di Franco Romanò
L’articolo si collega ai precedenti già pubblicati qui, qui e qui.[E. A.]
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di Franco Romanò
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1- il quadrato magico Continua la lettura di Sraffa, Marx e la primavera
di Franco Romanò
Lasciamo di nuovo Neri Salvadori e Kurz, per ritornare allo Sraffa degli anni ’20. Proseguendo nella disamina dei marginalisti, Le Lezioni mettono in evidenza anche le differenze che esistono fra le diverse scuole: Marshall, in particolare, riprende anche alcune delle argomentazioni di Ricardo. Ciò che mi sembra rilevante, sono però le conclusioni cui egli approda e dalle quali inizia il suo affondo nei confronti della teoria e ancora una volta Sraffa sceglie, in questo come in altri passaggi, la strategia comunicativa della critica indiretta. Affida a Petty quello che lui stesso in fondo pensa e cioè che i sentimenti non giocano alcun ruolo nel determinare il costo di produzione, qualunque sia la nozione di costo che si decide di adottare e gli contrappone subito, pur senza entrare nel merito, la concezione soggettivistica di Marshall, poi così prosegue:
… Comincerò paragonando … il costo di produzione secondo W. Petty e i Fisiocratici e secondo la concezione di Marshall. Prima di entrare nel vivo della materia, tuttavia, c’è un punto da chiarire. Dovrò parlare spesso della concezione che i vecchi economisti avevano del costo come se essi possedessero una nozione chiara e accuratamente definita del medesimo. In realtà questo non è vero. Fino a tempi recenti, il costo non è stato considerato dagli economisti come una categoria indipendente – di solito veniva confuso e spesso identificato, con il valore o il prezzo. Persino Ricardo, quando si domanda “se l’affitto entri o meno nel costo di produzione” egli affermava che “l’affitto non è una reale misura del valore”… Mescolando in questo modo diversi problemi che noi oggi consideriamo interamente distinti, soltanto raramente vediamo usata da loro un’espressione come “costo di produzione”: perciò dobbiamo sempre essere all’erta sul pericolo di leggere nei classici non tanto ciò che davvero hanno scritto ma ciò che ci piacerebbe che avessero scritto. La distinzione fra costo di produzione e valore è stata pienamente afferrata dagli economisti solo quando nel molto reale del business e nella vita reale il manifatturiere è diventato una persona diversa rispetto al mercante e come conseguenza la produzione è diventata una funzione economica indipendente dello scambio; conseguentemente, i problemi del valore e del costo di produzione sono diventati i problemi di due diverse categorie di persone. Anche la concezione stessa del costo ha subito un processo di differenziazione e un’analisi delle sue parti componenti si è cominciato a elaborarla quando la teoria classica del valore è stata sfidata. Solo quando gli economisti hanno cominciato a capire che era possibile pensare al valore come a qualcosa che andava oltre il costo, che valore e costo sono apparsi come due oggetti diversi e indipendenti. Ora, tornando alle due diverse concezioni, secondo Marshall il ”costo reale di produzione di una merce” è costituito dalla “somma dei sacrifici e degli sforzi coinvolti nell’astinenza e nell’attesa, nonché nel lavoro di tutti i tipi – diretto e indiretto – che è richiesto per la produzione di una merce.”
Sulle parole usate da Marshall e cioè astinenza, sacrificio e attesa esiste molta letteratura, anche per il carattere piuttosto oscuro di due termini simili usati in un contesto economico. Con il primo termine s’intende astinenza dal consumo, per destinare il capitale a investimento oppure a risparmio (attesa). Così proseguono le Lezioni:
Il costo reale è perciò una aggregato di sensazioni spiacevoli di diversa natura vissuti dagli individui che hanno a che fare con la produzione. Per Petty e i Fisiocratici il costo (o ciò che gioca il ruolo di costo nella loro teoria), non è nulla di così soggettivo; è invece uno stock di materia richiesta per la produzione delle merci e questo materiale naturalmente è principalmente il cibo dei lavoratori. Petty ribadisce che la sua nozione di costo non ha nulla a che vedere con i sentimenti piacevoli o spiacevoli degli uomini: “la comune misura del valore è il cibo di un uomo adulto in media e non il lavoro del giorno”. Tale costo è dunque concreto e tangibile, visibile, lo si può misurare in tons e in galloni. Petty si colloca dunque all’estremo opposto della concezione di costo di Marshall, che è privata per ciascun individuo e può essere misurata soltanto dai mezzi monetari richiesti per esplicitarsi … L’intera economia è vista da Marshall come una questione di metodo atto a misurare le motivazioni individuali e per bilanciare esattamente utilità e disutilità, cioè piaceri e sacrifici.
L’ultima parte del discorso di Sraffa è assai importante perché sotto traccia è possibile intravedere il terzo caposaldo del soggettivismo marginalista e cioè la cosiddetta sovranità del consumatore.
Questo punto di vista porta a una concezione di salari e profitti come due cose di natura radicalmente diversa. I salari sono un aggregato di merci che esiste prima della produzione e che viene distrutto durante il processo produttivo: essi vengono così a identificarsi con il capitale o almeno con una parte importante del capitale. I profitti e naturalmente anche le rendite sono una parte del prodotto, e precisamente la parte in eccesso rispetto all’aggregato iniziale. Tutto il prodotto appartiene al capitalista che ha anticipato i salari: ne ricava il profitto e con l’altra parte rimpiazza il capitale consumato … Non c’è mai un momento in cui il prodotto viene diviso fra lavoratori e capitalisti; le loro entrate si trovano ai lati opposti del processo produttivo, in relazione al quale vengono pagati … Il paragone appropriato non è quello fra salari e interessi sul capitale ma fra i salari e ciò che è pagato dal capitale per affittare un cavallo dal proprietario del cavallo medesimo o per il mantenimento dell’animale. Prima di procedure vorrei far notare che non si tratta qui di dire se una cosa è giusta o sbagliata, ma solo se è rilevante o meno.
Questo passaggio è rilevante perché in esso Sraffa ribadisce il rifiuto del soggettivismo senza tuttavia cadere nello scientismo. L’affermazione che segue lo certifica ampiamente:
Rispetto a una serie di questioni … Credo che la nozione classica di costi, intesa come quantità di cose usate nella produzione, sia la sola di maggiore importanza dal punto di vista di una teoria del valore … Il punto essenziale per loro (parla dei fisiocratici ndr) è il concetto di produit net cioè la differenza fra l’aggregato totale di valori merce anticipate e consumati nella produzione e l’aggregato di valori delle merci prodotte …
Sraffa riprende tale problematica proprio nel capitolo finale di Produzione di Merci a mezzo merci: dopo avere richiamato la frase con cui era iniziata l’introduzione, egli scrive:
…si sa che la prima presentazione della produzione e del consumo come processo circolare si trova nel Tableau Economique di Quesnay, ed esso sta in netto contrasto con l’immagine offerta dalla teoria moderna (il marginalismo ndr) di un corso a senso unico che porta dai “fattori della produzione” ai “beni di consumo.”1
Questo passaggio è fondamentale, oltre che per la critica al marginalismo che contiene, perché ribadisce un concetto chiave di tutto il modello sraffiano e cioè che l’economia è un processo circolare e non lineare; corso a senso unico, che procede dalla produzione al consumo come flusso continuo, nel linguaggio di Sraffa significano linearità e cattiva infinità. Ecco come Sraffa riprende questa tematica nell’Introduzione ai Principi di Ricardo:
Ricardo nei suoi primi scritti si è servito di un metodo particolare che consiste nel conferire al grano una posizione speciale come l’unica merce che è necessaria sia per la propria produzione sia per la produzione di ogni altra merce. Ne risulta che il saggio di profitto del produttore di grano viene determinato indipendentemente dal valore, mediante il solo confronto della quantità fisica che si trovava dalla parte dei mezzi di produzione con quella che si trova dalla parte del prodotto, quantità che consistono entrambe della stessa merce; e su ciò si fonda la conclusione di Ricardo che “i profitti dell’agricoltore, regolano i profitti di tutte le altre industrie.”2
Tale affermazione, che pure si trova alle origini dell’economia politica e che fu ribadita da Ricardo anche nelle edizioni finali della sua opera, suona per noi altamente sorprendente. L’idea che si possa misurare un prodotto in quantità fisica e non monetaria suona del tutto anacronistico, eppure l’economia è prima di tutto proprio questo – entità fisica – anche quando parliamo di servizi, che possono essere benissimo rappresentati come quantità di prodotto netto o reddito da destinare al loro finanziamento. Ma perché dovremmo farlo? Quale vantaggio ne avremmo? Il percorso per arrivarci è lungo ma in fondo non più accidentato di quello che porta a stabilire un nesso fra tassazione e prestazioni di welfare. L’origine dell’affermazione sta nell’opera di Ricardo e precisamente nel primo capitolo che Sraffa medesimo definisce sconcertante; poi aggiunge:
Il fondamento razionale mai esplicitamente indicato da Ricardo, al principio del ruolo determinante dei profitti dell’agricoltura va ricercato nel fatto che in agricoltura la stessa merce, cioè il grano, può costituire sia il capitale (inteso come l’insieme dei mezzi di sussistenza necessari al lavoratori), che il prodotto, e quindi la determinazione del profitto, quale differenza fra il prodotto complessivo e il capitale anticipato, come pure la determinazione del rapporto di questo profitto con il capitale, può essere fatta direttamente in termini di quantità di grano, senza bisogno di altra valutazione.3
Neppure Sraffa lo aveva ripetuto in Produzione di merci a mezzo merci, perché lo riteneva superfluo, visto che ne aveva parlato ne l’Introduzione Ricardo del 1951 e quindi prima della stesura del suo libro che è del 1960. Forse il non averlo ripetuto ha tuttavia accentuato assai il carattere criptico del libro. In ogni caso, il suo intento è il solito: salvare il nucleo veritativo dell’economia classica rifiutando le loro assurdità come ribadisce nel prosieguo della lezione:
Per i Fisiocratici solo l’agricoltura produceva un surplus, non l’industria … A parte questa assurdità, tuttavia, non vi è dubbio che in agricoltura, in ragione della identità che esiste fra la qualità del prodotto e quella dei materiali usati per produrlo, la comparazione per il calcolo del surplus è possibile senza introdurre l’elemento disturbante del prezzo per misurare le due quantità: laddove nell’industria, la qualità delle due entità fisiche è diversa, per cui la comparazione può avvenire solo fra valori … Mentre l’idea che solo l’agricoltura producesse un surplus fu presto abbandonata, la nozione di surplus gioca invece un ruolo importante nell’economia classica e fu adottata da Adam Smith. Compresa la nozione di costo. Sull’altro versante abbiamo Ricardo, che riduce il costo al solo lavoro con qualche dubbio rispetto alla necessità di introdurre o meno in esso anche i servizi del capitale oltre al lavoro necessario a produrre le merci capitale e che esclude definitivamente la rendita dal costo. … Per Ricardo tutte le considerazioni in merito a piacevolezza o spiacevolezza del lavoro, sono irrilevanti. Lavoro significa che ci sono dei lavoratori che vengono pagati nella esatta misura in cui questo serve a mantenerli in vita ed efficienti, così da produrre. La quantità di salario necessaria al raggiungimento dello scopo è completamente indipendente dalle forme diverse di sacrificio o sforzo compiuto dai lavoratori nei diversi rami della produzione. I salari vengono mantenuti al “loro livello naturale” dalla tendenza della popolazione a crescere … Tale livello naturale dei salari non è fissato una volta per tutte, ma cambia in seguito al mutare delle abitudini, causa delle fluttuazioni dell’offerta e della domanda da parte di classi particolari di lavoratori. … e varia da nazione a nazione … … Perciò il lavoro è la costituente ultima del valore non perché rappresenta l’elemento umano della produzione, ma perché si tratta di capitale usato in forma di salario che deve essere rimpiazzato scorporandolo dal prezzo del prodotto. Essendo i profitti proporzionali al capitale, ed essendo il capitale ridotto interamente a salario per lavoro diretto o indiretto, essi attingono alle medesime proporzioni per tutte le differenti merci e dunque non hanno alcuna influenza sui valori relativi di scambio … Come abbiamo visto ci sono in Smith due modi distinti di rappresentare il costo di produzione: sia come ammontare di lavoro, toil and trouble richieste per produrre una merce; oppure come stock di merci materiali, che sono usate principalmente per supportare quel lavoro specifico. Le due quantità non si possono sommare, senza duplicazione, dal momento che esse non rappresentano distinti oggetti simultanei, bensì due fasi successive della medesima quantità. Ma per Smith, considerando la quantità di lavoro come proporzionale alla quantità di merci consumate per il mantenimento, potrebbero per molte buone ragioni essere trattate come due quantità equivalenti L’opposizione fra queste due concezioni del costo di produzione, corre lungo tutto lo sviluppo successivo della teoria economica; … ed è così anche nella distinzione che Marshall propone fra “costo reale” e “spese di produzione” … Quando in tarda età, a fronte delle difficoltà che sorgevano per la teoria lavoro del valore, dovuto al fatto che i valori delle merci che richiedevano la stessa quantità di lavoro richiedevano però diversi volumi di capitali e dunque ovviamente valori diversi, Smith si decise a tener conto del capitale; tuttavia anche in questo caso il capitale non veniva considerate dal punto di vista dell’elemento umano, in quanto astinenza (dal consumo ndr), ma solo come tempo perso dalle merci capitale in un investimento, mentre avrebbero potuto essere profittevolmente impiegate altrove per supportare il lavoro. In una lettera scritta a McCullogh poco prima della morte egli scrive: “Talvolta penso che se dovessi riscrivere il capitolo sul valore che è nel mio libro, dovrei riconoscere che il valore relativo delle merci era regolato da due cause e non da una soltanto, e cioè dalla quantità relative di lavoro necessario a produrre quelle merci e dal saggio di profitto per il tempo in cui il capitale giaceva dormiente e fino a che le merci non fossero portate al mercato”.
Infine Stuart Mill, cui tuttavia Sraffa non attribuisce – almeno fin qui – una grande importanza, per cui lo lascio solo nell’appendice in lingua inglese. Superato Mill le lezioni proseguono in questo modo:
Fino a questo punto abbiamo considerato coloro che, aldilà delle differenze fra loro, hanno un tratto comune: guardano al costo come a un fatto primario del processo produttivo. Prenderemo ora in considerazioni coloro che pensano il contrario … Questi secondi pensano che nel processo di determinazione del valore l’ordine di importanza va rovesciato. Ciò significa che essi guardano al costo come somma di valori distrutti nella produzione, e tali valori, tutti, essi sostengono, devono essere determinati dall’utilità del prodotto. Non sono le merci capitali e materiali che trasferiscono il loro valore al prodotto; piuttosto, esse derivano il loro valore dal fatto che esse possono venire adoperate per produrre una merce utile che lo sia effettivamente. Stiamo parlando della scuola Austriaca (Menger, Wieser e Bohm-Baverk.
Si ripropone in questo passaggio un modo di operare ormai noto. Dopo avere accennato a un argomento ecco una nuova ellissi che ci porta altrove. Tuttavia, tali spostamenti sono sempre giustificati da eventi e fatti concreti. Lo abbiamo già visto nel passaggio in cui Sraffa mette nero su bianco il fatto che il marginalismo nasce dalla paura che i conservatori hanno nei confronti di Marx. Il progetto di cancellazione dell’economia classica ha un fondamento ideologico e le teorie economiche non nascono dal nulla o dalla testa di Giove, ma sono radicate nel conflitto sociale. La cronologia allora diventa un elemento decisivo e non nozionistico per collocare la nascita di una certa teoria. Fu così per il marginalismo è così anche per scuola austriaca cui si dedica ora l’analisi di Sraffa, che così prosegue:
Essi iniziano classificando le merci in base a questo criterio: se soddisfano bisogni umani direttamente o indirettamente. In cima alla scala ci sono le merci di primordine, cioè quelle pronte per il consumo; ciascuna di queste merci è costituita da merci di secondo ordine che, in proporzioni date, che sono necessarie a produrre le prime. E così via andando all’indietro finché non troviamo merci che sono rimosse dal consumo umano. Laddove una merce di primordine può essere usata per soddisfare un bisogno, quelle di ordine inferiore possono essere usate solo se combinate in proporzioni date così da produrre merci di primordine. Perciò ogni merce consumabile è uguale alla somma delle merci di ordine inferiore usate per produrle, questa somma è ciò che gli austriaci definiscono come costo. Il lavoro non è che una di queste merci di secondo ordine, alla stregua di qualsiasi altro materiale usato nella produzione; la sola differenza consiste nel fatto che esso può esser usato in diversi rami della produzione di merci consumabili. Esso non rientra nel costo in quanto sacrificio o sforzo lavorativo, ma nella forma di una utilità persa non essendo disponibile per altri usi che non siano la produzione applicata. Perciò, gli austriaci si identificano con la teoria di opportunità di costo, che riguarda tutti i tipi di costo, e non soltanto il lavoro e lo considerano costituito dalle utilità che vengono perse negli impieghi alternativi che sarebbero stati disponibili. (perdita delle opportunità). Il punto peculiare della teoria dei costi secondo gli austriaci è il loro modo di intendere la nozione di capitale. Essi respingono (mi verrebbe da dire ovviamente ndr), il metodo di ridurre tutti i capitali a lavoro accumulato. Per loro sono parti componenti del costo, non solo salari e interesse (lavoro più astinenza dal consumo e quindi risparmio), ma anche il capitale stesso. Essi pensano che guardare al capitale come lavoro accumulato era possibile e ammissibile solo negli stadi molti iniziali dello sviluppo industriale, quando gli strumenti di lavoro e le materie prime sono esse stesse il risultato di lavoro diretto e immediato: ma è assurdo ritenere di ridurre a lavoro accumulato delle macchine che sono il risultato di una lunga serie di processi in cui il capitale stesso e l’elemento maggiormente essenziale. Perciò, dal momento che il capitale è richiesto per produrre merci capitale, il capitale non può mai essere escluso interamente dai costi, ma deve essere preso in considerazione insieme al lavoro … … L’errore principale della teoria austriaca dei costi è che essa è del tutto inutile per la determinazione del valore di un prodotto: dal momento che le componenti del costo derivano il loro valore dal prodotto, questo valore deve essere ricavato da esse come un punto di partenza, deve essere determinate prima che si cominci a parlare di valore costo … Perciò tali valori devono esseri considerati come dati, prima di poter parlare di astinenza; perciò l’astinenza non può essere usata una seconda volta per determinare il valore, senza cadere in un circolo vizioso …
