A me temeraria
Il tempo mi tampina
pesa sulla gobba
strattona
rampogna
-Stai un passo in là
non puoi starmi appresso
fai mille passi in là,
piccola umana!
La mia misura non sei tu
ma il movimento dei pianeti
i flussi delle maree
le mutazioni climatiche...
Quando tu ti fermarai
io continuero’ a percorrere
spazi infiniti,
saltelli tra le siepi...
Se proprio vuoi con me misurarti
fissa un raggio di sole
e segui il suo cammino
dall’alba al tramonto
e di notte accompagna
ogni battito del tuo cuore
e conta, se ti riesce, le stelle in cielo
sino alla piu’ remota...
Esausta e smarrita
non avrai sfiorato
che un mio piccolissimo frammento...-
ll tempo sberleffa noi umani
e siamo già vinti!
E chi cavalco’
temerariamente
il tempo?
Gengis Kan Napoleone Hitler...
Inseguendo la superba vittoria
con armi ed eserciti?
In un pugno di mosche
e di cenere
si risolse la loro impresa
nel cono d’ombra.
Personalmene...
sono arrivata a
sentirne la presenza
rumoreggiante
quale quella
di un fanciullo monello
che a volte mi cammina appresso
ma poi corre corre via...
Percorso l’universo
amico com’è del mistero,
il tempo ritorna da me
per pochi passi
volando di nuovo via...
Se fosse aquilone
lo terrei stretto per lo spago
e via con lui nel vento...
Senza tormento
Non ebbe bisogno di riti
di lacrime e di sospiri
un giorno qualsiasi capito’...
Meno di una brezza di vento
e il risveglio
meno d un saluto distratto
e la vita finita continuo’
senza tormento
La prima l’ho scattata io, come obiettivo la parete della prima casa di Iselle, piccola frazione di frontiera prima della lunga galleria del Sempione, galleria che consente alla ferrovia di passare dal territorio italiano a quello svizzero, Briga. Immagino che sia la gigantografia di una foto di gruppo di lavoratori e tecnici, scattata durante gli anni dei lavori di scavo del tunnel (1895-1905). Una foto poi trasformata in cartolina postale da inviare ai (o dai) parenti dei picconatori, rimasti nei paesi di origine: ‘Saluti mamma’. Gli aspetti più interessanti da osservare, secondo me, sono gli sguardi molto seri e provati dal lavoro e da una vita di stenti e gli abbigliamenti sobri delle persone in posa. I bambini pure molto seri negli sguardi e negli abiti dimessi però, se molto piccoli, si presentano con qualche vezzo in più; come la mantellina, si può immaginare, lavorata ai ferri dalla nonna, o il cappellino alla moda. I più grandicelli sono in tutto e per tutto vestiti come i padri. La ragazzina molto seria, in primo piano sulla destra, porta in mano l’involto del pane per l’intero gruppo di fratellini. Uno dei maschietti indossa un cappellino da ferroviere, come forse il padre lo vedrebbe ben sistemato da adulto, alla fine dei lunghi e pericolosi lavori, che costarono il prezzo di molte vittime umane. Sulla destra, bambini più curati viaggiano in calesse. Forse sono i figli di impiegati e tecnici.
La seconda è di Antonia Pozzi, poetessa e fotografa (1912- 1938). Probabilmente è stata scattata durante una fiera o sagra di Pasturo (Valsassina), località dove soleva trascorrere le sue vacanze negli ultimi anni della sua, per volontà, breve vita. Anche in questa foto trovo interessanti da osservare sia gli sguardi incantati dei ragazzini davanti alle meraviglie, capaci di accendere la loro fantasia, di semplici oggetti realizzati dall’artigianato locale, come gli abbigliamenti. Il ragazzino cresciuto troppo in fretta che porta pantaloni e giacca decisamente fuori taglia mi ha ricordato, per contrasto ma anche per somiglianza, un personaggio della poesia di Giovanni Pascoli: ‘ Valentino vestito di nuovo…’
A notte fonda infuriava la battaglia nella gola scura e arida: cozzavano spade, baluginavano armature e i corpi dilaniati giacevano a terra, le membra sparse…Ma ancor piu’ feriva l’aria l’incrociarsi di sguardi guizzanti, allucinati dall’odio che strisciava come serpente negli animi…La battaglia durava da giorni e giorni senza vinti o vincitori.
In lontananza, dal bosco, giunse repentino l’ululato di un lupo, tuttavia i guerrieri indifferenti continuarono il loro sanguinoso scontro, finché l’ululato non crebbe a dismisura, sino a diventare quello di cento, mille, diecimila lupi famelici. Allora persino i guerrieri piu’ temerari prestarono orecchio a quel latrato terrificante e minaccioso, quale boato di un devastante terremoto, e infine videro spuntare lo straordinario animale dal bosco e lanciarsi nella mischia…Serrarono le fila e furono costretti ad affrontare insieme la mostruosa belva, come nemico comune. L’avevano circondato, ma il lupo lampeggiante scintille teneva testa a tutti con artigli e denti affilati, finché lo videro arrestarsi e arretrare improvvisamente…Solo per un attimo esultanti, i guerrieri impietrirono ammutoliti, abbandonate le spade ai piedi, perché colpiti da un insopportabile prurito e brividi deliranti. Il lupo, improvvisamente mansueto, si ritirò nel bosco da cui proveniva…Ogni guerriero allora iniziò a togliersi con frenesia l’armatura, l’elmo, i gambali, finché non si ritrovò nella notte completamente nudo, come nel giorno della nascita: ognuno si grattava a più non posso il corpo piagato e arrossato, colpito da forma perniciosa, chiedendo indifferentemente aiuto ad amici, quanto a nemici nel reciproco bisogno…Senza uniforme, abbandonate le inutili armi, caduti i lustrini, i gradi, le medaglie e colpiti dalla stessa malattia, erano proprio tutti uguali, fratelli. In cuor loro avevano dimenticato il motivo di tanto odio e se ne chiedevano invano la ragione…
Al sopraggiungere dell’alba, dopo una lunghissima notte, i sopravvissuti squassati levarono gli occhi alla prima luce e sentirono scendere dal cielo una pioggia sottile e rinfrescante ed esposero le membra martoriate alla sua benefica carezza. A lungo fecero scivolare sulla pelle arrossata e ferita il liquido trasparente finché non si sentirono rigenerare e un grande sollievo penetrò nei meandri del corpo, finalmente liberato da malattia e odio: farsi guerra un non senso…
In quello stesso luogo decisero di innalzare un’immensa fontana chiamata ”Acquapace”, i viventi tutti vi affluivano…
Un fiore
Di ritorno sul solito treno,
dopo commiati e pianti ricacciati,
risospinta lontano
in mare aperto
nella risacca di onde all’indietro...
....sul treno di ritorno,
una volta come tante,
un gran sferragliamento
e il convoglio s’arresto!
Uno scambio fulmineo? Un guasto?
No, una voce lieve di verità
in lenta carovana di sguardi
serpeggiò...
Nel vagone accanto,
sommessamente,
un uomo
la vita aveva lasciato,
il capo molle reclinato
sulla spalla
dell’ignoto vicino.
Mi prese un sussulto
di sgomento
per quell’insolito
anonimo destino,
ma infine mi rallegrai,
forse invidiai
quel cullato trapasso
dal vitale movimento
all’immoto centro
del nido agognato...
Volpina
Invano cercheresti
nel musetto a triangolo
la grazia del gatto..
Gli occhi sgranati
sanno la fame,
lunga eterna,
di Arlecchin Batocia
e Pulcinella.
L’affilato visetto
in piccole astuzie
trascina
l’esistenza clandestina.
Rosseggia la folta coda
nei boschi,
bersaglio in fasti di caccia.
La volpina bella
fugge
dal mondo crudele...
Amici dei fiori
Giardino di fiori e di piante
assoggettate al disegno dell’uomo
che ha mani sapienti
e stabilisce confini
assembla colori e aiuole
stabilisce la statura dell’erba
seleziona i contorni del verde
traccia meditati percorsi
ombreggia radure
soleggia tratti boschivi
...docili gli esseri vegetali!
...ed ora per sentieri montani
non tracciati
se non da serpi e scarponi
tra cespugli pietre e rovi
a svelare
i fiori sciolti d’altura
ritagli azzurri gialli rossi
oltre le vette irraggiungibili
e noi,
giardinieri metodici,
ad inchinarci
davanti a tanto respiro
sapiente e sconfinato
E’ quanto
Su una piccola mano
aperta
porgiamo quanto...
La mano
trema per la miseria
di quel quanto:
una manciata di semi
dispersi nel deserto
poi dal vento.
Eppure brillano,
raggi figli del sole,
e per un istante soltanto...
È quanto
Premessa: ho vissuto 10 anni a Barcellona, è lì che ho conosciuto la causa Saharawi. Fino ad allora dei Saharawi avevo saputo solo incrociando in Sardegna gruppi di famiglie con bimbi che venivano da quella zona e che passavano l’estate con loro. Avevo sentito nominare il fronte Polisario come una di quelle lotte infinite… A Barcellona la causa Saharawi è vissuta più direttamente come in tutta la Spagna per due motivi credo: l’implicazione storica della Spagna, che è ritenuta (da molti spagnoli stessi, e ancor più dai catalani!!!) come responsabile di questa “svendita” al Marocco e quindi il “senso di colpa” di coloro che sanno che il proprio governo fu ben implicato nella vicenda; e il fatto che la seconda lingua di questo popolo sia lo spagnolo. Bene a Barcellona conobbi Nuria, una donna ultrasettantenne con la forza e la passione di una ventenne che corre a destra e a manca per far conoscere le vergogne che quotidianamente avvengono in questa lotta impari. Assistetti al documentario che raccontava l’Accampata di 9 anni fa che si svolse a Gdem Isik e che terminò nella repressione; lessi qualche libro, ma soprattutto vidi il bellissimo documentario fatto da Jordi Oriola: Fucili e murales. Insieme lo sottotitolammo in italiano e due anni fa lo aiutai a fare un giro per l’Italia con questo documentario, validissimo. Insomma, speravo prima o poi di conoscere quei luoghi. Come ogni anno a metà febbraio nella nostra scuola (insegno italiano agli immigrati in un CPIA) abbiamo le iscrizioni: ho preso la palla al balzo e ho comprato un biglietto: quando ho chiesto al preside i giorni di permesso mi ha detto: “Vengo anch’io”. Buon segnale. Ora qui sotto racconto di questo viaggio. Chi volesse capire meglio l’inquadramento storico può ascoltare l’intervista fatta dalla solita fantastica radio Onda d’urto (qui). Chi volesse leggere anche la surreale descrizione che ho fatto, vada su questo sito e scorra in fondo….. (qui)
Febbraio 2020 pianeta terra. Terra desertica.
