di Angela Villa
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Una conferenza di Daniele Barni
Io sono Artaud
di Nevio Gambula
Il poeta Artaud, l’attore, il regista, il visionario, rivive attraverso un racconto delirante la sua esperienza di vita. Nove anni passati in manicomio, subendo ogni forma di violenza fisica e psichica, in un mondo dove si aggirano medici implacabili e funziona-ri di una società che lo rifiuta, spietati e disumani. È la storia di un soggetto scorticato vivo, invaso da fantasmi e costretto dentro una cella buia e spoglia che lo rende invisi-bile; gli effetti dell’elettroshock attraversano il suo monologo interiore, come i residui di un incubo. Il suo linguaggio è infatti aspro, a tratti lancinante; dalla sua bocca sprigiona qualcosa di straziante, brandelli di parole, frasi sconnesse, confusi ricordi, propositi di rivolta. La costante presenza della malattia e dell’allucinazione rende il suo racconto informe, pieno di crepe, mentre la parola è masticata con rabbia, distorta, restituita da una voce sempre più demoniaca, da posseduto. Ed è proprio la voce a suggerire l’affanno di un uomo che cerca, nella violenza della sua condizione, uno scatto che lo liberi dalla prigionia.
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Al Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico
UN CONVEGNO SULLA CITTADINANZA IDEALE
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Donato Salzarulo
Gli esercizi di lettura e gli altri interventi qui raccolti sono stati realizzati in un lungo arco di tempo che va dal febbraio1995 al gennaio 2024. Essi rappresentano la testimonianza di un intenso colloquio con l’opera di un poeta e saggista fra i più importanti del secondo Novecento letterario italiano.
(dalla PREFAZIONE di Donato Salzarulo a IL GATTO DI FORTINI, prima edizione agosto 2024)
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L’insostenibile trionfo della leggerezza
di Donato Salzarulo
In provenzale antico “leujaria” significa letteralmente “leggerezza”. Per uno di quegli scarti tipici della storia delle lingue, in italiano diventa “leggiadria”. Con quest’ultimo termine non ho problema: la grazia, la bellezza, l’eleganza mi piacciono molto.
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Abbazia Di Calena
di Angela Villa
«Io vengo anche quando non ci sono prenotazioni».
Così, Carmela Pupillo, guida turistica abilitata della regione Puglia, racconta la sua resistenza culturale a Peschici. Quotidianamente lotta, per promuovere le bellezze artistiche e culturali di questa località turistica, contro le tante difficoltà che rendono difficile il suo lavoro, a cominciare dalla necessità di collocare un piccolo cartello per segnalare la presenza di un bene culturale e storico così prezioso. Sto parlando dell’Abbazia di Calena. Scendiamo dalla macchina e aspettiamo il custode che venga ad aprire il grande portone antico, di qua le piante, di là il pozzo secolare. Siamo un piccolo gruppo di turisti, curiosi e desiderosi di conoscere la storia di questa Abbazia. Un raggio di sole colpisce il campanile e illumina l’immagine dell’antica madonnina, ha una forma strana del vestito, sembra quasi una sirena bicaudata, come se ne vedono tante nei paesi del sud che si affacciano sul mare. Seguiamo Carmelina all’interno dell’edificio, i lunghi capelli ricci le incorniciano il volto racconta con amore e passione di un luogo che pochi conoscono. L’Abbazia di Calena è un vero gioiello di architettura, ricco di storia e bellezza. Come nasce questa Abazia? Grazie ai Benedettini che arrivarono a Calena, da un altro luogo molto importante, dall’abbazia principale, Santa Maria a Mare delle isole Tremiti che era già molto importante e grandiosa. Poi è divenuta autonoma. La parola Calena in greco vuol dire “Bella” e quindi si può capire l’intenzione dei monaci di stabilirsi in quella zona. Il primo documento in cui si parla di questa antica Abbazia risale al 1023. Un vescovo di Siponto, l’antica Manfredonia, dona questa località compresa l’abbazia, alla più grande chiesa madre che si trovava sulle Tremiti. Questo ci fa capire che l’abbazia esisteva da tempo, non abbiamo fonti sicure ma probabilmente già Federico II di Svevia la conosceva. Intorno al 1100-1200 arrivano i monaci cistercensi. Dal 