Archivi categoria: LETTURE D’AUTORE

Incontri e confronti con gli autori che ci parlano

Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

Su Il palazzo dei vecchi guerrieri di Franco Tagliafierro

di Ennio Abate

Questa mia lettura del romanzo di Franco Tagliafierro porta la data del 12 dicembre 2010. La ripubblico oggi, dopo la sua morte e mentre riordino  il carteggio avuto con lui, perché, comparsa allora sul  sito di Poliscritture dismesso, non è più recuperabile on line.    Continua la lettura di Il Palazzo. Ah, quale simbolo!

Su “Passeggiare dove sono di casa”

di Annamaria Locatelli

Ho letto, ovvero riletto i quattro racconti del libro: Passeggiare dove sono di casa di Angelo Australi (usciti in precedenza su Poliscritture), ma letti insieme generano nuove scoperte sulla sua scrittura, modalità e temi ricorrenti… Racconti molto belli di un viaggio passeggiando vicino a casa, in realtà scavando in territori reali e dell’anima alla ricerca di un segreto, di un mistero che vi si nasconde…
Un percorso che si perde in un labirinto di stati d’animo e spesso perviene allo smarrimento, alla confusione, ma solo dopo aver attraversato argini di fiume, contemplato mari e arcipelaghi di isole, oasi faunistiche e scalato una montagna in pellegrinaggio sulla tomba di Italo Calvino… Memorie del passato si intrecciano con i vissuti al presente di persone amiche, familiari… Su ogni realtà c’è molta attenzione… La disputa teologica tra i due frati del ‘cinquecento, a mo’ di storiella raccontata nelle stalle le sere d’inverno o nell’osteria, riprende il tema di Bertoldo il contadino, dalla gestualità irresistibile, che sbeffeggia i potenti.

Sempre presenti il problemi del quotidiano, le fatiche di tutti i giorni, la clausura in tempo di pandemia e la paura per la minaccia di un virus mortale. Altro tema ricorrente è il degrado ambientale, la calura estiva da cambiamento climatico, ma anche l’insofferenza al caldo di Spartaco, l’io narrante, da età che avanza, il fiume in secca ma anche la lunga biscia che attraversa il sentiero umano, l’imprevisto, mentre Spartaco conversa sull’argine con un ultranovantenne contadino… Le attività dei due pensionati sono messe a confronto: l’uno l’orto, l’altro lettura e scrittura… E così, come in tutti i racconti di Angelo Australi, si arriva sempre a una svolta narrativa. In questo caso l’oggetto è la balena bianca di Melville, un film lettura, che ha colpito straordinariamente entrambi gli anziani signori… La riflessione si fa complessa, visionaria e surreale… terribilmente tragica. Il viaggio sull’oceano di Capitan Achab e la sua nemica, la balena bianca, giocando una partita mortale, in eterno reciproco inseguimento distruttivo “… rappresenta un qualcosa di cattivo che cova dentro la mente di ogni essere umano”, dove il bianco, sintesi di tutti i colori e il nero, assenza di colori, si confondono… La conclusione mi ha ricordato quel romanzo di Conrad Cuore di tenebra, una discesa agli inferi. Ma c’è anche, in sintonia, il racconto del vecchio curatore dell’orto. Parla di un amico ubriaco che, pedalando di notte, non sente la sua testa girare, ma ‘vede’ la strada spostarsi finendo ripetutamente nella scarpata. Non sappiamo, alla fine, se partiamo, arriviamo o ritorniamo, se giriamo semplicemente intorno a noi stessi: il viaggio sul territorio si riflette o meglio si chiude nella mente come una misteriosa realtà ai confini…

I racconti sono pieni di personaggi e presenze, ma sempre avvolti nella malinconica solitudine del narratore, nei suoi dubbi e tormentose scelte, impersonato da Spartaco, nei vari passaggi della vita.
Ho sempre l’impressione, leggendo le opere dell’autore, di trovarmi davanti ad un prodotto di alto e prezioso artigianato oppure ad un lavoro di scavo al rinvenimento di dimenticate vestigia…