A trovare i nostri antichi predecessori, in fondo veniamo dall’Africa, tutti e tutte. Come nel Piccolo principe, ci aggiriamo nel deserto, inesperti nell’orientarci. Strade asfaltate, ottime, ma ad un tratto, si devia, si entra in una strada sterrata, una pista, corsie che corrono parrallele, macchine che vanno di qua e di là, evitando pietre, sobbalzando su cunette. Macchine, poche: in una giornata ne incontri quante ne incontri in 20 secondi a Milano. Un giorno, 20 secondi. La non contemporaneità diceva Ernst Bloch. Un passo indietro, Algeri: un nuovo aeroporto, sembra di essere a Parigi o a New York, ma le famiglie che si riabbracciano sembrano uscite da un film di Rossellini. Sicilia del dopoguerra. Giovani che si piegano come giraffe a salutare donne anziane alte un metro e poco più, avvolte in veli neri. Poi il volo fino a Tindouf: un aeroporto che apre solo quando arriva un aereo, e a differenza di qualsiasi aeroporto visto al mondo si entra come entri in un mercato. Tutti insieme, a salutarsi e abbracciarsi mentre si ritirano i bagagli. Alle 4 di notte. Si perchè i voli in questi luoghi sperduti usano gli aerei che vanno altrove di giorno. La terza classe del tempo: la notte. Un aeroporto che sembra più una stazione di treno di un film di Sergio Leone che un aeroporto, eppure la guardia ti dice di non fare foto. Carichiamo due auto, i bagagli sono tanti: apparecchiature mediche che portano i miei compagni di viaggio. Abbiamo 40 chili a testa, siamo in 5: due quintali di bagagli. Torneremo con mezzo. Scorta delle guardie algerine, poi il cambio, scorta delle guardie Saharawi. Arriviamo: si dorme 3 ore, poi comincia una giornata fiume, immersi nella struttura creata da una donna italiana che vive lì da una dozzina d’anni: Rossana.
Un’astronave atterrata nel deserto, come un’arca di Noè per mettere in salvo gli sfigati degli sfigati. Bimbi e bimbe con lesioni celebrali, spesso dovute a mancate cure al momento della nascita. Gli ultimi degli ultimi, che all’improvviso, lì dentro, mi sembrano diventare i primi. Una quantità di attenzioni, coccole, cure, di altissima qualità. Un tratto raro, continuo, giorno e notte. Rossana dirige un’orchestra, guida la nave. A tratti la ciurma riposa, lei segue al timone. Nove dita, ma occhi davanti e dietro. Orecchie che colgono il pianto lontano. Bimbi sparsi come un liquido in uno spazio protetto, pieno di stimoli. Una grande quantità di stimoli, da augurarsi per tutti i bimbi del mondo.
17 febbraio: una mattinata in una scuola elementare: ma prima, passaggio dalla direzione di non so cosa per presentarsi, essere ammessi o che so io…. Abbiamo appuntamento alle 10, dopo una lunga camminata arriviamo, ma il direttore è ammalato, salutiamo 6 o 7 uomini che si aggirano in questa entrata e piccolo cortile, l’unica erba che vedrò in una settimana. Alcune donne nel retro, a cucinare verosimilmente, gli uomini danno gran mani e poi ce ne andiamo. Bianchi e neri, uomini e donne. Andiamo alla scuola, enorme. Sembra uno di quei fortini da film wester, un quadrato gigantesto, un cortile di sabbia e sassi assolato su cui danno le classi. L’unica luce che entra nelle classi è dalla porta. Le luci elettriche nelle classi sono sempre accese. Passiamo dalla direzione: un uomo panciuto ci dà il benvenuto che Rashid mi traduce visto che quest’uomo non sa lo spagnolo. A fianco a lui un paio di donne in mezzo a scartoffie. Lui mi spiega in poche parole quello che fanno, ma proprio due parole, tra le quali mi fa vedere le foto di tre pettinature, quelle che le bimbe devono avere. Vabbuò, mi chiedono se ho domande: chiedo di lasciare al suo fianco il mio zaino, ringrazio e andiamo alle classi. Entriamo in una prima. Io sono come un topo nel formaggio. Una maestra che giustamente non mi dà assolutamente retta continuando la sua lezione insegna arabo. I bimbi e le bimbe con sguardi attenti, sono bravissimi. Non c’è nessuna confusione, la maestra procede con calma e pazienza, i bimbi sono 25 ma ci sono degli assenti. In fondo alla classe un angolo con spazzatura, scoprirò nelle altre classi che in fondo ad ogni classe c’è un sacco per la spazzatura, ma in questa classe è in buona parte sparsa per terra, tristemente. Mi chiamano con lo sguardo. Sto un po’ con loro, dopo 15 minuti saluto e ringrazio. Passo in una terza dove c’è la lezione di spagnolo, una giovane donna più spigliata fa lezione. In terza è quando iniziano spagnolo, lei fa lezione nelle terze e nelle quarte. 45 minuti al giorno. Mi spiega. I bimbi – dice- a questa età sono spugne, hanno voglia di imparare, è quando crescono che da adolescenti non gli interessa più la scuola… E poi una frase fulminante: “A questa età sognano ancora di fare il dottore o altro….” Mi spiega che ha studiato spagnolo a lungo e con piacere in Algeria e in Spagna e ora è qui perchè deve e vuole restituire alla sua gente, a questi bimbi, quello che lei ha avuto come possibilità, come dono. Non sta recitando una parte, mi sembra bella e sincera. Anche qui i bimbi seguono attenti. Sempre questa maestra mi racconta che nel “fine settimana” partecipa a un gruppo scout e quindi giocano coi bimbi, mentre in estate portano dei grandi gruppi al mare in Algeria, geniale!!
Preparazione dell’intervallo: dà a tutti un pacchetto di biscotti (un’altra gran quantità di spazzatura che si produce), poi arriva un secchio, ma proprio un secchio di plastica, pieno di latte. Uno a uno vanno a riempirsi mezzo bicchiere di plastica, versandolo con un altro bicchiere, quindi infilando la mano nel latte e tirando su, e versandolo in un bicchiere che un altro di loro ha da poco usato. Certo che se uno ha l’influenza se la passano a bomba. Intervallo, si mettono in fila fuori dalla classe, con loro c’è un ragazzone alto, molto più grande di loro, nero, viene dalla Mauritania, è arrivato da poco, gli do la mano, diventa la mia ombra, la mia guardia del corpo. Durante l’intervallo escono dal quadrilatero della scuola, si fermano nel terreno davanti perchè c’è sabbia e non ci sono sassi mentre dentro ce ne sono parecchi. Stanno lì fuori, ma non hanno nulla per giocare, ciondolano ma sono allegri. In tanti mi sono attorno, devo mettermi contro il muro sennò da dietro mi arriva di tutto, da carezze a coppini. Mi metto lì, molti mi sono addosso, si spingono, solo una ragazzina che fa la quarta parla un po’ spagnolo e mi fa da interprete, mi dicono i loro nomi. Ho due nuovi ragazzini, maschi uno a destra e uno a sinistra, due guardie del corpo che non mi mollano, danno calci a chi fa lo stupido. Abbozzano qualche parola in spagnolo, ma ne sanno davvero poche. La spazzatura va per terra. Noto che il ragazzino alto e nero, mauritano raccoglie la spazzatura, mi chiedo se ha questo incarico….. Finito l’intervallo ci si mette al centro del cortile, che sembra quello di un carcere gigante. Ci mettiamo a raggera, ogni classe, seduti a terra su due file, una di maschi e una di femmine, mi siedo in mezzo a loro, in ordine, in un gruppo classe, è ancora la terza dove stavo. Ci lasciano alcuni minuti lì al sole seduti. Passa una maestra talmente intabarrata e con occhiali da sole che non si vede un centimetro quadrato di pelle. Alla fine tocca a noi, ci alziamo e in fila andiamo in classe. La classe è chiusa a chiave, una bimba ha la chiave del lucchetto. La maestra apre e ci sediamo. Mi vogliono con loro, ma sto solo qualche minuto, mi spiace, ma voglio vedere una quinta.
Entro in una quinta, stavolta c’è un maestro uomo, abbastanza intabarrato, sdentato, fa lezione di spagnolo. Stanno leggendo una poesia patriottica sul Sahara Occidentale. Fiocca la retorica. Il maestro fa strafalcioni, i bimbi seguono, ma quando lui esce un attimo è un continuo tirarsi pezzi di gomma o carta ciucciata e ficcata in penne-cerbottana, fantastico. Ma lo fanno solo assolutamente i maschi, da un capo all’altro della classe, si tirano veri proiettili. Le bimbe, e alcuni maschi, mi guardano incuriosite. Provocano. Qualcuna mastica lo spagnolo e scambiamo qualche battuta. Appena entra il maestro che minaccia con un piccolo bastone, silenzio. Cambio di lezione, arabo. Un altro maestro; sarà un caso che nelle classi basse c’erano donne e in quinta uomini? Mi accorgo che gli uomini alzano molto di più la voce, certo anche i ragazzini fanno più casino. Osservo alcuni loro quaderni, di arabo, hanno una scrittura perfetta, sono incantato. Con matite appuntite fanno i segni precisi, nitidi. Mi ero accorto che la maestra precedente si aggirava tra i banchi e con un temperamatite temperava con grande pazienza le loro matite versadosi sulla mano gli scarti e buttandoli poi nel sacco nell’angolo.
Durante la lezione passa qualche ragazzino delle altre classi che stanno uscendo, mi salutano dalla porta, che, ricordo, è la principale fonte di luce. Ogni tanto entra il mio amico Rashid che vorrebbe andare a casa, lo prego, scherzando, di aspettare un po’. Come mi è successo in tante altre parti del mondo gli adulti che mi accompagnano rimangono ben meravigliati del fatto che mi attardi parecchio tra bambini e ragazzini, mentre con le “istituzioni”, io scalpiti. Sto con loro fino alla fine della lezione, spesso il loro compito consiste nel copiare dalla lavagna, ma il maestro fa molte piccole domande e sono in molti ad alzare la mano, ad intervenire, sono svegli, tutti o quasi vogliono parlare, e questo avveniva anche nelle classi più basse. Bimbi e bimbe sveglie. Leggono meglio in arabo che in spagnolo, sicuro. Sono bravissimi, ma di quello che copiano credo capiscano veramente poco. Meglio con quello che leggono sul libro. E qui la scoperta che dovrebbe fare ogni europeo, i libri arabi vanno da destra a sinistra, si girano le pagine al contrario e i numeri crescono al girare le pagine in senso inverso, ma I NUMERI SONO come I NOSTRI, o meglio, i nostri SONO in realtà I LORO!! E già. Ma i numeri si scrivono da destra a sinistra, o meglio, i numeri sono un tutt’uno. Devo scoprire come si dice 25 per esempio. Se venti-cinque o, credo, cinque-venti. Una vita allo specchio. In seguito lo chiedo: in effetti 25 si legge in arabo come cinque-venti e non venti-cinque, tutto è chiaro. Voglio studiare arabo. Finita la lezione, escono tutti. Saluto e ringrazio.
