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Dieci poesie

di Umberto Di Donato

Prima dei versi, qualche considerazione in via preliminare-.

*
Usciamo da un equivoco: si afferma che chi scrive vuole farsi leggere. È vero, ma dipende da chi. Per quel che mi riguarda, condivido totalmente ciò che Mandel’štam dice benissimo nelle poche pagine del saggio Sull’Interlocutore. Completando il quadro, aggiungo soltanto che alcuni profeti, spirituali, maestri da strapazzo, riconoscono alla poesia doti universalmente salvifiche, qualità magiche, terapeutiche, curative, basta mettersi all’ascolto. Io non ci credo, l’universale puzza di complotto, ed in più dico che il poeta non è la poesia, ma compone poesie, ripeto, non è la poesia, così come una fonte non è l’acqua. È quest’ultima che noi dovremmo bere, non la cannella. I poeti che profetizzano, che salvificano, che fanno sermoni, in realtà vogliono essere bevuti; e possiamo noi lettori in verità non soddisfarli!? Ora, ponendoci dal punto di vista dei singoli testi, gli unici a dare qualche minima certezza, si può sostenere che se non vengono letti non hanno vita? Non lo so, ma comunque è un loro problema, non il mio, ed in definitiva non di chi le scrive. 

**
Il gesto, l’azione senza frutto, un interlocutore ipotetico, un altro me. Lotta serrata alle piccole vanità. 
Mi preoccuperebbe molto sapere che un mio testo possa emozionare chi frequenta i teatri, i cinema, i festival, gli eventi, i luoghi deputati alla cultura. Anche il libro è un luogo deputato. Il libro non è l’opera, è un supporto, e la possibilità della fruizione attraverso il supporto influenza la collocazione, la distribuzione, induce ad organizzare i singoli testi nello spazio del commercio. Io stesso ho commerciato nella mia preistoria testuale, soggiogato dal libro/supporto e pensandolo nelle mani di qualcuno. Ho recintato, secondo una logica indotta dall’esterno, dodici anni di esperimenti in quattro libri che materialmente non esistono ancora: Motore a combustione interna (1993-2002), Fossa comune (lugliosettembre 2001), Per fortuna non lavoro (2003), Reo confesso (2003-2005). Ormai il danno è fatto.

Vigliacco! 

Poi ho capito. Niente più organizzazione, sequenza esclusivamente cronologica. Massima concessione: titolo alla sequenza per connotare l’arco temporale, per connotarlo a me (ma non ne sono ancora certo). Ridurre al minimo la schiavitù. 

Nel 2004 scrissi questo testo:

“In verità è il poeta che ammazza la poesia, la violenta, la percuote, è la sua voglia di piedistallo. Quando il poeta contemporaneo va in televisione, ed aspira ad andarci, viene schiacciato nei ritmi serrati della distruzione scientifica, della telecamera crematoria. Poi la pubblicità, che rappresenta il momento in cui l’immagine si sposta dalla piramide dei cadaveri al fumo delle ciminiere di Auschwitz.

Anche nel libro vive lo spirito del gulag, del lager: l’ordine, la disciplina, la sequenzialità degli atti, le sezioni, multipli e sottomultipli; la morte. Ma è una morte che ha in potenzialità la sua resurrezione. Per me il libro, cioè quel tanto d’ordine che si cerca di dare al naturale spirito da fuggiasco del poetare, è il box con recinzione morbida in cui si mettono i bambini. Essi stanno lì, giocano, piangono, si aggrappano alla rete, ma siamo certi che cresceranno, che supereranno il varco. E poi il filo spinato/copertina non è attraversato dall’elettricità. Toccandolo non si corre il rischio di essere folgorati.”.

Adesso lo integro e lo supero nella direzione sopra esposta.

1

Il mio è un lavoro di concetto,
ma so che alcuni
lavori manuali sono
davvero tremendi per cui penso
che tutti vogliono andare in ufficio.
Invece no: «mai otto
ore in galera, meglio
spargere col caldo nero catrame».
 