1450 fino al 1500 l’abbazia diventa sempre più florida, prende tributi da terre e paesi limitrofi. Tutto apparteneva all’abbazia, i due laghi costieri, le chiese di Ischitella di Vico, i territori di Peschici stessa, alcune chiese di Vieste. I frati gestivano tutta questa grande parte territoriale e raccoglievano le tasse. Durante le diverse dominazioni l’abbazia è passata sotto il controllo dei Borboni che lasciarono ai frati solo le chiese e acquisirono i tributi, con i Francesi la situazione si impoverisce, poiché il governo francese acquisisce anche le chiese e tutto viene messo in vendita, così alla fine del 1800 questo gioiello architettonico, diventa un bene privato e viene acquisito dai Martucci che avevano già molti terreni in queste zone. D’allora passa da ruolo di abbazia ad azienda agricola, viene collocato nei locali di Calena un grande frantoio aperto a tutti. Le porte erano sempre aperte e si dava il diritto di entrare a tutti, perché c’era il grande pozzo nel cortile. Nella grande chiesa per tantissimo tempo si celebrava la messa. Calena nell’antichità, inoltre, era un punto importante di passaggio, i frati accoglievano i viandanti che andavano a Monte Sant’Angelo a vedere la grotta di San Miche Arcangelo. Si partiva da Mont Saint-Michel o da Santiago de Compostela, si scendeva poi fino a Brindisi per andare a Gerusalemme. Erano percorsi che duravano tre o quattro anni. Questi pellegrini spesso lo facevano per scelta, oppure obbligati dal padrone che gli chiedeva di farlo al posto suo. Ci sono molti segni e graffiti lasciati da questi viandanti, partivano scalzi, con pochi denari e tornavano, dopo diversi anni, ricchi di esperienze e di conoscenze rispetto al loro padrone che era rimasto a casa. Per testimoniare il loro passaggio, lasciavano segni, impronte delle mani o dei piedi, semplici croci. I segni più antichi in assoluto, trovati anche a Calena sono quelli esoterici e di iniziazione, spesso difficili da spiegare. Ce n’è uno che appartiene alla Triplice Cinta Sacra. Simboli concentrici rettangolari, che hanno una datazione remota e sono stati ritrovati anche in Afghanistan. Simboli lasciati da cavalieri antichi ad indicare che quel luogo aveva un valore importantissimo dal punto di vista spirituale. Un luogo dove tempo e spazio assumono una dimensione più ampia, in collegamento con altri luoghi delle Terra. Chi per caso si trova a Peschici per villeggiare può recarsi alla Pro Loco del paese e scoprire le altre iniziative alla scoperta delle tradizioni del Gargano, come la visita al centro storico di Peschici e di Vico.
Il tempo è scaduto, saluto Carmelina Pelullo, per qualsiasi altra informazione si può consultare il suo blog www.carmelapulillo.it , mi ha lasciato dentro una piccola gioia perché mio nonno, Don Peppino (così lo chiamavano a Peschici), ha dedicato molti anni della sua vita a studiare la storia antica delle famiglie di Peschici, e le vicende di questa abbazia, da ragazza l’ho accompagnato diverse volte, a visitare le mura antiche, poi non sono più riuscita a tornare, la vita ci prende nel vortice dei desideri che non conosciamo. Ritorno a casa prendo il sentiero che fiancheggia la Foresta Umbra, i grandi pini marittimi con le chiome curve verso il mare, se ne vanno in fila come i pellegrini, compagni del mio ritorno.
Peschici, 15 agosto 2024
La palummella dei Frammichele
di Angela Villa
A Peschici, c’è un piccolo luogo dove il tempo ha preso una pausa dal suo divenire. Nella stradina medioevale che porta al castello antico, c’è una bottega artigianale, quasi un museo all’interno di una grotta, con oggetti realizzati a mano: vasi, bicchieri, piatti, stelle marine, conchiglie, granchi, lune e mezze lune, un’eterogeneità di oggetti, una contaminazione di forme e colori, fra cui domina: l’azzurro del mare, il verde e il grigio della foresta Umbra. Il laboratorio si trova in Via Forno 22, chi entra con l’intenzione di capire e non solo comprare, lo nota subito: ogni oggetto rimanda a ricordi, racconti, testimonianze. Entrare in questa bottega è un’esperienza dello spirito, si può vedere gli artigiani lavorare e si possono ascoltare le antiche leggende come quella della Palummella, la messaggera dell’amore che porta alla giovane “Rusinella” il messaggio dell’amato “Totonno”.