C’è un’altra memoria, altra vita germoglia

di Donatello Santarone

La copertina del romanzo di Velio Abati, La memoria delle piante, riproduce un dettaglio da un quadro di Caravaggio del 1597, dal titolo ironico Buona ventura, in cui ad un primo sguardo ci sembra di vedere due mani che fraternizzano, ma poi, analizzando il particolare nel contesto dell’opera, scopriamo la scena di una giovane zingara la quale, mentre legge la mano ad un nobile cavaliere, gli ruba l’anello che porta al dito. Oltre ad un’allegoria di tipo morale – non farsi ingannare dalle apparenze, non cedere alle seduzioni – credo che per Abati ce ne sia una di tipo storico, direi socio-economico: la legittimità da parte delle classi subalterne a riappropriarsi delle ricchezze che le classi dominanti hanno nei secoli sempre sottratto ai dominati con la violenza dello sfruttamento. Il gesto della zingara, in questa prospettiva, non è quindi il gesto di una ladra, ma quello di un soggetto storico finalmente autonomo e consapevole, ed è emblematico, tra l’altro, che si tratti di una donna, che pretende un risarcimento, che rivendica una giustizia.

Se questa interpretazione è plausibile, allora anche il titolo si chiarisce nel suo significato più profondo: la memoria delle piante non allude alla nostalgia di un sogno bucolico ma ai vissuti storico- naturali dei milioni di senza nome non riconosciuti che hanno attraversato nel corso della storia le opere e i giorni. “Però – scrive l’autore – c’è un’altra memoria, altra vita germoglia, che chi domina conosce assai bene, nonostante che con altri nomi la dica, perché in essa ha radici e, se interrogato, la tratti non diversamente da ossa del paleontologo. E’ la stessa memoria delle piante, delle rughe della terra, del corpo di chi passa per strada. E’ nelle parole che senza fatica conosci, nei colori che vedi nella levata del sole, nell’occhio che guarda chi incontri.” (p. 101). Dove va subito notata la curvatura poetica, lirica della prosa, attraverso il chiasmo iniziale, “c’è un’altra memoria, altra vita germoglia” e il ricorso ad un andamento ternario, metricamente scandito, che vuole evocare e prefigurare attraverso la bellezza della forma e pur nella durezza della storia, un mondo di relazioni e di futuro.

Ma accanto ad una memoria storico-sociale è presente anche una memoria personale, esistenziale: quella del padre, parola che compare una sola volta nel libro: “Come libellula, padre, sei passato.” (p. 53). In tutto il testo è invece presente con numerosissime occorrenze la parola “babbo”, a voler accentuare, attraverso il toscanismo, la dimensione domestica, affettiva oltreché di insegnamento morale e materiale del padre così centrale in tutto il romanzo.

Mi accorgo di aver utilizzato la parola “romanzo”. Ma ripensandoci bene, più che romanzo definirei La memoria delle piante uno zibaldone di squarci lirico-evocativi, di pensieri narrativi, di riflessioni narrate. Un intreccio di micro racconti tenuti insieme da un io narrante che ricorda e argomenta. Una stratificazione di registri percorsi sempre dallo sguardo degli ultimi del mondo. Tutti espressione del mondo contadino maremmano: qui non ci sono gli operai dell’industria, i salariati del capitalismo moderno. Ma i contadini, come ho già accennato, sono rappresentati senza nessuna nostalgia ruralista, nessuna mitizzazione di una presunta incorrotta identità contadina. Per Abati i contadini sono nostri contemporanei.

Tutto questo richiama un confronto con il romanzo maggiore di Velio Abati, dal titolo Domani, una narrazione lunga, distesa, densa in cui si mette in scena l’epopea dei subalterni. La memoria delle piante, rispetto al romanzo maggiore, è forse più contratto, più gridato nelle parti argomentative, nelle riflessioni storico-politiche. Mentre le narrazioni di vita contadina sembrano “schegge” corpose uscite dal romanzo maggiore. Anche se qui con una più evidente dimensione autobiografica.

