Archivi categoria: ZIBALDONE POESIA E MOLTINPOESIA

Poesia e critica della poesia

Vana attesa?

di Franco Nova

Tanta attesa per nulla,
chi era con noi se ne va,
un mondo è scomparso.
L’amicizia d’altri tempi
è sentimento sconosciuto,
è come un carico di vestiti
dismessi e gettati nei fossi.
Eravamo già esseri adulti
e ci scambiavamo sorrisi;
l’assenza d’un giorno era
mancanza d’umore vitale.
I giardini tutt’un fiore,
le case un unico vociare.
Torneranno mai quei tempi?
Solo se capiremo che esseri
alieni ci hanno invaso e reso
reale quanto fantasticato e
temuto per solo divertimento.
Vanno combattuti e respinti
nel loro mondo fatto di nulla,
soppressi pur come fantasmi,
dissolti nel nostro disprezzo.
Vedremo carrozze sognate
con cocchieri senza frusta
correre su larghe strade;
la nuova aurora ormai invitta
cancellerà gli odierni vili.
Sembra un sogno, che invece
realizzerà l’attesa rinascita
d’una vita che già conosciamo.
Non sarà solo felicità e bontà,
il turpe esisterà com’è stato
in ogni tempo dell’umanità,
ma s’alternerà alla dignità
d’una vita ricca di lotte e
d’alterne vicende, non unica
distesa dell’odierna nullità. 

Viviamo senza sognare

di Franco Nova

Quante speranze ormai vane,
mentre le molte già realizzate
protestano contro questa vita
che sempre avanza e declina.
Perché Faust raccontò bugie
creando così pure illusioni?
Il mal intenzionato mentiva
soltanto a se stesso, credendo
di alleviare la sua vecchiezza.
Ormai volgiamo lo sguardo
ai ricordi da noi colorati
per poter contenti sognare,
pur se mai essi ci daranno
più d’un bagliore di letizia.
Stiamo seduti a testa china
ed eventi e visi e paesaggi
sfilano e si disperdono laggiù,
dove tutto è luce e la memoria
cancella o gentile fa sfumare
tutto ciò che il rammentare
potrebbe renderci smarriti.
Non si può evitare il pensiero
di un futuro ormai privato
dei sospirati empiti di gioia.
La vita davanti a noi è niente,
ma non diversa è alle spalle
di fronte all’enormità che
tutt’intorno ci rende inutili
nell’Universo così stellato.
Eppure si vive, si fatica e
si valorizza anche il poco
che sempre siamo stati, noi
così sciocchi da vantarci.
Siamo detti umani, ognor illusi
d’aver infine eterna vita, priva
dei corpi sentiti ingombranti
mentre sono l’unico sollievo.
Addio fantasie, tornate in voi
nel tempo e nello spazio dove
mai avete ricevuto udienza.
Ma lavorate, datevi impegni,
pensate che ancor ci siete; e
vivere è meglio del sognare
l’eterno mai conosciuto e
d’una noia insopportabile.

Vagando e divagando

(versi del 2013 e del 2014)