Si affaccia qui un altro problema cui Sraffa cercherà di dare risposta in Produzione di merci a mezzo merci: i ragionamenti paralogistici che inficiano sia la teoria marginalista sia la scuola austriaca. La confutazione più ampia ed esaustiva, tuttavia, si trova nel commenti di Giorgio Gattei all’Introduzione all’opera omnia di Ricardo, scritta da Sraffa nel 1951. Gattei ricorda come già Dimitriev, all’inizio del 1900, si era reso conto dell’importanza delle affermazioni di Ricardo, ma specialmente delle loro enormi implicazioni, che egli fu il primo a cogliere. Ecco come Gattei ricostruisce il tutto citando proprio Dimitriev:
…Ricardo ci ha consegnato un brillante procedimento per spezzare proprio il rapporto di simultaneità che ancora lega il saggio del profitto ai prezzi e quindi determinare il primo direttamente in termini fisici, preventivamente ad ogni conoscenza dei secondi. È questo il “suo merito immortale”, per dirla con Dimitriev: “di essere stato il primo a mostrare, che tra le equazioni della produzione, ne esiste una che dà la possibilità di determinare la grandezza r (il simbolo del saggio di profitto ndr), senza fare ricorso alle altre equazioni (quelle dei prezzi ndr)4
È la medesima conclusione cui giunge Sraffa nel brano riportato, tratto dal capitolo terzo di Produzione di merci a mezzo merci, alla pagina 28 e già più volte citata. La cosa stupefacente in tutto questo è che Ricardo scoprì davvero qualcosa di decisivo ma non se ne accorse probabilmente in tutte le sue implicazioni, Marx non se ne accorse perché – pur partendo sempre da Ricardo – seguì una strada prevalentemente diversa, Dimitriev fu il primo a capire l’implicazione fondamentale cui la scoperta di Ricardo portava, Sraffa la riprese nel 1951 come se la scoprisse per la prima volta di nuovo in Ricardo e ne fece la base di Produzione di merci a mezzo merci nel 1960. Qualcosa che stava sotto gli occhi di tutti dal 1815, fu veramente vista oltre cento anni dopo! Sembra di leggere la Lettera rubata di Poe. Per concludere, Sraffa, rifacendosi anche a Torrens, nel capitolo finale di Produzione di merci a mezzo merci, difende, seppure modificandola, la proposizione fondamentale di Ricardo, trasformandola in questa:
La produttività del lavoro sulla terra che non paga la rendita, è fondamentale nel determinare il profitto generale.5
Nella citazione di Gattei ricordata più sopra e riguardante Dimitriev, c’è un altro termine di fondamentale importanza e cioè simultaneità; la ritroveremo nella confutazione di Sraffa a proposito del marginalismo. Sempre nell’Introduzione a Ricardo,6 viene ripresa tutta la questione per dire che in base a quanto scritto in precedenza non si può più parlare di costo del lavoro e ancora una volta l’origine di questa perentoria affermazione la troviamo in Ricardo che riporta il valore di una merce alla quantità di lavoro richiesta per produrla e non alla quantità della remunerazione, cioè il salario monetario pagato per quel particolare lavoro:7 a tale formula Marx apporterà una modifica fondamentale, scrivendo quantità di lavoro socialmente necessario per produrre un merce o un’altra. La risposta marginalista è la seguente: ciò è possibile applicando e dunque generalizzando all’intero sistema economico le equazioni che si applicano a una sola azienda che produce una sola merce. Con tale tentativo il marginalismo cercava di dimostrare che l’assunto di Marx che il capitalismo è un sistema anomico (Marx usa la parola anarchico) e senza direzionalità per definizione, sia errato e che sia dunque possibile generalizzare all’intero sistema le equazioni di base di cui un’azienda si serve per programmare la propria attività, dandone quindi una descrizione formale ordinata e non caotica del sistema intero. In sostanza il marginalismo si proponeva di trasformare la mano invisibile di Smith (dimenticando che – seppure in ultima analisi, Smith si dovette convincere che la mano invisibile era l’intervento statale e non quello privato!) in formule matematiche. Tale generalizzazione però non è possibile perché richiede un vincolo e cioè che la reductio ad unum sia posta all’inizio del processo di equazioni e non alla fine come risultato. Non è possibile citare l’intero capitolo dal titolo Il fallimento della teoria neoclassica (leggi marginalismo ndr): mi limiterò dunque all’essenziale compresa una sola formula, consigliando tuttavia la lettura dell’intero capitolo.
… L’estensione al campo distributivo della teoria dell’utilità marginale aveva raggiunto il culmine con un saggio del 1894 di Wichsteed. Qui era stato stabilito per la prima volta il preciso rapporto, valido oltre che per la singola impresa, per l’economia nel suo complesso, tra la remunerazione dei diversi fattori della produzione e la loro partecipazione alla formazione del prodotto netto. La funzione macroeconomica della produzione y = f (N,K) poneva così in relazione derivabile il risultato produttivo y con le quantità di lavoro N e di capitale K, impiegate conducendo alla logica dimostrazione che se si rimunerano i fattori secondo l’esatto contributo di ognuno alla produzione di ognuno al limite del suo impiego ( cioè secondo la produttività marginale, misurata dalla derivata principale della funzione), allora la somma delle retribuzioni non poteva non esaurire senza residui l’intero risultato produttivo. Infatti, per w = salario unitario e r = saggio del profitto, risultava: y = w*N+r*K= (ðf /ðN)*N +(ðy/ðK)*K, dove i due simboli frazionati (tra parentesi) sono le produttività marginali di capitale e lavoro. Con ciò veniva negata ogni consistenza teorica alla pretesa classica dell’esistenza di redditi non guadagnati come il profitto, promosso invece nel nuovo statuto teorico a legittimo corrispettivo del contributo produttivo del fattore capitale, fonte originaria e autonoma di ricchezza al pari del lavoro… Tuttavia tale dimostrazione si basava sulla proprietà di un preciso teorema algebrico, il teorema di Eulero, valido soltanto nel caso di funzioni omogenee di primo grado – il che equivaleva a introdurre (surrettiziamente aggiungo io), la condizione economica di rendimenti di scala costanti.8
In altre parole non veniva citato il presupposto indicato in precedenza e risalente a Marx e cioè che l’eterogeneità non permette – se le si considera nella loro fisicità di merci – alcuna reductio ad unum in partenza se non considerandole come prodotti di capitali e non di altre merci – che pretendono di avere diritto alla medesima quota di profitto. Per arrivare dall’eterogeneità al saggio medio era indispensabile utilizzare il teorema di Eulero, ma questo non era possibile perché tale teorema richiede la reductio ad unum della eterogeneità dei diversi saggi di profitto come condizione di partenza e non come risultato finale. Il primo a rendersi conto di tale incongruenza fu Sraffa in Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta del 1925, che Gattei ricorda e ripropone:
Sraffa era giunto alla conclusione che l’ipotesi di rendimenti costanti era l’unica legittima per l’equilibrio parziale di una singola impresa … mentre per il sistema nel suo complesso questa ipotesi era del tutto insostenibile e andava sostituita dalle leggi dei rendimenti crescenti e decrescenti… Il calcolo della produttività marginale e quindi della remunerazione del capitale complessivo, doveva presupporre la riduzione a una identica unità di misura di tutti quei beni capitali, così da renderli omogenei e quindi sommabili in un’unica grandezza. 9
Continua Gattei:
… Ma se non si poteva determinare il valore del capitale prima di avere fissato il saggio di profitto, come si poteva sostenere che proprio il saggio di profitto fosse determinato dalla produttività marginale del capitale, per la cui determinazione era necessaria la preventiva conoscenza del saggio di profitto?10
Tale ragionamento circolare e paralogistico dava in sostanza per dimostrato ciò che si doveva dimostrare.
Note
1 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci pag. 121.
2 Piero Sraffa, Introduzione ai Principi di Ricardo, con prefazione e saggio di Giorgio Gattei.
3 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo merci, pag. 24 e seguenti.
