RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
Note
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (5)
di Ennio Abate
[iii] Io non ricordo un periodico con questo titolo. Se altri ne sanno qualcosa, me lo facciano sapere.
* Foto di E. A.
di Ennio Abate
Vorrei, ma non so se ci riuscirò, stampare una Antologia dei numeri della rivista «Laboratorio Samizdat». Per ora, a riprova del lavoro fatto, tra 1986 e 1990, con un bel gruppo di persone di Cologno Monzese ma anche di Milano (e di altre città), pubblico le copertine della rivista e un Indice veloce degli articoli e delle rubriche.
Una riflessione a capitoletti
di Ennio Abate
Nel 1987, quando con alcuni amici facevamo la rivista autoprodotta «Laboratorio Samizdat»[i] preparammo un questionario. Lo intitolammo «Immagini dell’hinterland: Cologno Monzese» e noi stessi della redazione cominciammo a rispondere alle domande che avevamo preparato. Riassumo con parole d’oggi le mie risposte al questionario .
1. Consideri Cologno Monzese una città. Si, no, perché?
Per me non è ancora una città. Perché la storia recente e breve (quella dell’emigrazione interna degli anni ’50-‘70), trasformando e quasi cancellando le caratteristiche contadini del nucleo precedente (il borgo medievale, il paesino ottocentesco), ha prodotto un organismo sociale elementare, nuovo ma incoerente e poco unitario. Prenderei sul serio la definizione di Cologno Monzese come “citta dormitorio” per immigrati. Evidentemente un dormitorio non è una città. È un ibrido, un “mostro urbanistico”. Certo, gli immigrati, oltre a dormire, hanno fatto altro, ma in condizioni materiali e psichiche comunque squilibrate. Sono gli amministratori – più che gli abitanti di Cologno- ad avere la tentazione di sorvolare su questa storia pesante e complicata e a parlare senza troppo riflettere di città.
2. Secondo te, quali sono i tre aspetti più negativi di Cologno?
Uno. Il fatto di essere periferia (o di vivere in una condizione di perifericità). Intendo dire che la vita che possiamo condurre a Cologno Monzese avviene in uno spazio coatto e deprivato che, a differenza delle vere città, offre meno sotto ogni aspetto alla soddisfazione dei bisogni dei suoi abitanti.
Due. Gli immigrati si sono dovuti assuefare con molta sofferenza a vivere nello spazio coatto, deprivato e spesso brutto di Cologno Monzese. Che è stato progettato e costruito da altri. E imponendo i loro interessi economici ai bisogni di una vera vita sociale. Questo è avvenuto nel periodo (’55-’60) più selvaggio e sregolato della urbanizzazione di Cologno. Povertà culturale e bruttezza estetica hanno deturpato anche i linguaggi e i comportamenti dei suoi nuovi abitanti. Col tempo gli immigrati hanno cancellato i ricordi più dolorosi e non hanno pensato più a quel che hanno patito. O rinunciato perfino ad immaginare che questo territorio possa essere organizzato in maniera più rispettosa dei loro bisogni. Al massimo, hanno cercato la diversità altrove. Da turisti. O tornando, quando hanno potuto, ai paesi da cui emigrarono.
Tre. Una sensibilità passiva e intorpidita sia nei confronti dell’ambiente circostante che verso gli “altri”. Io l’ho chiamata colognosità, perché l’esperienza quotidiana a Cologno – e specie in campo politico – mi ha messo di fronte a numerosi esempi locali di doppiezze, di tortuosità, di antintellettualismi, di invidie. Ma ritengo che la colognosità abbia a che fare con concetti più generali, quali mentalità da servi (Nietzsche), alienazione (Hegel, Marx, Lukács), psicologia (e pedagogia) degli oppressi (Freire). Indubbiamente rende più difficile individuare i centri di potere reali che controllano la vita economica e sociale di questo territorio e impedisce una azione più precisa per contrastarne le scelte dannose per quanti qui vivono.
