di teatro attraverso i secoli.

Sono passati una settantina di anni dalla prima messa in scena del Dom Juan di Molière (e più di ottanta da quella del Nuovo risarcito) quando Carlo Goldoni scrive il suo Don Giovanni Tenorio. Siamo infatti nel 1735, all’alba dell’Illuminismo, e l’autore dichiara fin dalla prefazione alla versione stampata di volersi allontanare dai cliché dei suoi predecessori: il protagonista della sua opera deve essere “realistico”, non ci saranno buffonerie da commedia dell’arte, e nemmeno statue che vengono invitate a cena. Il suo Don Giovanni non ha nulla di eroico, anzi, è addirittura un vigliacco, e il castigo finale è necessario affinché (sempre secondo Goldoni) nessuno degli spettatori si illuda di poter condurre una vita dissoluta senza pagarne le conseguenze. Ovviamente non mancano i tradimenti, le seduzioni, e nemmeno le situazioni comiche, ma tra questa tragicommedia e le precedenti si apre un vero e proprio abisso, che il pubblico dell’epoca non gradisce. In Andreini, Don Giovanni era lontano anni luce dal mondo degli umani, in Goldoni, viceversa, si rivela fin troppo umano. Probabilmente, per conquistare definitivamente la sua consacrazione a mito immortale il cui fascino non avrà mai fine, Don Giovanni ha bisogno che qualcuno lo collochi in quella dimensione che sta tra la Terra e il Cielo, tra l’umano e il divino (o, meglio, il diabolico), tra pulsione di vita e pulsione di morte; in breve, come anticipato, tra Eros e Thanatos. Evidentemente, il pur validissimo e moderno Goldoni non possedeva la necessaria genialità, oppure i tempi non erano ancora maturi. Dovrà passare ancora qualche anno.

Antefatto: siamo nel 1787, a Venezia, e al Teatro Giustiniani di San Moisè va in scena Don Giovanni o sia il convitato di pietra, opera lirica composta da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati. E’ il 5 febbraio, e fin dalla prima sera l’opera riscuote un enorme successo, tanto che nei due anni successivi verrà rappresentata nei teatri di tutto il nord Italia. La trama riprende a grandi linee la commedia di Tirso de Molina, i vari tentativi di seduzione, il duello con il Commendatore e la statua di quest’ultimo che punisce il libertino.

Siamo sempre nel 1787. Per effetto dell’entusiasmo suscitato dal lavoro di Gazzaniga, il Nationaltheater di Praga commissiona un nuovo Don Giovanni a Wolfgang Amadeus Mozart. Come librettista viene scelto l’abate Lorenzo Da Ponte, che vi lavora febbrilmente, essendo contemporaneamente impegnato nella scrittura di altri due libretti. Anche Mozart, che per motivi economici deve comporre più musica possibile, si dedica al nuovo compito a un ritmo forsennato, perché l’opera deve necessariamente andare in scena in concomitanza col passaggio della duchessa di Toscana per la città di Praga. Scrive Claudio Casini nel suo Amadeus, biografia del celebre compositore: “Il tempo stringeva, e Mozart e Da Ponte ricorsero al più diffuso metodo per scrivere rapidamente un’opera: il plagio. Copiarono a man salva dal libretto intitolato Il Convitato di Pietra che Giovanni Bertati aveva scritto per un musicista minore, Giuseppe Gazzaniga: l’opera era stata rappresentata nel gennaio (sic!) di quell’anno 1787 a Venezia. Il nuovo libretto ebbe il titolo di Don Giovanni o il dissoluto punito“.

La trama è pressoché identica: tre donne ingannate da Don Giovanni, i compagni di due di esse e il fantasma del Commendatore ucciso dal protagonista che gridano vendetta, e la vicenda che si conclude seguendo il solito copione, con Don Giovanni che viene inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Apparentemente non v’è alcuna novità. Se non fosse che la musica di Mozart raggiunge qui una tale perfezione, una così indescrivibile potenza ultraterrena, che il personaggio di Don Giovanni viene trasfigurato, quasi perde la sua identità individuale per farsi assoluto, sintesi ultima dei succitati Eros Thanatos. “L’Ouverture del Don Giovanni inizia sugli ampi, solenni accordi, neri come barbagli di fuoco, della Punizione mediante la Morte. Accordi (…) simili -ma consonanti- a quelli che, dissonanti, sottolineeranno l’ingresso del Commendatore, il Convitato di Pietra, nella sala della cena funebre (…) L’opera che inizia è una cruda tragedia. Ma (…) ecco irrompere all’improvviso, brillante e terso, uno spensierato uragano di desiderio, la vita lanciata all’inseguimento (…) Don Giovanni (…) ha iniziato la sua corsa(…) Fin dalla sua prima espressione orchestrale, questa Musica dà quindi l’impressione di un irrompere; è nata con il potere di sedurre e di soggiogare. Ci sentiamo pervasi e trascinati dalla sua forza, carica di una straordinaria tensione (…) Una simile tensione quasi travalica l’umano (…) Se in certi momenti è paragonabile alla misteriosa concitazione del delirio, in altri può essere vista come la potenza naturale del fiotto di sangue che sgorga da un petto (…) Don Giovanni non ha tregua; l’amore non ha limiti; la felicità e il dolore non avranno né risoluzione né termine, se non in Don Giovanni stesso e nella sua esistenza”. Così scrive il poeta e romanziere francese Pierre-Jean Jouve a proposito dell’Ouverture del Don Giovanni mozartiano (Ouverture che, ricordiamolo, Mozart compone di getto la notte prima dello spettacolo).

A Praga l’opera ottiene un successo straordinario (“Il 29 ottobre è andata in scena la mia opera Don Giovanni, accolta con il più vivo entusiasmo. Ieri è stata rappresentata per la quarta volta (a mio beneficio)”, scrive Mozart in una lettera all’amico Gottfried Von Jacquin il 4 novembre del 1787).