4 Ivi.
5 La frase usata da Ricardo sarà ripresa da Sraffa in una forma modificata già citata in precedenza. Per un ulteriore approfondimento della questione è bene rifarsi all’originale di Ricardo, ma una dettagliata analisi di tutta questa problematica si trova nel saggio di Gattei all’Introduzione scritta da Sraffa alle opere di Ricardo.
6 Op.cit. pag. 45.
7 David Ricardo, The works and correspondence Section1: The value, in Online Library of Liberty. The value of a commodity, or the quantity of any other commodity for which it will exchange, depends on the relative quantity of labour which is necessary for its production, and not on the greater or less compensation which is paid for that labour. Sezione Il valore di una merce, ovvero la quantità di ogni altra merce con la quale verrà scambiata, dipende dalla quantità di lavoro relativa che necessaria per la sua produzione e non dalla grandezza maggiore o minore della retribuzione che viene pagata per quel lavoro. La traduzione è mia. L’importanza di questo passaggio sta nel fatto che si tratta del titolo di un capitolo e quindi nella determinazione con cui la frase medesima è scritta. Se fosse vero che rispetto al nesso fra lavoro e valore Ricardo fosse stato titubante come gli viene attribuito talvolta, non avrebbe usato un’espressione così decisa e incontrovertibile e proprio nel titolo di un capitolo.
8 Piero Sraffa,introduzione a Ricardo.
9 Op.cit.
10 Op.cit.
APPENDICE TERZA PARTE
The most peculiar point in the Austrians’ theory of cost is their notion of capital. They are opposed to the usual method of reducing all capital into accumulated labour. Therefore they regard as being component parts of cost, not only wages and interest (i.e. labour + abstinence), but also capital itself. They think that this way of looking upon capital as accumulated labour is admissible in the very early stages of industrial development, when the tools and the raw materials used in production are themselves the result of immediate direct labour: but it is absurd to regard reduce only to accumulated labour machines which are the result of a long series of processes in which capital itself is the most necessary element. So long therefore as capital is required to produce capital goods, capital can never be entirely excluded from cost, but must be taken into account alongside with labour. D2.4 51
3-44.52-156
(D2/4/3.52)
Thus values must be assumed to be given, before we can speak of abstinence; and thus abstinence can not more be used again to determine value, without falling in a vicious circle. but what about the “quantity” of capital in respect of which waiting takes place? How is it to be measured if value and utility are excluded? How can we add heterogeneous things?) 14 25 ott.
D2.4 53
3-44.54-156
(D2/4/3.54)
Opportunity cost. In the last lecture we have seen how the Austrian School reduces cost of production to the loss of utility incurred by sacrificing the alternative uses in which the factors of production might have been employed … and it is quite natural, since the Austrians regard value as being entirely determined by utility. The concept of opportunity cost …, arises from an attempt at overcoming certain difficulties which are found when it is attempted to make precise the notion of real cost. In Marshall’s terminology, ‘real cost of production’ is the sum of efforts and sacrifices ‘required for producing a commodity …. Now suppose that the two most obvious difficulties have been overcome; and that we we have succeeded in overcoming the two most obvious difficulties, that is to say 1) that equal amounts of money measure very different sacrifices for different individuals, 2) that of having different incomes; 2) that even if they all has the same income it is impossible, if not inconceivable, to add the
D2.4 54
3-44.55-156
(D2/4/3.55)
quantities of feelings of different persons. But apart from these, one difficulty remains. Expenses of production are costs as seen from the point of view of the entrepreneur, who pays wages and interest, and buys materials and machinery. From this point of view all expenses are costs, they are an aggregate outlay in which it is impossible to distinguish what corresponds to sacrifices and what corresponds to rents And of course the whole treatment of the theory process through which the prices of particular commodities are determined, is carried out on the assumption that the remunerations of the factors of production are given. Now these supply prices of the factors, or of raw materials, are determined at the margin, and therefore contain no rents. But when we take the expenses made by one particular firm, they surely include some rents, even if in its industry it is the marginal oneΘ
29 ott 29
D2.4 55
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(D2/4/3.56)
Besides, the distinction between rents and costs holds good only from the point of view of society the community as a whole; but from the point of view of the individual entrepreneur all expenses the factors represent costs for him, in proportion to the prices he has to pay. The remuneration of a factor is of the nature of rent when the supply of that factor is fixed and independent of the remuneration: the supply, say, of land is fixed for a country. But for a single individual or a single industry the amount of land which it is allowed to use is strictly dependent on whether it pays the market price for it or not. This is the starting point of the theory of the opportunity cost.
D2.4 56
3-44.57-156
(D2/4/3.57)
… These payments tend to equal the payments which the same agents could have commanded in alternative employments. The payments which they could have commanded in alternative employments tend in their turn to equal the derived marginal utilities of their services in those employment
15 It is thus the loss of utility which arises from the fact that these agents of production are not available for alternative employments that is measured by the money costs of a commodity at the margin of production” (164-5) Now it is not easy to understand why we should take such a this such a roundabout way in order to reach that conclusion. The wages that I must pay to a workman in order to employ him secure his services are equal to the wages he can get from somebody else, and therefore equal to the utilities he would produce for the other man; and the real costs are neither what I pay, nor what the workman does, but the utility that a third person fails to obtain in consequence of not employing this workman. D2.4 57
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. The origin of the trouble lies in the fact that, when real costs are conceived as a sum of sacrifices, it is impossible very hard to keep them always distinct from utility: and once we have allowed utility to enter into the supply side of the matter, it has a tendency to swallow up the whole. the first place, in Marshall’s theory the sacrifices to be incurred are always balanced against the utilities to be obtained: therefore they must be quantities of the same nature, different only in sign and magnitude: and when sacrifice is conceived as negative utility, it is almost impossible to distinguish it from a loss of positive utility. Besides, in the very definition of real costs there are elements which are clearly losses of utility, that is to say opportunity costs. While labour is regarded as involving a positive pain, due to the effort involved or to the unpleasantness of the work, abst waiting is But if we look closely at the matter, the same can be said to some extent also of labour. The sacrifice involved in orking, in most trades and professions, is not only the performance of work as such, but the loss of freedom and time that would otherwise have been available for enjoyment. And at the margin, when the worker is supposed to be balancing the disadvantage of an additional hour of work with the advantage of an additional shilling, the loss of leisure may weigh for much more than the fatigue of work; … Therefore in the marginal cost of work there is a part which is not real cost, in the strict sense, but loss of an alternative opportunity. But if the loss of opportunity is admitted in the case of capital and labour, why should it not be for land? The amount of land is fixed, because when we are talking of land we are considering all its possible uses; including for example, the case in which the landlord uses the land as a park for his private use. But what is in this case the difference with capital? Also capital
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clearly not painful in itself: it is a sacrifice only because one has to give up the utility of consumption: the difference between present and future enjoyments is a quantity of utility D2.4 59
3-44.60-156
(D2/4/3.60)
capital is fixed in amount at any one moment, if we include amongst the possible uses the direct enjoyment on the part of the capitalist. If the rate of interest falls, it is assumed that goods will be transferred from productive uses to the private consumption of the owner: it may be said that if rents fall, the same will happen in the case of land. 30 ott.