3. Quali sono, invece, gli aspetti positivi di Cologno Monzese?
Ci sono centinaia di città che offrono più merci e servizi di Cologno Monzese. Se ci si mette nell’ottica dei consumatori, Cologno ha ben poco di positivo da offrire. Eppure, negli anni ’70, noi compagni del Gruppo Operai e Studenti e poi di Avanguardia Operaia anche nel degrado della vita in periferia scovammo alcuni aspetti positivi. Capimmo che gli immigrati avevano bisogno di aumenti salariali, di case, di scuole decenti per i loro figli. E lottammo con loro per dare forma politica a questo ribollire di bisogni ancora elementari e insoddisfatti.
4. Fa’ un confronto fra Cologno Monzese e qualsiasi altra città o paese da te conosciuti. Cosa ha di più o di meno Cologno Monzese?
Il confronto io posso farlo con Salerno, da cui provengo. Dalla formazione in quella città provinciale del Sud, che nel dopoguerra e fino agli anni ’50 conservò una cultura cattolica – un misto di attaccamento rispettoso al mondo contadino e a quello piccolo borghese ancora non sfiorati dal consumismo -, avevo ricevuto una spinta ad una visione elitaria ed individualista. Mio padre mi ripeteva il motto ricevuto dai suoi antenati:«miettete cu chille ca stanne meglie e te, nun cu chi sta peggio e te». (In sostanza: stai con i più istruiti e i più ricchi, non con i poveracci). Al contrario la Cologno Monzese degli anni ’60-’70 – quella che ho vissuto più attivamente e intensamente – mi ha spinto proprio ad andare verso il basso, a conoscere molti operai di piccole fabbriche o studenti delle superiori o insegnanti delle elementari, medie e superiori e ad organizzarmi con loro proprio contro chille ca stevene meglie e nui. In quei tempi Cologno Monzese stava passando dalla condizione più passiva e povera della immigrazione esistenzialista (quella registrata in «Milano, Corea» di Alasia e Montaldi) ad una di proletarizzazione e politicizzazione attiva e innovativa. Sembrava che il “dormitorio” potesse fare un salto verso una città proletaria, che confusamente cercammo di delineare nei nostri discorsi.
5. La tua attenzione a Cologno Monzese è aumentata o diminuita negli ultimi 10-15 anni? Perché?
È, contro la mia volontà, diminuita. Perché tutti i legami affettivi, sociali e politici, che come compagni del GOS (Gruppo Operai e Studenti) e di AO (Avanguardia Operaia) avevamo costruito con Cologno e la gente che vi abitava, si sfilacciarono. E quel progetto ancora in fasce di città proletaria, a cui lavoravamo da appena dieci anni, si perse. Molti compagni entrarono nel PCI. Altri continuarono in DP. E poi ci fu, con la fine sia del PSI che del PCI, la scomparsa di qualsiasi sinistra.
6. Da quali quartieri e zone di Cologno Monzese, che hai frequentato di più, ti sei costruita la tua immagine (o idea) di Cologno?
Riferendomi sempre agli anni ’60-’70 posso dire che ho frequentato sotto la spinta delle lotte politiche particolarmente il Quartiere Stella (qui), diverse piccole fabbriche di allora (Bravetti, Panigalli, Trapani Rosa, Siae Microelettronica, ecc), le scuole elementari e medie; e le case dei compagni sparse per Cologno. L’immagine di Cologno che mi stavo costruendo era, come ho detto, quella della città proletaria.
7. Quali sono i quartieri o le zone di Cologno Monzese che più ignori? A chi ti rivolgeresti per fartene un’idea?
Come ho detto, qui a Cologno negli anni di mia militanza politica ho frequentato soprattutto famiglie di operai, di studenti, di insegnanti e i luoghi della politica (sedi di partito o dei sindacati, il Consiglio Comunale). Ignoro o conosco poco, dunque, le zone (non certo soltanto di Cologno) in cui abitano imprenditori e politici. Ed ho avuto meno rapporti e conoscenza anche delle zone in cui operano i più emarginati. Al momento non saprei, come rivista, a chi potremmo rivolgerci per capire di più.