Un’ultima considerazione sulla lingua. La sintassi mi sembra molto sorvegliata, colta, spesso di tono alto, pur se con frequenti andamenti “regionali”. Il lessico, invece, è fortemente attraversato da un fitto e ricorrente ricorso a parole del mondo agrario, da parole tecniche o arcaiche, dal dialetto maremmano e toscano.

Nevio Gambula – Io sono Artaud

 

di Lorenzo Galbiati

Verona, venerdì 16 febbraio, ore 21. Teatro Modus. Sono seduto in ultima fila di fianco al mixer, dove è presente il tecnico del suono. Al momento c’è buio e silenzio. Tra poco andrà in scena Nevio Gambula in “Io sono Artaud – o dell’insurrezione di un corpo”. Testo di Gambula ispirato a scritti di Antonin Artaud e alla tragedia “Penthesilea” di Heinrich von Kleist. Regia e suoni di Gambula. Continua la lettura di Nevio Gambula – Io sono Artaud

Fra la terra e il cielo della lingua

Storie e meditazioni

di Andrea Nuti

Come si legge nella quarta di copertina, La memoria delle piante di Velio Abati [cfr. anche qui] è un romanzo che recupera e intreccia storie di un’umanità prevalentemente contadina, sfruttata e sconfitta ma mai rassegnata, sempre descritta nella inscindibile relazione con la terra e gli animali. L’autore racconta di questo mondo perché a questo mondo appartiene per ragioni biografiche e di questo mondo intende cogliere le relazioni fra le varie generazioni. Le storie dei personaggi del Podere del Diavolo, di Ruffilla, di Camara, di Lorediano, di Sapìo e Catalina, sono recuperate nella profondità di differenti epoche attraverso un lavoro di scavo insieme storico, antropologico e quasi archeologico. Lo scrittore le fa riemergere, vuole in ogni modo farle uscire dall’evanescenza del sogno per proporle al lettore nella loro concretezza simbolica di cui sono fatti i nostri pensieri e i nostri corpi e lo fa attraverso la lingua, vera protagonista del romanzo.
La voce dell’io narrante utilizza registri linguistici molto differenti che vanno dalla dimensione popolare e terrigna, sempre altamente nobilitata e amata, fatta di arcaismi, dialettismi, fino a quella alta ed erudita con richiami letterari, momenti lirici e meditazioni. La mutevolezza e pluralità dei registri linguistici e l’intreccio delle varie storie fanno sì che la lettura non sia di immediata fruibilità e che anzi richieda di essere lettori attenti, desiderosi della relazione e della partecipazione all’avventura creativa. D’altra parte questo è un tratto stilistico di Abati che ritroviamo anche nelle sue opere precedenti, ma è anche il fascino maggiore del romanzo. Il sedimento linguistico e culturale che riemerge ha una profonda connotazione etica è come un mosaico o un dipinto riportati alla luce, che ci interrogano sul rapporto col passato e sul valore, la cura delle parole, soprattutto in una fase storica, la nostra, in cui la decadenza sembra esprimersi soprattutto nella povertà linguistica del presente, fatta di slogan, acronimi, inglesismi, cui si unisce la manipolazione e strumentalizzazione della storia schiacciata sul presente.
La partecipazione attiva del lettore è reclamata dallo scrittore anche dai particolari movimenti dell’io narrante. L’autore mette insieme in questo romanzo, caratterizzato come il precedente Domani da una forte e orgogliosa sperimentazione linguistica, un io narrante e la narrazione collettiva. L’io narrante cambia però frequentemente punto di osservazione; questo fa sì, come bene scrive Walter Lorenzoni che, “chi legge debba sempre sorvegliare l’atto della lettura e debba mutare costantemente il punto in cui collocarsi perché chiamato di continuo a prendere una posizione morale” rispetto agli ultimi di cui si parla. D’altra parte proprio questa costante ridefinizione del punto di vista di chi legge sembra permettere, come suggerisce Mario Fraschetti, una nuova particolare possibilità, quella cioè di leggere il testo partendo da differenti punti e intrecciando le parti in modi di volta in volta differenti.
Col titolo La memoria delle piante non ci si riferisce dunque solo alla ormai effettiva consapevolezza scientifica della presenza di una memoria nelle piante, ma anche e soprattutto alla stretta dipendenza e corrispondenza fra uomo e natura, alla profondità e complessità delle radici delle piante che si intrecciano e in virtù di questo intreccio e di questa profondità restano vive. La memoria, nel romanzo, non è rievocazione, non è celebrazione, non è pathos emotivo ma radicamento storico intellettuale pensato, rielaborato, conosciuto e fatto riemergere attraverso la lingua. La memoria è la connessione delle generazioni unica possibile base di partenza per una nuova consapevolezza sociale. Come non cogliere la inscindibile relazione temporale fra il futuro di Domani e il passato di La memoria delle piante. In questo senso lo scrivere di Abati è sempre atto insieme etico e politico. La presenza delle radici diventa tanto più esplicita in considerazione di una forte presenza di positive figure paterne, tanto che la parola “babbo” è forse la più utilizzata di tutto il romanzo: “Quali facce, dico, qui con me, mute. O forse il nome sento. Celso?”
Se nel romanzo Domani si apprezzava soprattutto la straordinaria coralità, che, a fronte di un tempo frammentato, emergeva dalla trama linguistica dei suoni e delle voci dei contadini, si godeva di una struttura simbolica che riusciva ad anteporsi alla definizione degli stessi personaggi, diversamente, in questo la Memoria delle piante si impongono i momenti di riflessione e meditazione, come quando l’autore riflette sulla verità: “la verità non è docile […] la verità non è pietra, è un fuoco […] la verità ogni verità è storica […] la verità non è un dato è il prodotto della lotta […] Se prendiamo, non dico la storia umana ma l’essere umano, anzi un essere umano, in lui o in lei una mirabile stratificazione dei tempi ci toglie il respiro. Le verità loro proprie hanno durate assai diverse, ma nessuna è fuori del suo tempo”. Lo stesso registro lo si ritrova quando Velio si confronta col tema della libertà, della guerra, della memoria.
Alcune parti poi sono liriche di grande bellezza, soprattutto gli inizi e le conclusioni dei vari capitoli. “Invece il sole è signore del giorno. Asciuga la fronte, fruga i cretti della terra, assalta i sassi dei fossi. L’aria tremola i campi e sbianca le ombre, ma non una cicala, non un filo d’eco dai corpi degli olivi, dal folto dei grani. Nemmeno il mio grido esce di bocca”. L’autore intende provare che lirica, dialoghi, meditazione possono stare insieme, uniti dall’esperienza umana e intellettuale dello stesso scrittore. Le mani della zingara del Caravaggio in copertina sembrano proprio richiamare allo stesso tempo la grazia della scrittura quale lavoro intellettuale, ma anche la parte più concreta e pratica del lavoro della terra, richiamano la capacità di intuire il futuro attraverso le tracce e i solchi del passato; se le mani michelangiolesche della “Creazione di Adamo” non si toccano perché l’alto e il basso restano inesorabilmente separate, qui invece alto e basso si accarezzano e si sostengono.