Il problema non è il concetto oppure il manuale,
ma quell'otto,10,12,
così come sei ore a scuola [e che strazio fu per me la scuola!].
 
Riformare: competenze, competizione, i migliori,
che nove volte su dieci non sono
figli di poveri o quasi poveri.
Sburocratizzare: che vuol dire
sostanzialmente tagliare senza
risolvere il problema perché i tempi
lunghi sono nelle procedure.
 
Io ho risolto in questo modo:
ho un impiego, ma non lavoro,
o comunque lavoro poco
-e per piacere non si sparga
troppo in giro la voce-.
 
Desiderare un lavoro. Incredibile!
 
«Che lavoro vuoi fare da grande?».
Così comincia presto la rovina.
 
Io volevo fare il terrorista, ma poi
ho ripiegato sul pubblico impiego.
 
Chiedo comunque aiuto.
 
Bisaccia, 02.04.2021, ore 09.00-09.30, stanzetta, in tv si parla di lavoro e di riforme.




2
 
I versi che scendono troppo
nel presente hanno di certo vita breve.
Ma non importa,
nun me ne fréca pròbbie niénde.
 
Morire violentemente mentre si lavora!
 
Io sto lavorando, seduto, senza
gocce di sudore sulla fronte.
 
Si lavora non più solo  
per mangiare, ma per tanti
piccoli bisogni singolari.
 
Ipocrita! Eppure la mia
colpevolezza è poca cosa
rispetto a chi dirige/arricchisce/imprende,
governa o vuole governare
[poca cosa ho detto, si badi,
e il poco è un essere comunque].
 
Amministrare il contingente, va bene, è giusto,
ma un po' si può pensare
-dico un po', un nonnulla- a come lavorare tutti meno,
ad alternarci tra fabbrica e concetto, a costruire
guardandoci negli occhi quel futuro
che a me non appartiene?
 
Non ci serve più governo,
ma un governo amorevole che dica:
«non avete bisogno di me».
 
Non capisco, non avviene nulla.
 
Io ho un programma, minimo, di annientamento,
velleitario forse, ma sincero.
Al momento ho convinto solo tre persone.
 
Il suo nome ha origini
polinesiane e significa
godersi il tempo libero.
 
Incredibile la beffa!
 
Grosseto, 06.05.2021, ufficio, ore 11.30-12.00 circa, pensando a Luana morta sul lavoro, e pure a quiru pòveriéddo re Peppino.
 


 
3
 
Vedo vari gruppi, coppie, famiglie, amici.
Il tempo libero,
il che significa che la rimanente
parte del tempo libera non è. Giusto?
 
Cosa si fa nel tempo libero?
Niente di libero ovviamente:
centri commerciali con acquisti pilotati,
bevute e cene in cui
si è delle comparse, relazioni
con sceneggiatura sottostante.
 
Non si tratta neanche più di massa
-e stiamo parlando di una massa grassa-,
o di società del consumo;
melma, melma, melma.
 
Non è la cultura che manca,
o le buone letture
-esiste anche la melma colta-,
manca l'uomo, l'uomo dignitoso,
lo schiavo che sa di essere
tale per merito delle bastonate.
 
Schiavo anch'io, ma voglio andare in miniera,
che siano torture tutti i giorni.
Non so cosa farmene
di questa schiavitù con l'aperitivo,
con visita guidata nei musei,
della promozione fasulla dei diritti,
del patrocinio di ministri ed aguzzini.
 
Anche la banca, che già ruba l'altro tempo,
vuole il mio tempo libero e mi scrive:
«Ciao, hai pensato alle prossime vacanze?»,
(ma io e la banca da quando siamo amici?
-memorandum: prosciugare il conto-).
 
Ma dove sono finito?
 
L'unico tempo libero che mi aspetta
inizia sulla soglia del cimitero,
... e meno male.
 
Grosseto, centro, 13.05.2021, ore 19.00-19.30 circa.
 
 
 
 
4
 
Pose il comune in memoria dei caduti
del quindicidiciotto: sei persone
"che con sacrificio onorarono la patria".
Chissà se lo rifarebbero,
se pensano ancora di aver onorato!
 