(…) vorrei che i miei buoni amici (…) potessero essere presenti, anche una sera soltanto, per prendere parte alla mia gioia. Ma forse verrà rappresentata anche a Vienna? Me lo auguro.” In effetti, nel maggio del 1788, l’opera va in scena anche a Vienna, ma sfortunatamente non incontra il favore del pubblico della capitale austriaca. Le due versioni (quella praghese e quella viennese) presentano alcune differenze; Mozart infatti, consapevole della mentalità conservatrice e, in qualche modo, più “chiusa” degli austriaci, opera alcune modifiche e taglia qualche scena, in particolare il sestetto finale che “celebra” la morte di Don Giovanni. Inutilmente. All’imperatore Giuseppe II e al suo pubblico il Don Giovanni non va a genio, almeno inizialmente. Scrive l’abate Da Ponte nelle sue Memorie: “Io non avea veduto a Praga la rappresentazione del Don Giovanni; ma Mozzart (sic!) m’informò subito del suo incontro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: ‘Evviva Da Ponte, evviva Mozzart. Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno, non si saprà mai che sia miseria teatrale.’ L’imperadore mi fece chiamare e, caricandomi di graziose espressioni di lode, mi fece dono d’altri cento zecchini, e mi disse che bramava molto di vedere il Don Giovanni. Mozzart tornò, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a cavare le parti, perché Giuseppe doveva partire. Andò in scena, e… deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l’imperadore? ‘L’opera è divina; è forse forse più bella del Figaro, ma non è cibo pei denti de’ miei viennesi.’ Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi: ‘Lasciam loro tempo da masticarlo.’ Non s’ingannò. Procurai, per suo avviso, che l’opera si ripetesse sovente: ad ogni rappresentazione l’applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori viennesi da’ mali denti ne gustaron il sapore e ne intesero la bellezza, e posero il Don Giovanni tra le più belle opere che su alcun teatro drammatico si rappresentassero”.

Al di là della pur interessante aneddotica circa le fortune o le sventure che ebbero le rappresentazioni dell’opera all’epoca di Mozart, quella che rimane ancora oggi una verità incontrovertibile è che solo grazie al compositore di Salisburgo il Don Giovanni diventa Don Giovanni, assurge all’immortalità, si fa Ideale quanto più è percepibile il suo lato carnale. Al suo confronto, il Burlador di de Molina, l’empio ipocrita di Molière, il Titano di Andreini, il vigliacco di Goldoni e il donnaiolo di Bertati si riducono a più o meno riuscite variazioni sul tema del peccatore irredento. E’ solo per mano di Mozart che Don Giovanni prende letteralmente vita e ne gode tutti i piaceri, mai sazio, mai in pace, quasi in lotta contro il tempo: egli vuole possedere ogni donna, ma nel momento in cui l’ha posseduta non ha nemmeno modo di gloriarsene, che l’istinto lo spinge già verso la donna successiva. Ecco perché parlavo di Eros Thanatos: Don Giovanni si auto-distrugge ogni volta che porta a termine una nuova conquista; nell’amplesso è un effondersi di forza demoniaca, di energia cosmica e generatrice, di gioia sublime, e nell’orgasmo si auto-annulla, si esaurisce, muore. Ma Don Giovanni non può morire per amore, e allora ecco che il desiderio si riaccende, la vita ricomincia, c’è ancora una nuova femmina da sedurre… Qualcuno può obiettare (e in effetti qualcuno ha obiettato) che durante l’opera mozartiana, il protagonista in realtà fallisce in tutti i suoi tentativi di conquistare i personaggi femminili (Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina, e altre tre donne che non appaiono mai sul palcoscenico, ovvero “Una bella dama” che, dice Don Giovanni “meco al casino questa notte verrà”, la cameriera di Donna Elvira, e “una fanciulla bella, giovin, galante” incontrata nei pressi del cimitero). A questo proposito il libretto di Da Ponte è piuttosto ambiguo: Donna Anna entra in scena ad opera appena iniziata, dopo che Don Giovanni ha tentato un approccio di tipo sessuale con lei, ma se l’impresa sia riuscita o no è un mistero che rimane irrisolto (diversi studiosi hanno cercato di svelare l’arcano basandosi sul testo e sulla musica, così come si sono interrogati sui reali sentimenti che Donna Anna prova per il protagonista). Per quanto riguarda Donna Elvira, è lei stessa ad informarci di essere stata sedotta e addirittura sposata prima di essere abbandonata; durante lo svolgimento dell’opera Don Giovanni se ne tiene lontano il più possibile, quindi, ai fini della storia, non possiamo annoverarla tra le sue conquiste. Anche Zerlina, come Donna Anna, rappresenta un enigma: di certo è attratta da Don Giovanni, accetta perfino di sposarlo, ma poi la tentata seduzione avviene dietro le quinte, e anche in questo caso lo spettatore è libero di interpretare la scena a suo piacimento. Si tratta tuttavia di questioni di lana caprina; il fatto che Donna Anna sia riuscita o no a difendersi, che cosa cambia nell’economia della narrazione? Come scrive Kierkegaard: “Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! (…) Quando Don Giovanni viene interpretato in musica, io sento in lui tutta l’infinità della passione, e nello stesso tempo la sua sconfinata potenza, alla quale nulla può resistere; sento il selvaggio ardore del desiderio, ma nello stesso tempo la sua assoluta invincibilità, contro la quale sarebbe vana ogni resistenza.” Qualcuno ha voluto mettere il personaggio di Don Giovanni in relazione con Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano divenuto celebre soprattutto per le sue doti da tombeur de femmes (grande amico, tra l’altro, dell’abate Da Ponte), o con un altro libertino (frutto, quest’ultimo, di fantasia), il visconte di Valmont protagonista de Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos.

