Archivi categoria: RIFLESSIONI

Caro Amico ti scrivo

di Giuseppe Muraca

Sono entrato in contatto con Attilio Mangano alla fine del 1989, in seguito alla pubblicazione del suo libro Le culture del 68 da parte del Centro di Documentazione di Pistoia. Avevo letto il suo libro Le origini della nuova sinistra (1979), che mi era piaciuto molto, e nel corso degli anni settanta lo avevo seguito come curatore della pagina culturale del Quotidiano dei lavoratori, il giornale di Avanguardia Operaia. La nostra grande amicizia è iniziata così: io gli ho scritto una letterina, accompagnandola con il dattiloscritto del mio libro Da Il Politecnico a Linea d’ombra, che stava per uscire, e lui mi ha risposto con un letterone pieno di entusiasmo elogiando il mio lavoro. Da quel momento è iniziato un rapporto di collaborazione e una fitta corrispondenza durati fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 2016. Dopo la fine della rivista Classe (fondata da Stefano Merli), da parte dell’editore Bertani di Verona, lui aveva fondato, insieme ad un gruppo di amici, La Balena bianca, pubblicata dall’editore Pellicani di Roma. Dopo pochi mesi egli ha dato il via alla seconda serie di Per il 68, chiedendomi di affiancarlo nella direzione del bollettino, e io acconsentii. Ora, ho deciso di pubblicare queste lettere perché penso che abbiano una certa importanza culturale. Esse riguardano principalmente la preparazione e la pubblicazione del suo libro L’altra linea dagli editori Pullano di Catanzaro, di cui ero direttore editoriale. Attilio il libro non lo voleva fare perché aveva il timore di essere strumentalizzato da destra e da sinistra, ma io ho insistito fino a quando non sono riuscito a convincerlo. In effetti si tratta di un libro molto importante sulla Nuova sinistra italiana, magari da leggere insieme a Le culture del 68 e Le riviste degli anni settanta. Comunque, giudicate voi.

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Poesia e politica

di Ezio Partesana

Il contenuto politico della scrittura non coincide con il contenuto materiale anche se, quando accade, il problema è risolto; il dubbio resta per quei testi che parlano d’altro, dal timbro lirico o personale. Se ogni forma è un contenuto storico sedimentato, tuttavia non si può rispondere alla domanda di ordine sociale, se un componimento sia o meno “politico”, limitandosi alla ricostruzione interne delle sue ereditate forme; scrivere sonetti nell’età contemporanea, per esempio, è certo una scelta di opposizione e distanza dal poetare di tutti e chiunque, ma si possono scrivere quartine e terzine anche dicendo sciocchezze reazionarie. L’opposizione tra sentimento privato dell’esistenza e impegno civile è appunto una opposizione e in quanto tale non genera nulla; si prende partito, uno tra i disponibili, e se ne rivendicano le ragioni come in sogno di fronte a un giudizio universale. L’astrazione del recente discutere sul tema nasce da questo: dall’ipotesi che ogni individuo sia libero di scrivere, e leggere, quello che vuole, l’illusione cioè che la lingua sia una forma inerte e pura della quale ci si può servire (o a lei ubbidire, a seconda) affinché questa o quella cosa vengano dette. Si dimentica volentieri, insomma, che la trama e le parole, il ritmo e il nome, sono prodotti collettivi di una struttura sociale che nasconde le contraddizioni anche con il linguaggio, e i suoi derivati prodotti. Non si può dire tutto, in fine, non solo perché le condizioni di chi ascolta sono controllate dal lavoro, dall’educazione, dall’etnia, e via dicendo, ma anche perché la scrittura (o il disegno, o la musica) è soggetta alla stessa ideologia entro la quale vivono gli uomini. Però si può sedurre e mentire, vale a dire escogitare una lingua che, in obbligato e apparente ossequio allo stato di cose, lasci però l’amaro in bocca del “non dovrebbe essere così”; una poesia (nel senso più ampio possibile del termine) che avveleni i pozzi del dominio scherzando con le pozzanghere. La mia modesta risposta alla domanda su quale sia una scrittura politica è dunque questa: chi dice la verità in un mondo di menzogna è sempre rivoluzionario.