Rashid mi racconta la storia dei Saharawi, lui è stato infermiere durante la guerra, ha visto le ferite dei bombardamenti al napalm e fosforo. Racconta, come iniziò tutto, la formazione della RASD, del Fronte Polisario, le prime azioni, lo schiacciamento tra Spagna e Marocco, la violenza dell’esercito marocchino, le incursioni della guerriglia, le rappresaglie, gli arresti, le torture. Il far nulla della missione ONU, MINURSO. La rabbia dei giovani. La guerra dal ’76 al ’91, poi la presa in giro del promesso referendum (da parte dell’ONU) e mai fatto. Il Marocco ha troppi allenaze, in primis Francia, Spagna, Usa…. L’assenza del mare, della propria terra, l’occupazione delle loro case. Il ricordo, e i giovani che non ci stanno, a stare in questa empasse, di aspettare e aspettare. E la Francia che ora sembra la maggiore responsabile. Penso ai movimenti francesi, tutti interni. Umanità, gettata nel deserto, altro che Heidegger. Mancano i fiori, gli unici colori sono quelli dei vestiti delle donne, case grige o color terra, tutte. Rashid vive in una casa bianca, la casa bianca…. Achmed suo figlio piccolo, sette anni, vispo, corre scalzo a piedi o in bici. Il figlio grande, spera di poter andare un giorno a vivere in Spagna, ma il visto…. Sembra di sentire i centro americani che sognano gli Usa. Qui fa il meccanico, ma guadagna poco ed è stufo. Amo il mondo, la sua bellezza e la sua sofferenza, amo i bracci di ferro, forse questo sarà il prossimo? Mi arrivano notizie da Milano, questo giovedì ancora davanti a palazzo Marino, manderò un messaggio, sono con loro. Sono sempre più convinto che ce la faremo. Hasta la victoriaaaa, de vez en cuando….
Parlo con Salma, la figlia di Rashid, di 22 anni che vive nella jaima (tenda) di fronte, suo marito, si sono sposati due mesi fa, vive in Spagna e lei non ha i permessi per raggiungerlo. Mondo cane. Separare le persone, spaccare famiglie, far pendere pezzi di carta come fonti di vita, visti e permessi. Parlavo con Rashid, gli chiedevo se vedeva analogie con la storia dei palestinesi, lui dice che i palestinesi si arricchiscono, dove vivono fanno commerci, affari…. Mi sembra che, soprattutto a Gaza, non sia una vita così facile, penso ai check point…. Mi sembrano ben poco informati, o l’erba del vicino è sempre più verde. Strano che la pensi così. Immaginate di essere un prigioniero politico Saharawi in un carcere marocchino. L’inferno? Credo proprio di si. Ho 54 anni: una media di vita di almeno mezzo mondo, eppure ho vita davanti. Vergogna. Vergogna a coloro che credono che questo sia il migliore dei mondi possibili, vergogna.
Bimbe coi grembiuli rosa, bimbi coi grembiuli azzurri, bimbi coi capelli corti corti, bimbe con trecce code e codini. Molti di loro con sopra la giacca per il freddo, alcune il cappello di lana in testa, le maestre pure, giacca o giaccone e guanti, vanno molto i guanti di pelle col pelo che esce, come nelle auto delle sorte di pellicce sul cruscotto o sui sedili, neanche fossimo in Germania. Carne di cammello, o di dromedario. Ma di cammello ne ho visto solo uno. Capre a zonzo, capre recintate. Alcune donne hanno persino dei guanti da sci, chissà da dove arrivano… Mi spiegano con grande lucidità: così come da voi le donne ci tengono ad essere belle e abbronzate, noi ci teniamo ad essere belle e più chiare possibile. Dico che l’insoddisfazione o addirittura l’infelicità umana è veramente diffusa… Ridiamo insieme. Salgo su una collinetta e vedo dal’alto una casa un po’ fuori mano, intorno un quadrato di deserto disegnato con dei sassi, 50 per 50 metri o più, intorno a casa, si ritagliano il loro pezzo di terra, senza un fiore, senza un’insalata, solo sabbia e sassi. Ricordate “C’era una volta il west”? Un uomo in mezzo al deserto ritaglia e compra un pezzo di terra, lui sa che di lì a non molto passerà la ferrovia e quel terreno varrà un sacco di soldi. Forse lo spera anche chi vive in quella casa? Chissà? E poi carcasse di auto, carcasse e carcasse, a gruppi, isolate, carcasse anche di camion. Un camion che interrato diventa una parete di un cortile intorno a casa, container che diventano magazzini, e poi discariche, filo di ferro, almeno non è spinato, ma ho visto pochi palloni, pochi. A cosa giocano? Forse anche qui coi videogiochi, ma almeno alla scuola primaria nessuno lo aveva in mano nemmeno all’uscita, meno male… Se ho capito bene mercoledì e giovedì andiamo a un matrimonio, non vedo l’ora. Ma domani spero di vedere una materna, una scuola superiore, una scuola speciale. Se l’infinito non esiste, nessuna lotta è infinita, si arriverà a una concluisione…. No hay guerra que dure cien anos (non c’è guerra che duri 100 anni) dicevano in El Salvador, qui vanno avanti da 45 anni….. Come Peltier.
Mercoledì 19, sera, ieri è stata una giornata durissima, svegliatomi e dopo poco conati di vomito violenti senza vomitare poi diarrea più volte, resto steso, ma poi mi sforzo e usciamo: andiamo a vedere un’altra scuola, io volevo vedere altri gradi, ma vabbè, torniamo in una scuola primaria. Vedo il lavoro in alcune classi, qui sono più numerose, soprattutto i piccoli arrivano oltre i 40, eppure sono attenti. Arriva l’intervallo, se ieri si erano concentrati intorno a me solo i maschi, oggi solo le bimbe. Ma lo spagnolo che parlano è davvero poco, qualcuna mastica qualche parola in italiano perché è stata in Italia. Mi era stato detto che qui era una società bilingue, non mi sembra. Direi che senza quel “corso intensivo” delle estati passate in Spagna saprebbero lo spagnolo come i nostri bimbi possono sapere l’inglese. Non mi sento bene, ma prima di tornare a casa passiamo da una materna e almeno metto il naso in tre classi. Sono tutti seduti a terra in cerchio, discreto silenzio, ripetono in coro una parola, un colore, mi guardano incuriositi, ma non si alzano. Qui si sono tutte donne. Torniamo a casa e dormo come un ghiro. Rashid mi cura. Il giorno dopo sto meglio e andiamo a questo pre-matrimonio, nella casa dello sposo, nipote di Rashid, si riuniscono i parenti, separati uomini e donne anche se a volte c’è qualche incursione… Prima sto nella tenda delle donne dove mi piazzano e, cullato dal loro vociare, mi addormento, è una grande tenda con divanetti tutto attorno. Poi passo dagli uomini, che sembrano avere meno da dirsi, più agganciati ai cellulari o più silenziosi. Le donne cianciavano in quantità, più simpatiche direi. Parlo con il fratello di Rashid, 50 anni dall’82 al ’92 visse a Cuba dove studiò. Così fu per molti bimbi che ottenevano la borsa di studio e a 12 anni partivano. Cuba aveva questo progetto nell’isola de la Juventud dove accoglieva giovani di paesi poveri del mondo, possibilmente dove c’erano lotte…
I migliori dei migliori studiavano medicina, lui studiò farmacia. Un mare di ragazzini deve essere passato per questa isola della gioventù, arrivavano da vari luoghi dell’Africa e del mondo. Tutto ciò fa sinceramente onore a Cuba. Non so cosa avessero in cambio. Anyway…. Il padre dello sposo sta nella zona occupata quindi non puo’ esserci, da due anni non lo vedono. Sta al di là del muro. Rashid nel ruolo di zio più anziano fa la parte del padre dello sposo. Tutti mangiano, io seguo la mia rigida dieta. In serata passiamo a vedere su mia richiesta l’ospedale di Smara, 50.000 abitanti. Un ferro di cavallo quadrato a piano terra di 20 metri per 20. Noto come la sala parto sia stata montata grazie ad una parrocchia romagnola, mentre l’ospedale col contributo della città di Rimini e della regione Emilia. Ci sono due gatti in casa, pulitissimi. Hanno in effetti la cassetta per fare i loro bisogni più grande del mondo. In generale uomini e donne mi sembrano molto puliti, oggi Rashid, durante la festa, passava ogni tanto a far lavare le mani o a versare su queste e in testa gocce di profumo. E’ vero, c’è sabbia che vola, ma riescono a mantenere pulite delle moquette che gli inglesi se le sognano. L’idea è che nella sala si replichi quello che era la tenda: un grande rettangolo vuoto in mezzo, uno spazio accogliente dove ci si siede ai bordi o a terra con dei cuscini o sui dei divanetti. Si sta spesso distesi a terra con un cuscino sotto un fianco e così si mangia anche. Un grande vassoio serve per 3-4 persone che mangiano tranquille con le mani o le posate. Qualcuno prepara il the che è davvero un rito elaborato. E’ come ci fosse permanentemente un diskjockey alla consolle, e invece è a fare il the. Così come spesso è elaborato il saluto tra persone care quando ci si rivede: un lungo e frammentato dialogo fatto di frasette che si sovrappongono. Me lo faccio tradurre sommariamente: “Come stai?” “Bene e tu?” “Bene grazie, come sta tua mamma e tuo papà?” “Bene grazie” “Come stanno i figli, la moglie, la salute, il lavoro… “Ecc.. un fioccare di domandine e risposte che si sovrappongono come una filastrocca. La ripetono con una pazienza enorme. A volte guardando già altrove. Come una preghiera. Con la stesa velocità con cui si dice una Ave Maria durante il rosario. Ma qui è un dialogo a due che si sovrappone. Stasera al mercato abbiamo incontrato l’uomo che mi venne a prendere in aeroporto ed è ripartito il pentolone delle loro beghe su dove dovessi andare, una tristezza che metà basta. E’ evidente che l’organizzazione fatica a tollerare “deviazioni” anche se dettate dal buon senso. Come in El Salvador quando si era tirati da una parte e dall’altra della giacchetta. “Ma tu hai detto, io non ho mai detto, ma lui cosa ti ha detto”… e via. Ai lati della strada, ma portate a spasso dal vento, spazzature colorate. Plastica che svolazza, azzurra, rosa… Una discarica. Sono stato vago nelle mie richieste dovevo essere più esplicito: se a qualcuno dici che ti interessano le scuole ti fa parlare col tale direttore o il tal altro, non capisce che vuoi vedere le scuole ed entrare e restare nelle differenti classi. Devi specificare che vuoi vedere una materna, una primaria, un liceo e una scuola per ragazzini con handicap. Forse domattina intravedrò queste due, prima del gran matrimonio.
