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di Pasquale Balestriere
di Franco Nova
Tanta attesa per nulla, chi era con noi se ne va, un mondo è scomparso. L’amicizia d’altri tempi è sentimento sconosciuto, è come un carico di vestiti dismessi e gettati nei fossi. Eravamo già esseri adulti e ci scambiavamo sorrisi; l’assenza d’un giorno era mancanza d’umore vitale. I giardini tutt’un fiore, le case un unico vociare. Torneranno mai quei tempi? Solo se capiremo che esseri alieni ci hanno invaso e reso reale quanto fantasticato e temuto per solo divertimento. Vanno combattuti e respinti nel loro mondo fatto di nulla, soppressi pur come fantasmi, dissolti nel nostro disprezzo. Vedremo carrozze sognate con cocchieri senza frusta correre su larghe strade; la nuova aurora ormai invitta cancellerà gli odierni vili. Sembra un sogno, che invece realizzerà l’attesa rinascita d’una vita che già conosciamo. Non sarà solo felicità e bontà, il turpe esisterà com’è stato in ogni tempo dell’umanità, ma s’alternerà alla dignità d’una vita ricca di lotte e d’alterne vicende, non unica distesa dell’odierna nullità.
di Franco Nova
Quante speranze ormai vane,
mentre le molte già realizzate
protestano contro questa vita
che sempre avanza e declina.
Perché Faust raccontò bugie
creando così pure illusioni?
Il mal intenzionato mentiva
soltanto a se stesso, credendo
di alleviare la sua vecchiezza.
Ormai volgiamo lo sguardo
ai ricordi da noi colorati
per poter contenti sognare,
pur se mai essi ci daranno
più d’un bagliore di letizia.
Stiamo seduti a testa china
ed eventi e visi e paesaggi
sfilano e si disperdono laggiù,
dove tutto è luce e la memoria
cancella o gentile fa sfumare
tutto ciò che il rammentare
potrebbe renderci smarriti.
Non si può evitare il pensiero
di un futuro ormai privato
dei sospirati empiti di gioia.
La vita davanti a noi è niente,
ma non diversa è alle spalle
di fronte all’enormità che
tutt’intorno ci rende inutili
nell’Universo così stellato.
Eppure si vive, si fatica e
si valorizza anche il poco
che sempre siamo stati, noi
così sciocchi da vantarci.
Siamo detti umani, ognor illusi
d’aver infine eterna vita, priva
dei corpi sentiti ingombranti
mentre sono l’unico sollievo.
Addio fantasie, tornate in voi
nel tempo e nello spazio dove
mai avete ricevuto udienza.
Ma lavorate, datevi impegni,
pensate che ancor ci siete; e
vivere è meglio del sognare
l’eterno mai conosciuto e
d’una noia insopportabile.