Il mio presepe

Nel mondo di oggi non c'è più posto per il colonialismo» | il manifesto

di Raffaella Ferraiolo Depero

Un villaggio qualunque della Palestina. Casette tutte rotte. Sono rimasti solo pezzi. Pastori senza gambe. Altri senza braccia. Molti irrimediabilmente rovinati. Morti. Da buttare.
Angeli senza ali. Un San Giuseppe senza speranza. Una madonnina stuprata. Un bimbo che non nascerà.
Sulle colline sopra la capanna tutta rotta un castello che una volta era di Erode. Ora di chi è? Di N?
Il cielo non c’è piú. Le stelle sono state  rimpiazzate da droni. La cometa da missili.
Un altro Natale di sangue.
Buon Natale, genti di occidente. Buon Natale

AL VOLO/ IMMAGINI, FOTO, APPUNTI, SCRITTURE

e sempre più spesso facciamo l’esperienza di immagini provvisorie, immagini che non durano, immagini che appaiono e che si sciolgono in questo flusso ininterrotto. È un po’ quanto aveva cercato di circoscrivere la mostra Le supermarché des images, curata da Peter Szendy, al Jeu de Paume di Parigi. Rispetto a questo tsunami di immagini, spesso la risposta comune è dire che sia necessario costruire una barriera e proteggerci. Per me è assurdo. In primo luogo, si tratta appunto di un flusso la cui invadenza è tale solo se lo vogliamo; e in secondo luogo, più importante, all’interno di tale flusso c’è una quantità d’immagini che sono in attesa, per così dire, di essere svegliate. 

(da https://antinomie.it/index.php/2021/06/17/la-cesura-delle-immagini-conversazione-con-jean-christophe-bailly/)

Un appunto del 28 giugno ’78

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Progetto di murale 1978

Disegni. Sviluppo della ricerca grafica in prevalenza solo a partire da una memoria sedimentata, mai da immagini presenti. Clandestinità, privatezza della mia ricerca artistica. Corrosione che subiscono le immagini nella memoria quando le disegno. L’occhio non riesce a percepire un’istantanea. La contemplazione mi è vietata. Sopravvivono nei mie disegno temi di cose viste in passato (albero, bosco, cascina, campi, chiesa). Ma forse sono ormai citazioni. Le immetto in un contesto di immagini d’oggi (strada, segnali stradali, etc.), di suoni (clacson, radio, ecc.), di sentimenti (paura per la velocità o indecifrabilità di parte delle cose percepite) che non erano operanti nella mente  dei pittori di una volta o di chi semplicemente guardava attorno a sé un mondo diverso da questo. Mi è impedita anche l’impressione, che ha una certa pacatezza. Resta una labile sequenza di istantanee, forse ripensabili o recuperabili dopo, a memoria. A disegnarle al momento non vai oltre lo schizzo scarabocchio che al momento non mi dice nulla.

Appunto del 6 gennaio 2013

Il Narratorio di Tabea Nineo è soprattutto grafico. Tra 1976, anno in cui riprendo a disegnare con una certa  costanza, e anni ’80-’90 ho soprattutto lavorato in b/n usando il vecchio pennino intinto nella boccetta d’inchiostro di china. Mano mano e più tardi ha preso spazio il colore. E ho usato soprattutto l’olio. Sia disegnare a china che dipingere a olio sono tecniche “superate”. Perché sono rimasto ancorato ad esse? Non per astratta nostalgia. Credo di aver  risposto (tardi, ma questa è un’altra questione) al sogno che mi ero costruito sulla base dell’esperienza vissuta da ragazzo e da giovane. L’inchiostro da usare col pennino era d’uso comune (e spesso difficile) per noi ragazzi del dopoguerra che arrivavamo a scuola. E la pittura ad olio era quella di cui avevo potuto vedere qualche esempio dal vivo in qualche vetrina di negozio a Salerno. Ma fu quella che m’impressionò di più attraverso le riproduzione della grande pittura moderna (dagli impressionisti a Cezanne alle avanguardie del Novecento) apparse negli inserti  illustrati  del settimanale Epoca  (mi pare di ricordare tra 1956 e 1959), che mio padre acquistava.

[6 gennaio 2013]