16 in Now we must make a distinction between two entirely different kinds of variations in the quantity of a factor, consequent upon a change in remuneration: 1) is increase or decrease of the proportion of it that is sold on the market for money by its owner, 2) is increase or decrease in total quantity existing of that factor, whether used directly by its owner or sold to other people. To make an example, an increase in the hours of worked by of workers in consequence of a rise in wages belongs to the first class – it is merely a redistribution of the total amount of time and energy between the two uses, work for wages and leisure, but the total available is unchanged: an increase in population, consequent upon a rise in wages belongs to the second class. Now it is the first kind of change which the theorists of oportunity cost have in mind, and from this point of view they are quite justified to regard land as a factor very much like the others, whose remuneration enters into cost. The landlord is as free to increase or decrease the proportion of his lan. he allows to be used productively, in response to a change in rent, as the capitalist is free to increase or decrease the proportion of his capital which he lends to others, when rate of interest change
17 Da Marshall, Principi: Marshall, Princ. p. 532
.”“Thus again we see that demand + supply exert coordinate influences on wages; neither has a claim to predominance. … Wages tend to equal the net product of labour; its marginal productivity rules the demand price for it; and, on the other side, wages tend to retain a close though indirect and intricate relation with the cost of rearing, training and sustaining the energy of efficient labour” [in the footnote he repeats this phrase + says “or, more shortly, though less appropriately, the cost of production of labour.” D2.4 59sette
3-44.69-156
(D2/4/3.69)
All the elements of cost of this kind we have already incorporated into utility (i.e. “demand side”) as opportunity cost. What still remains of costs is nothing of the kind. In fact, we ha are left with two kinds of materials (utility, and “costs”physical) each of which can be used as the only basis of a theory of value: we can therefore have two independent theories, but not one which takes both in account.4) Finally, this kind of cost, adopted in the last resort by Marshall etc.,does distinguish between rewards which correspond to real costs and rewards which do not; but instead of putting rent on one side, and w. +int. on the other, it puts wages on one, rent + int. on the other. It is necessary to “rear, train, support” the worker: but it is no more necessary to support the capitalist than it is the landlord
18 Now that we have examined the various ideas of cost held by successive generations of economists, and the difficulties which are met byeach of them, we shall pass to discuss what are the relations between the value of commodities and the cost of their production; and in what sense cost of production may be said to determine value and to what extent it has to share this power with demand. Of course, the next part of our inquiry analysis would have been made easier, if first we had found that there is one clear and definite conception of cost of production, about which all economists agree. We have failed to first But we shall first see that, in the detailed application of the notion of cost to the theory of value, we shall be are able to carry our analysis a fairly long way before having compelled to make our {?} up we are faced by the sort of difficulties which may compel us to make up our mind about what exactly we mean by cos. And this is due chiefly to the fact that ¶ in the determination of price of any one particular commodity, the notion of expenses of production will be sufficient for most purposes, without being necessary to decide whether it is 1) merely a shadow of the “real costs” or sacrifices behind it or 2) another name for the utility of the product (opport. cost) or 3) itself the ultimate real costs (not as a sum of money, but a sum of things consumed in production) and whether it has any solid foundation at all. For some purposes therefore any definition of cost will do. Any definition except one. That is to say, opportunity cost in its most extreme and consistent interpretation …
D2.4 62
3-44.73-156
(D2/4/3.73)
production can have anything to do with the determination of the price of commodities. ” This is fixed by two determinants, which are: 1) the tastes, desires, and resources of the individual consumers. These individual desires are capable of being measured and expressed in money and represented by curves, which may be summed together, so as to form the demand curve for the market. This curve represents a function, that is to say a series of co-existing relations between given amounts supplied and the corresponding marginal utilities. 2) “The amount of actual supply existing in the community. This is not a curve at all, but an actual quantity: it is not a series of coexisting relations, but one single fact, and it determines which of the potential relations represented by the demand curve shall be realized.” Then he asks: “What about the ‘supply curve’ that usually figures as a determinant of price, coordinate with the demand curve? I say it boldly and boldly: there is no such thing.” According to Mr Wicksteed the so called supply curve is in reality the supply demand curve of those who possess the commodity. It represents the “reserve prices” Now that we have examined the various ideas of cost held by successive generations of economists, and the difficulties which are met byeach of them, we shall pass to discuss what are the relations betweenthe value of commodities and the cost of their production; and in what sense cost of production may be said to determine value and to what extent it has to share this power with demand. Of course, the next part of our inquiry analysis would have been made easier, if first we had found that there is one clear and definite conception of cost of production, about which all economists agree. We have failed to first But we shall first see that, in the detailed application of the notion of cost to the theory of value, we shall be are able to carry our analysis a fairly long way before having compelled to make our {?} up we are faced by the sort of difficulties which may compel us to make up our mind about what exactly we mean by cos. And this is due chiefly to the fact that ¶ in the determination of price of any one particular commodity, the notion of expenses of production will be sufficient for most purposes, without being necessary to decide whether it is 1) merely a shadow of the “real costs” or sacrifices behind it or 2) another name for the utility of the product (opport. cost) or 3) itself the ultimate real costs (not as a sum of money, but a sum of things consumed in production) and whether it has any solid foundation at all. For some purposes therefore any definition of cost will do. Any definition except one. That is to say, opportunity cost in its most extreme and consistent interpretation …
D2.4 62
3-44.73-156
(D2/4/3.73)
production can have anything to do with the determination of the price of commodities. ” This is fixed by two determinants, which are: 1) the tastes, desires, and resources of the individual consumers. These individual desires are capable of being measured and expressed in money and represented by curves, which may be summed together, so as to form the demand curve for the market. This curve represents a function, that is to say a series of co-existing relations between given amounts supplied and the corresponding marginal utilities. 2) “The amount of actual supply existing in the community. This is not a curve at all, but an actual quantity: it is not a series of coexisting relations, but one single fact, and it determines which of the potential relations represented by the demand curve shall be realized.” Then he asks: “What about the ‘supply curve’ that usually figures as a determinant of price, coordinate with the demand curve? I say it boldly and boldly: there is no such thing.” According to Mr Wicksteed the so called supply curve is in reality the supply demand curve of those who possess the commodity. It represents the “reserve prices”
19 of those who come to the market with supplies of the commodity, that is to say the prices below which they are not prepared to part with their stock, and therefore in fact their own demand prices. The supply curve is thus simply a part of the demand curve, which has already been taken into account.
D2.4 63
3-44.74-156
(D2/4/3.74)
The familiar diagram exhibiting a pair of intersecting demand and supply curves is reached by separating a portion of the demand curve and reversing it in the diagram … but it does not affect the price … which is determined only by the single demand curve. This of course applies to the harvest of one year or to the fish brought to the market on one day. It is also applied by Mr. Wicksteed to the demand and supply of factors of production. The data represented are exactly the same in the two cases. Tutto questo…(1928) v Wicksteed E. J. + v.reg This curve represents the total demand of the whole of the market for the commodity; i.e. it is the sum of the utility curves, expressed in money, of all the individuals who come on the market – both of those who come as buyer, and sellers; i.e. both of those who own some of it and of those who do not. Now, instead of forming one single collective curve, we may divide the individuals in two groups – those who own some fraction of the stock of the commodity, and those who don’t own any, but have the desire and money to buy it – and we form two demand curves, one for each of the two groups. Obviously, the two demand curves will be such that their sum (i.e. the series of the sums of the quantities demanded at each price) will be equal to the original demand curve. D2.4 64
3-44.77-156
(D2/4/3.77)
Now leaving aside this extreme interpretation of costs, what are the conditions under which expenses of production can be said to determine the value of a commodity. The question turns upon whether cost varies or not with changes in the quantity produced. Of course what constant costs means most per unit, and not total cost, whatever the amount produced. Confusion may arise from the fact that, as we have seen, when the amount of a factor is constant it is p. 61
D2.4 65
3-44.78-156
(D2/4/3.78)
Said that it does not enter into cost… and therefore does not determine value; whereas when a commodity is produced under conditions of constant costs, value is entirely determined by cost. But there is all the difference in the world between the two cases … In the first case the total is really constant; in the second, the total cost changes in proportion to the amount produced … In the extreme case in which the whole of the demand curve lies below the cost of production, nothing will be produced: but whenever anything is produced it must be sold at the fixed cost. The same is true for demand: if the demand for a commodity had infinite elasticity, its value would be entirely fixed by demand: and changes in the cost function would not affect it.. Conversely, absolute rigidity of supply, that is to say, when the total supply is fixed, cost does not affect value – in reality it is there is no cost at all – and only demand is the determinant. The same is true if demand is absolutely inelastic * {Sraffa no doubt meant to write ‘it’ instead os ‘is’}.