(versi del 2013 e del 2014)
di Eugenio Grandinetti
L’autopresentazione e una raccolta intitolata “Vagando e divagando” con 15 poesie del 2013-2014. E’ quanto l’amico Eugenio Grandinetti aveva conservato nel suo PC ma alla data della sua morte (3 febbraio 2019) non aveva ancora pubblicato. Il file da cui questi inediti sono tratti presentava molti inghippi tecnici. Ho cercato di risolverli al meglio. Non so, però, se l’ordine cronologico dei componimenti, che ho semplicemente numerato, sia quello previsto da Eugenio. A una prima lettura ho ritrovato i temi a lui cari: il tempo che passa estraneo; la vita come «meccanismo autonomo», che – «partecipi o renitenti» – ci domina e tormenta gli uomini che «cercano di comprender[ne] il perché»; i «paraocchi» dei doveri e delle abitudini sociali; la sessualità, alludente all’umano, ma osservata qui esclusivamente nel mondo animale e vegetale (Volo nuziale, L’ornitogallo); i fenomeni fuggevoli di una natura antropomorfizzata (Nebbia, La candela, Luci incerte, Il cielo di marzo, Nuvole, Pulviscolo, La notte) e di un pensiero sempre inquieto e smarrito (I giorni che passano, Memorie, Ambiguità). Darei per acquisito il suo pessimismo senza più farne il problema centrale per i lettori; e mi soffermerei sul perché nel momento della scrittura poetica questo innegabile fondamento di pensiero – con toni qui alla Schopenauer (Volo nuziale) o alla Pirandello (I paraocchi) – spingeva Eugenio a scegliere ritmi e immagini così lievi e pacati. Infine, guardando con rassegnata indignazione al caos sempre più febbrile e competitivo degli ambienti poetici e parapoetici (milnesi in particolare) che Eugenio pur un po’ frequentò, mi ha fatto sorridere la sua preoccupazione di non aver presentato le sue “creature” (i suoi versi) alle «persone giuste che avrebbero dovuto capire e valutar[ne] le doti». [E. A.] Continua la lettura di Vagando e divagando
a cura di Ennio Abate
Questa lunga intervista risale al 2015. La considero un’intervista-duello. Da una parte ci sono le 9 domande preparate da uno come me, convinto che la poesia sia lavoro: da distinguere (non separare) da tutte le forme (storiche) del lavoro umano. Esse mirano, perciò, a chiarire per quanto possibile le radici materiali (biografiche, storiche, geografiche, culturali) del «fare versi». Dall’altra ci sono le risposte di Sagredo, che a volte eludono o contestano apertamente le domande; e teatralizzano una visione della Poesia come inattesa Visitatrice, che quasi sottopone a stalking il poeta («ho pregato più volte, l’anno scorso, la Poesia di non disturbarmi più… invano! L’ho pregata da quando iniziai due decenni fa»).
Il risultato mi pare, comunque, interessante: Sagredo espone qui numerosi ricordi del suo «periodo infantile» o della sua «esperienza adolescenziale leccese-salentina»; rende note alcune fonti ispiratrici o guide della sua ricerca (Vanini, Ripellino, «il santo Federico» [Nietzsche], Tommaso Riccardo, Stirner, i formalisti russi, Andrzej Nowicki, Francesco P. Raimondi ,ecc.); esalta il cosmopolitismo culturale (novecentesco) contrapponendolo – a mio parere sin troppo – alla «mancanza d’aria» della poesia italiana; e rivendica una assoluta libertà («I miei versi sono nati nella massima e totale libertà e verità interiori, una sorta di creazione arbitraria senza zavorre culturali»). Il lettore valuterà le ragioni delle due posizioni .
di Cristiana Fischer
Dall’appena pubblicata (su You Print) e a prima vista smilza e sommessa raccolta di poesie di Cristiana Fischer ho scelto di segnalare questi quattro testi. E, dunque, quattro temi: Il vento (“re sonoro”); la casa abbracciata da “alberi giganti”; il fiducioso desiderio di “credere” e di “sapere”; la vecchia in meditazione sulla “sua morte” e su “un doppio sé impensabile”. Lì ho estratti (non proprio a caso ma con un certo arbitrio) dalla prima lettura che ho fatto. Ma – occhio al titolo della raccolta e al termine “regni”! – alla ineludibile tripartizione scelta dall’autrice andranno ricondotti in seconda o terza lettura per svelarne gli enigmi allegorici, che mi pare di cogliere. [E.A.]