Anche questa è una radiosa giornata di maggio,
e si dice che siamo in guerra
contro un nemico invisibile.
I miei nemici al contrario sono
onnipresenti e mi guardano storto.
Mi considero in una fase da categorie del politico,
e devo difendermi purtroppo
-anche da questo cane, da questi gatti,
da questi uccelli provinciali.
 
In linea d'aria il mare è vicino, 
vedo il Giglio, qualche vela,
la città sfavillante nella piana.
Il borgo medievale
naturalmente è tutto pietre,
archi, vicoli e mattoni.
 
Silenzio! Il paese vive
prepotentemente in me.
 
In realtà dovrei fare l'asceta, dovrei
compiere il passo decisivo come già
feci mille anni fa; sono caduto
tante volte, ma non in guerra,
e tante volte ancora cadrò.
 
Non posso credere che oggi
lanciano bombe invece
di abbracciarsi felici e fare un picnic.
Cosa trattiene tutta quella gente?
Anch'essi vogliono onorare?
 
Terra santa? Dite?
 
Mi rendo conto solo adesso
di essere seduto in Vicolo
della Saggezza, 2 ... -ed io pensavo che fosse cieco-.
 
Bene, bevo, riempio
le borracce e riprendo a pedalare.
Il ritorno è quasi tutto in salita.
 
Montorsaio, 15.05.2021 ore 10.00-10.30, panchina, notizia bombardamenti in Palestina.



 
5
 

Un clima, un momento, un'aria
che anticipa e che presuppone;
intorno a me, meglio:
su di me come una muta.
E quindi un ritmo, interno,
sereno, serrato, da qualche parte,
emerge e pian piano s'impone.
 
Scelgo di dare o di non dare corso.
 
Poi sarei figlio del mio tempo, della mia epoca.
Ma lei di chi è figlia?
Ha vita propria oppure
è un congegno creato per sfinire?
Cosa vuole da me?
E se la misura della mia vita
fossero i millenni a quale
epoca apparterrei?
 
Schiavo di tutto,
...
se già nelle strutture
del linguaggio si annidano il potere,
la gabbia e la prigione; quindi
si consiglia di sabotare la sintassi,
di attaccare dall'interno ma per molti
interno significa cravatta.
 
Sabotare il linguaggio a mio avviso non si può.
Neanche col silenzio.
 
Già che ci siamo perché non ai ceppi?
 
Così è la muta -non la musa-
che mi viene in soccorso, che mi affranca, che mi aiuta.
 
"Con potete culo quelle pulirvi il bandiere".
 
Non sono riuscito a dargli torto
-pur nella la normalità della sintassi-.
 
Bisaccia, 02.06.2021, festa della repubblica, stanzetta, poi la voce di un contestatore, ore 12.30-13.00 circa.
 
 
 
  
6
 
Seduto sotto il tiglio sto pensando,
rimuginando, ma non dovrei.
Non renderò quest'albero sacro, e credo che oggi
non m'illuminerò -nel senso del Buddha intendo-.
 
Non illuminato, ma comunque tranquillo.
Estendere questo stato, isolarmi, stare solo.
 
Devo risolvere il problema
del sostentamento: occupazione, reddito, stipendio.
Se mi licenziassi domani, pur riducendo
al minimo i bisogni -un tetto, mangiare e bere- non ce la farei.
Non so rubare, scassinare, investire in borsa,
non so ingannare. E allora?
E allora una bestemmia ci starebbe bene,
ma non Antonio però, il santo patrono
al cui cospetto tutto questo accade.
 
Non posso nemmeno farmi monaco,
prete perché dovrei
battezzarmi e tutto il resto
(e tutto il resto è in ogni confessione).
 
Pietrificarmi? Magari!
 
Il mio futuro, tolto lo svanire degli affetti,
è nel suicidio o nell'ascesi -in ufficio infatti
ho iniziato a meditare, concentrazione
su un solo punto-.
...
...
Ma cosa c'è?
Sembra che il vento adesso stia parlando:
«Perché non aspetti la pensione?».
 