8. Quali sono state negli ultimi 10-15 anni le trasformazioni per te più evidenti di Cologno Monzese? Come le giudichi?
Lo sprofondamento nei discorsi pubblici e politici dei ceti operai e dei loro bisogni. Con la deindustrializzazione, l’informatizzazione e le nuove forme dei consumi sono emerse le generazioni cetomediste, ipnotizzate dalla competizione imitativa coi “nuovi ricchi”. A Cologno il cambiamento ha premiato soprattutto un ceto di acculturati, magari provenienti anche da famiglie operaie e di immigrati, ma sempre più grossolani e pacchiani e ostili alle tradizioni di famiglia.
9. Quali sono i tuoi sentimenti verso Cologno Monzese?
Li ho raccontati in «Samizdat Colognom», un libretto di “poeterie” pubblicato con la Libreria CELES di Cologno nel 1982. (Ne parlerò in un altro capitoletto). I miei sono sentimenti di contrapposizione e di critica ragionata soprattutto verso il mondo politico colognese, spesso con rappresentanti davvero meschini. Di impazienza e delusione verso gente che vive in condizioni quasi simile alla mia ma che briga nel sottobosco politico, economico e culturale. Di insofferenza verso gli stili della vita individualistici e falsamene libertari.
10. Quali sono le tre esperienze più significative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
Forse ho già risposto al punto 6. Ma meglio ripetere. Le lotte che ho condotte con molti compagni e compagne fra il ’68 e il ’76. Quella per la scuola materna al Quartiere Stella. Quelle con gli operai della Bravetti, della Panigalli, della Trapani Rosa, della Siae Microelettronica e tante altre. Quella dell’occupazione delle case di Via Papa Giovanni. (Son di sicuro più di tre).
11. Quali sono le esperienze più negative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
La scissione di Avanguardia Operaia e il successivo “riflusso” con compagni finiti nella droga, nel “privato” o che scelsero di entrare nel PCI. L’impotenza e l’isolamento rispetto ai fenomeni di disgregazione anche fisica che coinvolsero molti giovani di allora. Il disfacimento morale, politico e culturale della sinistra.
12. Ritieni possibile costruire una nuova immagine di Cologno Monzese? Se sì, in quale direzione (politica, culturale, economica, ecologica) impiegheresti le tue energie?
Un’immagine culturale nuova di Cologno, che non può più essere la città proletaria a cui avevamo pensato, resta indispensabile per ritessere rapporti sociali non subordinati o di semplice colonizzazione rispetto ai centri di potere (che per Cologno stanno a Milano ma non solo lì).
13. Pensi che a questa nuova immagine di Cologno Monzese possano contribuire di più i viaggiatori (quanti lavorano fuori Cologno o hanno di frequente rapporti con altri luoghi o Paesi anche stranieri) o i sedentari? Perché?
Verrà fuori, credo, dal confronto scontro tra le immagini di città degli uni e quella degli altri.
Nota 1 [i] «Laboratorio Samizdat» è stata una rivista ispirata al pensiero comunista (marxismo critico) della Nuova Sinistra, che a Cologno era stato rappresentato negli anni Settanta prima dal «Gruppo operai e Studenti» e poi dalla sezione di «Avanguardia operaia». Fu preparata - in una prima fase “in casa” (fotocopiata) e solo negli ultimi numeri stampata - a Cologno Monzese e diffusa a mano. Fra il 1986 e il 1990 uscirono, oltre al numero zero di prova, 8 numeri. In redazione: Ennio Abate, Roberto Fabbri, Erica Golo, Eugenio Grandinetti, Roberto Grossi, Marcello Guerra, Roberto Mapelli, Donatella Zazzi.