Tuttavia non hanno nulla in comune: mentre Casanova e Valmont sono figli del loro secolo, e quindi ragionano, calcolano, scelgono, e pianificano, Don Giovanni è istinto allo stato puro. Casanova è raffinato, attento al temperamento della sua amante di turno, vanitoso e quindi desideroso di donare piacere non meno che di provarlo, affinché venga preferito a ogni altro uomo; Valmont è malvagio, seduce per punire, e più che alla quantità è interessato alla qualità delle sue vittime; Don Giovanni invece è una fiamma che travolge l’intero universo femminile. Basti pensare all’aria “Finch’han dal vino”, spesso denominata aria dello champagne per comprendere la sua forza primordiale, virile, diabolica; qui testo e musica si sposano in un connubio perfetto di passione ed erotismo:

Finch’han dal vino/ Calda la testa,/ Una gran festa/ Fa’ preparar./ Se trovi in piazza/ Qualche ragazza,/ Teco ancor quella/ Cerca menar./ Senza alcun ordine/ La danza sia:/ Chi’l minuetto,/ Chi la follia,/ Chi l’alemanna/ farai ballar./ Ed io frattanto,/ Dall’altro canto,/ Con questa e quella/ Vo’ amoreggiar./ Ah! la mia lista/ Doman mattina/ D’una decina/ Devi aumentar.

(Nel 1998 l’ex finanziere Orazio Bagnasco scrive un romanzo in cui personaggi reali come Da Ponte e Casanova si incontrano con Don Giovanni e altre figure dell’opera mozartiana. Uno dei temi principali è proprio la sfida che Don Giovanni lancia all’avventuriero veneziano, basata su chi riuscirà a conquistare per primo un determinato numero e tipo di donne. Il romanzo si intitola “Vetro”.)

Nonostante si sia detto e ripetuto che il personaggio di Don Giovanni, in Mozart, non ha nulla di settecentesco (nulla, quindi, di razionalistico, di illuminato, di ordinato), l’opera in realtà strizza l’occhio ai temi più scottanti dell’epoca, anche se in maniera nascosta. Scrive infatti Charles Rosen: “Anche la politica può entrare nella musica. Quando Don Giovanni saluta i suoi ospiti mascherati con la frase Viva la libertà, il contesto non implica specificamente una libertà politica (…) Ma (…) nel 1787, durante i fermenti che avevano seguito la Rivoluzione americana e preparavano quella francese, difficilmente un pubblico poteva mancare di cogliere un significato sovversivo in un passaggio che dal solo libretto poteva apparire assolutamente innocuo, particolarmente dopo avere udito le parole ‘Viva la libertà’ ripetute una dozzina di volte in fortissimo da tutti i solisti, accompagnati dalle fanfare dell’orchestra.” Scrive poi, più avanti: “La grande scena del ballo del primo atto, con le tre orchestre separate sulla scena e il complesso incroci dei ritmi di danza, non è soltanto un brano di virtuosismo compositivo. Ognuna delle tre classi sociali- il proletariato contadino, la borghesia e l’aristocrazia- ha la propria danza, e l’indipendenza assoluta di ciascun ritmo riflette la gerarchia sociale; e sono questo ordine e questa armonia che vengono distrutti quando Don Giovanni tenta di portare via Zerlina_ L’ambientazione politica del Don Giovanni assume poi maggiore peso a causa degli stretti rapporti che nel Settecento vi erano tra pensiero rivoluzionario ed erotismo (…) le connotazioni politiche della libertà sessuale erano ben vive al tempo della prima rappresentazione del Don Giovanni, e il pubblico non poteva sfuggirle: una parte dello scandalo e dell’attrazione che quest’opera ispirò per anni interi va probabilmente vista in questo contesto”.

Don Giovanni dunque libidinoso, impavido, incurante delle regole, bugiardo, violento, e oltre a ciò anche rivoluzionario, eroico, tanto da sfidare la morte stessa; quando la statua del Commendatore gli chiede, gli ordina, quasi lo supplica di pentirsi, lui risponde con nobile disprezzo: A torto di viltate/ Tacciato mai sarò. Sa cosa lo aspetta, ma non intende servirsi di facili scappatoie per evitare il castigo; quale che sia il suo destino, lui è risoluto a seguirlo. No, no, ch’io non mi pento! è la sua risposta all’avvertimento del Commendatore che quella è la sua ultima possibilità di salvarsi. Lui affronta la morte come ha affrontato la vita: a viso aperto, senza mai tirarsi indietro, consegnandosi interamente alla dannazione come interamente si è consegnato al piacere. Non si può non provare ammirazione davanti al suo ardimento, e quando, dopo la sua morte, tornano sul palcoscenico tutti gli altri personaggi, soddisfatti di essere stati vendicati dal Cielo, allo spettatore rimane un senso di amarezza. Nel descrivere la morte di Mozart, il biografo Claudio Casini la paragona a quella del suo Don Giovanni, e a mio parere usa una similitudine geniale: “Quando fu morto, al termine di una terribile agonia, accadde come nel suo Don Giovanni: dopo la scomparsa del protagonista restano in scena personaggi opachi, sbigottiti dall’aver assistito a un’esistenza turbinosa, finita in maniera conturbante e piena di misteri”. Chapeau, signor Casini! _ Qui di seguito citerò alcuni tra gli innumerevoli saggi dedicati al capolavoro mozartiano.

                                                                          

Verrebbe da pensare che, raggiunte grazie a Mozart le vette del sublime, Don Giovanni abbia concluso in gloria la sua esistenza artistica, e a che nessuno possa venir l’idea di scrivere o comporre nuove opere che lo vedano protagonista, per dover poi subire l’umiliazione dell’inevitabile confronto con l’eroe mozartiano. Eppure le cose vanno diversamente, Don Giovanni continua ad affascinare e a ispirare artisti di ogni tipo. Tra il 1818 e il 1824, Lord Byron lavora al poema Don Juan; l’opera rimane però incompleta a causa della morte dell’autore. La trama si distacca da quelle che abbiamo analizzato finora: qui Don Giovanni è un adolescente, affascinante ma ingenuo, che tra schiavi, pirati, sultani e odalische, vive una vita avventurosa, ricca di erotismo, attraverso l’intera Europa, dalla Spagna alla Turchia, alla Russia e all’Inghilterra. Al di là del nome e dell’intensa attività sessuale, questo personaggio ha poco in comune con i suoi omonimi predecessori, ciononostante rimane un’opera poetica di ampio respiro che ha i suoi estimatori.