Maledetto, vuoi provocarmi, vuoi litigare?
 
Calmo.
Un solo punto,
un solo punto.
 
Bisaccia, 18.07.2021, Convento, ore 10.30-10.45, più o meno.
 
 
 
 
7
 
Insomma ho provato, letto,
riletto, analizzato, pensato.
E allora anch'io
nel mio parlar voglio esser aspro[1]:
mi stanno con dolcezza inculando,
ma non ancora del tutto violato
ad un'azione cruenta sto pensando.
 
Se Dante il sommo celebrato
in parlamento, nelle chiese e nei bordelli,
ha condannato decine di persone,
perché non posso io desiderare
che qualcuno bruci vivo nelle fiamme
di un talk show televisivo?
 
«Bastardo, ti vaccineremo».
Povero me.
No pax.
 
Mi disturba tutto,
dico sempre le stesse cose
-ma le dico bene-,
ho raffinato le mie capacità
di analisi, di sintesi e la mia
forma non è poi così meschina.
L'amore non mi basta, i miracoli, la gioia,
gli appelli alla bellezza che si fa
puttana, consolazione e propaganda.
 
Non parlerò più con nessuno, ho deciso,
neppure con gli uccelli.
Io mi svago al tavolino e lavoro in società[2].
Visto che non sopporto più il lavoro
è tempo di tagliarlo nella parte
che non mi dà sostentamento.
 
Si, l'uomo è un essere sociale,
ma io credo non essenzialmente.
Non mi interessa cos'è nella sua essenza,
non ho voglia adesso di filosofare.
Mi basta evitare per il momento il fango.
...
Inizia così
il mio mediocre medio evo.
 
Grosseto, 12.08.2021, sul letto, ore 20.00-20.30 circa, rielaborando registrazione vocale.
 
 


8
 
Mio caro parliamone,
ma sii chiaro, diretto, schietto.
 
Desidero un milione di euro
-anche il porcospino lo voleva,
ma io coscientemente-.
La realtà mi assale,
e la realtà sono anche gli altri.
Poeti, filosofi e scienziati
non mi servono più a nulla.
Dove un po' di pace?
Forse in un bosco percorrendo un bel sentiero.
 
I sostenitori della realpolitik
non rompessero oltremodo.
Non sono confuso, o frustrato;
spesso i realisti affermano
che posizioni e posture tali
sono una forma di disturbo,
... o meglio: una forma d'impotenza.
Come se dovessi per forza dire
che la vita è vita ed è così com'è.
No, non lo dico e preferisco
subire, incassare, prendere legnate.
 
Quante parole, è un turbinio di bocche aperte,
un ammasso di coglionerie.
I giornalisti andrebbero tutti imbavagliati,
mi avvelenano il sangue.
Non lo posso permettere.
 
-Sessanta secondi di pubblicità-.
 
Monopolio della forza legittima.
Gira e rigira sempre questo è il punto.
 
Ma si, maledico tutti i miei contemporanei,
oggi mi è presa così; e per non dimenticare
che questa è una poesia faccio presente
che la pineta di fronte è come il colle,
l'orizzonte -neutrale- è mio compagno,
e il naufragar m'è dolce in questo stagno [zampilli d'acqua, tre papere, un ranocchio].
 
Vai, adesso mi sento meglio,
lo sfogo è servito. Ritratto 
la parte non lirica.
 
Grosseto, Parco Giotto, 23.08.2021, ore 19.00-19.30, più o meno.




9
 
Perché un essere umano,
un buon cittadino non dovrebbe
provare odio?
Dicono che odiare sia dannoso,
che questo sentimento è brutto,
peccaminoso. Stupidaggini!
 
Io di questi tempi odio, ed anche tanto.
Il treno è in ritardo, niente coincidenza,
sono mascherato, controllato,
divise ovunque e poi transenne, obliterazioni, tornelli.
È chiaro che non la finiranno più.
 