D2.4 66
3-44.79-156
(D2/4/3.79)
Between these two extremes there is a whole series of intermediate cases The interdependence of cost and quantity produced is quite a modern idea. All the classical economists ignore it altogether so much so that it cannot even be said that they assume constant costs to operate throughout as their argument implies, since they don’t take the question into consideration at all; and their discussions of what are causes of value refer only to whether it is only the quantity of labour, or also profit, or also rent:… but they are all main agreed in looking for the determin causes only on the side of supply. Θ
7 nov 29
D2.4 67
3-44.80-156
(D2/4/3.80)
The argument that water and air have a great utility, and but nothing can be conclu obtained in exchange for them, whereas gold has little utility but exchanges with a great quantity of other goods – appeared to be conclusive
But it could not change the values of the particular commodities,because diminishing returns from land affected to equally all products the same extent different commodities, because they all, directly or indirectly, depended were products of agriculture, and therefore their relative positions remained unchanged. It is true that Ricardo often usually speaks only of the production of corn in connection with diminishing returns: but no doubt he uses the term “corn” for agricultural produce in general,… causes many difficulties
D2.4 69
3-44.82-156
(D2/4/3.82)
coordination between the two, connection between quantity + cost, coordination with demand, is a very recent development, chiefly work of Marshall, and consequence of theory of marg. ut. and attempt at compromise. We shall have often to notice that the fact that the two laws were meant originally for very different purposes from those in which at present they are in valu In the last lecture we have seen how the law of decreasing returns and the law of increasing returns had entirely distinct historical origins, and that they had initially been designed for use in connection with problems which have only an indirect connection with value And that the bringing the[m] into relation with the determination of value has been a comparatively recent development; and that the interpretation which regards them as tendencies which are similar in character, and simply of opposite directions, is still more recent. Now, most of the difficulties which they meet in the new function to which they have been put, can be traced to those very characters which made them well suited to the place they formerly occupied in economic theory; these characters make them, as I think, to a large extent contradictory to the essential conditions on which the theory of value is based. I do not propose at the to discuss examine thoroughly at this stage the conditions to which the use of supply and demand curves in determining value is subject, Naturally this will and the extent to which they are satisfied. Naturally this will come at the end, as the conclusion of the discussion of the basis of those curves, that is to say variable costs and diminishing utility. I shall therefore state them shortly and rather dogmatically in order to make determine what the trend of the argument is leading up to. D2.4 71
3-44.84-156
(D2/4/3.84)
. The conditions to which supply and demand curves are subject are often summed up in textbooks under the expression “assuming all other things to be equal”. This of course conceals, much more than it express, the conditions which we are actually assuming. The trouble with it is, first, that it includes too much, for it is never really required that everything in the world should remain unchanged while we move our variables: there are of course always innumerable things which may change without affecting the particular problem in hand. In the first place therefore, the condition “other things being equal” is contrary to the principle that the number of our assumptions should be reduced to a minimum. But the really serious danger which it conceals is that amongst the unspecified things which it is essential, for the validity of the conclusion, that they should remain unchanged, there are often concealed quantities which cannot possibly remain unchanged if the variables change Now in our case the conditions which underlie the supply and demand curves are: 1) that the two curves must be independent from one another, 2) that the prices and quantities produced of all the other commodities should remain unchanged, that is to say that all the other prices and quantities
D2.4 72
3-44.85-156
(D2/4/3.85)
should be independent of variations in the quantity and price of the commodity under consideration. Independence of the supply and demand curve means that the shape and position of each must remain unchanged while the other is changed. For example, if a tax is put upon an article, the supply curve will be raised by the amount of the tax, but this fact must not by itself affect the shape of the demand curve. Of course the demand price will be different, if the quantity purchased is different; this change must take place along the preexisting demand curve, and not on a new curve. The reason for this condition is clear. The two curves represent two equations y = f(x) – y1 = (x1 ), where x is the quantity of product bought or sold, y is the supply price and y1 the demand price. In the position of equilibrium the supply price is equal to the demand price, therefore y = y1 and x = x1: we have thus to variables, and the two equations being given, price and quantity are determinate. But if, when a change occurs in the demand function, not only the supply price and quantity supplied are changed, a indeterminate. that is to say the variables x and y1 , but also the constants which are represented by – then the system has no more 2 variables, but at least 3; and therefore we have more variables than equations and the system becomes indeterminate. Or if there is a change in demand, the supply curve must remain unaffected. D2.4 73
3-44.86-156
(D2/4/3.86)
The substance of this is that,… if a tax is imposed upon it, we can predict the effect of the tax on the price, provided the curves remain unchanged, apart from the addition of the tax to the supply prices: but if they change in shape, we know nothing about the possible effect of the tax until we are told how the change in shape will take place; that is to say, until we are provided with additional equations. The second condition, that the prices and quantities of all other products should remain unchanged, it can arises essentially from the existence of substitutes and products for which there is a joint demand. The demand curve for an article is based on the assumption of a given scale of prices of the other commodities: if these prices changed also the demand price of the for the commodity under consideration would change, because cheaper substitutes would be available
12 nov 29
D2.4 75
3-44.88-156
(D2/4/3.88)
Now, coming to compare increasing and diminishing returns, the we find first of all a fundamental difference in the way in which they arise …. But in their form most usual and widely accepted, there is a fundamental distinction between them. That is to say, diminishing returns in general arise from a change in the proportions in which the different factors are combined in an industry independently of whether the magnitude of the total product increases or falls. Increasing returns on the contrary are in general connected with increases in the actual absolute size of an industry and have only a remote relation with the proportion in which the factors are employed … The apparent equality similarity of the conditions from which incr. + decr. returns arise, is due to the fact that usually This method of successive doses applied to a constant factor is usually adopted, partly because* it is more convenient to represent changes in one quantity while the other remains constant, than to change them both at the same time: but the essence of diminishing returns could be with equal correctness represented by assuming that the two amounts employed of each of the two factors change in opposite directions, and in such proportions as to keep the total product constant. This might be represented by means of an indifference curve, which is a construction well known to those who have followed my advice suggestion of reading Prof. Edgeworth and Pareto: indifference curves are usually used in connection with problems of demand, when the marginal utility of both commodities exchanged is supposed to varD2.4 77
3-44.90-156
(D2/4/3.90)
The curve means that at two different points the total satisfaction experienced from the two combinations of bread and wine represented is equal. This construction can be applied equally well to diminishing returns arising from changes in the proportions of factors of production. Suppose we the factors considered are capital and labour in a particular industry. A given amount of product may be obtained either with by using a large quantity of labour and a small quantity of capital, or with much capital and very little labour: between this two extreme cases there may be a whole series of intermediate combinations, and these are represented by the indifference curve. In By this method we can represent the diminishing returns arising from changes in proportions independently of changes in the size of the industry D2.4 78
3-44.91-156
(D2/4/3.91)
Indifferences curves are as a rule used in questions connected with utility, and not in questions of production, chiefly because they don’t exhibit rent in the way in which the diminishing returns curve does; and also because it is more difficult to visualize the situation represented by them, that is to say three both quantities both factors that change simultaneously, instead of one at a time. 23 6 nov 28
È un modo di dire informatico: se a un calcolatore dai in pasto spazzatura quello che otterrai sarà sempre spazzatura.
In economia questo significa che le nostre condizioni di partenza devono essere ineccepibili: le definizioni solide, non contradditorie, prive di presupposti nascosti, sufficienti a determinare tutti gli elementi successivi; le condizioni iniziali sensate e corrispondenti ad elementi empirici verificabili.
Iniziamo dai presupposti nascosti, e per chiarire cosa sono facciamo un esempio:
a) una storiella macabra: padre e figlio vanno in macchina, l’auto esce di strada; il padre muore, il figlio viene trasportato in ospedale. Portato in sala operatoria il chirurgo arriva, impallidisce e dice: non posso operarlo, è mio figlio. Come mai?
b) un problema geometrico: con 6 stecchini (o fiammiferi, o legnetti della stessa lunghezza) costruire 4 triangoli equilateri. Provate.
Questo e simili problemi sono stati posti a molte persone di tutti i livelli di cultura e intelligenza, e in tutti i casi hanno provocato notevoli turbamenti: qualcuno trovava la soluzione quasi immediatamente, per intuizione; qualcun altro si arrabbattava, cercava di cambiare i dati della questione per adattarli alla soluzione che aveva pensato; altri ancora dopo un poco ricorrevano alla forza bruta della logica:
nel primo caso la logica guarda la situazione partendo dal figlio, che ha padre e madre; se il padre muore il genitore che rimane è la madre; il presupposto fuorviante nasce dall’uso maschile di parole comuni come avvocato, sindaco, chirurgo…(anche se questo esempio è un pò datato…)
nel secondo caso la logica dice: un triangolo equilatero ha 3 lati uguali; quindi 4 triangoli hanno 12 lati; avendo sei stecchini ognuno di essi dovrà essere il lato di due triangoli; ma se li mettiamo sul piano il massimo che possiamo ottenere sono due triangoli combacianti; allora la soluzione non può essere sul piano; quindi è nello spazio: un tetraedro.
E in Economia? Qui i presupposti nascosti non mancano, e giocano a rimpiattino fra di loro: valore, costo, prezzo hanno tra di loro un rapporto ambiguo e a volte si fondano l’uno sull’altro in un’infinita catena ricorrente.
È come il gatto di Schrödinger: nella scatola è vivo e morto contemporaneamente..ma quando la apri è troppo tardi per salvarlo se è morto. Concetti come quello di equilibrio hanno in Economia lo stesso statuto, per non parlare della ‘mano invisibile’ che regola il mercato, di natura ancora più multipla della trinità celeste.
La terza puntata degli scritti di Sraffa qui di fianco si occupa di questo problema, mentre intanto andiamo a ritroso nel tempo per riuscire a vederne un significato non ambiguo ma scientificamente (in antropologia) fondato.
Nel frattempo vi lascio un altro problemino:
-perchè il PIL dovrebbe sempre crescere di anno in anno?
Se ancora con David Graeber (‘Debt, the first 5000 years’) ripercorriamo la storia dell’umanità dalle origini, ancora una volta scopriamo che quello che viene dato per saggezza acquisita è in realtà una serie di fantasie e ipotesi ideologicamente motivate che poco hanno a che fare con la vita sociale dei nostri antenati.
Cominciamo dal debito, questo termine è architrave di tanta parte della nostra morale, della religione, del rapporto con lo stato: il debito che abbiamo coi nostri antenati, il debito alla natura o agli dei che ci hanno generati, il debito alla società che ci ha allevato e istruito e ci protegge….Ma tutti questi elementi sono parte dello stesso discorso che vede come carattere precipuo dell’uomo lo scambio e nella sua forma primitiva il baratto, quello stesso baratto che abbiamo visto essere solo elemento secondario e residuo dei rapporti sociali con stranieri.