Anche lo scrittore, poeta e drammaturgo russo Aleksandr Sergeevich Puškin scrive un microdramma ispirato a Don Giovanni, dal titolo Il convitato di pietra, la cui sostanziale differenza con la trama classica è che il Commendatore non è più il padre ma il marito di Donna Anna, ma il finale non cambia.

Byron e Puškin non sono comunque i soli a cimentarsi nell’ardua impresa di dare nuova vita a un personaggio che già è stato consegnato all’immortalità. L’Ottocento conta numerosi artisti che ne seguirono l’esempio. Ne citerò solo alcuni:

_ E. T. A. Hoffmann: Racconti fantastici, 1814 

_ Honoré de Balzac: L’elisir di lunga vita, 1830 

_ Prosper Mérimée: Le anime del Purgatorio, 1834 

_ José Zorrilla: Don Giovanni Tenorio, 1844 

_ J. A. Barbey d’Aurevilly: Le diaboliche, 1874 

_ Remy de Gourmont: Storie magiche, 1894 

Per quanto riguarda il Novecento, degno di nota è L’ultima notte di Don Giovanni di Edmond Rostand: qui, in una Venezia che funge da “viale del tramonto”, un disilluso Don Giovanni prende coscienza del proprio fallimento quando una specie di demone gli fa apparire di fronte tutte le donne da lui sedotte, che gli rivelano di non averlo mai amato. E come se l’umiliazione non fosse già un castigo sufficiente, Don Giovanni viene infine trasformato in un burattino, una caricatura di se stesso, costretto a recitare in eterno il suo fasullo ruolo di tombeur de femmes. In quest’opera teatrale viene operata una lettura psicanalitica del mito di Don Giovanni; in fin dei conti siamo nel 1922, e il saggio Al di là del principio del piacere è stato dato alle stampe appena due anni prima.

Da segnalare anche Don Giovanni ritorna dalla guerra dello scrittore e drammaturgo austriaco Ö. von Horvàth, del 1936, e Don Giovanni o l’amore per la geometria dello svizzero Max Frisch, 1953, in cui Don Giovanni è costretto ad accettare di essere sempre stato sedotto quando invece credeva di sedurre.

Nel nuovo millennio, infine, Don Giovanni ottiene una sorta di riabilitazione grazie al portoghese José Saramago e al suo Don Giovanni, o il dissoluto assolto, scritto nel 2005 e trasposto in musica qualche anno più tardi dal compositore Azio Corghi. Non ci sono più le fiamme dell’inferno ad attendere il protagonista, che in questa versione è perseguitato non dal Commendatore (esponente di un ipocrita moralismo ormai antiquato) ma da due “non tanto innocenti” Donna Anna e Donna Elvira; la statua non ha alcuna funzione, e Don Ottavio è rappresentato in tutta la sua sciapa vigliaccheria. Don Giovanni, che, al contrario, è un eroe (“Don Giovanni sa che mentirebbe contro se stesso se si pentisse, e che nessun pentimento può cancellare le mancanze commesse”, dice Saramago durante un’intervista concessa a Leonetta Bentivoglio, nella rubrica Cultura di ‘Repubblica’, 2 aprile 2005), viene salvato inaspettatamente da Zerlina. E riguardo l’opera di Mozart- Da Ponte asserisce: “Metto il Don Giovanni di Mozart al di sopra di qualsiasi altra opera di qualsiasi altro autore o epoca. Se c’è un’opera al mondo capace di mettermi in ginocchio, vinto, sottomesso, è proprio questa. Gli otto minuti che trascorrono fra l’entrata della statua del Commendatore e la caduta di Don Giovanni all’inferno appartengono ai domini del sublime”. 

Saggi critici sul personaggio di Don Giovanni:

_ P. Brunel: Dictionnaire de Don Juan 

_ U. Curi: Filosofia del Don Giovanni 

_ G. Macchia: Vita, avventure e morte di Don Giovanni 

_ R. Raffaelli: Variazioni sul Don Giovanni 

_ J. Rousset: Il mito di Don Giovanni 

Nemmeno i compositori si lasciano scoraggiare dal successo del Don Giovanni di Mozart, e tanta altra musica viene scritta nei secoli successivi, ispirata al seduttore di Siviglia. Nel 1832, il catanese Giovanni Pacini compone la farsa musicale Il convitato di pietra su libretto di Gaetano Barbieri. La trama è quella tradizionale, con qualche personaggio eliminato o ridotto di spessore, e l’organico strumentale è quello di un’orchestra da camera.

Anche l’ungherese Franz Liszt si cimenta nell’impresa, e nel 1841 compone Réminescences de Don Juan, una fantasia per pianoforte su temi dal Don Giovanni di Mozart: dell’opera di Liszt, il collega F. Busoni dice che contiene “un significato quasi simbolico come il punto più alto del pianismo”. Nel 1877, il compositore ungherese ne scrive una nuova versione per due pianoforti.

Nel 1888 è la volta del tedesco Richard Strauss, che compone un poema sinfonico ispirato a Don Juan Ende del poeta Nikolaus Lenau, ennesima variazione sul tema che vede, questa volta, il protagonista impegnato nella ricerca della sua donna ideale, e infine suicida per la sua impossibilità di trovarla. L’opera riscuote un grande successo.