 

“Reversibilità”: due forme di trascendenza della vita privata

di Donato Salzarulo

Reversibilità
 
Anassagora giunse ad Atene
che aveva da poco passati i trent’anni.
Era amico d’Euripide e Pericle.
Parlava di meteore e arcobaleni.
Ne resta memoria nei libri.
 
Si ascolti però quel che ora va detto.
Anche la grandissima Unione Sovietica e la Cina
esistono, o l’Africa; e le radio
ogni notte ne parlano. Ma per noi, per
noi che poco da vivere ci resta,
che cosa sono l’Asia immensa, il tuono
dei popoli e i meravigliosi nomi
degli eventi, se non figure, simboli
dei desideri immutabili, dolorosi? Eppure
- si ascolti ancora – i desideri immutabili
dolorosi che mordono il cuore nei sonni
e del poco da vivere che resta
fanno strazio felice, che cosa sono
se non figure, simboli, voci,
dei popoli che mutano e si inseguono,
degli uomini che furono e che in noi
son fin d’ora? E così vive ancora,
 
parlando con Euripide e con Pericle
di arcobaleni e meteore, il filosofo
sparito e una sera d’estate
ansioso fra capre e capanne di schiavi
entra ad Atene Anassagora.
 
(da Franco Fortini “Poesie inedite” Einaudi, 1997)
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“La memoria delle piante” di Velio Abati

di Felice Rappazzo

Splendide campagne di frutti e cibi ricercati dai palazzi del mondo sono, per chi lì strappa per sé l’acqua e il pane a genitori e figli distanti, terre agre dove si spalanca lo sfruttamento, la violenza, l’uso del corpo di donne e di uomini, di piante, di frutti, di terra. Vi resistono, in rifugi tra lamiere raccattate e cascami di plastica, nelle stalle degli animali, in buche scavate nella terra, tra solitudini mai rassegnate, germogli di affetti, di legami, di amicizie.