di Eugenio Grandinetti

L’autopresentazione  e una raccolta intitolata “Vagando e divagando” con 15 poesie  del 2013-2014. E’ quanto l’amico Eugenio Grandinetti aveva conservato nel suo PC ma  alla data della sua morte (3 febbraio 2019) non aveva ancora pubblicato.  Il file da cui questi inediti sono tratti presentava molti inghippi tecnici. Ho cercato di risolverli al meglio. Non so, però, se l’ordine cronologico dei componimenti, che ho semplicemente numerato, sia quello previsto da Eugenio. A una prima lettura  ho ritrovato i temi a lui cari: il tempo che passa estraneo; la vita come «meccanismo autonomo»,  che  – «partecipi o renitenti» – ci domina e tormenta gli uomini che «cercano di comprender[ne] il perché»; i «paraocchi» dei doveri e delle abitudini sociali;  la sessualità, alludente all’umano, ma osservata qui esclusivamente nel mondo animale e vegetale (Volo nuziale, L’ornitogallo); i fenomeni fuggevoli di una natura antropomorfizzata (Nebbia, La candela, Luci incerte, Il cielo di marzo, Nuvole, Pulviscolo, La notte) e di un pensiero sempre inquieto e smarrito (I giorni che passano, Memorie, Ambiguità). Darei per acquisito il suo pessimismo senza più farne il problema centrale per i lettori; e mi soffermerei sul perché  nel momento della scrittura poetica questo innegabile fondamento di pensiero – con toni qui alla Schopenauer (Volo nuziale) o alla Pirandello (I paraocchi) –  spingeva Eugenio a scegliere ritmi e immagini così lievi e pacati. Infine, guardando con rassegnata indignazione al  caos sempre più febbrile e competitivo degli ambienti poetici e parapoetici (milnesi in particolare) che Eugenio  pur un po’ frequentò,  mi ha fatto  sorridere la sua preoccupazione di non aver presentato le sue “creature” (i suoi versi) alle «persone giuste che avrebbero dovuto capire e valutar[ne] le doti». [E. A.] Continua la lettura di Vagando e divagando

Intervista ad Antonio Sagredo

Chiesa di S. Matteo a Lecce

a cura di Ennio Abate

Questa lunga intervista risale al 2015.  La considero un’intervista-duello. Da una parte ci sono le 9 domande preparate da uno come me, convinto che la poesia sia lavoro: da distinguere (non separare) da tutte le  forme (storiche) del lavoro umano. Esse mirano, perciò, a chiarire per quanto possibile le radici materiali (biografiche, storiche, geografiche,  culturali) del «fare versi». Dall’altra ci sono le risposte di Sagredo, che a volte eludono o contestano apertamente le domande; e teatralizzano una visione della Poesia come inattesa Visitatrice, che quasi sottopone a stalking il poeta («ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa»).
Il risultato mi pare, comunque, interessante: Sagredo  espone qui numerosi ricordi del suo «periodo infantile» o della sua «esperienza adolescenziale leccese-salentina»; rende note alcune fonti ispiratrici o guide della sua ricerca (Vanini, Ripellino, «il santo Federico» [Nietzsche], Tommaso Riccardo, Stirner, i formalisti russi, Andrzej Nowicki, Francesco P. Raimondi ,ecc.); esalta il cosmopolitismo culturale (novecentesco) contrapponendolo – a mio parere sin troppo – alla «mancanza d’aria» della poesia italiana; e rivendica una assoluta libertà («I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali»).  Il lettore valuterà le ragioni delle due posizioni .

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Quattro poesie da “Tre regni”

di Cristiana Fischer

Dall’appena pubblicata (su You Print) e a prima vista smilza e sommessa raccolta di poesie di Cristiana Fischer ho scelto di segnalare questi quattro testi. E, dunque, quattro temi: Il vento (“re sonoro”); la casa abbracciata da “alberi giganti”; il fiducioso desiderio di “credere” e di “sapere”; la vecchia in meditazione sulla “sua morte” e su “un doppio sé impensabile”. Lì ho estratti (non proprio a caso ma con un certo arbitrio) dalla prima lettura che ho fatto. Ma – occhio al titolo della raccolta e al termine “regni”! – alla ineludibile tripartizione scelta dall’autrice andranno ricondotti in seconda o terza lettura per svelarne gli enigmi allegorici, che mi pare di cogliere. [E.A.]

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Io cerco parole

di Paola Del Punta

Un solo albero sta in mezzo a un verde prato eppure nessuno lo vede



Scendo le scale
Nere da te lucidate
Dal lucernaio sopra
La porta la luce
Illumina i tuoi passi
Uno a destra e
poi uno a sinistra
Migliaia di volte hai salito
E sceso queste scale
ripeto le tue orme
la tua presenza
Nell’assenza


 
Malinconica
mente si attarda
nel frastuon di luci e grida di gabbiani
Nell’aria della sera
Un altro porto straniero
Appare e volti e voci
Si confondono
Qui ora e allora
Gira senza sosta
La ruota del tempo
 


Dalle maglie
Della tua rete
Scivolano via
Granelli di senso
Della vita altrui
Ora i miei raccolgo
E in una grande tela
Li compongo a formare
un paesaggio colorato
Vedo passare vecchi increspati
Che il tempo abbandona
Mi rifugio
in una nicchia
Di tepore
Mangio cioccolata.
 