Nota 2 Questo stesso articolo pubblicato su POLISCRITTURE COLOGNOM su Facebook, su segnalazione di non so chi, è incorso nella censura di FB. Non ho capito se per il contenuto o per l'immagine che l'accompagnava (sotto).
dalle ore 7, 15 alle ore 18,52
a cura di Ennio Abate
tu che speravi che draghi cadesse. assumitene le responsabilità, almeno: per essere contro “l’uomo delle banche”, consegni il paese a salvini. che così difenderà le ragioni sociali
Vorrei chiedere al sindaco Gualtieri – che ha detto pochi giorni fa: «in due anni trasformerò Roma in una città pulita e vivibile come un borgo del Trentino» – quando intende iniziare a far rimuovere i detriti dell’ultimo incendio al Parco archeologico di Centocelle: l’olezzo molto trentino, in queste calde mattine d’estate al borgo, sale aulentissimo e arriva fino ai Castelli Romani.
La profezia inizia a compiersi: la crisi derivata da una guerra che interessa gli Usa ma non l’Europa sta generando crisi politiche in tutti i paesi. Ci sono poche figure che rappresentano più di Draghi l’establishment del potere europeo. Ma questo non annulla la politica. E in Italia c’è ancora politica, anche se purtroppo non c’è una presenza di una sinistra parlamentare come a molti di noi piacerebbe
L’8% dell’inflazione segnalato dall’ISTAT (si tratta del valore più alto dal 1986) è il risultato dell’aumento dei prezzi dell’energia causato dalle riduzioni russe e dalla speculazione, contemporaneamente, sulle materie prime. Si sta propagando agli alimenti e, in misura più contenuta, ai servizi. E aumenta le differenze di classe: la spesa delle famiglie meno abbienti è passata dal + 8,3% del primo trimestre al +9,8% del secondo trimestre 2022, mentre per quelle più abbienti dal +4,9% al +6,1%. I più colpiti sono i minori poveri, ci dice Save The Children. Qui le ragioni basilari di chi chiede da due anni l’estensione del “reddito di cittadinanza”: ma senza risposta. Del tema, infatti, Draghi non ha mai voluto sentir parlare.
ho espresso pubblicamente dure critiche al governo Draghi, ma ascoltando per ore e ore i vari interventi al Senato dei critici di Draghi, son costretto a dire che, scomparso il governo Draghi, faremmo il tragico salto dalla padella alla brace.
The Italian leader....was a key architect of the tough sanctions against Russian president Putin". Si tratta di una battuta d'arresto, scrive il Financial Times", per l'alleanza occidentale contro Mosca.
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18 luglio 2022. In occasione del decimo anniversario della morte di Robert Kurz
(Dalla pagina FB di Franco Senia (qui)
a cura di Ennio Abate
1. L’interpretazione di Kurz «Chi non vuole cogliere e combattere la totalità capitalista ha già perso la sua battaglia». E la sua conclusione? «Senza teoria rivoluzionaria, non c’è movimento rivoluzionario»! Con Marx, quindi egli sottolinea «l’importanza della riflessione teorica»: «Marx ha giustamente sottolineato che un autentico rivolgimento rivoluzionario progredisce solo nella misura in cui i suoi inizi e le sue fasi di passaggio vengono criticati, e questo in modo spietato, al fine di superarli e spingerli così oltre le loro mezze misure, le loro conclusioni errate e le loro aberrazioni»
2. «L’attuale compito, storicamente attuale, è la preparazione teorica e pratica di una rivoluzione che liquidi il valore, e pertanto il denaro. Tutto il resto è solo paccottiglia teorica e ideologica. La bomba vera e propria – in quanto nucleo dell’opera di Marx, la sua esplosiva eredità per il futuro – deve ancora essere innescata».
