di Rita Simonitto
La sera si stava apprestando per la sua solita uscita. Aveva più tempo per prepararsi perché le giornate si erano allungate ma comunque per lei era sempre un impegno e ci teneva a dare il meglio. Non era semplice trovare le marezzature giuste, adeguarsi ai mutamenti improvvisi del tempo.
E giusto in quel momento di transizione che adombrava i passaggi inquietanti tra la luce e il buio lui se ne stava alla finestra del suo studio, finestra alta e imponente che si affacciava su un’aia che sembrava aver ormai smarrito la sua funzione. Come molte cose, del resto. Non si trattava solo delle galline razzolanti o delle impettite oche che in gruppo ondeggiavano da una parte all’altra apparentemente senza una meta. In quel luogo si celebravano le feste, i riti di passaggio da una stagione all’altra, da un evento all’altro: nascite, morti, amicizie fedeli e odii, conflitti a coltello e a volte anche le carabine sembravano muoversi con destrezza.
Il suono di una fisarmonica sembrò riattualizzare la vividezza di queste immagini… ma no, anche quello apparteneva ad un ricordo. Genoveffa, detta la Feffa, la matrona che lo aveva invitato, lui ancora adolescente, ad un ballo sfrenato mentre le falische del fuoco a loro volta danzavano in bagliori sempre più tenui nella notte dell’Epifania.
Ma a che serve ricordare se ciò non produce trasformazioni? E se i ricordi non si trasformano in qualche cosa di propulsivo diventano solo un peso difficile da sopportare.
Anche se la luce continuava a mandare i suoi riverberi, voleva ritrarsi da quella finestra e tornare dentro, ai suoi libri pur se, ultimamente e dolorosamente, aveva scoperto che anche lì, come con il mondo esterno, non si stava stabilendo più un dialogo bensì un monologo: nessuno contraddiceva nessuno. La vestaglia da camera ormai gli cadeva da tutte le parti e doveva stringere sempre di più la cinta: al logorìo della veste si accompagnava il suo logorìo interiore. Il tempo! Altro che “il tempo sana tutte le cose”! Ma va là! Lo ‘sconosciuto’ ci accompagna sempre… il nostro corpo, la nostra mente, la realtà esterna…
Un nitrito lo scosse: Rodano?! Povero Rodano, accoppato da giovane da una brutta caduta. Lo aveva cavalcato poco e quelle poche volte si era sentito come Perseo in groppa a Pegaso dopo aver sconfitto Medusa, la bellezza che uccide. E aveva avuto paura di quel suo delirio di giustizia: fiat justitia, pereat mundus!
Buttò l’occhio sul davanzale dove zampettava una mosca muovendo a tratti le ali iridescenti, verdi-azzurrine. Con ribrezzo la cacciò via: era una mosca della merda! Lei se ne volò via verso lo sterco da cui era partita unendosi al pasto delle altre compagne.
Guardando in quella direzione si accorse che in prossimità al letamaio svettava un albero frondoso. Strano che non l’avesse notato prima d’ora data l’ampiezza del fogliame. Non aveva né fiori e né frutti. Pur in quella forma di foglie lucenti, si ergeva minaccioso. Ma ancor più minaccioso era lo spazio attorno ad esso. Spoglio di ogni zolla erbosa e, pur dando l’impressione di poggiare sul terreno, in realtà galleggiava in una voragine dove non si vedevano le sue radici bensì il riflesso della sua immagine capovolta. E attorno, in un vortice che si muoveva ad una velocità così impressionante da parere immobile, veniva risucchiata ogni forma di vita, fiori, uccelli, suoni e colori in un sabba infinito. Sull’orlo dell’abisso rimanevano solo le mosche della merda, operose e voraci, muovendo soddisfatte le iridescenti ali verdi-azzurrine. E qualche luccichio dorato.
Conegliano, 10.02.25
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Grottesche
Sotto traccia

di Rita Simonitto
Che ciò sarebbe accaduto era fuori dubbio. Quello che non sapeva era il quando e il come. Sul dove… certo che era importante ma lo impensieriva un po’ meno.
A quanto ne sapeva, ed era ovvio, il tempo era nella mente di un qualche Dio mentre il ‘come’ era proprio affar suo e quel campo non era facilmente praticabile investito com’era di aspettative, di limiti, di contraddizioni. Ridicolo a dirsi, ma ne andava di mezzo proprio lui come persona sia attiva che passiva, un tutto che aveva avuto modo di esistere e poi…
Oggi la vita se ne andava come quei sottotitoli del film che scorrono così veloci da non far a tempo ad afferrare i nomi dei personaggi, i ruoli e così non si fissava niente perché tutto scivolava in un nulla che via via perdeva di senso… fine della proiezione!