E per quanto riguarda il cinema? Possibile che la settima arte rimanga estranea alla celebrazione di un personaggio così leggendario? Naturalmente no. Nel 1948 esce Le avventure di Don Giovanni, con Errol Flynn nella parte dell’eroe; nel 1960 è Ingmar Bergman a riportare sulla Terra (in tutti i sensi) il diabolico seduttore col film L’occhio del diavolo; dieci anni più tardi tocca a Carmelo Bene che, nel 1970, traspone sul grande schermo il Don Giovanni di J. A. Barbey d’Aurevilly; infine, nel 2009, Carlos Saura gira una pellicola incentrata sulla figura di Lorenzo Da Ponte e sulla sua vita da libertino, intitolata Io, Don Giovanni 

Cosa rimane da dire? Beh, in realtà si potrebbe continuare all’infinito. Io, da grande estimatrice di Mozart, e innamorata del suo Don Giovanni, voglio concludere questo articolo con le parole che Kierkegaard dedica a quel grande capolavoro, e che potrebbero benissimo essere le mie:

Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! Perciò non voglio descriverlo ma limitarmi a dire: ascoltate Don Giovanni! E se ascoltandolo non siete capaci di farvi un’idea di lui, non potrete farvela mai. Ascoltate come la musica racconta la sua vita: come il lampo dall’oscura nube temporalesca, così egli guizza dalla profonda serietà della vita, più veloce del lampo, più incostante di questo, eppure ugualmente sicuro di sé; ascoltate come egli si precipita nella prodiga ricchezza della vita, come egli lotta contro le sue solide dighe; ascoltate le leggere ed aeree melodie del violino, il festoso sorriso della gioia, il giubilo del piacere, i beati tripudi del godimento; ascoltate la sua fuga selvaggia, egli corre oltre se stesso, sempre più veloce, sempre più selvaggio; ascoltate la sfrenata concupiscenza della passione, il sussurrare dell’amore, il mormorio della tentazione, il vortice della seduzione; ascoltate il silenzio dell’attimo – ascoltate, ascoltate; ascoltate il Don Giovanni di Mozart!”

Nota
L’articolo è ripreso da La culla della strega di Alessandra Pavani con l’autorizzazione dell’autrice

Lo sguardo delle donne

di Velio Abati

Nei volumi collettanei la pluralità di approcci è istituzionale, la disomogeneità dei risultati inevitabile, così il lettore sente più autorizzata la propria libertà di scelta persino. Nel libro che ha preso spunto – afferma la quarta di copertina – dal convegno della Società Italiana delle Letterate, tenutosi a Venezia nel dicembre del 2019, a mio parere il luogo fondo, quasi un fuori scena da cui meglio vedere la linfa dei percorsi plurimi si trova un po’ decentrato: Scrittrici o venditrici? Un dialogo a distanza fra Giulia Caminito e Chiara Ingrao durante il lockdown del 2019.
È, si potrebbe dire in termini teatrali, una scena perfetta. Non è certo una novità che la reclusioneobbligata dall’infuriare della pestilenza sospinga, in certe aree dell’umano, alla risorsa di ultima istanza che sempre è la letteratura, condizione in qualche modo antropologica,il cui archetipo e acme nella nostra lingua è il Decameron. Ma, nel nostro caso, la mossa propria dello sguardo femminile muta il paradigma.
La sospensione, imposta dalle autorità sanitarie, provoca uno strappo, che la coazione capitalistica alla produzione di valore sente intollerabile, così chi, come la giovane Caminito, ne è stata strumento e fruitrice, è messa di fronte a se stessa: “in due mesi io ne ho fatti anche cinquanta [di presentazioni], partendo più volte a settimana e trovandomi in affanno e in confusione, a parlare dei miei libri a mitraglia, senza sosta, spesso senza ricordarmi neanche a chi. Ho visto troppo in troppo poco tempo e ho parlato troppo di me e dei miei libri nel giro di poche giornate. Ho sentito di doverlo fare, di dover essere performer della mia scrittura, di dover dare a chi mi ascoltava motivo per comprare il mio libro e comprarmi. Quindi ho sviluppato un’ossessione sulla riuscita degli incontri, dal fatto di dover sempre cambiare le cose dette, dagli approfondimenti, dalle letture, dalle domande delle persone, tanto che questa concentrazione mi ha fatta ammalare” (145).
L’obbligata immobilità costringe a vedere il silenzio del rumore e il vuoto dell’affollamento, ma lo sguardo riguadagnato trova la forza di spostarsi alle spalle dell’atto letterario, d’interrogare se stessa e di farlo trovando la voce complice di altra autrice e di una precedente generazione. È proprio il partire da sé e il suo essere inseparabile dall’altra, che a me pare gesto decisivo, fertilissimo. Naturalmente, nella dialettica sé-altra non c’è nulla di irenico, come con grande lucidità riconoscono le due scrittrici, coraggiosamente confrontandosi su invidie e frustrazioni; né potrebbe essere altrimenti, pena ridurre il tutto a pappetta ideologica.
La scena, si diceva, del silenzio si anima di nuova autoconsapevolezza, perché la solitudine è ribaltata in azione comune. È proprio questo che io, ammirato, invidio alla capacità delle donne di conservare e alimentare, lungo le nervature sociali e geografiche, gruppi, canali di relazioni, discussioni, produzioni non ossificate nell’accademia. È indubbio segno di vitalità e di speranza che la riflessione sul sé sfugga all’ossessione narcisistica della nostra epoca, che la parola sappia diventare scelta e azione condivisa.
Rientra in questa linea di condotta il considerare, come viene fatto nei vari saggi, la letteratura come documento e specola di vita, qui, in particolare, vita contemporanea sul lavoro, oggetto dichiarato dal titolo: Visibile e invisibile. Scritture e rappresentazioni del lavoro delle donne (a cura di Laura Graziano e Luisa Ricaldone, Iacobelli, Guidonia 2024). Il panorama che ne emerge è assai ricco sia per le voci resocontate, sia per il profilo inevitabilmente crudo che del lavoro delle donne e degli uomini viene restituito realisticamente. Dunque, è uno strumento da portarsi dietro per far luce su una parte dell’orrore che chiude il nostro giorno.
Tra i vari saggi, quello che più di altri mi sembra paradigmatico di un rapporto vitale e militante con la letteratura è quello di Luisa Ricaldone: Il lavoro, la vita. Un percorso nella narrativa giapponese. Con l’eleganza e la chiarezza, che diresti settecentesca, si conduce chi legge tra le pagine dei romanzi contemporanei giapponesi nei quali le forme di vita orientali si colorano delle sofferenze, delle sopraffazioni, degli spaesamenti che sono anche i nostri, a conferma della globalità dei fenomeni. In questo saggio ritrovi quella confidenza con la narrativa, quel sentirla parola viva che la studiosa ha esemplarmente messo in opera nel recente Tra le pagine della fame. Un viaggio letterario (SEB27, Torino 2023), dove l’esperienza della lettura, ovvero la sua portata affettiva, conoscitiva e illocutoria è esplicitamente ricondotta alla vissuta radice personale e familiare, dunque sociale.