Oggi non farò colpi di testa (domani chissà),
ma fatemi almeno odiare.
Così, banalmente, prevedibilmente,
da intelligenza mediocre e luogo comunista,
mi vedo solo con un mitra in mano,
e di fronte a me tanti governi
in fila, sindacati, imprenditori, intellettuali.
Sono questi maniaci
dell'apparire, dell'emergere, gestire,
questi cultori della norma, dementi
seriali, democratici per finta, animali, vermi,
a tenerci adesso tutti sotto scacco.
 
Su, via, sono inerme,
dal punto di vista della prassi innocuo,
ma lasciatemi almeno sognare, vagheggiare il clic
creativo di un grilletto.
Tanto sparirò da questa vita senza colpo ferire.
Allora dite quello che vi pare,
già conosco l'apparato
retorico che mi si potrebbe
di certo contrapporre.
 
Detto questo,
io non mi rodo il fegato,
né ho del fegato.
 
Dopo tutto resto un moderato.
 
Roma, stazione Termini, 27.08.2021, ore 10.15-10.45, più o meno.




10
 
In certi momenti esprimersi è fatica,
e vorrei cedere il passo.
Ma non devo,
ma non posso.
Non sono irresponsabile come un dio,
ed ogni giorno è una piccola conquista.
 
Mi disturba la mia mortalità,
dover lavorare per nutrirmi
e per poter lavorare domani.
 
Edificare esige tempo.
 
Sono tormentato, di giorno e di notte,
ma non si tratta del tormento
ridicolo dell'artista. Sacrificherei
tutta l'arte del mondo
per un attimo di chiarezza,
per uno sguardo diretto sull'abisso,
sull'oscuro, sull'orrido e il melmoso.
 
Non ho risposte all'assurdo che c'è nell'esistenza,
e il volere non è potere in questo campo.
 
Formalizzare una volontà,
abbattere il mostro,
quello che ci opprime dall'esterno,
e quello che ci schiaccia dall'interno
-che poi è lo stesso mentre si diverte
 ad una festa di carnevale-.
 
Io non rivendico per me cose speciali,
quello che voglio lo voglio per tutti:
poche/nulle pene per il sostentamento,
e poi tempo, tempo, tempo.
 
Se un giorno si arrivasse
a risolvere definitivamente il problema
delle necessità materiali,
a risolverlo urbi et orbi,
resterebbe comunque quello
della mortalità. E qui saranno guai!
Si sarebbe tentati di dire
che le esperienze sublunari sono
un argine in qualche modo
(ed infatti non mi lasciano
disperare di certo a tempo pieno).
[  ]
A proposito di disperazione: oggi si va a votare;
ma io no, così da tempo ho deciso.
«Allora devi stare zitto,
non ti puoi lamentare».
E chi si lamenta.
Io affermo, io asserisco,
io subisco l'ordine
parlamentargovernativo.
Io sono incudine!
 
La rappresentanza non mi interessa,
e non voglio rappresentare.
Bocciato il pensiero liberale,
se considero il linguaggio di molti
autori marxisti mi manca il respiro.
Potrei anche condividere
molte cose, ma l'aria è tutto.
Così preferisco le soleggiate
scampagnate fuori porta delle dolci
correnti libertarie.
 
Adesso posso dirlo caro Errico,
e non si tratta di una semplice opinione:
tra una mite utopia e la cruda
certezza dei macelli scelgo
la prima e incasso.
 
Concludendo, noto che in tv
stanno da tempo sibilando i draghi;
io non sono (ahi me) l'arcangelo Michele,
ma dico amichevolmente ai miei nemici:
tenetevi il PIL,
scopatevi il PIL,
impiccatevi al PIL.
 
Grosseto, 03.10.2021, sul divano, ore 21.00-22.00.
 
 
 
 
 
 
 


[1] Dante, Commedia.
[2] K. Kraus, Detti e Contraddetti.