Ci voleva un significato, qualcosa di percettibile ai sensi, compreso il sesto senso, quello che regnava, si fa per dire, sulle sensazioni interne, gli affetti, le emozioni.
Nel mentre, sembrava che comunque qualcosa si muovesse in un sottofondo a base corporea, qualche cosa di indefinibile: era come avere una talpa che scavava le sue gallerie sottotraccia e sai dov’è solo quando precipiti dentro il buco. Certo, si potevano seguire degli indizi ma fin quando la realtà non avesse dato il suo responso, tutto rimaneva nel campo delle ipotesi.
Pensieri, immagini, ricordi gli arrivavano e sparivano e lui, che pur lavorando al PC, amava fermarsi ogni tanto facendo roteare la penna tra le dita, come a dirigere una orchestra ormai muta, si sentiva prigioniero in un modo inusitato: non come Ulisse che si era fatto legare all’albero maestro della sua nave per fronteggiare il canto seduttivo delle Sirene. Un vissuto, il suo, che non avrebbe potuto essere narrato, che si sarebbe chiuso su se stesso, senza testimonianza alcuna. Irrimediabile. Come può una esperienza tradursi in una in-esperienza? In un non detto o non dicibile? Quei pensieri non erano di certo una buona compagnia, forse era meglio aprire ad Ambra, il setter, che, inquieta, sbuffava di narice alla porta come se dalle fessure sentisse l’espandersi di quei pensieri mefitici e volesse fronteggiarli.
In quel mentre la porta si spalancò di colpo: “Papino…papino…” e dopo un attimo di pausa “Ma che hai?”
Era Dora, sua figlia, che, scansati gli zompi del cane, gli ripetè “Ma che hai? Che ti succede?
Dora, o Adorata come lui avrebbe voluto chiamarla, ma sua moglie, giustamente prevedendo le battute con le quali la figlia avrebbe dovuto confrontarsi con i coetanei, aveva insistito per Dora, e Dora rimase. Dora, ormai donna matura, ma che continuava a chiamarlo ‘papino’ come quando era piccola. Non gli piaceva essere appellato così, chi lo sa perché. Ricordava una manifestazione, lei era piccola e lui la teneva in spalla, a cavalcioni, e Dora si era messa a strillare “Papino, papino, bandiela lossa cople la faccia, mi soffoca!”. Era infatti una di quelle giornate ventose che solo aprile può dare, sembrava che tutto tremasse, terra, alberi fioriti e persone fra le quali sua moglie tentava di farsi strada per raggiungerli. Perché i compagni non avevano sorriso ma avevano guardato con espressione dura quel giovane padre impegolato fra bandiere alla mercè del vento, indocili capelli e pargola vociante?
“Papino!”
Una volta avrebbe potuto risponderle con un “La mamma dov’è?” per dirottare quelle ansie verso chi sarebbe stato più in grado di contenerle. Ma la stagione di sua moglie si era conclusa ancora prima della sua e tutto senza avvertirlo, senza dirgli che le cose erano cambiate, no, non fra di loro, ma nel mondo. Perché Titti (la sua “passeretta”) quella sera, dopo aver visto assieme il film “Miracolo a Milano”(1951) di Vittorio De Sica, prese le chiavi dell’auto e le buttò a fiume dove andò a raggiungerle? Voleva dire che le chiavi stavano giù dove elementi disparati (terra e acqua) si incontrano e si scontrano e non invece su dove “Il buon giorno significa buongiorno”.
Guardò Ambra che a sua volta guardò lui con un mugolio sommesso del genere “Ci siamo capiti”
Poi, penosamente, girò lo sguardo su sua figlia. Avrebbe voluto abbracciarla, fondersi con quella parte di futuro che comunque lei rappresentava ma si trattenne. Non voleva contaminarla mettendola a contatto con quel lavorio in sottotraccia che si stava muovendo ora qua ora là. Cercando di mantenere la voce ferma, le disse “Tranquilla, Dora, erano solo pensieri. Guarda che Ambra tiene d’occhio il guinzaglio e non vede l’ora di uscire per la sua passeggiata!”
“Sì, papino. Ma mi raccomando!”
“Sì, sì. D’accordo!”.
Ma come potevano tutto quell’investimento, quelle passioni, e le disillusioni al seguito e poi il dolore avere parola se la parola ormai si era prostituita al migliore offerente?
E così, sottotraccia, su una materia inerte priva di pensiero, la talpa lavorava, muovendosi verso organi e funzioni che sembravano irrelate tra di loro… o forse no.
Intuire che il suo destino era legato all’imprevedibilità di una talpa gli produsse un gemito e lo scosse un tremore come da elettroshock!.