Continua la lettura di Quattro poesie da “Tre regni”di Paola Del Punta
Un solo albero sta in mezzo a un verde prato eppure nessuno lo vede Scendo le scale Nere da te lucidate Dal lucernaio sopra La porta la luce Illumina i tuoi passi Uno a destra e poi uno a sinistra Migliaia di volte hai salito E sceso queste scale ripeto le tue orme la tua presenza Nell’assenza Malinconica mente si attarda nel frastuon di luci e grida di gabbiani Nell’aria della sera Un altro porto straniero Appare e volti e voci Si confondono Qui ora e allora Gira senza sosta La ruota del tempo Dalle maglie Della tua rete Scivolano via Granelli di senso Della vita altrui Ora i miei raccolgo E in una grande tela Li compongo a formare un paesaggio colorato Vedo passare vecchi increspati Che il tempo abbandona Mi rifugio in una nicchia Di tepore Mangio cioccolata. E’ scritto best Sul dorso della ciabatta sotto consunta sfilacciata in mille fili trascina i tuoi affanni . Mi chiedi una magia Silenziose lacrime E il ricordo gioioso di bambina Premono e ammutolisco. Siamo a un filo legati Come panni stesi Da finestra a finestra Ci scaldiamo ai raggi del sole E ritornano parole Segni di lunghi silenzi Sulla pelle incisi Se ne va un uomo Col suo sacchetto Lungo un viale Di alberi di luce In lontananza lo raggiunge La rosa del tramonto
di Luca Chiarei
Suona alla porta oggi il delivery e consegna a domicilio perché in tempo di guerra è bello scrivere poesie è quasi spontaneo è naturale siamo tutti concentrati a conservare la concentrazione quando la consegna è quella delle bombe – anche gli spinaci per braccio di ferro, se ci fosse sempre una guerra quando c’è, virgola, sarebbe bello per i poeti domani accarezzarsi lungo il pelo ma ora c’è il delivery, l’ho già detto, delle bombe quelle vere quelle della fine e dell’inizio perché è il tempo che brucino ancora i bambini, quelli di Dresda come fiammiferi, motori bifuel ma ora facciamo il punto. facciamone due: ho provato anch’io, con l’io poetico, con il soggetto da tramortire a circoscriverne una e la pensavo mentre ero alle prese con tartaro da ablare gpl, meglio metano? da cercare – che non è una magia da orti urbani ma poi non sono riuscito, avevo le mani in pasta e sporche di flussi di coscienza che sono già passati 40 anni dalle mie obiezioni ai mondi, ai blocchi, ai muri, alla leva ai servizi militari punto e virgola; tutto questo ora non ha nessuna importanza allora basta una bella prosapoetica poesiainprosa prosainprosa – ma è poesia o non lo è – mentre si svegliano i neutroni, i nuclei, resurrezione delle fissioni virgola cadranno i canini e le gocce di collirio. punto senza a capo non aspettiamo qualcosa da fare, che fare? scuciamoci le schiene, sfiliamo le vertebre schieriamoci dalla parte giusta versus dei giusti governi tecnici – per le costituzioni antifasciste perché il mondo è una arancia da spremere la gente è una arancia da spremere spazio mentre file di elefanti attraversano quello che si deve attraversare navigando nel silenzio degli incroci e non sarà sufficiente il sangue sui semafori e nessuna rima nessuna sinestesia definitiva della morte -sono sempre i bambini tagliati fuori ad aspettare diventare grandi schivare le macerie gli indici di borsa i capitali in fuga – con cani senza guinzaglio e cappotto – con quelli della Nato – con il resto degli imperi a fare aria
Nemesi di Ramnunte
copia romana dell’originale statua di culto di Nemesi a Rhamnous, in Attica
Napoli, Museo Archeologico
di Antonio Sagredo
Amami almeno una volta e soltanto nel ricordo
quando verrai da sola a vedere il mio tramonto in ginocchio,
ma sul trono hai il volto fuso con un tragico diadema
che per una solitudine regale
vomita nel calice una gorgiera di detriti e di rubini.
Dietro una palizzata di macerie le coronarie danzano con la Morte
e già sanguinano in un quadro ancora non finito…
l’ultimo artista del potere ha negli occhi mistici ferro e fuoco
e secolari cecità – e nella sua fogna mistica menzogne e inganni.
Le urla dei poeti contro il muro segreto non minacciano il perdono,
né chiedono soltanto mutilati ovunque e impietosi
di restare invano nei sottosuoli
per onorare muti le proprie parole… ma vivi!
(19 marzo 2022)