20 febbraio: stamattina siamo andati a vedere il liceo Simon Bolivar, un liceo particolare perché è l’unico che fa tutte le lezioni in spagnolo a parte la lezione di arabo. Vi entrano i migliori della scuola primaria, fanno una selezione, ma non ci sono TOT posti, se 100 passano la selezione entrano in 100, se la passano in 60 iniziano con 60. Gli insegnanti sono quasi tutti cubani, che passano qui 3 anni tornando solo in estate, mi sarebbe molto piaciuto parlare con loro. Parte degli studenti vive 5 giorni alla settimana a scuola, altri vanno a casa tutti i giorni se abitano vicino, il giovedì pomeriggio partono i pullman che li portano a casa. Parlo coi giovani di una classe avanzata, al penultimo anno, sono rimasti una dozzina, di 45 che erano in prima, alcuni bocciati, la seconda volta devono lasciare, altri sono partiti, altri non ce la fanno. Parlano molto bene lo spagnolo, la lezione è praticamente finita, mi salutano, spiacenti l’intervallo è l’intervallo, qui come in tutto il mondo (forse solo nella scuola di Don Milani non c’era l’intervallo…). Ma mentre mi sto allontanando vengono tre ragazze e ci mettiamo a parlare, mi raccontano. Una ha la madre cubana, dicono che gli insegnanti cubani sono bravi mentre stare nel dormitorio è noioso, troppe regole. Nelle stanze sono ragazze miste per età e il rapporto è buono, in un’altra camera magari c’è qualcuna che fa la gradassa. Al pomeriggio non hanno quasi compiti, si riposano, poi fanno giochi e attività, il cibo non è un granché… Comunque è stata una visita breve, ma molto interessante.
Passiamo quindi per un centro di descapacitados mentales. La solita costruzione a ferro di cavallo, dopo che ci hanno accolti un paio di ragazzi dondolanti, affettuosi e simpatici arriva il “dottor Castro” che mette il disco come quelli delle istruzioni di emergenza alla partenza di un volo aereo. Mi mostra tutto in sequenza, non lo posso interrompere, le domande alla fine, mi mostra tutto in 13 minuti. Rashid mi viene dietro e ogni tanto scatta qualche foto, come da “protocollo”. Sarei come un’ennesima delegazione di qualcosa che è passata. In questo centro passano a prenderli alla mattina a casa e dopo pranzo li riportano indietro. Castro non mi presenta neppure uno dei ragazzi o uomini o donne che si aggirano intorno a noi. Alcune donne sono a fare lavori a maglia o imbottendo bamboline, mi sembrano solo lente, ma donne lavoratrici a tutti gli effetti. Dalle spiegazioni tutto sembra chiarissimo, in realtà per me c’è una cappa di grande tristezza. Piccoli oggetti di artigianato in vendita se sono interessato, ma dal momento che non lo sono, si dispiace. Saluti, avanti il prossimo.
Andiamo quindi alla seconda parte del matrimonio. Oggi usano anche la tenda più grande dove ci saranno le donne che mangeranno il famoso cammello. Non succede nulla di speciale, gli uomini sono belli partecipi nella cucina e nel servire, non solo le donne, meno male, penso. Rashid è quasi autistico tra telefono e the. Io mi aggiro facendo ogni tanto qualche gaffe e riprendendo dove non devo. Gli uomini, quarantenni (e per questo mi dicono è un matrimonio tranquillo senza tanto casino come farebbero dei giovani) sono in una saletta. Ad un certo punto lo sposo mi chiede se ho una penna. Notare che siamo a casa sua, gliela do, solo dopo mezz’ora scopro che, con la mia penna, in un pezzo di carta riciclata, un cartone aperto, stanno segnando i punti della vivace partita a carte che stanno facendo, sposo compreso. Il clima è abbastanza da vitelloni. Parlo con un quarantenne, un Cubarhaui come dicono loro, che ha studiato a Cuba tra i 12 e 22 anni, poi a casa, poi 3 anni in Spagna, poi 7 anni in Norvegia, dove è stato senza poter lavorare, in attesa di un permesso che non è mai arrivato, incredibile 7 anni!! Poi lo hanno rispedito a casa ammanettato in aereo. Da tre anni è qua e non vede l’ora di ripartire, come tutti, dice. “Come si fa a stare bene qua??” Ripete. E me lo diranno con diverse sfumature, con più ansia, con più rabbia, o con un sorriso, altri giovani, compresi i figli di Rashid per esempio. La difficoltà è sempre la stessa; LOS PAPELES MALEDETTI. Permessi, documenti, visti, pezzi di carta che fermano la gente, divieti misti a polizie, controlli, recinzioni, guardie, cani.
L’uomo che è stato a Cuba mi racconta degli anni bellissimi trascorsi a Cuba, ma Cuba, mi dice, non è fatta per vivere, Cuba è piacere, sole, mare, rum, donne, ballare… E allora dove metteresti radici? Gli chiedo. Lui mi dice: in Scandinavia!! Rispondo: “Con quel freddo???” Ha imparato il norvegese, e penso quindi ai miei studenti, che imparano anche la lingua e poi si prendono un calcio nel culo. Lui se lo è preso dalla Norvegia che non gli ha mai dato i documenti per poter lavorare. Se avesse lavorato in nero rischiava la galera, sul serio. In Scandinavia non si scherza. In Spagna no, lì è stato 3 anni clandestino ma raccogliere olive in Andalusia o fare qualche altro lavoretto si puo’ fare, ma anche da là ha dovuto andare via.
Mi dicono che i ricchi ci sono anche qua, gente che ha belle cucine, grandi auto, etc…E così i più poveri. Le nostre ingenuità e pregiudizi…. In serata andiamo a vedere dove sta continuando la festa del matrimonio che si è spostata nella zona dove vive la sposa. Qui c’è una sorta di concerto sotto una grande tenda. Tre uomini suonano, una decina di donne ballano e più di cento sono sedute a guardare e battere le mani. Uomini girano larghi, un po’ di bimbi e ragazzini incuriositi, alcuni più da me che dalla festa. Passa una donna velata come quasi tutte e dandomi un pizzicotto mi dice “Ehila guapo”, non capisco più nulla… Le donne sono davvero belle.
21 febbraio: un ultimo giorno alla wilaya di Smara, intenso, devo sparare tutti i botti. Stamattina, la loro domenica, dormivano tutti, sono andato a farmi un giro, iniziando da una tenda qui poco lontano dove sono esposti bandieroni Saharawi, mi sono fatto fare una foto dall’unico uomo che si aggirava e poi una anche con la bandiera no tav, un messaggio da mandare in valle. Poi a spasso, pochissime anime vive in giro, solo alcuni bimbi, alcuni che mi tirano dentro la loro tenda, dove ci sono 3 donne, forse è vero che gli uomini sono spesso via a lavorare all’estero o ronfano, e su 3 donne ce n’è quansi sempre una che parla bene lo spagnolo, così parliamo. Dopo un po’, dai paraggi, mi chiamano i figli di Rashid che però non osano entrare, chiamano da fuori, la reciproca riservatezza è molta. Saluto ed esco, colazione, poi saluto di nuovo, vado a fare un giro. Mi allontano fuori dall’accampamento verso il deserto e scopro una grande distesa di spazzatura. Due ragazzini trascinano con una corda tre scheletri di biciclette che hanno trovato, non c’è nessuna ruota, ma qualcosa ne possono cavare, chissà… Voglio documentare tutto questo così torno a casa, dove finalmente è arrivato Rashid, gli dico che voglio andare a fare un giro, che stia tranquillo, non mi perdo. Lui dice che forse dopo si torna a pranzo al matrimonio, dico che non si preoccupino per me…. Torno nel deserto e documento la marea di spazzatura, pazzesca. Come un “dopo festa”, un mare di spazzatura, qua e là anche animali morti, persino una montagnetta di bottiglie di bibite piene, coperte di mosche. Salgo su una’altura, arriva un ragazzino, dall’alto vedo quello che poi lui mi conferma essere un cimitero, mi dice di non toccare nulla, lo tranquillizzo, ma andiamo insieme a vedere, ci sono lapidi di varie fatture e cerchi a terra con dei sassi per non calpestare chi è sotterrato, parecchi cerchi piccoli indicano la morte di bimbi. In lontananza vedo un fuoco, saluto il ragazzino e mi incammino, qualcuno brucia spazzatura? In realtà è una donna, non è lei che ha fatto questo fuoco puzzolente, anzi, sottrae da questo cose commestibili per le sue capre, molto pane buttato, un sacco di riso rovesciato nella sabbia, spaghetti, pasta. L’aiuto a raccogliere in borse che ha portato, riempiamo anche con ceci secchi, mi mostra che ha raccolto anche pacchi di pasta e ceci integri, se li porterà a casa per mangiare. Trovo anche una tazza intera, dico che la terrò di ricordo, la metto nelle sue borse; notiamo insieme che tutto ciò è una vergogna, ma ridiamo anche, la aiuto, le borse sono pesantissime. Per fortuna passa un’auto che la carica, la saluto… Poi la rincorroooo: “La mia tazzaaaa!” Si apre la portiera e me la dà, ci salutiamo, vado a piedi. Camminerò per 4 ore sotto il sole, osservando, riprendendo, incrociando talvolta qualcuno, soprattutto bimbi che mi salutano da lontano, ridono, incuriositi, alcuni si avvicinano, mi dannno la mano, ci salutiamo, fanno una specie di gara a chi ha più coraggio ad avvicinarsi a me. Da una casa mi invitano dentro dopo che i bimbi mi si sono fatti più attorno, anche qui mi offrono da bere, frutta, mi fanno vedere un bimbo, Salek, nato 3 mesi fa, bellissimo. Lo fotografo, parlo con la giovane zia che è stata in Spagna, mi racconta che vengono da Dakhla, la wilaya più lontana, due ore da lì, spersa nel deserto. Molti di quelli che abitano in questa zona di Smara vengono da lì, da qualche anno vivono qui, lì era tutto più scomodo e anche le cure mediche erano più lontane, così quando una pioggia dissolse la loro casa di mattoni di fango fecero armi e bagagli e si trasferirono. Eppure rimpiangono Dakhla, mi dicono che c’era più unione lì, più solidarietà tra vicini, tutti si conoscevano, qui c’è più freddezza. Curioso come se raccontassero dinamiche nostre o forse di ovunque, tempi e luoghi segnano le relazioni, il più delle volte con nostalgia….