Terroristi made in Italy: burattini?

Franco Tagliafierro, Storie del terrorismo made in Italy. Racconti, Il mio libro 2012

di Ennio Abate

Riporto su Poliscritture con alcuni tagli e aggiustamenti la riflessione che lessi e discussi il 2 ottobre 2012 alla Libreria Popolare di via Tadino a Milano. In appendice aggiungo l’intervento critico di Aldo Giobbio (di lui qui) e la mia replica. Per indicare un problema irrisolto di memoria non condivisa tra noi testimoni dei conflitti sociali e politici degli anni Settantao, ormai lontani ma carichi di effetti disastrosi. La versione precedente e i vari commenti si possono ancora leggere qui.

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Isolato dietro un muro di pensieri

Su PASSEGGIARE DOVE SONO DI CASA di Angelo Australi

 di Teresa Paladin

Passeggiate della mente e del cuore stando “Isolato dietro un muro di pensieri”: con questo titolo inizia il primo di quattro racconti di Angelo Australi presentati in “Passeggiare dove sono di casa”, editrice SEF, febbraio 2024.
Per Spartaco, da poco giunto alla pensione, è diventata una tranquilla necessità vitale fare camminate lunghe in aperta campagna, di quelle che irrobustiscono il fisico e tranquillizzano la mente, lontano dal traffico e in luoghi silenziosi.
Il tempo del covid offre lo sfondo contestuale di queste passeggiate, le quali iniziano in sordina e sempre più si concretizzano in una visione aperta e dinamica multifattoriale. Spartaco si muove dai percorsi labirintici improvvisamente articolati davanti ai centri commerciali fino alle passeggiate lontano dal paese, mentre le quotidiane passerelle televisive dei responsabili o presunti esperti della salute pubblica e della politica cercano di convincere tutti a starsene a casa.
Passare tra elementi della natura osservandoli e ripescare nella lucidità della memoria, dove fatti e persone non muoiono mai: tra questi due confini, la natura e l’andare a ritroso nei ricordi, la ricerca di una pace interiore in queste passeggiate anima il protagonista, che per altro rimane aperto e disponibile agli eventi del tempo presente.
Dalla memoria si affaccia l’inizio della vita matrimoniale vissuta all’insegna dell’avventura. Spartaco e Ambra non avevano prenotato niente e passeranno ben diversamente dal previsto, in chiave quasi cosmicomica, la prima notte di nozze. Ma con un fondo di serenità e senso di libertà che non può non sorprendere i sostenitori di un mondo sistematicamente rispondente a esigenze di funzionale organizzazione. Si scopre così che un certo fatalismo è un compagno sicuro nella vita del protagonista.
L’atmosfera assolutamente positiva dell’imprevisto, che non limita ma arricchisce il viaggio continua infatti anche per le vacanze successive, almeno fino al nascere dei figli, nella comune accettazione condivisa di meraviglie da vedere e scomodità da affrontare. La disposizione d’animo che tutto è rimediabile e ci sia sempre un’altra possibilità guidano Spartaco, mentre la moglie Ambra è contenta di assistere a un’alba stupenda e di ritornare a casa più stanca di quando era partita. Una innocente fiducia per quello che il fato avrebbe offerto e il fascino dell’avventura denotano ottimismo e la certezza di poter contare sulle proprie forze in tutte le situazioni.
Turista improvvisato ma sempre consapevolmente in gioco, Spartaco ama soffermarsi con attenzione e guardare con piacere la macchia mediterranea, le antiche pietre, gli uomini che si ubriacano per dimenticare la loro melanconia.
Mentre osserva attentamente le abitudini della altrui vita quotidiana, la tomba di Italo Calvino a Castiglion della Pescaia e la casa “rossa” di Leonardo Ximenes, ingegnere e matematico gesuita, nella zona paludosa della riserva naturale di Diaccia Botrona sono pause culturali irrinunciabili. Sulla tomba di Calvino si respira un clima di silenzio e preghiera: in un cimitero si capisce la piccolezza umana, che non sempre noi uomini e donne ricordiamo.
L’argine del fiume è un luogo silenzioso di esplorazioni. Se la natura in tutte le sue forme- piante, rovi, laghetti, aironi e falchi pescatori, le oasi del WWF- è scenario intrigante dei racconti, fondamentali sono gli incontri con sconosciuti o amici. La costruzione di una capriata in ferro al ponte del paese, lungo l’argine del fiume che è costeggiato da terreni coltivati grazie al lavoro di bonifica di Pietro Leopoldo alla fine del Settecento, diventa l’occasione per una rimpatriata di paese. Tutti si ritrovano là, amici e compaesani di sempre, a fare commenti in cui, ovviamente, fa capolino la politica.
La politica era stata nel passato una passione attiva per Spartaco, che l’aveva abbandonata da quando i due ruoli di amministratore comunale e di segretario del partito non erano stati più tenuti distinti dai compaesani e lui alla fine si era sentito stretto in questa situazione. Nel presente la sfera politica per come si connota invece non lo appassiona più. Resta in lui viva l’esigenza del protagonismo politico, la necessità che gli operai parlino in prima persona dei propri bisogni, siano in prima fila a difendere i propri diritti più che semplicemente affidarsi a intellettuali e politici di professione barricati nelle loro sedi. La barzelletta dei due frati e della loro disputa teologica in questo caso è nella sua comicità estremamente illuminante.
Durante una delle sue passeggiate un nuovo cartellone attira l’attenzione del protagonista. I suoi occhi, spalancati sulla realtà, registrano stupiti i cambiamenti rispetto al passato. Lo slogan “Il lusso democratico italiano” utilizzato per vendere mobili da parte di una ditta che vendeva mobili da quattro generazioni è nato in piena campagna elettorale e il fatto lo inquieta. Lo sfruttamento di un valore costitutivo e pregnante per uno scopo commerciale lo fa scadere a proprietà privata, pensa Spartaco: un ulteriore segnale della fatica di permanere nei valori del passato, ma anche della perdita di significato nella validità della politica.
Ma non solo: anche interiormente Spartaco fa i conti con sé stesso e la sua progressiva vecchiaia, tra dubbi e paure mentre il caldo dell’estate lo rende apatico. Lo rincuora il fatto che è in ogni caso un uomo d’esperienza, capace di aver fatto carriera a livello dirigenziale in una ditta pur senza essere laureato, grazie al suo prezioso impegno e alla conoscenza maturata.
Il già citato muro dei pensieri durante le passeggiate si affaccia dunque continuamente, ma in realtà è una risorsa esistenziale notevolissima. Il vero muro in realtà è rappresentato da una serie di condizioni oggettive dell’esistenza imposte dall’esterno e che mutano la normalità senza arricchirla.
Troviamo nei racconti il rifiuto di vedere il nonno con la mascherina da parte del nipotino di tre anni che è sempre pronto ad ascoltare i meravigliosi dei rumori della campagna, così come il suicidio di un amico, che al Nord aveva tentato di spezzare i confini di un paesino mal sopportato, in cerca di nuovi orizzonti.
In particolare è significativo l’ultimo incontro lungo l’argine con un ultranovantenne che coltiva l’orto e gli svela le complicanze delle ultime disposizioni perché certe leggi complicano la vita pratica senza risultato: “Oggi è tutto illegale, non si possono più raccogliere neanche le canne per infrascare le piante di pomodoro o dei piselli. Tempo fa i vigili urbani hanno multato un tale solo perché aveva preso una cassetta di terriccio da quel boschetto di acacie”.
Nel mondo di oggi tutto è organizzato e regolato da sempre nuove leggi. L’amore per il lavoro della terra, il prodotto della propria coltivazione che si mangia o regala per dare gusto alle giornate e rimanere attaccati alle radici contadine viene messo da parte dall’insensatezza di problemi e gabelle che si impongono e modificano il tradizionale rapporto di libera autoproduzione di ortaggi.
il vecchio incontrato lungo l’argine ha anche tentato di leggere Moby Dick, un libro difficile da leggere, per la storia di una balena inseguita e ritenuta un demonio dal tormentato capitano Achab. Per il vecchio il suo colore bianco era di per sé immagine di purezza e non di malvagità. Per Spartaco invece il bianco e il nero sono due colori assoluti che annullano gli altri colori. Bianco e nero si assomigliano e rappresentano due facce del male. La balena bianca per Spartaco è l’elemento cattivo che la mente di ogni essere umano contienee il viaggio della baleniera si presenta come viaggio dentro la mente, perversa, di ogni uomo.
In questi racconti si può viaggiare anche in un luogo circoscritto e conosciuto da sempre perché viaggiare è un’arte della mente che conduce a nuove osservazioni e riflessioni, a nuove dimensioni di scoperta e condivisione. Abbracciare il proprio territorio e percorrerlo quotidianamente in cerca di incontri e ricordi non significa però sprofondare in una melanconia nostalgica per Spartaco.
La cifra di questi racconti è la leggerezza lungo la direttrice di una vena pessimistica non assoluta ma ragionevolmente dimostrata, che nasce dal disincanto dello sguardo di fronte all’evidenza dei fatti della memoria come della realtà quotidiana.

Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

Su Il palazzo dei vecchi guerrieri di Franco Tagliafierro

di Ennio Abate

Questa mia lettura del romanzo di Franco Tagliafierro porta la data del 12 dicembre 2010. La ripubblico oggi, dopo la sua morte e mentre riordino  il carteggio avuto con lui, perché, comparsa allora sul  sito di Poliscritture dismesso, non è più recuperabile on line.    Continua la lettura di Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

Su “Passeggiare dove sono di casa”

di Annamaria Locatelli

Ho letto, ovvero riletto i quattro racconti del libro: Passeggiare dove sono di casa di Angelo Australi (usciti in precedenza su Poliscritture), ma letti insieme generano nuove scoperte sulla sua scrittura, modalità e temi ricorrenti… Racconti molto belli di un viaggio passeggiando vicino a casa, in realtà scavando in territori reali e dell’anima alla ricerca di un segreto, di un mistero che vi si nasconde…
Un percorso che si perde in un labirinto di stati d’animo e spesso perviene allo smarrimento, alla confusione, ma solo dopo aver attraversato argini di fiume, contemplato mari e arcipelaghi di isole, oasi faunistiche e scalato una montagna in pellegrinaggio sulla tomba di Italo Calvino… Memorie del passato si intrecciano con i vissuti al presente di persone amiche, familiari… Su ogni realtà c’è molta attenzione… La disputa teologica tra i due frati del ‘cinquecento, a mo’ di storiella raccontata nelle stalle le sere d’inverno o nell’osteria, riprende il tema di Bertoldo il contadino, dalla gestualità irresistibile, che sbeffeggia i potenti.