3. […] L’accumulo di “lavoro morto” sotto forma di capitale, rappresentato come denaro, è l’unico “senso” che il moderno sistema di produzione di merci conosce». (Gruppo Krisis, Manifest gegen die Arbeit, pagg. 9-10.)
Ovvero piccoli consiglieri comunali (e probabili candidati sindaci) crescono
Bisogna ripensare Cologno e la politica a Cologno.
* La foto di accompagnamento (Vecchia Chiesa di Cologno Monzese in Piazza XI febbraio) è di Mauro Cambia
Anticololognosità
RIPENSARE COLOGNO MONZESE NEL 2022 (1)
Una riflessione a capitoletti
6. Da quali quartieri e zone di Cologno Monzese, che hai frequentato di più, ti sei costruita la tua immagine (o idea) di Cologno?
7. Quali sono i quartieri o le zone di Cologno Monzese che più ignori? A chi ti rivolgeresti per fartene un’idea?
8. Quali sono state negli ultimi 10-15 anni le trasformazioni per te più evidenti di Cologno Monzese? Come le giudichi?
9. Quali sono i tuoi sentimenti verso Cologno Monzese?
10. Quali sono le tre esperienze più significative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
11. Quali sono le esperienze più negative che hai avuto a Cologno Monzese negli ultimi 10-15 anni?
12. Cologno ti appare come periferia di Milano. Si no, perché?
13. Ritieni possibile costruire una nuova immagine di Cologno Monzese? Se sì, in quale direzione (politica, culturale, economica, ecologica) impiegheresti le tue energie?
14. Pensi che a questa nuova immagine di Cologno Monzese possano contribuire di più i viaggiatori (quanti lavorano fuori Cologno o hanno di frequente rapporti con altri luoghi o Paesi anche stranieri) o i sedentari? Perché?
Questi 4 articoli, che ho pubblicato nei giorni scorsi su POLISCRITTURE COLOGNOM e altre pagine di social locali, trattano di personaggi che recitano in modi tragicomici il misero copione della colognosità, che poi in fondo ha parecchio in comune con l’italianità. (Risalire fino al classico Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani di Giacomo Leopardi? Perché no.) La colognosità – scrissi in un appunto di diario già nel lontano 1987- è «una sensibilità verso il mondo. Forse altri avranno parlato di “mentalità da servi”, di “alienazione” o di “psicologia degli oppressi”. Fatto sta che la mia esperienza quotidiana con la gente che ha fatto e fa politica a Cologno Monzese (periferia di Milano), dove abito dal 1964 in partiti, associazioni culturali, liste civiche, etc. di qualsiasi colore politico mi ha messo di fronte a numerosi e vari esempi di: doppiezze servili, tortuosità nel condurre confronti e polemiche, antintellettualismo esibito come un vanto, invidie malcelate ma rivolte non contro burocrati più o meno arroganti, che si trovano un po’ ovunque, ma proprio verso chi osi mettere in dubbio o criticare i comportamenti e i codici da clan parentali o amicali che in politica sono pane quotidiano. E nei molti decenni venuti dopo il lampo del ’68-’69 ho assistito al mutarsi di ribellismi e progressismi – forme abbastanza false e con un fondo di malafede – in rassegnazione, in settarismi o in collaborazione subordinata ai potenti di turno (maggiori o minimi, locali o regionali o nazionali). E, dunque, allo svelarsi anche di una sfiducia profondamente impolitica sulla possibilità di costruire rapporti non esclusivamente gerarchici tra individui e gruppi sociali.». Negli articoli uso nomi e cognomi di alcuni politici locali ma avverto che la mia attenzione critica non è accanimento personale contro di loro e va alle maschere di ambigui interessi, desideri e bisogni sociali che essi forse inconsapevolmente esprimono. [E. A.] Continua la lettura di Colognosità e italianità
di Samizdat
di Samizdat
Fofeggiare pallido e assorto or che il rovente comunismo è morto, chiacchierare tra ex compagni serpi di Bellocchio, Fortini, e dei quaderni pi. Conferenzando sulla Nuova TuttologiaContinua la lettura di Fofeggiare pallido e assortodi Serra o di Baricco le humanities amiche portare nella palma di una mano e con l’altra fare il gesto delle fiche. [1]Sul Mercato Culturale il palpitare di editing non più proletari piazzare mentre dalle scuole di scrittura dei neo-ricchi si levano gridolini e applausi sciocchi. E nella stupidità che di nuovo ci abbaglia accorgersi con triste meraviglia che fofeggiare non è più uno sbaglio ma una moda, una morale da plebaglia per sopporare la capitalistica Muraglia.