Cammino, mi si avvicinano due uomini, in effetti, penso, se volessero portarmi via non ci metterebbero molto. Mi chiedono invece solo se mi sono perso, li tranquillizzo, ci sorridiamo e salutiamo. Passano ogni tanto delle auto, una è guidata da una donna, sono in 5 in auto, coi bimbi, rallenta, abbassa il finestrino chiede se sono spagnolo: “Italiano” dico, “Tutto bene?” dice e prosegue… Vedo alcuni uomini bardati entrare in un luogo che presuppongo una sorta di moschea. In giro è tutto chiuso, la biblioteca, i negozi, ma soprattutto è incredibile come pur camminando per 5 ore abbia incontrato, cioè visto, non più di 20 adulti a piedi, 20 auto, e 40 bambini, camminando tutto il tempo tra case. Certo ho visto 1000 capre e una morta tirata a terra rigida e piena di mosche. Puzza. Ricordo come gli inglesi siano perfetti negli spazi pubblici, puliti e ordinatissimi, e cialtroni in quelli interni. Qui al contrario, per questo forse la gente è tutta in casa, è il loro mondo, deserto o non deserto, vento o non vento, caldo o non caldo, lo spazio è quello di casa. E mi sembra non si facciano neanche tante visite se non tra familiari, l’unità di misura è quella. La famiglia. Un po’ come un tempo forse in Sicilia o Sardegna, tra padri e compadri. Una delle ragazze che ho conosciuto mi dice che ha studiato spagnolo in Algeria, ma dopo 2 anni ha dovuto lasciare l’università…. “Sono una donna”, lo dice chiaro e tondo, ma con discreta mestizia. “Dobbiamo stare qua, occuparci della famiglia, della casa”, anche se non sposate. Parlerò con diversi giovani, me lo confermano: quasi tutti vogliono andarsene, non c’è storia, forse un tempo si trovava lavoro qua, ora nulla, si vuole andare, qui non c’è futuro. Il limite sono i permessi e la gente marcisce qui. Fame no, ma il non far nulla annichilisce. Certo, se pulissero lo spazio qua attorno. Lo faccio notare a una giovane, mi dice che lo fanno ogni tot, quando si ascolta il richiamo dell’alto parlante che dice “OGGI TUTTE A RACCOGLIERE LE SPAZZATURE…” le donne… E gli uomini? chiedo “Ci sono, ci sono anche loro – dice – quelli che guidano i camion.” Ammette che adesso ce n’è effettivamente tanta sparsa in giro, forse i camion sono rotti… Ma come mai tanta spazzatura? Chiedo…. Eh… i bimbi…. dice….. Mah…. L’uomo inventò la parola e poco dopo sorse da sé la menzogna. E dopo ancora un po’ l’ipocrisia…. forse dovremmo tornare a non parlare più…. Torno alle 15, Rashid è arrabbiato, mi hanno cercato, e se mi avessero rapito?? Credo davvero che fosse più preoccupato che mi trovasse la polizia saharawi e mi chiedesse che cosa facevo in giro. O forse è arrabbiato perché è in ritardo per il pranzo, andiamo pure dico, dopo 10 minuti si va. Ancora si sfoga, lo lascio parlare, mi sembra tutta una pantomima, oggi scherzando dicevo voglio farmi una maglietta con scritto “Andrea Libero”, non “Sahara Libero”…
Oggi ho confermato l’impressione che ci siano anche qui COME IN TUTTO IL MONDO, ricchi e poveri, c’è chi tira il cibo e chi lo ricicla. Le capre sembrano avere la funzione dei maiali, mangiano anche la plastica. Se facessero un embargo di the ai Saharawi, riprenderebbero le armi il giorno dopo. Credo che se terminassero le vacanze per i ragazzini in Spagna e le borse di studio a Cuba il famoso bilinguismo terminerebbe in fretta. Credo abbiano da ringraziare questo bilinguismo, tirato un po’ per i capelli, ma se qui parlassero solo arabo andremmo proprio male con le relazioni e la solidarietà. Dopodiché la solidarietà è una brutta bestia. Temo che se rientrassero nella loro terra in poco tempo alcuni passerebbero ad aver fame e altri diventerebbero ancora più ricchi. Queste cose non possono saltare all’occhio adesso perché ci sono troppi osservatori che si scandalizzerebbero. Insomma un bel mare di contraddizioni; come in El Salvador c’erano meno morti durante la guerra che successivamente così ora qui. Che in Marocco ci sia una dittatura fascista questo è indubbio, ma forse andrebbe combattuta insieme: marocchini e saharawi, insieme, ma questo è fuori moda, non è di moda unire le lotte, anche qua da noi, ognuno ha la sua. Molti tossiscono, io compreso. L’aria non è certo inquinata, ma i cambi di temperatura non sono uno scherzo. Nel pomeriggio sono stato alla parte finale del matrimonio, gli ultimi ospiti che mangiavano assieme, smontata la grande cucina, ne restava un’altra dove c’erano donne che si divertivano dentro con un’amplificazione, alcune ballavano, altre battevano le mani da sedute o facevano le loro grida davvero potenti. Una donna sulla porta della tenda mi dice di avvicinarmi pure, stavolta non ho nulla per riprendere, meglio così, non sono tentato, sono belle, brave, simpatiche e si divertono, una mi invita anche ad entrare, ma resto sulla porta a guardarle incantato. Dopo 10 minuti arriva un omone che mi dice che lì ci stanno solo le donne e non posso stare, mi spiace e mi allontano, con grande tristezza, per me, ma soprattutto per loro. Un giorno forse si ribelleranno. Finito l’ultimo pasto smontano la tenda che era montata per la seconda cucina, in 15 minuti, velocissimi, dei veri nomadi. Si riallontanano i macchinoni, quasi tutte mercedes. Io ho passato un’ora con diversi bimbi in età da materna, sulle ginocchia, si alternavano, avevo conquistato, a bordo casa, L’UNICA sedia dell’ambiente festa. Lì abbiamo giocato e li ho coccolati in lungo e in largo, pur senza parlare una parola in comune, il nostro linguaggio era fatto di facce, versi, suoni, urla, risate e risate. Una donna mi ha anche fatto un video. Belli e belle, con la sensazione che davvero rischino di spegnersi con gli anni; ma questo succede un po’ ovunque nel mondo, o no? A sera torno a casa e resto a vedere l’ultima luce all’orizzonte, fino a che arriva il buio, un’ultima doccia che mi tolga tutta la sabbia che mi ha coperto oggi, e ora al computer a tenere memoria. Ma se i saharawi andassero via dai campi profughi lascerebbero tutta quella spazzatura? Se fossi un algerino direi: “E’ questo il vostro ringraziamento?”
23 febbraio, Algeri, 5 di mattina, abbiamo viaggiato e ho pensato: i Saharawi potrebbero organizzare un’impresa biblica: partire a piedi in diverse decine di migliaia di persone, quelle più sane, uomini, donne, bambini, con un tot di auto a seguito che caricano tutte le loro tende e preparano l’accampamento e la cena per quelli che arrivano, attraversare i 1500 chilometri che li separano dal mare nella stagione per loro migliore, 30 km al giorno, oppure ancora più biblica camminare di notte e riposare di giorno. Arrivare al porto di Orano, sul Mediterraneo, di fronte all’Europa e affittare una nave dove salire tutti, una pigna di gente come fu quella che arrivò in Italia dall’Albania, e dire: NOI Li’ NON CI STIAMO PIU’. Noi una terra ce l’avevamo, ci è stata tolta e l’Onu ha detto che dovevamo votare, ora o ci fate fare quel benedetto referendum o diteci dove dobbiamo sbrodolarci, intanto attraversiamo il Mediterraneo. Arriveremo a Marsiglia o a Barcellona, forse meglio Barcellona, che sbandiera libertà, accoglienza, diritto all’autodeterminazione.
Erano nomadi quindi ci sono abituati, ce l’hanno nel sangue, non hanno molto da fare quindi hanno tempo, non devono viaggiare armati, sono in territorio amico. Che la solidarietà aiuti ad affittare la nave. L’attuale solidarietà invece rischia di perpetrare la situazione, mantenendola in qualche modo. E’ come se una porta potesse essere sfondata semplicemente appoggiandoci una mano sopra, si può stare così per 100 anni, forse vale la pena prendere la rincorsa e dare una spallata, senza armi, ma con la forza dei numeri e della comunicazione. Che questa sia la solidarietà una volta per tutte, e quindi potranno tornare a vedere il mare, a pescare, a fare i loro ospedali come dio comanda. Hanno sicuramente capacità organizzative, organizzarono Gdeim Izik che ebbe lo svantaggio di avvenire tutto in Marocco, dove nessuno se li filò… Chi ricorda che fu l’inizio delle primavere arabe? Tutto perché avvenne in un angolo sperduto di mondo e il Marocco ebbe gioco facile a coprire il tutto con una bella e spessa coperta. Quando dopo 5 giorni al campo di Asmara rientro al centro gestito da Rossana, appena rivedo un’amica bresciana con la quale avevo viaggiato l’abbraccio forte. Le dico: “Non so se in 54 anni ho mai passato 5 giorni senza poter sfiorare una donna!!!”. Sembra che non ci si possa abbracciare con nessuno. Io impazzisco.
Anno 2050…autunno piovoso. Il bosco offre un tappeto di foglie multicolori: il sentiero ne è disseminato, ma ne restano ancora sugli alberi, piccole fragili bandierine già arrese. Alle zampe di agili o pigri animali, le foglie non scricchiolano più, la pioggia le ha rese flosce e marce, quasi una poltiglia di fango giallo-verde mescolato al terriccio. Una stradina costeggia il bosco e un’altra lo attraversa: ad un tratto, alla svolta di un’audace curva, si congiungono, quasi vanno a sbattere muso contro muso, come due animali fuggitivi e disorientati. Nessun paia di occhi a testimoniare l’incontro, solo felci e muschio.
Ma quelle due strade hanno fissato un incontro per sempre: rigide, immobili. Si toccano, si attraversano per poi divergere di nuovo. Chissà se hanno pattuito un’intesa, si sono confidate un segreto o solo sfiorate per perdersi una volta per sempre…Presenze, presenze. Gli alberi sono quelle più antiche: dominatrici possenti vite, hanno generato altre vite. Formiche, uccelli, insetti, piccoli mammiferi e poi fiori, arbusti…un mondo completo, anche se marcescente. Il torrente, scendendo dal monte e srotolando macigni, si è affacciato alla scena ancora prima del bosco: intorno a lui tutto è germogliato…di presenza in presenza un’infinita catena a ritroso, senza poter risalire al Big Bang. Ripercorrendola in avanti, per ultimo è apparso l’uomo che ha sentito il bisogno di tracciare una o più strade nel bosco. Eppure prima di lui nessuno vi si era mai perso. Chi volava sopra, chi lo attraversava con la lentezza della lumaca, chi con la velocità della lepre, senza bussola e punti cardinali. Era sempre la propria casa: non ci si allontanava mai, non ci si perdeva mai. A volte si mangiava, a volte si veniva mangiati: sempre si andava a concimare la terra. E arrivò l’uomo! Non è riuscito ad essere con la natura, ha voluto dominarla…ma le stradine, in fondo, sono solo una tenera cosa, un bisogno di esserci, di facilitare il cammino, senza disturbare.
In quel bosco, ai piedi delle montagne, a parte le due stradine, lascito di antichi pastori che un tempo conducevano i loro greggi sulle alture e sentiero prediletto di persone solitarie e di innamorati, non c’erano tracce di opere umane.