Ma nelle aggregazioni sociali antiche anche urbane non c’è all’origine un’economia di scambio: i beni acquisiti attraverso l’attività di raccolta/caccia contribuiscono ad uno stato di parziale autosufficienza; laddove questa non è completa, sia per elementi di divisione del lavoro (a.e. la produzione di frecce) sia per motivi contingenti non c’è scambio ma dono: a chi manca qualcosa viene dato, senza promessa di restituzione; è un giro continuo, con tutte le sue irregolarità ed aleatoietà. Per mantenere un minimo di equilibrio la morale è costruita colle favole (come lo scroccone dei miti Lakota), ribadita nell’eloquenza dei capi; quando c’è un sovrappiù, vuoi per la stagione vuoi perchè c’è un allevamento-coltivazione estemporanea, il consiglio delle donne raccoglie e distribuisce. In tutte le origini, ma anche al livello base delle società più tarde troviamo questa forma di comunismo semplice.
Laddove dal dono si passa allo scambio fra equivalenti questo presuppone che anche i soggetti che scambiano siano degli uguali; il mercato è solo possibile a questa condizione. Col debito e poi col mercato nasce la misura, le equivalenze, l’unità: tradotta in metalli od oggetti preziosi prima, usata negli scambi con stranieri dopo, strumento dello stato per raccogliere le tasse e creare il mercato, mezzo di scambio universale solo qualche migliaio di anni più tardi. Le prime equivalenze nascono al di fuori dello scambio: sono i conti dettagliati di cosa si debba dare alla famiglia per l’uccisione di un uomo, la sua mutilazione, il suo onore. Rimangono fatto privato, non scambiabile. È solo coi mercanti che girano in terre straniere che i debiti diventano scambiabili: le lettere di credito dei Sumeri anticipano di 4000 anni quelle dei banchieri toscani, e la fiducia è parte essenziale del numerario. È solo in Cina che il metallo della moneta si scontra con l’uso simbolico, in una continua lotta tra il Confucianesimo di stato e le migliaia di templi buddisti che fondono il rame delle monete per costruire i tetti.
Ma è interessante ricordare le motivazioni per cui nell’Islam e nel Cristianesimo era vietato l’interesse (usura, nel suo termine classico): nel secondo perchè il tempo è di dio, e quindi il tempo del denaro (quello del prestito) non può essere appropriato dagli uomini (San Basilio il più intransigente); nel primo perchè la moneta di per sè non ha valore, e quindi di per sè non può dare frutti.
(In entrambi però si trova presto la scappatoia, con la ‘eccezione di Ambrogio’, che esclude da questa legge gli stranieri..aprendo la strada all’uso degli ebrei come usurai per conto altrui e poi anche proprio; e in Maometto-che mercante era nato- con la remunerazione del rischio).
Un modello economico è fatto di tre strati:
la definizione delle grandezze materiali (beni di consumo, macchinari, tempo di lavoro..)
l’introduzione di grandezze astratte che implicano classificazioni e comparazioni (industrie, prezzi, valori, profitto..)
l’introduzione di relazioni tra tutte queste grandezze.
Ignoriamo per il momento il fatto che queste definizioni ed astrazioni sono spesso caricaturali, riducendo il lavoratore ad una macchietta con la casacca a righe e la palla al piede, o peggio false in quanto semplicistiche: come l’antropologia moderna ci insegna scambio e moneta sono momenti parziali dei rapporti sociali, che possono venire abbandonati per scelta in qualsiasi momento; la loro ossificazione esprime solo un rapporto di forza tra classi sociali e non una legge naturale.
Torniamo ai modelli; possiamo distinguerli in due grandi categorie: quelli intelligenti, che cercano risposta ad una domanda del tipo: cosa succede se varia una certa grandezza? Come e quanto si ripercuotono i suoi effetti?
Il che implica preliminarmente che le grandezze in gioco siano legate fra di loro con rapporti funzionali diretti o indiretti.
(Nel primo caso ad esempio abbiamo y=3x, che è rappresentato da una retta, quindi all’aumentare di x anche y aumenta linearmente; nel secondo abbiamo y+x=2, che possiamo però mettere in forma funzionale diretta: y=2-x /anch’esso una retta/, quindi all’aumentare di x vediamo y diminuire linearmente; e tutte le forme anche più complicate /esponenziali, iperboliche,…/ ma sempre logicamente ben determinate).
La seconda categoria è quella dei modelli stupidi (tecnicamente parlando): si mettono dentro tutti i dati e le relazioni empiriche di un certo momento e si cerca di farne un sistema completo. Un esempio è il modello econometrico dell’economia italiana M1B1 della Banca d’Italia degli anni ’60, pieno zeppo di coefficienti ad hoc nelle relazioni fra grandezze in modo da far tornare i conti. Un’operazione di questo tipo è stupida perchè non cerca di capire il funzionamento del sistema, quindi le relazioni principali tra i suoi elementi, ma descrive solo lo stato in un certo istante; senza nessuna idea di come e perchè questo possa variare nei tempi successivi. (È anche in parte il metodo di quella che con involontaria ironia si chiama intelligenza artificiale, in particolare i metodi basati sulle reti neurali: si danno in pasto a una popolazione di neuroni virtuali una serie di dati grezzi e si fa evolvere darwinianamente la popolazione finchè non dà immagini con un qualche senso.)
Un modello intelligente deve operare una selezione e individuare un nucleo fondamentale di relazioni.
Le tabelle di input-output di Leontief sono una buona rappresentazione della loro parte materiale: da un lato (input) c’è la tabella in cui ogni riga rappresenta un’industria coi suoi componenti e i prodotti che utilizza, dall’altro (output) la tabella coi prodotti relativi.
Su questa base incominciano le relazioni e le domande: una parte sono le condizioni efficienti di riproduzione (in modo da avere l’anno successivo un sistema completo e vitale) , l’altra parte sono i termini normalmente espressi in termini monetari: profitti, prezzi, di equilibrio o differenziati.
Le domande dell’economia classica sono essenzialmente tre:
– da dove viene la ricchezza/il profitto
– come si distribuisce la ricchezza
– se e come si può generare un equilibrio ottimale; nella sua forma più generale tale che tutti i fattori vengano retribuiti equamente (cioè in proporzione alla propria quota di partecipazione)
La nuova teoria marginalista lascia cadere la prima domanda, ed è poco interessata anche alla seconda; piuttosto, utilizzando metodi matematici un filo più avanzati come le derivate, cerca ottimi parziali, legati cioè a particolari fasi del processo produttivo. Il rovesciamento del punto di vista classico diventa completo quando alla ricerca del rapporto tra prezzi e lavoro incorporato si sostituiscono le preferenze dei consumatori nella determinazione dei prezzi. Gli ottimi Paretiani che compaiono al proposito fanno nominalmente omaggio alla complessità dei rapporti sociali che sottendono lo scambio capitalistico, ma di fatto ne coprono con un velo illusorio la sostanza. Quello scambio che nasce come rapporto tra uguali diventa scambio ineguale nel processo diretto e anche nel rapporto con l’esterno: i rapporti di forza e di classe vengono occultati nell’astrazione delle merci e delle ‘propensioni al consumo’.
Walras traduce in forma compiuta questo procedimento e formula un modello generale; rendendolo dinamico otteniamo un modello dinamico di equilibrio economico generale, in altri termini un modello di sviluppo.
La differenza coi modelli statici è che che le variabili (prezzi, quantità prodotte) sono funzioni del tempo attuale (t) e del tempo precedente (t-1). E non compaiono solo le quantità ma le loro derivate parziali, ovvero la variazione della quantità rispetto a una sua componente; che ne descrive la dipendenza istantanea. (Quelle che sono comunemente (e oscuramente) denominate quantità marginali: costo marginale significa che, supposto che il costo C sia funzione della quantità prodotta y -(C=C(y))- allora ∂C/∂y è la variazione del costo al variare della quantità prodotta-e viene chiamato costo marginale. Analogamente per produttività marginale e simili).
L’utilizzo dell’ipotesi della concorrenza perfetta permette anche di assumere come risolto il problema della riproducibilità fisica del sistema (che i beni prodotti siano uguali a quelli consumati). (v. nota 4)
Una soluzione a questo modello esiste (v Manara, nota 1) con una caratteristica precipua: per ottenere i prezzi di equilibrio è necessario fissare il tasso di interesse. Ovvero rimane indeterminato, con una variabile libera, e la soluzione è in realtà una serie di tassi di interesse cui corrisponde una serie di tabelle di prezzi. (v. nota 3)
Il modello generale da noi presentato in precedenza, che corrisponde allo schema rappresentato nel terzo volume del Capitale di Marx (v. nota 2) , diventava invece sovradeterminato se cercavamo contemporaneamente la corrispondenza tra prezzi e valori.