Ma, che altro?
13.02.25
Bemolle
Due racconti
Il silenzio e la parola
Accordo

Fra i banchi (1)
di Angela Villa
A COME ACCORDO: Combinazione di tre o più note di diversa altezza suonate simultaneamente. È oggetto di studio dell’armonia.
La scuola è ricca di suoni e rumori, di voci diverse. Il loro insieme costituisce un’armonia originale e singolare. Se l’insegnante che guida una classe riesce a realizzare una composizione armonica, ha raggiunto il suo scopo: dare vita ad una composizione musicale.
Fra tanti suoni, quello della campanella che scandisce l’inizio e la fine delle lezioni, l’inizio e la fine dell’intervallo, il momento più amato dagli alunni, chi cerca di recuperare qualche minuto, facendoli lavorare prima dello squillo che annuncia la fine dell’intervallo, sarà inondato di proteste da ogni parte dell’aula, anche i più timidi, esclamano decisi:
-Ma la campanella non è suonata!
La scuola è anche questo, un luogo di suoni e rumori.
Il luogo più rumoroso è la mensa, più classi riunite insieme per mangiare. Bambini che mangiano chiacchierando e ridendo, muovendosi continuamente, toccando posate bicchieri. Suoni e rumori confusi. Qualche anno fa, una mia collega che aveva un problema di acufeni, aveva cominciato a mettere i tappi nelle orecchie, quando portava la classe a mensa.
-E se ti chiedono qualcosa? Le dicevo indicando gli alunni.
Ricordati cara mi rispondeva, dall’alto di una lunga esperienza di anni e anni di scuola, gli alunni a mensa non hanno bisogno di noi ci sono loro e il cibo, non vogliono parlare di noi, ma con i compagni. Noi dobbiamo solo vigilare che va tutto bene e non si strozzano. In quel caso bastano gli occhi, non c’è bisogno delle orecchie e si infilava decisa i tappi.
Eppure in mezzo a questo caos c’è un rumore che non sfugge a quelle orecchie fini e a quelle bocche affamate: il cucchiaio di metallo sul contenitore delle vivande. Due colpi brevi e secchi, battiti eseguiti con ritmo deciso: tatà. La commessa annuncia il bis; a questo punto una fila di bambini si predispone in direzione del cucchiaio, qualcuno arriva camminando, qualcun altro correndo ma viene inevitabilmente rispedito verso la coda:
-Ma perché? Dichiara in genere il malcapitato con aria offesa.
-Perché correvi e superavi.
È il commento severo della maestra giustizialista di turno, che si alza per disciplinare la fila ma nonostante ciò, c’è sempre qualche furbo che s’inserisce di lato.
La scuola è anche il luogo del silenzio e della riflessione, degli esercizi eseguiti con sicurezza, rapidamente senza ragionare, gettando l’occhio sul quaderno del compagno o non eseguiti, perché troppo difficili.
L’altra mattina sono entrata in classe con un po’ di tristezza, una malinconia che mi era nata lungo la strada. Ho cercato di non farla notare ai miei alunni, in genere mi presento sempre di buon umore, ma qualcuno se n’è accorto lo stesso. Dopo la lettura e la conversazione, ho spiegato un argomento nuovo, poi sono andata alla lavagna per assegnare un altro compito, ci sono sempre quelli che in breve tempo finiscono: – Cosa faccio ora maestra?
Quando sono ritornata al mio posto, sulla bottiglia dell’acqua che avevo lasciato sulla cattedra, qualcuno aveva attaccato con lo scotch un piccolo biglietto.
– Come stai maestra?
Ho letto nel silenzio quella frase ed ho scritto anch’io una frase sul retro del foglio, l’autore del biglietto l’ha ritirato con discrezione e, in silenzio, ha ripreso a lavorare, sorridendo, la mia risposta l’ha rassicurato, e il suo biglietto mi ha regalato un po’ di buon umore.
La scuola è anche questo, un luogo ricco di sorprese, che arrivano fra i rumori intorno, ma anche nel silenzio. Fra i banchi.
Colelungo
di Angelo Australi Continua la lettura di Colelungo
Sette sogni
di Lucia Bruni Continua la lettura di Sette sogni
Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale
di Angelo Australi
Quel pomeriggio Rutilio aveva faticato come un matto a strascicare fuori dal sottoscala un rotolo di carta enorme, spesso, carico di piegature incartapecorite nascoste da uno strato di polvere. Lo fece cadere dal piano più alto di uno scaffale ma alla fine, visto che non ci stava riuscendo, per poterlo trasportare fu costretto a chiedere l’aiuto di Spartaco. Continua la lettura di Non è solo un modo come un altro per ricordarsi del Natale