Continua la lettura di “La memoria delle piante” di Velio Abati

Ancora la grande infatuazione: Franny Glass e il libro russo

Potrebbe essere un'immagine raffigurante il seguente testo "D.SALINGER FRANNY E ZOOEY"
di Angela Scarparo
Tra gli altri, grandi infatuati della letteratura russa, oltre che della letteratura in generale, c’è Franny Glass. Anche lei, una delle protagoniste di “Franny e Zooey” (Franny and Zooey) di Salinger, perde la testa a causa di un libro, un libro russo.
La passione irragionevole, quella che allontana dalla via prescelta, nel suo caso assume proporzioni enormi durante un incontro, al ristorante, con un coetaneo, studente anche lui, tale Lane Cautell, uno che sulla carta sarebbe pure di suo gradimento. Tanto è vero che ci ha preso un appuntamento.
Il racconto è la storia di questo appuntamento mancato, meglio ancora sarebbe dire fallito. E chi legge vede bene quanto la colpa sia del libro, quel “Racconti di un pellegrino russo” che Franny ha con sé.
“Franny e Zooey”, un romanzo diviso in due lunghi racconti – usciti per la prima volta, rispettivamente, nel 1955 e nel 1957, sul New Yorker – sarà pubblicato in volume nel 1961.
Chi è Franny Glass, fanatica meravigliosa per eccellenza, e come si manifesta, in cosa consiste la sua infatuazione? Di che cosa parla il libro che le ha fatto, letteralmente, perdere la testa?
Uscito nel 1881, “Racconti di un pellegrino russo” narra la storia di un anonimo contadino russo di poco più di trenta anni che, dopo aver perso la moglie, non solo se ne va in giro senza una famiglia e senza lavorare, pellegrinando per tutta la Russia, ma ha anche deciso di sondare i poteri della “preghiera incessante”.
Che cosa è, e in che cosa consiste questa pratica?
Si tratta di una forma di raccoglimento, una preghiera senza interruzione, un po’ come certe forme di devozione, in cui il pregare, proprio come è per il respiro, diventa qualcosa di indipendente dalla volontà.
Ma, religione a parte, in che modo l’infatuazione di Franny le stravolge la vita e con la sua quella di chi le sta attorno? Cosa succede il giorno dell’appuntamento?
Siamo a tavola, al ristorante: c’è Lane, da una parte. Seduto a tavola, mangia le rane. Seziona la carne e intanto si autoincensa per la brillantezza di un suo saggio su Flaubert, un autore di cui ha appena criticato la scarsa virilità nella scrittura. Dall’altra parte c’è lei, Franny. Che si mette a parlare di egoismo, della bruttezza della società in cui sono costretti a vivere, di quanto faccia schifo l’establishment, quello statunitense, del 1955, che si lamenta e dice quanto non ce la fa più.
“Sono stanca di tutti questi io, io, io. Il mio e di quello di tutti gli altri. Mi hanno rotto quelli che vogliono arrivare da qualche parte, fare qualcosa di fondamentale, eccetera; essere un tipo interessante. Fa schifo, fa schifo e basta. Me ne strafotto di quello che pensano”, dice.
Chi, se non “I racconti del pellegrino”, le ha messo in testa quel tono, tutta quella roba?
Togliamo il fatto che chi legge l’ha vista andare in bagno e, subito dopo le lacrime, stringersi melodrammaticamente al petto quel libricino con la copertina “verde pisello”, proprio come se fosse stato un amuleto o un animalino.
Ancora, proprio come è in Virginia Woolf, la lettrice Franny, tramite un libro della tradizione russa, sembra credere a una possibilità di accesso alla “vita vera”, la vita “autentica”, “rivelata”, contrapposta alle convenzioni e al conformismo dell’epoca.
Ma lui, Lane, non la segue. E dove lei avverte una liberazione, lui fiuta un pericolo. Si chiede, e chiede a lei, il perché di tutta quell’agitazione, quel modo di fare.
Invece di smettere, Franny insiste, inserisce anche se stessa nella ruota: “Tutto quello che la gente fa è così… non so. Non sbagliato, no. Neppure stupido e neppure meschino. Solo così insignificante, minuscolo… così deprimente. E il peggio è che se ti metti a fare il bohémien (… ) sei conformista lo stesso”, dice. Poi, mentre sta per prendere il fazzoletto dalla borsa, la apre, involontariamente troppo: abbastanza perché lui veda il libro.