Dalla pagina FB di Tito Truglia
a cura di Samizdat
Ennio Abate
Un lamento simile qui:
Stefano G. Azzarà 22giugno ore 8:26
Il M5stelle è politicamente finito - persino prima di ogni previsione possibile - e non esiste uno straccio di sinistra non dico in grado di approfittarne e riempire il vuoto ma nemmeno di riprendersi lo spazio e gli elettori che erano suoi.
Stop lamenti.
Tito Truglia
Ennio io però non pensavo a Luigino. Non ce ne po’ frega dde meno. Anzi in quel caso la divisione potrebbe avere qualche utilità. No la frase l’avevo fatta in riferimento (che non si vedeva) alla giusta indignazione di Cremaschi su Draghi. Cremaschi come tutti noi è appunto fermo sull’indignazione. Cosa ci indigniamo a fare? Fanno quello che vogliono. Ennio prima di tutto unirsi. Poi si vedrà. Se fosse una unità di intelligenze sarebbe meglio. Ma intanto unire i pezzetti. I pezzi non sono buoni? Sono quello che sono. Al momento sono i migliori che abbiamo…
Ennio Abate
Se fai uno spoglio dei post precedenti di Azzarà (anche vecchi), vedrai che il suo “lamento” non riguarda solo “Luigino”. Insiste pure lui, da anni, sul mettere insieme i “cocci” o i “pezzi” (dei comunisti, della sinistra). Per me è una strada bloccata. Ad ogni passo si rischia la nostalgia per miti tramontati e ci si impantana su contraddizioni reali e irrisolte di quella storia (marxismo/anarchismo; Lenin/Stalin, ecc.). Tutti i tentativi fatti (da Rifondazione ai nuovi PCI) si sono dimostrati fallimentari. Con gli epigoni di una storia male elaborata (nei suoi lutti e tragedie) non si fa molta strada. Meglio il silenzio? Sì, a volte penso che un silenzio (attivo, che studi com’è andata, perché è andata così e che cosa si può fare al di fuori dalle solite vecchie polemiche in cui ogni epigono lucida il suo pezzo di storia “più buono” del tuo) sia meglio della solita chiacchiera, lamentosa appunto.
Tito Truglia
Ennio sì d’accordo, totalmente, che andrebbero ridiscussi alcuni temi forti della “tradizione” così come andrebbe ridiscussi il senso sul presente, le analisi sulle forme attuali del potere, di noi, delle emergenze attuali, delle strutture, ecc. Senza questo lavoro si va di rattoppi. Ma è questo lavoro che sembra impossibile fare a causa delle difficoltà di creatività e di intelligenza sociale (e politica). Il lavoro intellettuale è difficile se non impossibile, la comunanza delle sensibilità pure, figurarsi se si riesce a parlare di comuni interessi. Però bisognerebbe partire. E fare. È penoso dover affrontare il ghigno di Renzi o la prosopopea di Calenda oppure ora anche il draghetto Luigino. Ognuno di loro allo O,O2… Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi. Ma è solo una opinione personale… Saluti!!
Ennio Abate
“Bisogna Smuovere le acque. Io direi costi quel che costi.”