L’autunno é avanzato e si intravedono i primi segnali dell’inverno imminente. Gli animali più pigri si preparano al lungo letargo, gli uccelli migratori hanno già spiccato il volo per terre lontane, le farfalle, dalla breve vita, sono scomparse e l’edera, cadute le foglie, ha cessato di ricoprire i tronchi e le verzure di delicate campanelle bianche, screziate di rosa, in un abbraccio mortale.
C’è un’attesa nell’aria, nel silenzio incantato, silenzio che la sottile pioggia non riesce a turbare. La natura tutta sembra interrogarsi sul suo destino: vivrò o non vivrò? E’ struggente e spasmodica la richiesta di una risposta che tarda ad arrivare…e tutto è sospeso nell’aria, come per il primo giorno del mondo. Però allora il mondo si apriva alla speranza di un’eterna primavera, ora invece presentimenti di morte si stampano nella linfa verde e nei corpi dei piccoli insetti e degli animali del bosco. Gli alberi piangono le loro lacrime di pioggia e di freddo, le goccioline a rivoletti si inseguono sui tronchi squamosi, sui rami, sulle foglie ingiallite e vanno a penetrare nella terra scura…scoiattoli, talpe, serpentelli si acciambellano nelle loro recondite tane e rifiutano agli occhi la luce…ne hanno vista e vista e basta una volta per tutte! Lasciateci dormire in santa pace! Noi veniamo forse a disturbare il vostro sonno? Scusate, scusate. I dialoghi sommessi nel bosco…
E le due stradine che si incrociano sempre rigide a fiutare la metamorfosi – soltanto un mese prima tutt’intorno c’erano movimento, vita, musica di uccelli, colori e profumi inebrianti – pensano di essere solo loro uguali nel tempo, mentre lì tutto si trasforma. Certo sono opera dell’uomo, l’essere che pretende di incidere sulla natura “ per sempre”, l’essere che pretende di essere immortale.
Ma ad un tratto, nel silenzio tintinnante, un garrito squarcia l’immobilità del cielo e il pesante grigiore: la macchia scura di un rondone taglia in due lo spazio, segnando nel cielo, come a specchio, la traiettoria del piccolo sentiero che attraversa il bosco, una freccia saettante.
Nello stesso tempo una farfalla vola al limitare del bosco, sulla piccola strada che costeggia il tratto boschivo. Il rondone, in una delle sue acrobazie, si abbassa nel volo, quasi radendo il suolo, e va a raccogliere tra le ali nere quelle della bianca farfalla. Forza e delicatezza si incontrano in un abbraccio improvviso e disorientante di corpi vivi nel volo. Ciascuno dei due esseri si sorprende imbarazzato e desideroso di recuperare il suo spazio, la sua integrità, e si ritrae ma subito dopo freme dal desiderio di replicare il contatto. Farfalla e rondone sono dei sopravvissuti, i loro simili hanno già concluso la breve esistenza oppure sono migrati in terre lontane, dal clima accogliente. Solo loro sono rimasti a quelle latitudini, nel rigore dell’inverno imminente. Ma perché? Perché non seguire il comportamento dei compagni che da tempi remoti si ripete e che attiene alla conservazione della vita? Un mistero unisce le due creature in un insolito e comune destino! Forse un’amnesia dell’istinto destinata a portarli a morte certa? Oppure un atto coraggioso di volontà, la bacchetta magica di tutti i giorni? L’incontro inaspettato ha scatenato mille dubbi e ciascuno teme sadiocosa. Lunghi e incerti sguardi…Incomincia il rondone con un timido rito di corteggiamento, vola intorno alla farfalla, ma non è abituato a volare basso e a percorrere piccoli spazi concentrici, bensì a puntare all’immenso cielo azzurro intrecciando con i compagni mille trine nere. Solo così si sentiva libero e felice, ma ora una forza irresistibile lo porta in altra direzione. Anche la piccola farfalla, del resto, lo asseconda e cerca di elevare il suo volo quasi all’altezza dei rami più bassi degli alberi, colta da ugual sentimento. Il rondone vede la farfalla tremare di gioia, allora distende le sue ali protettrici e la farfalla prontamente vi si incunea, e non più per caso, sentendosi entrambi pervadere da un senso di accoglienza. Cercano ora un rifugio nella fessura del tronco di una vecchia quercia e a lungo si raccontano…Le stradine del bosco sbirciano in tutte le direzioni, vorrebbero divincolarsi, rincantucciarsi l’una nell’altra, ma si sono perse d’immobilità…
L’INVITO
La donna si sveglia di soprassalto, guarda l’orologio: è mattina tarda ormai! Quella notte aveva sofferto di insonnia, i soliti pensieri fissi che le disturbavano il sonno! Era sola e viveva di preoccupazioni e di ansie. Riusciva comunque a sognare in quelle poche ore di sonno dall’alba al risveglio, e non sempre erano sogni rassicuranti! Quella notte, infatti, una invasata ipnotizzatrice le aveva letteralmente inculcato la paura folle di avere ormai poco tempo di vita e di dover portare a termine con urgenza una missione: scrivere un testo teatrale per uno spettacolo che si doveva rappresentare su un grande palco, in una regione imprecisata del mondo, in una località ancora meno definita. Nella mente della donna tutto era vago, il sogno lo era per i suoi contorni indistinti, ma nello stesso tempo il messaggio trasmessole aveva una forza assoluta e un mandato indiscutibile. Pertanto la signora si preparò un caffè molto forte e si mise subito al lavoro. Lei non era una scrittrice, tuttavia prese un foglio ed una penna e pensò: qualcosa mi verrà in mente…Dopo un’ora la pagina era ancora del tutto bianca, tra l’altro nessun suggerimento le era stato fornito sul soggetto. Sconforto e terrore cominciarono ad impadronirsi di lei. L’orologio scandiva senza tregua il trascorrere del tempo e lei non riusciva a sfornare la più piccola idea! Era una questione di vita o di morte arrivare al più presto allo scopo…ma perché, se doveva comunque morire? I sogni vai a capirli! Bisognava almeno pensare ad un nome, ad un titolo che l’avrebbe magari ispirata e poi forse tutto sarebbe stato più semplice. La donna strinse forte la penna nel pugno e scrisse di getto una sola parola: Pagnotta. Fu come accendere uno schermo: apparve il Paggio Pagnotta di dimensioni umane, pervaso da un intenso profumo di menta e avvolto da un mantello di color verde, dal bavero rubino. Incantevole ed enigmatico…la piccola stanza si allargò e prese le dimensioni di una vasta foresta profumata, attraversata da un impetuoso corso d’acqua!
Lo strano essere, mangereccio e fluviale, si rivolse direttamente alla donna molto sorpresa (aveva, nonostante l’aspetto, la voce severa):
– Ero qua ad osservarti da molto tempo, tu non mi vedevi, ma poi mi hai invocato, eccomi qua: hai bisogno di aiuto e l’avrai, ma devi anche farti guidare…le cose non vanno mai o quasi mai secondo i piani degli uomini! Ma sbrigati, hai già perso troppo tempo in cose ingannevoli. Ti suggerirò le informazioni esatte che da tempo cercavi. Prendi la mappa della Terra, c’è un luogo, piccolo punto del nostro pianeta, dove sei attesa. E’ situato in prossimità del mare e verdi colline lo incorniciano. Là si erge un palco costruito dalla natura: uno spiazzo elevato e protetto da antichissimi lecci e querce. Vai e saprai: ti aspetta un velivolo e il pilota è già pronto a condurti!-
La donna si sente confusa e smarrita: dovrebbe partire subito, lasciare tutto per una destinazione ignota e per una missione ancora più ignota? Ha un momento di esitazione, ma sa di non avere alternative, il suo cuore batte forte, ha molta paura ma deve. All’ultimo momento afferra una borsettina con qualche soldo e una carta d’identità, non poteva sapere di qualche controllo di frontiera. Intanto l’autorevole e appetibile Paggio si rende di nuovo invisibile e la donna spaventata si precipita all’esterno dove una cornacchia dalle ali spiegate la incoraggia impaziente a salirle sul dorso. Solo un fugace pensiero: ma quanto scomoda sarò? Si vola! Si vola! La signora prova a rilassarsi perché deve pur affrontare la situazione con calma; le penne del capo, a cui è aggrappata, sono alquanto ruvide! Intanto ha il tempo di riflettere con apprensione che, se ci doveva essere una rappresentazione, di essa esisteva solo il titolo: Pagnotta, ma senza testo, ovvero molto conciso. Qualcuno avrebbe provveduto a tutto, spera, l’importante ora era restare calmi e farsi trasportare! Non si può scegliere il mezzo di trasporto come è inutile opporsi al destino. Tira un profondo respiro, ma è troppo presto per prendere fiato, l’uccello è investito da tremende scariche elettriche e una formidabile tempesta si abbatte sul piccolo velivolo. Fortunatamente il pilota – quanto lo stava rivalutando il suo uccello trasportatore!- sa tenere la rotta e passa indenne tra bagliori sinistri e sconquassi…Il cielo ora si rischiara e appare molto in basso la Terra, tra bianchi vapori; la cornacchia si appresta ad atterrare e la donna vede avvicinarsi la meta. Si tiene stretta, trema, ma l’atterraggio è abbastanza indolore, solo un divertente ruzzolone alla fine. Quando sbarca, si aggiusta i capelli, raccoglie la borsettina e vorrebbe ringraziare il volatile ma non ne ha il tempo, subito un gran rumoreggiare di mare e di genti la travolge: vede molte persone, centinaia, migliaia, sedute in cerchio intorno a un grande palco naturale. Dal colore della pelle, dagli abbigliamenti e dal risuonare delle più svariate lingue, capisce che provengono da ogni angolo del pianeta. Anche lei si ritrova seduta tra loro, è una di loro: una donna bianca del vecchio continente…Tutti giunti lì dalle regioni più lontane e, viene a sapere – le barriere linguistiche azzerate – con un invito particolare tutti sollecitati a scrivere il testo per una rappresentazione. Nessuno, si capiva dai volti preoccupati, era riuscito a portare a termine la consegna. Il mare ai piedi della grande collina occhieggiava tra scintillii di luce e sembrava divertito. Tra i mille interrogativi dei presenti, all’improvviso si fa silenzio e una quasi certezza: era quello l’incantevole spettacolo promesso, si presentava ai loro occhi: genti e mare da amare… Già scritto il copione, a caratteri di liquide onde increspate, un gigante a tracciarne la trama? Lor solo chiamati a rifletterlo: insieme autori, attori e pubblico? Ormai era lì e non le dispiaceva; sciogliere l’intero enigma era impossibile, pensa la donna. Quanto era lontano il suo piccolo mondo! Poteva anche sbarazzarsi della borsettina, nessuno lì chiedeva documenti, si sentiva a casa e si rifletteva in tutto ciò che vedeva, non distingueva più onde occhi mani…e infine: ”Pagnotta per tutti!”