Sarà questa identificazione della ragazza nel pellegrino che prega, nella sua mentalità mistico cristiana, anche lei, come altri, nel vortice dell'”anima russa”, a farla considerare, per sempre, una delle grandi possedute della letteratura, oltre che una che si rovina la vita appresso ai libri. Meglio sarebbe dire, ai libri russi. Sarà proprio questa identificazione ad allontanarla da Lane Coutell.
Il libro, la storia, le religioni, la ricerca della verità a qualsiasi costo, anche se di verità non ce ne sono, come autoconsolazione, risarcimento e amuleto. Il classico della letteratura mistico cristiana dell’ottocento, per Franny, è la risposta che chiude un cerchio. Se è vero che Lane ha deciso, anche lei, inevitabilmente, saprà cosa fare. Non c’è posto per lui nella sua vita.
Qui c’è un altro tema interessante che riguarda la letteratura. Quello del testo come chiave per nascondere un segreto. L’opera che dà, o meno, la possibilità di accedere a una vita più eminentemente privata, e quindi oscura.
Quando lui chiede: “Da dove viene quel libro?” lei risponde di averlo preso in biblioteca. Ma non è vero. Apparteneva a suo fratello, Seymour, morto suicida. Cosa che si scoprirà nel seguito del romanzo. Chi è Seymour?
Vale la pena dire due cose sui Glass. Giovane studentessa intelligente, Franny Glass è, subito dopo lo Zooey del titolo, la minore di una famiglia decisamente particolare. Una famiglia che ha, in qualche modo, segnato anche la storia della letteratura e del cinema, non solo statunitensi.
I Glass: due genitori di mestiere attori, Les e Bassie, e sette figli.
Dei ragazzi, il maggiore, Seymour, è morto suicida durante una vacanza in Florida, sette anni prima. Avrebbe trentotto anni, se fosse ancora vivo all’epoca della storia di cui stiamo parlando.
Poi ci sono Buddy, un giovane scrittore (l’alter ego dello stesso Salinger), e i gemelli: Walt, morto anche lui, dieci anni prima, in guerra, ucciso in Giappone da una bomba, e Waker che invece è vivo, e di lavoro fa il prete gesuita. La sorella Boo Boo, sposata, è madre di tre bambini.
Infine Zachary, anche lui attore, e poi Franny.
La giovane Franny come punto di incontro, meglio sarebbe dire di deflagrazione: un punto che lega il fratello Seymour, l’autocoscienza portata a un grado impossibile di sopportazione, a Lane Coutell, la più spettrale e manifesta forma di esaltazione dell’esteriorità.
Quello che la ragazza vuole, davanti all’ego-ego-ego di Lane, è dissolversi, sparire, e far sparire, pure: tutto. Anche il ragazzo che le sta davanti.
Se il suo atteggiamento sia davvero distruttivo e non riguardi invece una sorta di faticoso cambiamento, Salinger non lo dice. Si limita piuttosto a registrare i fatti.
E così, quando lui le chiede: “Ma tu ci credi sul serio a tutta quella roba?”, lei gli risponde che quella forma di preghiera è patrimonio comune di tante religioni.
Sembra, cioè, tornata in equilibrio.
Come si sa, però, le parole, e i sentimenti che le attraversano, quasi mai percorrono le stesse strade, e anzi, molto più spesso divergono. Vediamo Franny che si alza e si allontana. La vediamo raggiungere il bar, per poi svenire davanti al bancone.
E cosa c’è, di più assimilabile a una scissione interiore, a una deflagrazione, di uno svenimento?
Qualsiasi cosa troverà al momento in cui si riprenderà, ed è giusto che sia chi legge a scoprirlo, sappiamo per certo che “le sue labbra presero a muoversi, formando parole senza suono, a muoversi, senza smettere più”, proprio come il pellegrino, dalle pagine del libro, sembra averle insegnato.
Testi, quindi, volumi: non solo come oggetti che interrompono la tranquillità amicale, oltre che quella familiare, ma libri come risultato ultimo di una tradizione che sta a rappresentare una ricerca continua, costi quel che costi. Non c’è libro importante senza grande infatuazione, e spesso fra i libri importanti ci sono testi della tradizione russa.
Interessante la modalità di cui Salinger si serve per narrare della famiglia Glass: disperde i fatti dei protagonisti in più storie, moltiplica i punti di vista, e così facendo li rende, protagonisti e fatti, potenzialmente infiniti.
“Nove racconti” (Nine Stories), raccoglie le storie dell’autore statunitense dal 1948 al 1953, è uscito in italiano nel 1962.
“Alzate l’architrave, carpentieri. Seymour, introduzione” (“Raise High the Roof Beam, Carpenters and Seymour: An Introduction”) è del 1955, in italiano nel 1965.