 
E’ scritto best
Sul dorso della ciabatta
sotto consunta
sfilacciata in mille fili
trascina i tuoi affanni .
Mi chiedi una magia
Silenziose lacrime
E il ricordo gioioso di bambina
Premono e ammutolisco.
 


Siamo a un filo legati
Come panni stesi
Da finestra a finestra
Ci scaldiamo ai raggi del sole
E ritornano parole
Segni di lunghi silenzi
Sulla pelle incisi
 
 

Se ne va un uomo
Col suo sacchetto
Lungo un viale
Di alberi di luce
In lontananza lo raggiunge
La rosa del tramonto
 

delivery

di Luca Chiarei

Suona alla porta oggi il delivery e consegna a domicilio perché in tempo di guerra è bello scrivere poesie è quasi spontaneo è naturale siamo tutti concentrati a conservare la concentrazione quando la consegna è quella delle bombe – anche gli spinaci per braccio di ferro, se ci fosse sempre una guerra quando c’è, virgola, sarebbe bello per i poeti domani accarezzarsi lungo il pelo ma ora c’è il delivery, l’ho già detto, delle bombe quelle vere quelle della fine e dell’inizio perché è il tempo che brucino ancora i bambini, quelli di Dresda come fiammiferi, motori bifuel ma ora facciamo il punto. facciamone due: ho provato anch’io, con l’io poetico, con il soggetto da tramortire a circoscriverne una e la pensavo mentre ero alle prese con tartaro da ablare gpl, meglio metano? da cercare – che non è una magia da orti urbani ma poi non sono riuscito, avevo le mani in pasta e sporche di flussi di coscienza che sono già passati 40 anni dalle mie obiezioni ai mondi, ai blocchi, ai muri, alla leva ai servizi militari punto e virgola; tutto questo ora non ha nessuna importanza allora basta una bella prosapoetica poesiainprosa prosainprosa – ma è poesia o non lo è – mentre si svegliano i neutroni, i nuclei, resurrezione delle fissioni virgola cadranno i canini e le gocce di collirio. punto senza a capo non aspettiamo qualcosa da fare, che fare? scuciamoci le schiene, sfiliamo le vertebre schieriamoci dalla parte giusta versus dei giusti governi tecnici – per le costituzioni antifasciste perché il mondo è una arancia da spremere la gente è una arancia da spremere spazio mentre file di elefanti attraversano quello che si deve attraversare navigando nel silenzio degli incroci e non sarà sufficiente il sangue sui semafori e nessuna rima nessuna sinestesia definitiva della morte -sono sempre i bambini tagliati fuori ad aspettare diventare grandi schivare le macerie gli indici di borsa i capitali in fuga – con cani senza guinzaglio e cappotto – con quelli della Nato – con il resto degli imperi a fare aria

Ogni mattino, di grazia, una nemesi…

Nemesi di Ramnunte
copia romana dell’originale statua di culto di Nemesi a Rhamnous, in Attica
Napoli, Museo Archeologico

di Antonio Sagredo

 Amami almeno una volta e soltanto nel ricordo
quando verrai da sola a vedere il mio tramonto in ginocchio,
ma sul trono hai il volto fuso con  un tragico diadema
che per una solitudine regale
vomita nel calice  una gorgiera di detriti e di rubini.

 Dietro una palizzata di macerie le coronarie danzano con la Morte
e già sanguinano in un quadro ancora non finito…
l’ultimo artista del potere ha negli occhi mistici ferro e fuoco
e secolari cecità – e nella sua fogna mistica  menzogne e inganni.

 Le urla dei poeti contro il muro segreto non minacciano il perdono,
né chiedono soltanto mutilati ovunque e impietosi
di restare invano nei sottosuoli
per onorare muti le proprie parole… ma vivi!

 (19 marzo 2022)