Il vecchio si ferma impietrito appena la vede comparire: una ragazza così bella, così fine, ma dallo sguardo decisamente sprezzante. La conosce soltanto da un mese ed è riuscita a sconvolgere la sua esistenza: deve far leva su tutto il suo sangue freddo per affrontarla. L’uomo in tasca tiene un’arma, ma è solo un giocattolo, una pistola ad acqua per spruzzare i ciclamini d’estate; nel caso la situazione precipitasse, solo allora sarebbe pronto a puntargliela contro. Che stress! Neanche da bambino amava giocare ai soldatini, preferendo unirsi ai giochi tranquilli e fantasiosi della bambine. E ancora molto giovane aveva scelto di occuparsi di fiori e di piante: una vera passione! Così aveva messo in piedi il suo vivaio, la sua serra, il suo giardino! Un paradiso verde dove dimenticare il mondo intero…Ma poi era arrivata lei, quella rompiscatole, in seguito ad una inserzione sul giornale in cui il vecchio, dopo molti ripensamenti, si era deciso ad offrire un lavoro, solo per i mesi estivi, ad un giovane volonteroso e preparato sul mondo delle piante. Si era presentata lei, aveva tutte le credenziali in regola: era iscritta al terzo anno di Botanica presso l’Università di Genova, aveva sostenuto parecchi esami, inoltre era carina e con un volto pulito. Particolare importante: aveva le mani curate, ma prive di smalto. L’aveva assunta. Ma ora, tornando al presente, bisognava dare prova di decisione, ora che aveva avuto modo di aprire bene gli occhi e che il sogno di aver trovato un’aiutante capace si era trasformato in un incubo!..
Il vecchio si arresta davanti alla donna, divaricando le gambe e così rimane per qualche istante senza fiatare e poi urla: “Dove sono spariti i miei gerani? E l’intero sottobosco di rosmarino? E le palme nane? E le azalee? ”.
E lei, di rimando: “Ma cosa sta farneticando? Non ho sottratto proprio niente! Se si riferisce alle fotografie che ho scattato ai suoi beniamini con la mia antiquata macchina fotografica, di mio nonno per la precisione, solo per conservare un ricordo di questa estate, ecco qua il corpo del reato!”. Ed estrae dalla tasca dei jeans un mazzo di fotografie, ficcandoglielo in mano con una certa rabbia, “Qua ci sono anche i negativi. E non mi dica che è un episodio di pirateria botanica: mi facci il piacere, direbbe Totò! Era il caso di convocarmi qui, in cima alla collina, al solleone di mezzogiorno per una fandonia simile? Cosa sarei io? Una ladra di immagini vegetali per conto della CIA? Suvvia, rinsavisca, qui tra un po’ arrostiamo come capponi di natale”.
“Mi passi in fretta quel materiale e non alzi troppo la voce con me, un po’ di rispetto per gli anziani!” “E lei rispetti i giovani: non siamo tutti approfittatori!”. Ma poi guarda l’orologio e, con un tono più conciliante, “A proposito, è l’ora di pranzo e lei, con le sue fantasie, mi ha fatto venire appetito. Che ne dice di andare a mangiare un boccone insieme? Accetterò volentieri il suo invito, anche se ho preso io l’iniziativa”.
“Furba la signorina! Così vuole anche scroccarmi un pranzo: accetto per poter mettere in chiaro alcune cosette con lei, ma da buon genovese paghiamo alla romana”. “Anche tirchio!!”.
La tempesta sembra essere finita in un bicchiere d’acqua e i due si apprestano a ridiscendere il tortuoso sentiero tracciato tra le terrazze, senza incontrare anima viva, muti come pesci di quel mare che da lontano sembra una distesa di verdi brillanti. Sul loro cammino affrontano dapprima una secca radura assolata, poi oliveti ed alberi da frutta, infine un tratto boschivo di lecci, castani, con sottobosco di ginestre, eriche e corbezzoli finché raggiungono le prime case del borgo ligure.
Si siedono immusoniti all’unico tavolino ancora libero della trattoria “Cuore Matto”, dove si può consumare un discreto menù a €10, insomma il più economico della piazza, e nel giardino esterno, sotto a un pergolato di glicine. Il mare non perde di vista i due “sorvegliati speciali” col suo occhio verde smeraldo!
Arriva la sciura Nana, la proprietaria, e raccoglie gli ordinativi: farfalle al pesto e frittata di verdure per lei che si è convertita alla cucina vegetariana e pasta al pomodoro e platessa per lui. Sono d’accordo su un quartino di vino rosso a testa. La cucina è semplice ma curata.
Arrivati al caffè, lui dà seguito al suo malumore: “E allora si può sapere perché mi ha sottratto fiori e piante? L’ho assunta dopo lunga riflessione perché il lavoro era diventato troppo pesante per me: ho sempre sbrigato tutto da solo, ma ora gli anni si fanno sentire. Recentemente il personale della Cooperativa si interessa di floricoltura e di vendite, così mi dà la possibilità di realizzare il mio progetto di giardino mediterraneo. Cercavo da lei solo collaborazione, perché vuole carpire i miei segreti?” . “Ma non dica sciocchezze! Riconosco che la sua serra è l’ultimo eden: tutto da lei sembra selvaggio e nello stesso tempo curato, uno straordinario equilibrio tra l’opera della natura e quella dell’uomo! Lei è un autodidatta, dotato di un grande talento naturale e il suo pollice non è verde, é divino!”. “Non si sprechi in complimenti, mi dica piuttosto perché l’ha fatto, se non mi dà una spiegazione, può ritenersi licenziata!”. “La prego non lo pensi nemmeno, con i suoi tiratissimi soldi, intendo pagarmi le tasse universitarie. Guardi che noi giovani abbiamo davanti un futuro molto precario e non possiamo permetterci di perdere un posto, seppur temporaneo, di lavoro! Può forse lamentarsi di come svolgo le mansioni che mi ha affidato?”. “ Non cambi discorso, mi dica delle fotografie!”. “Le ho già spiegato da cosa sono stata motivata: sono rimasta strabiliata davanti al suo giardino, peraltro a tutti sconosciuto, con tanto di cartelli che ne vietano l’accesso; così mi sono “armata” di una macchina fotografica per avere un riscontro oggettivo a quanto vedevo, tutto qui!”. “Ah, ha dato occhi per un puro desiderio contemplativo! Ed io dovrei credere a tanto candore?”. E intanto alza il tono della voce e gli avventori li guardano incuriositi: una strana coppia quella, potrebbero essere nonno e nipote, ma pensano a tutt’altro; lei si accorge e sottovoce: “La smetta di sclerare, tra un po’ diventiamo lo zimbello pubblico!” e tenta di calmarlo appoggiando la mano sul suo braccio…“ Può fidarsi di me, amo quanto lei fiori e piante e volevo suggerirle di partecipare alla prossima edizione di Euroflora a Genova, otterrebbe degli straordinari riconoscimenti”. “Ma insomma la smetta di adularmi, mi dica la verità o la denuncio!!” .“Così farebbe ridere il mondo intero, andiamo si calmi, le ho consegnato le foto e i negativi ma, alla fine, di cosa ha paura?”. Intanto tra sé pensa che in effetti l’aveva visto spesso trafficare in un angolo della serra, dove anche a lei era stato vietato l’accesso. Non è che vi coltivava la pianta del papavero? Teme di essere scoperto e finge di essere preoccupato per innocue immagini di fiori e di piante? La ragazza si fa sospettosa…Nel frattempo quasi tutti gli avventori sono spariti e a loro non resta che pagare il conto, se non vogliono attirare troppo l’attenzione della locandiera. Fanno per estrarre i portafogli dalle tasche, ma il pover’uomo si ritrova tra le mani la scordata pistola ad acqua; la ragazza la vede: “E’ con quella che voleva minacciarmi? Magari! Una bella spruzzata d’acqua e, col caldo che faceva lassù, almeno mi sarei rinfrescata!”. Scoppia in una fragorosa risata. “Ma che film si era fatto?”. La ragazza non smette più di ridere e quando è il momento di pagare si rende conto che lui, sì lui il delinquente, non dispone di un soldo, visto che continua a frugare nella tasca, sperando forse in qualche passaggio segreto. A quel punto la giovane salda il conto per entrambi. Il vecchio diventa rosso come un peperone. Che figuraccia! “Ma forse – pensa – aveva esagerato a considerare tanto male quella ragazza. Ora l’aveva tolto d’imbarazzo davanti alla sciura Nana e poi bisognava riconoscere che lei, così giovane, con le piante ci sapeva fare! A furia di vivere solo come un orso, come ormai succedeva da anni, da quando la moglie era scomparsa, riconoscendo solo i vegetali come amici, diffidava di tutti…Si sente smascherato e completamente disarmato, così gli vacillano le gambe e ritorna a sedersi. La giovane chiede: “Tutto a posto? Vuole magari un amaro?”. “No, grazie, è solo la pressione che a volte mi gioca brutti scherzi: gli anni, sa! Ma è tutto passato, andiamo! Voglio mostrarle una cosa…”. E i due si incamminano sul sentiero assolato, mentre il mare in fondo al carruggio ha i riflessi verde-abbaglianti di un gioiello Inca. Nessuno dei due ha voglia di parlare: lui riflette sulla sua intera esistenza, lei sul suo incerto futuro, entrambi nutrono la speranza di avere trovato nell’altro un amico. Una volta arrivati alla serra, lui le chiede di attendere un attimo, poi la invita ad entrare proprio in quell’angolo appartato fino ad allora a lei inaccessibile…e là la sorpresa delle sorprese! Si ritrova immersa in un vivaio di magnifiche orchidee dalle forme strabilianti, con occhi e bocche sulle corolle sorridenti. I primi fiori dal volto umano e sprigionanti una misteriosa luce verde…Non si era mai visto!! Lei trattiene le lacrime e lui ride, altrettanto commosso, e racconta dei tanti anni dedicati a raggiungere quel risultato: le sue bambine-fiori erano tutta la sua ragione di vita, la sua famiglia! Ma ora vuole condividerle con lei. La giovane donna esulta di gioia, ma poi, in quanto botanica, vuole sapere ogni particolare della ricerca portata avanti da quello che ormai considera il suo maestro. Per ore ed ore i due si parlano, finché non si fa notte. Quei fiori dovevano essere portati fuori, nel mondo, dove poter recare conforto con il loro sorriso a molte persone sole, malate o semplicemente tristi! La ragazza spera inoltre che un giorno la serra-giardino, ampliandosi, avrebbe dato lavoro a molti altri giovani. Si accordano infine di portare le orchidee al più vicino mercato dei fiori, l’indomani…E’ notte ma il mare scuro da lontano è disseminato di pagliuzze verdi…sarà la luna…sarà un sogno…
Corvetto,
fiume di asprezza
e tenerezza...