J. D. Salinger, ‘Franny and Zooey”, tr. R. C. Cerrone e R. Bianchi, To, 1963

Nota

L’articolo è ripreso dalla pagina FB di Angela Scarparo (qui) con la sua autorizzazione.

“Il piede sulla luna” di Michele Arcangelo Firinu

di Ennio Abate

Caro Michele Arcangelo,
ho letto il tuo libro fino in fondo e con piacere. Provo simpatia per i tuoi versi. Mi richiamano esperienze d’infanzia simili del secondo dopoguerra: la madre mediterranea, la povertà (…e mi cucivi/enormi e tonde pezze al culo[1]), persino i geloni (…e son felice / perché non sappiamo più che cosa sono i geloni[2]). E poi  una formazione cattolica rigettata, la militanza, le letture avide, la delusione politica. C’è in tutto il libro una grande sofferenza. Sei capace, però, di addolcirne poeticamente il peso attraverso un serrato dialogare. Lo provano le tante dediche ad amici o interlocutori ma anche una scrittura indirizzata ad una oralità calorosa tra il familiare e l’amicale.[3] Bella mi è parsa anche l’onestà con cui dichiari i limiti culturali della nostra generazione: “Questo vi lasceremo figli / mappe tesori / dei nostri sbagli”.[4] Continua la lettura di “Il piede sulla luna” di Michele Arcangelo Firinu

Alberto Magnaghi e la cultura territorialista

Alberto Magnaghi

di Sergio De La Pierre*

Il 21 settembre 2023 ci ha lasciato Alberto Magnaghi, il nostro Presidente, dopo una lunga malattia che non gli ha impedito di essere, fino agli ultimi giorni, attivo con la sua grande tenacia nelle tante iniziative da lui promosse dentro e attorno alla SdT: l’ultima delle quali è stata il convegno “Buone pratiche territoriali nell’emergenza ecologica. Una prospettiva bioregionale”, che si è tenuto a Roma il 6-8 ottobre, in un clima di tristezza e insieme di orgoglio per aver portato a termine questo impegno fortemente voluto da Alberto. Continua la lettura di Alberto Magnaghi e la cultura territorialista