Mio figlio andrá a scuola

NOTE DI FINE ESTATE (4)

di Donato Salzarulo

1.- Sui cinque anni a Tavoletta porto spesso il toro all’abbeveratoio, vicino al pozzo. È abbastanza distante dalla stalla. Lo trascino per la cavezza e lui tranquillo mi segue. Poi lo riporto indietro e lo riaffido a mio padre.
Non faccio solo questo: nelle belle giornate lo accompagno mentre porta le mucche a pascolare verso l’Ofanto. Ho ancora nelle orecchie le sue grida di richiamo, non appena vede qualcuna allontanarsi troppo dal branco: “Neeriiii votaaa-voo!” “Biaanchiii, torna qua!”
Guardo la mia sorellina di un anno sistemata nel seggiolone di legno; vado a controllare se le galline hanno fatto le uova nel pollaio (potevano farle anche fuori!); vado a spigolare insieme a mio fratello. La mamma ha cucito due sacchetti adatti alla nostra età, ce li appende al collo e, dopo il passaggio della mietitrebbia, ci manda per i campi a raccogliere le spighe rimaste. In questo modo, un giugno-luglio raccogliamo, non ricordo bene, se tre o quattro quintali di grano…
Non vorrei esagerare. Non mi sono sentito una vittima né un bambino sfruttato. Facevo ciò che in campagna un bambino della mia età in quegli anni ordinariamente faceva.
Gioco pure tanto sull’aia con mio fratello e Franchino, il figlio del guardiano dei cavalli. Giochi di movimento (ad acchiapparsi, a nascondino, ad arrampicarsi su un albero), giochi di costruzione, giochi imitativi e simbolici…

2.- Un giorno, don Attilio, il padrone della masseria, rivolto a mio padre, dice:
«Domenico, hai un bravissimo figlio!… Sarà come te un ottimo massaro».
Non l’avesse mai detto. Alzando il dito medio, gli risponde:
«Don Attì, t’aggia sci ‘nculo!… Mio figlio andrà a scuola!».
E, infatti, di lì a qualche mese, mi affida a sua madre e a sua sorella per poter frequentare la prima elementare a Bisaccia.
Negli anni successivi tante volte mi ripete il racconto di questo breve ma intenso scambio verbale fra lui e il padrone. Me lo ripete con soddisfazione sempre più compiaciuta in relazione diretta ai miei successi, si dice così?, scolastici e professionali.
Non c’è bisogno di consultare un analista per capire che, attraverso la mia persona, realizza un suo sogno. Un sogno nutrito da molti padri contadini di quella generazione. Un sogno di emancipazione sociale, di miglioramento delle condizioni di vita dei loro figli.
Sono andato a scuola, ho insegnato, ho fatto il dirigente scolastico, e tante altre attività sociali, culturali e politiche. Tutto bene, dunque? Ho realizzato il sogno di mio padre. Ma è davvero così?

3 – Il mio compare di fede si chiama Michele. Fa per decenni l’insegnante d’italiano all’estero. Verso la fine degli anni Ottanta lavora ad Addis Abeba. In uno dei miei ritorni estivi a Bisaccia ci incontriamo e mi invita calorosamente ad andare a trovarlo per visitare quei luoghi.
Ad un pranzo insieme, glielo riferisco a mio padre. I suoi occhi grigio-azzurri si accendono.
«Oh, che bella cosa!… Dai, Donato, andiamo…Andiamo per una quindicina di giorni… Pago tutto io».
«Papà, ma come faccio?… Ho troppi impegni: la famiglia, la scuola, l’assessorato, la politica…Come faccio a lasciare tutto?… Ne riparliamo, in un momento più propizio».
Non ne riparliamo più. Il 13 giugno del 1991, mio padre muore.
Ho il rimorso per non averlo accompagnato.
Aveva trascorso là, in Etiopia, 9 anni della sua gioventù. Aveva diritto a rivedere quei luoghi.
Magari voleva ripensare e riflettere meglio su un segmento di storia della sua vita.