Anime si rincorrono
nella corrente impetuosa
e corpi pesanti
sprofondano.
Il “Corvetto odia”?
Sagome da tiro al bersaglio
sfilano mute,
separate eppur unite
da rabbie e da paure,
per confluire sulla zattera
del lungo Viale alberato,
una precaria zona franca!..
Sulle ombreggiate panchine
c’è chi chiede aiuto
e, magari, lo respinge,
chi agonizza,
chi, viaggiatore, conclude
la sua vita in gran saggezza,
chi ride forte, sfidando la malasorte,
chi spazza il “Viale-Casa comune”
e chi discetta
di pane e di terre lontane,
di sfratti e di case vuote,
di salute alla salute,
di figli amari,
di ricordi dolci...
Di quale futuro?
Intanto un virus novello,
sfuggito all’umano,
svolta l’angolo
tra un platano e un ibisco...
“Ci stai forse spiando?”
esplode un coro esorcizzante
dai sedili vocianti!
Vi s’aggira persino un fantasma,
-fuori, fuori dal coro!-
trasformista dai mille volti
e viscido ladro di vecchietti...
E poi? Che fare?
E’ una chiara sera estiva...
prendere il volo
sulle ali velocilente
di una bicicletta sfrecciante
verso verde periferia
Ciao Corvetto, ciao...
La teoria etologica dell’aggressività (naturalismo etologico) afferma che la violenza è connaturata all’essere animale, quindi all’essere umano in quanto animale. Ma per fare una distinzione: gli animali, per la difesa e l’offesa, utilizzano come strumenti parti del corpo: gli artigli, i denti, le corna, il veleno, ma anche il mimetizzarsi, la corsa, il salto…L’uomo, grazie alla sua particolare intelligenza, oltre all’uso del corpo, per altro abbastanza fragile e indifeso, si è subito attivato a trovare o a inventare mezzi di attacco e di difesa, come la pietra, la clava, l’arco e le frecce…Era ancora raccoglitore-cacciatore, ma poi con l’affermarsi dell’agricoltura ebbe bisogno di strumenti e materiali per il lavoro della terra e per la difesa dei confini delle proprietà più solidi e mirati, forgiati nel fuoco, i metalli, per ultimo il ferro. Al periodo neolitico alcuni studiosi fanno risalire l’affermarsi di alcune caratteristiche di base delle società umane attraverso il tempo, con poche eccezioni: proprietà, classi sociali, stato, guerra. Senz’altro la violenza, pur insita nella natura dell’uomo, ha fatto un vero “salto di qualità” con la pratica delle guerre. La guerra infatti comportò subito l’agire in gruppi piuttosto estesi contro altri per difendere gli interessi di un singolo o di una collettività; questo fatto comportò, a sua volta, la scelta o l’imposizione di capi, la schiavizzazione di una parte della popolazione (spesso quella vinta) per farne lavoratori e soldati e il perfezionamento di strumenti e tecniche legate alla guerra, cioè le armi e le strategie militari. Così nell’arco dei secoli, dall’invenzione della polvere da sparo ma soprattutto dalla rivoluzione industriale e tecnologica si è verificato il vero (irreversibile!?) “salto di qualità” nel tipo di violenza impiegata per la conservazione e lo sviluppo dell’apparato economico-sociale e dei suoi privilegi. Una parabola mortale giunta al suo culmine con la costruzione e l’utilizzo per le guerre recenti di armi di distruzione di massa, ma non ancora conclusa se si pensa alle attuali diciottomila testate nucleari imboscate in vari luoghi del pianeta, alle armi chimiche e batteriologiche, alle armi inquinanti ed elettroniche, apparentemente innocue perché non necessariamente esplodono, distruttive dell’ambiente e dei cervelli. Sembra così evidenziarsi una contraddizione: la natura ha dotato l’uomo soprattutto della forza dell’intelligenza ma le sue creazioni tecnologiche, nel campo militare e non solo, viste le conseguenze, spesso negano la stessa, rischiando di vanificare i traguardi raggiunti dall’uomo nel campo scientifico, tecnico, artistico e soprattutto etico, perché sottomessi o strumentalizzati dalla onnipotenza della violenza politica-economica-militare. Infatti queste armi, non solo non tengono conto delle leggi naturali e morali, che sono alla base della vita e della convivenza umana nell’interesse collettivo, ma anche di interessi particolari, arrivando alla fine, come si teme ed è prevedibile, alla distruzione dell’intero pianeta. Armi impiegate ormai in una guerra globale ed infinita arrivando l’uomo, per giustificarla, a scomodare dio in persona, che la vorrebbe santa, crociata, giusta, umanitaria, chirurgica…Insomma intelligenza schierata contro intelligenza. Un’intelligenza umana schizofrenica, ormai malata e che soffre di un gigantesco isolamento. Si può anche pensare ad un muscolo sano, dove poi alcune cellule si siano accresciute a dismisura, come per il cancro, comparso, penso non a caso, con l’avvento sulla scena del mondo dei due conflitti mondiali. Una violenza malata da esasperato antropocentrismo ai danni della natura: dove anche all’interno della comunità umana si sono create gerarchie, centri di potere, classi sociali disparate. La violenza umana, pertanto, come manifestazione naturale dell’uomo e congeniale agli equilibri vitali nelle relazioni ambientali e sociali, è lentamente, ma inesorabilmente accelerando il suo corso nell’ultimo secolo, uscita fuori, degenerata… Perciò mi trovo del tutto d’accordo con Gino Strada, dell’associazione “Medici senza frontiere” (ma anche con don Milani che scrisse una lettera contro i cappellani militari che benedivano le armi) quando affermava: “La guerra è una malattia mortale e deve essere debellata”, come la peste e la lebbra che hanno imperversato per secoli, ma di cui infine si sono trovate le cure. L’attuale guerra globale, inoltre, è talmente pervasiva da entrare, come minaccia incombente, in ogni manifestazione comunicativa e richiederebbe maggiore attenzione da parte di tutti noi: uomini comuni di buona volontà, medici, psichiatri, scienziati, religiosi, artisti e non solo da parte degli uomini politici -che spesso risultano essere tra i diffusori del contagio- come si fa con i malati…Sembra che ogni società (così come il potere l’ha modellata) abbia “la sua guerra”, ovvero la guerra che “si merita” e che entrambe si riflettano nello stesso specchio come anime gemelle. Le colpe, e sempre ci sono nelle guerre imperialiste, sono gli innocenti a pagarle in termini di vite umane, di mutilazioni, sofferenze psichiche e psicosomatiche..capita allora che il bambino muoia in tenera età per malattia, fame, ferite, mentre il criminale di guerra arrivi ricco e centenario. Sembra che il senso di colpa esista raramente tra i sintomi salutari dei veri e convinti “malati di guerra”. Una malattia strana, non umana…
DIVAGAZIONE (in tema)
Ho letto recentemente un romanzo di Amélie Nothomb, un’autrice che spesso rivolge l’attenzione a tematiche del nostro tempo, in questo caso la guerra, ma con uno sguardo “obliquo”, presa com’è dalla narrazione di un io irrisolto e problematico, tuttavia proprio per questa ragione, dato l’approccio apparentemente casuale all’argomento, risulta spesso molto convincente. Nel suo romanzo, “Una forma di vita” (Editore Voland), Amélie Notomb mette in risalto alcuni risvolti morbosi presenti nelle abitudini dei militari, poco noti come invece possono essere i ben noti disturbi psichiatrici spesso presenti nei reduci di ritorno alla vita civile o gli effetti sul fisico dei medesimi derivati dall’uso prolungato di armi all’uranio impoverito…Attraverso un carteggio (reale o espediente letterario?) tra la scrittrice e uno dei suoi numerosi fan lettori, fantomatico militare americano di stanza a Bagdad dal 1999 al 2010 durante la guerra nel Golfo, vengono portate alla luce le sregolate abitudini alimentari di numerosi soldati, sottaciute per ovvi motivi dallo stato maggiore dell’esercito (troppo lontano il modello Rambo), e le medesime abitudini da parte di persone giovani sul fronte di una vita quotidiana vissuta sotto l’egida della pace, ma svuotata di prospettive e di valori, proprio nella brillante società USA. Le due situazioni, dell’essere militare e dell’essere civile, finiscono per combaciare nella stessa persona, in un acrobatico finale a sorpresa a cui l’autrice ha abituato i suoi lettori. La malattia in questione è la bulimia, la grande obesità, che, nella sua drammatica disarmonia, per chi ne soffre assume significati molteplici e simbolici (atto di autopunizione per le atrocità commesse, atto di accusa verso chi le comanda, volontà di protesta, “sublimazione” della rabbia e della paura, incorporazione delle vittime, esternazione della voracità imperialistica…) e denuncia l’impossibilità di tollerare situazioni dove è richiesta una ferocia disumana da parte persino di soldati mercenari spesso arruolatisi come ripiego dopo la ricerca vana di un lavoro…Ma succede anche a molte altre persone che, mai allontanatesi da casa, nella società del benessere per eccellenza e risucchiate dalle offerte consumistiche-elettroniche, finiscono con l’isolarsi in una stanza davanti a un computer, in un loro mondo virtuale, ingabbiati senza alternative e senza speranze a vedere il proprio corpo accrescersi a dismisura, fuori da ogni possibile controllo.
Mi sembra che il tragico esempio del bulimico in guerra, che sia sotto le armi o inchiodato alla scrivania, renda bene la convinzione di Gino Strada che la guerra sia il piu’ grande morbo di cui soffre l’umanità… Il coraggioso medico è oggi scomparso, ma speriamo che il suo impegno nell’attivismo pacifico contro le guerre a fianco delle vittime sia propulsivo..
Quando gli inverni erano tanto rigidi,
bambina,
di ritorno dalla scuola o dalla spesa,
sulla stufa di ghisa strofinavo le dita
finché di geloni paonazze.
La legna crepitava, ma l’ampio locale
della vecchia osteria poco si scaldava…
Fortuna c’erano le ascelle della nonna
che non perdeva mai la sua postazione
sul treppiedi vicino alla fiamma
e, invitante,
accoglieva il pulcino intirizzito tra le sue ali
calde di piuma.
Dietro di me si formava la fila
per assaporare quel calore di chioccia...
Alla vecchia stufa il cuore batteva forte:
su un ripiano di ferro richiuso da uno sportello,
proprio vicino alle braci, gelosa, accoglieva
le ”schisette” di avventori infreddoliti
con la frugale cena
e dal ripiano di sopra profumava l’aria,
mescolando gli aromi
di cibi, di corpi, di fumo, di vino
a quelli d’arancia e di mandarino...
Era un vecchio trani del nord
intriso della terra del sud.
E di antiche storie
stufa, o nonna che sia,
raccontava:
di terre di briganti
di migrazioni per oceano
e di gelide contrade,
lei fragile precaria
il porto rosseggiante
in un’ansa ventosa
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