Sempre presenti il problemi del quotidiano, le fatiche di tutti i giorni, la clausura in tempo di pandemia e la paura per la minaccia di un virus mortale. Altro tema ricorrente è il degrado ambientale, la calura estiva da cambiamento climatico, ma anche l’insofferenza al caldo di Spartaco, l’io narrante, da età che avanza, il fiume in secca ma anche la lunga biscia che attraversa il sentiero umano, l’imprevisto, mentre Spartaco conversa sull’argine con un ultranovantenne contadino… Le attività dei due pensionati sono messe a confronto: l’uno l’orto, l’altro lettura e scrittura… E così, come in tutti i racconti di Angelo Australi, si arriva sempre a una svolta narrativa. In questo caso l’oggetto è la balena bianca di Melville, un film lettura, che ha colpito straordinariamente entrambi gli anziani signori… La riflessione si fa complessa, visionaria e surreale… terribilmente tragica. Il viaggio sull’oceano di Capitan Achab e la sua nemica, la balena bianca, giocando una partita mortale, in eterno reciproco inseguimento distruttivo “… rappresenta un qualcosa di cattivo che cova dentro la mente di ogni essere umano”, dove il bianco, sintesi di tutti i colori e il nero, assenza di colori, si confondono… La conclusione mi ha ricordato quel romanzo di Conrad Cuore di tenebra, una discesa agli inferi. Ma c’è anche, in sintonia, il racconto del vecchio curatore dell’orto. Parla di un amico ubriaco che, pedalando di notte, non sente la sua testa girare, ma ‘vede’ la strada spostarsi finendo ripetutamente nella scarpata. Non sappiamo, alla fine, se partiamo, arriviamo o ritorniamo, se giriamo semplicemente intorno a noi stessi: il viaggio sul territorio si riflette o meglio si chiude nella mente come una misteriosa realtà ai confini…

I racconti sono pieni di personaggi e presenze, ma sempre avvolti nella malinconica solitudine del narratore, nei suoi dubbi e tormentose scelte, impersonato da Spartaco, nei vari passaggi della vita.
Ho sempre l’impressione, leggendo le opere dell’autore, di trovarmi davanti ad un prodotto di alto e prezioso artigianato oppure ad un lavoro di scavo al rinvenimento di dimenticate vestigia…

C’è un’altra memoria, altra vita germoglia

di Donatello Santarone

La copertina del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante, riproduce un dettaglio da un quadro di Caravaggio del 1597, dal titolo ironico Buona ventura, in cui ad un primo sguardo ci sembra di vedere due mani che fraternizzano, ma poi, analizzando il particolare nel contesto dell’opera, scopriamo la scena di una giovane zingara la quale, mentre legge la mano ad un nobile cavaliere, gli ruba l’anello che porta al dito. Oltre ad un’allegoria di tipo morale – non farsi ingannare dalle apparenze, non cedere alle seduzioni – credo che per Abati ce ne sia una di tipo storico, direi socio-economico: la legittimità da parte delle classi subalterne a riappropriarsi delle ricchezze che le classi dominanti hanno nei secoli sempre sottratto ai dominati con la violenza dello sfruttamento. Il gesto della zingara, in questa prospettiva, non è quindi il gesto di una ladra, ma quello di un soggetto storico finalmente autonomo e consapevole, ed è emblematico, tra l’altro, che si tratti di una donna, che pretende un risarcimento, che rivendica una giustizia.

Se questa interpretazione è plausibile, allora anche il titolo si chiarisce nel suo significato più profondo: la memoria delle piante non allude alla nostalgia di un sogno bucolico ma ai vissuti storico- naturali dei milioni di senza nome non riconosciuti che hanno attraversato nel corso della storia le opere e i giorni. “Però – scrive l’autore – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. E’ la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.” (p. 101). Dove va subito notata la curvatura poetica, lirica della prosa, attraverso il chiasmo iniziale, “c’è un’altra memoria, altra vita germoglia” e il ricorso ad un andamento ternario, metricamente scandito, che vuole evocare e prefigurare attraverso la bellezza della forma e pur nella durezza della storia, un mondo di relazioni e di futuro.

Ma accanto ad una memoria storico-sociale è presente anche una memoria personale, esistenziale: quella del padre, parola che compare una sola volta nel libro: “Come libellula, padre, sei passato.” (p. 53). In tutto il testo è invece presente con numerosissime occorrenze la parola “babbo”, a voler accentuare, attraverso il toscanismo, la dimensione domestica, affettiva oltreché di insegnamento morale e materiale del padre così centrale in tutto il romanzo.

Mi accorgo di aver utilizzato la parola “romanzo”. Ma ripensandoci bene, più che romanzo definirei La memoria delle piante uno zibaldone di squarci lirico-evocativi, di pensieri narrativi, di riflessioni narrate. Un intreccio di micro racconti tenuti insieme da un io narrante che ricorda e argomenta. Una stratificazione di registri percorsi sempre dallo sguardo degli ultimi del mondo. Tutti espressione del mondo contadino maremmano: qui non ci sono gli operai dell’industria, i salariati del capitalismo moderno. Ma i contadini, come ho già accennato, sono rappresentati senza nessuna nostalgia ruralista, nessuna mitizzazione di una presunta incorrotta identità contadina. Per Abati i contadini sono nostri contemporanei.

Tutto questo richiama un confronto con il romanzo maggiore di Velio Abati, dal titolo Domani, una narrazione lunga, distesa, densa in cui si mette in scena l’epopea dei subalterni. La memoria delle piante, rispetto al romanzo maggiore, è forse più contratto, più gridato nelle parti argomentative, nelle riflessioni storico-politiche. Mentre le narrazioni di vita contadina sembrano “schegge” corpose uscite dal romanzo maggiore. Anche se qui con una più evidente dimensione autobiografica.

Un’ultima considerazione sulla lingua. La sintassi mi sembra molto sorvegliata, colta, spesso di tono alto, pur se con frequenti andamenti “regionali”. Il lessico, invece, è fortemente attraversato da un fitto e ricorrente ricorso a parole del mondo agrario, da parole tecniche o arcaiche, dal dialetto maremmano e toscano.