Una considerazione importante era però che questo corrispondeva alla natura contradditoria del processo produttivo, dove in realtà l’equilibrio è sempre un processo dinamico e mai soddisfatto, e dove la corrispondenza univoca valori-lavoro/prezzi era il riferimento ideale e insieme instabile. Tuttavia, nonostante in varie forme questa considerazione sia stata il motore della ricerca marxiana (dal carattere esterno dell’equilibrio di Rosa Luxemburg e alle sue varianti moderne terzomondiste in poi nelle teorie del consumo), rimane logicamente poco soddisfacente.
Una risposta diversa è stata data da Sraffa prima (e altri come Gianfranco Pala su linee corrispondenti) dove si cercava di preservare il lavoro accumulato come motore e unità di misura, anche se in forma indiretta.
Ma l’elemento di indeterminazione della soluzione all’equilibrio dinamico generale ci permette anche un’altra strada, facendo rientrare dalla finestra quel valore-lavoro che era stato ignorato alla porta: il tasso di interesse (o il saggio del profitto, che sono equivalenti dal punto di vista logico nel modello matematico) non lo consideriamo arbitrario -cosa che non appare nè logica nè vera osservando la realtà- ma come determinato dal saggio di sfruttamento; cioè da quel rapporto tra lavoro pagato e lavoro non pagato che è alla base dell’analisi marxiana.
Potremmo anche utilizzare il grado di libertà che la soluzione contiene per reintrodurre direttamente il rapporto prezzi-valori, ma ci cacceremmo in un ginepraio difficilmente traducibile in termini concreti. Ci basta rimandare alla dimostrazione di Pala sulla riconducibilità in linea di massima dei prezzi a una somma storica di valori-lavoro.
Quindi l’indeterminatezza si trasforma per necessità in un sistema univoco, con gran dispetto di Schrødinger che non trova più il suo gatto e anche di tutta l’ideologia che si era fatta economia.
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1-Equazione Equilibrio generale Dinamico (Manara in 1, p 197 seg.)
Questa è una delle equazioni di sintesi del modello, che al di là della formulazione in un linguaggio tecnico esprime una cosa molto semplice: l’esistenza di una relazione tra tutti i beni di produzione e di consumo valutati coi loro prezzi attuali e precedenti.
Ha un carattere talmente generale da essere anche generico, e l’elemento importante in realtà è il fatto che pur con questa genericità esista una soluzione. Riprende sia il modello di Leontief che quelli di von Neumann e Walras.
2-Possiamo leggere la storia degli ultimi secoli come una progressiva espropriazione del proprio tempo, trasformato in tempo di lavoro collettivo controllato dal capitale.
Marx è l’ultimo economista che si occupa dell’origine del profitto (tema centrale dell’economia classica sino a Ricardo), e la sua analisi parte dalla giornata di lavoro, il cui tempo viene diviso in due parti: una in cui il lavoratore lavora per sé, l’altra per il padrone. Questa seconda dà origine al profitto.
Il capitalista investe del denaro D per ottenere dell’altro denaro D’, che includa un guadagno
D -> D’, D’–D=R (profitto), (R/D == saggio profitto)
come nasce R:
nel processo produttivo abbiamo:
–cc: capitale costante (macchinari, stabilimenti),
–cv: capitale variabile (gli operai);
–sv: il surplus prodotto solo da cv (quello prodotto nel tempo ‘del padrone’);
quindi:
il capitalista trasforma il denaro D in mezzi di produzione, cc e cv e ne ottiene un prodotto p (che contiene il pluslavoro sv) che trasforma sul mercato in nuovo denaro
D’: cc+cv+sv= p (prodotto) R=sv
e, chiamando r il saggio:
r= sv/(cc+cv)
introduciamo due grandezze: il saggio di sfruttamento e, cioé il rapporto sv/cv, che ci dice quanta parte della giornata lavorativa l’operaio lavora per se e quanta per il padrone e la composizione organica del capitale, o, il rapporto cc/cv, che dice quanto macchinario usa una fabbrica in proporzione agli operai; allora possiamo riscrivere, dividendo sopra e sotto per cv:
r= e/(o+1)
che ci dice che il saggio del profitto é direttamente proporzionale al saggio di sfruttamento e inversamente proporzionale alla composizione organica.
3– un sistema di equazioni è fatto di n equazioni e m variabili.
Se n=m allora il sistema ha una soluzione;
se n>m allora è sovradeterminato e non ha soluzioni;
se n<m allora è indeterminato, e si può risolvere solo rispetto a n variabili lasciando le altre ‘libere’
4-‘Was aber die Koncurrenz nicht zeigt, das ist die Wertbestimmung, die die Bewegung der Produktion beherrecht’ -Marx, op. cit, p. 219 (Quello che la concorrenza però non mostra è il contenuto di valore che regola l’andamento della produzione’
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Riferimenti bibliografici
C.F. Manara, P.C. Nicola, Elementi di Economia Matematica, Viscontea 1970
H.R. Varian ed, Economic and Financial Modelling with Mathematica, Springer 1993
J. Von Neumann, O. Morgenstern, Theory of Games and Economic Behaviour, Princeton U.P. 1944
Marco Lippi, i prezzi di produzione, il Mulino,1979
Samir Amin-L’accumulation a l’échelle mondiale-Anthropos, 1970
Wassily Leontief, Il futuro dell’economia mondiale, Mondadori 1977
J. Gillman, Il saggio del profitto, Editori Riuniti, 1961
Michio Morishima, Theory of Economic Growth, Clarendon, 1969
Gianfranco Pala, L’ultima crisi, Franco Angeli, 1982
Karl Marx, Das Kapital, dritter band, Dietz 1965 (1894)
Paolo Di Marco, Modelli Economici, in Metodi matematici ed Economia, Clup 1983
Paul Baran, Il surplus economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli 1962
David Graeber, Debito, gli ultimi 5000 anni, il Saggiatore, 2014
David Graeber, L’alba di tutto, Rizzoli 2022
Jon Tisdall, in Enciclopedia Essenziale dei Finali, ‘Alfiere contro Cavallo’ , Prisma 1999
SECONDA PARTE CON APPENDICE
di Franco Romanò
Torniamo ora alle lezioni di Sraffa. Le abbiamo lasciate in un momento che possiamo ancora considerare un preambolo, che continua con una divagazione che riguarda in particolare Adam Smith e i presupposti della sua ricerca, che Sraffa vede nella necessità di attaccare il mercantilismo. Nel prosieguo, il discorso si allarga alle concezioni filosofiche ed è proprio su questo argomento che Sraffa fa questa affermazione:
… Dobbiamo ricordare … la differenza fra la moderna e nostra concezione della legge naturale e quella che ne aveva Smith … Noi concepiamo la legge naturale come il modo in cui una particolare classe di eventi si verifica, tale che essa non possa avvenire in nessun altro modo. Per Smith la legge naturale è una sorta di forza esterna direzionata verso fini benefici e armoniosi, ai quali è tuttavia possibile sfuggire, a condizione che si diventi però passibili di una sanzione … Tale nozione è particolarmente adatta quando una particolare politica chiamata in causa deve essere rappresentata come una legge naturale, in un modo cioè che la moderna concezione di legge naturale rifiuta. Continua la lettura di Sraffa, il valore, il lavoro
di Paolo Di MarcoNambikwara (Brasile) durante una festa di incontro tra gruppi (come lo dzamalag australiano)
‘Il fattore cruciale è la capacità del denaro di trasformare la moralità in una questione di impersonale aritmetica-e così facendo, di giustificare cose che altrimenti sembrerebbero scandalose od oscene’..:.e questa quantificazione è strettamente intrecciata alla violenza, quella stessa da cui originano stato e mercato.
Graeber, David. Debt (p.29). Melville House. Continua la lettura di la dolorosa nascita dell’economia
PIERO SRAFFA
Esergo
“Tutte le epoche in regresso e in dissoluzione sono soggettive, mentre tutte le epoche progressive hanno una direzione oggettiva.” W. Goethe nei colloqui con Eckermann
«La posizione consapevole significa che lo scopo precede il risultato. Questo è il fondamento dell’intera società umana» (14). 14 Ont. II, p. 739. Lukacs
Sraffa dopo Graziani di Emiliano Brancaccio
L’interpretazione del sistema sraffiano suggerita da Augusto Graziani può essere intesa non come un’alternativa ma come un possibile complemento delle analisi tradizionali di tipo classico-keynesiano. La chiave di lettura grazianea sembra particolarmente adatta a descrivere la dura realtà del comando capitalistico contemporaneo e pare suggerire una interpretazione dello schema di Sraffa in chiave “rivoluzionaria”, critica verso le concrete possibilità del riformismo politico. Continua la lettura di Sraffa e il valore
introduzione, Paolo Di Marco
Come ha detto recentemente un estremista come Giorgio La Malfa (v.3) alla presentazione dell’edizione dell’opera di Keynes curata da Anna Carabelli:
‘alla Bocconi negli ultimi trent’anni ci hanno insegnato fuffa’ Continua la lettura di finalmente una buona notizia: la teoria economica è morta