I protagonisti di questo luogo incantato sono i FRAMMICHELE, due fratelli, Rocco e Peppino. Da anni, con la loro attività compiono un lavoro importante di tutela delle tradizioni storiche, legate alle attività artigianali e alla cultura immateriale. Si compensano e si aiutano a vicenda, ognuno ha un proprio ruolo preciso; Peppino prepara le miscele e i colori, dipinge in stile arcaico e secondo l’antica tradizione del Gargano; Rocco modella la materia prima al tornio, prendono forma così oggetti di vario genere: ultima loro produzione le bamboline dell’amore, le messaggere degli innamorati. Se provi a chiedere: «Da quanto tempo lavorate insieme?» In genere rispondono: «Da sempre!» La dimensione del tempo per loro è relativa.
Rocco e Peppino vivono in un tempo ancora più antico del nostro, un tempo mitico, quello delle storie che si nascondono dentro le loro creazioni. Ogni oggetto è unico, impossibile trovare qualcosa di uguale, anche nel caso delle composizioni di bicchieri, se si osserva bene, ognuno è diverso.
Le loro produzioni artistiche sono storie, teatrini di ceramica, con veri e propri personaggi; la loro ultima composizione parla di una Palummella che porta la buona novella, i messaggi che fanno bene al cuore, e aiuta gli innamorati a coronare il loro sogno d’amore.
La Palummella non si fa mai ingannare riconosce il vero amore, il primo amore, quello che veramente conta, che nasce dalla profondità del sentimento, fatto di intimità e desiderio di conoscenza. L’antica leggenda della Palummella si trova anche nella tradizione della canzone napoletana. C’è una nenia dal titolo “La Palummella” o “Palummella, zompa e vola”, una rielaborazione di un testo del XVIII secolo, che probabilmente traeva ispirazione da “La molinarella” di Niccolò Piccinni (messo in scena forse nel 1766). Successivamente il brano assunse anche un significato politico e patriottico.
Il messaggio dell’antica canzone è molto simile alla storia delle ceramiche dei FRAMMICHELE: l’innamorato di turno affida a una “palomma” (cioè una farfalla o probabilmente una colombina) il compito di portare il suo messaggio d’amore all’amata. La canzone si ritrova anche in un testo teatrale di Antonio Petito, nel quale si racconta di un giovane innamorato della sua Palummella. In rete si trovano diverse versioni di questa canzone, la più antica è eseguita da Fernando De Lucia: “Palummella, zompa e vola”, (settembre 1921). C’è la rielaborazione di Roberto De Simone con la compagnia del Canto Popolare, c’è la versione più recente di Massimo Ranieri. Io preferisco quella di Sergio Bruni perché è eseguita con canto puro, con stile lieve e delicato, con attenzione unica ad ogni singola parola del testo.
Chiedo ai fratelli se conoscevano questa canzone napoletana e se in qualche modo sono stati ispirati. Mi rispondono di no, la loro Palummella viene da un’antica storia tramandata oralmente. Si può parlare di una cultura mediterranea che unisce narrazioni e vicende, un filo rosso, un legame, un patrimonio ideologico, sociale e culturale che lega i popoli del “mare di mezzo”. Rocco e Peppino, con la loro arte ne sono testimoni, nei loro volti e nelle loro mani è scolpita la pazienza di chi facendo piccoli passi alla volta, difende una cultura del fare, nel consumismo dei prodotti usa e getta, del turismo mordi e fuggi.
La follia di Lady Macbeth
di Angela Villa Continua la lettura di La follia di Lady Macbeth
La Ü francese
di Donato Salzarulo
La Ü francese con la dieresi, che si pronuncia esattamente come quella lombarda, questo fonema, così naturale per diverse popolazioni del Nord, rappresenta per me una pietra d’inciampo, una spina tra la lingua e le labbra, un’ostinata resistenza a non disporsi come l’uso vorrebbe.
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