Mi permetto di aggiungere: prima nella propria mente e distanziandosi dalla “compagnia malvagia e scempia”.
Appendice
1.
Lanfranco Caminiti
l’idea è questa di qua: non c’è più interconnessione globale dei mercati, quella che – come abbiamo pensato in europa – allontana i conflitti e le guerre. c’è la geopolitica: sovrani o coloni. e la geopolitica è forza. e l’ucraina è solo “un esempio”. una specie di guerra fredda – due mondi – che si è fatta calda assai, ma dove non c’è più la contrapposizione ideologica, ma solo quella di potenze. l’imperialismo – e putin è imperialista – è, come ci spiegava lenin, sostanzialmente: guerra
Maurizio ‘gibo’ Gibertini
Lanfranco, ti risulta che la globalizzazione abbia allontanato conflitti e guerre? O meglio si le ha più o meno allontanate – ti evito la lista no? – a parte Serbia ecc. E poi le ha riportate in Europa con enormi flussi di profughi a cui hanno pensato Polonia Ungheria da una parte e i turcomanni dall’altra. Che un solo mercato dettasse le condizioni per sempre imponendo regole e unità di scambio decise dal più forte era impensabile e l’affermarsi di altre economie forti e globali non poteva portare che a nuove forme e a nuove unità di misura. Guerre intercapitaliste ci sono sempre state e sono cicliche, Qualche popolo ne uscirà massacrato, qualche confine verrà ridefinito, noi continueremo a parlare tanto quello che diciamo non conta un cazzo e alla fine loro ristabiliranno un nuovo equilibrio. Per lo meno evitiamo di schierarci con gli uni o con gli altri perché in questo ‘gioco’ noi siamo solo carne da macello.
2.
Brunello Mantelli
Putin ha poco da offrire: a) le armi atomiche (ma a che servono? Come i cannoni contro le zanzare), b) gas e petrolio (non li ha solo lui); 3) un apparato militare (sgalfetto, si è visto); 4) un vasto repertorio di simboli (da soli non bastano). Se vuole trasformarsi nel braccio militare (una grande compagnia di ventura Wagner) della Cina non è un gran destino (Cina ed India hanno prospettive tra loro non proprio compatibili). MI pare il suo un discorso da canna del gas.
3.
Giuseppe Muraca
Sul piano culturale le migliori cose le ho organizzate da solo, o con pochi amici.Per esperienza diretta se si è più di due o tre si finisce sempre per litigare.
Ennio Abate
Mi spiace ammetterlo ma dolorosamente sono arrivato alla stessa conclusione. E’ però un segno di sconfitta.
4.
Pierluigi Sullo
Mah, io mi sono fatto un’idea che avevo anche cominciato a scrivere. Lo spunto era la mia lettura giovanile di Emilio Sereni sul capitalismo nelle campagne. Dopo la guerra, i comunisti cominciarono a studiare un paese che non conoscevano più, e meno male che c’erano i quaderni di Gramsci. Ma lo studio non era inerte, bensì un’esplorazione minuziosa di ogni possibilità di mettere in movimento le masse dei lavoratori, dei contadini, dell’intellettualità. Oggi noi dovremmo ripartire da zero: sarebbe immaginabile un istituto, un centro di ricerca, altrettanto non inerte, ma staccato dalla politica, nella sua miseria, e utile a capire, a proporre, a immaginare? Temo di no, anche perché molti intellettuali di sinistra sono diventati “pacifisti”, loro sì inerti, alla maniera che Zizek descrive. Chissà.
Brunello Mantelli
Secondo me sì. Un pochino (pochino) ci si sta provando con “Officina Primo Maggio” (vedi anche on line).
Lanfranco Caminiti
ricordo benissimo lo splendido testo di sereni. credo che, in fondo, tutta la conricerca di alquati davanti la fiat – conoscere sta massa di operai che venivano dalle campagne del sud (panzieri li conosceva bene, li aveva organizzati nelle occupazioni delle terre, poi sconfitte) – si iscrivesse in questo “bisogno di capire” come stava cambiando l’organizzazione del lavoro e il lavoro vivo. non saprei dirti sulla tua proposta – anche sergio bologna ha lavorato molto sul logistico, la distribuzione, i nuovi lavoratori, a esempio. io credo piuttosto che servirebbe una nuova voce politica “a sinistra”: e penso a un soggetto che si faccia carico di costruire una “nuova europa” a partire dai suoi movimenti sociali, da lisbona a vladivostok.
5.
Nevio Gambula
La sfiducia di un antimilitarista nella realtà della guerra. Questo potrebbe essere la sintesi del mio stato emotivo, sempre più propenso al pessimismo. Malgrado il mio ottimismo di fondo, l’andamento della guerra in Ucraina e l’ipocrisia occidentale mi influenzano più di quanto vorrei – e lo scetticismo avanza inesorabilmente dentro di me.
Riesco sempre meno a riconoscermi nelle parole d’ordine di quest’epoca. Mentre tutti si prostrano dinanzi al militarismo, io continuo a rimanere fedele all’obiettivo del disarmo e della neutralità del mio paese. Ma l’epoca, con la sua narrazione bellica dominante, fa coincidere la pace con il riarmo – e la democrazia con l’alleanza militare.
Io continuo a sognare una società dove sia bandita la guerra. Rifiuto di riconoscere legittimità all’idea che il nostro destino dipenda dall’uso della forza militare. Il mondo è piccolo, abitiamo uno accanto all’altro, condividiamo le stesse paure e le stesse risorse; niente può proteggere o rassicurare quanto la vocazione a sentirsi parte della stessa specie. Perché, invece di tendere le braccia, dovremmo impugnare la clava?
Ho sempre saputo, ovviamente, che nella realtà del capitalismo scorre il sangue della guerra. Tra la pace e la barbarie, l’abisso è profondo – e il ponte che le precedenti generazioni avevano costruito non esiste più. Dunque, l’epoca non può che celebrare la guerra, affermando in modo categorico che il discorso pacifista è impotente, astratto o, peggio, colluso col nemico.
Anacronistico rispetto all’epoca, il pensiero di chi rifiuta la guerra “come soluzione delle controversie internazionali” è considerato utopista, e quindi una visione troppo distante dalla realtà. Ciò è probabilmente vero. E allora, che fare?
Giungono alle mie orecchie le risatine sarcastiche dell’epoca: – Devi guardare in faccia la realtà una volta per tutte; la guerra è il nostro destino. Che fare? Accordarmi all’epoca?
Nel giorno del bombardamento di Bagdad, insieme a milioni di persone nel mondo, e con la forza di chi ha ragione, mi sono lasciato trascinare dalla folla che manifestava contro la guerra. Ho protestato, anche rumorosamente, contro tutte le guerre che sono venute dopo, chiunque fosse l’aggressore. Ho continuato e sviluppato questa critica del militarismo in nome di un’umanità diversa, plurale ed eguale – un’umanità finalmente capace di rinunciare a ogni velleità imperiale. Dimenticare me stesso?
Il capitalismo implica la guerra. Pertanto, l’epoca non può che adagiarsi fedelmente alle sue esigenze. La pace svanisce quando la crisi economica si risolve nello scontro di potenze: prevale «una politica di conquista armata dei mercati».
Ma se nel momento in cui l’epoca smette di essere pacifica abbandoniamo il sogno di un mondo dove ogni popolo «si vede e si dimentica negli altri affinché tutti siano più uniti», che senso ha vivere? Se smettiamo di sognare il disarmo e la neutralità, per cosa possiamo fremere? Per un tank nemico distrutto? Per evocare con naturalezza una catastrofe atomica?