4.- Sia chiaro. Se ho reso pubblica la “Cronologia essenziale della vita di mio padre” è perché non lo ritengo soltanto un fatto privato. O, meglio, è una storia di famiglia, una storia di generazioni, di rapporti tra di noi, ma i suoi risvolti sono sociali, culturali, politici. La sua storia non è quella di un magnate dell’industria o quella ultra propagandata di un miliardario creativo come Steve Jobs. Non è neanche quella di uno scrittore, filosofo, pedagogista o altro.
Nello stenderla mi sono limitato a mutuarne la forma dai manuali letterari o filosofici, anche se mio padre, a parte una decina di “cartoline dal carcere”, non ha scritto niente. La Cronologia, infatti, registra prevalentemente la data, il luogo in cui si trova e l’attività lavorativa.
Per parlare di lui, però, ho notato che sono stato spesso costretto a parlare di altri. Così ad esempio, ho dovuto scrivere che il nonno emigra in America per dire che trascorre l’infanzia in simbiosi con la madre. Un dato importante. Così importante che, nel 1950, quando mio padre viene incarcerato per aver occupato terre incolte, le lettere al figlio sono firmate unicamente da sua madre. Il padre Donato è come se non esistesse. Ovviamente nessuno dei due sa scrivere. Per l’occasione la scrivana è la loro figlia Francesca, che ha frequentato la terza elementare (anche l’istruzione di mia madre si ferma a questa classe) e che evidentemente riceve l’ordine di firmare così. O le viene da firmare spontaneamente così. Come se in famiglia si sapesse che tra padre e figlio la relazione sia corrosa, arrugginita. E ci credo! Mandare un figlio sotto padrone a nove anni è sorte quasi peggiore di quella accaduta a Gavino Ledda, che impara a fare il pastore del gregge di famiglia e non il bovaro delle mucche degli altri.
Ma non è di questo che voglio parlare. Non invidio Ledda. Mi interessa soltanto sottolineare che, quando si scrive la Cronologia della vita di una persona, si è costretti, comunque, a vederla in relazione. Una relazione doppia: con noi stessi e con gli altri. Nel caso di chi scrive o di chi pensa per professione, la relazione con sé stessi si traduce in opere. E la relazione con gli altri diventa occasione di incontri, confronti, scontri, dissensi, ecc.
Non è che mio padre non abbia vissuto le due facce di questa medaglia relazionale. Non avendo, però, scritto niente, tutto rimane affidato alla tradizione orale: ad esempio, l’aneddoto del suo scontro verbale con don Attilio; un aneddoto, comunque, importante per capire i suoi pensieri, i suoi valori, le sue scelte e i suoi atteggiamenti in quel preciso momento storico.
Sempre per esemplificare, in quegli anni, oltre ad essere iscritto al PCI, e aver vissuto l’esperienza dell’occupazione delle terre incolte e del carcere, è sicuramente un iscritto alla sezione Federbraccianti della CGIL. Il rappresentante di Cerignola V. Pasculli gli scrive su un foglietto timbrato tutto ciò che gli spetta come massaro di bovini (12.329 Lire al mese, 25 Kg di grano sempre al mese, olio, sale, provolone, ricotta, indennità caro pane, ferie, ecc.); un foglietto che sicuramente lui portò al suo padrone…

Insomma, a scrivere una Cronologia c’è di che riflettere. È una scrittura-soglia che apre diverse piste. Per il momento mi limiterò ai seguenti punti:

  1. Il rapporto con mio padre
  2. Fascismo e consenso
  3. La mitologia dell’individuo
  4. Il privilegio della scrittura
  5. La biografia di molti giovani oggi.

5.- Se nella Cronologia si calcola lo spazio dedicato al periodo 1914-1953 e 1953-1991, si nota che il primo è molto più ampio del secondo. In breve, dedico meno parole e pensieri al tempo vissuto insieme. So di più e scrivo di meno, so di meno e scrivo di più.
È vero che una persona è sempre una montagna da scalare e in certe zone proprio non si riesce a salire. Ma quasi quarant’anni sono sufficienti per poter dire qualcosa di sensato su una persona. Io non ho avuto problemi sostanziali con mio padre perché ho accettato (e accetto) fino in fondo alcuni suoi valori sostenuti nel tempo vissuto insieme: l’importanza dell’istruzione, il lavoro svolto bene e onestamente, l’eguaglianza tra le persone, la lotta per il comunismo e per una società migliore, ecc.
Penso di non aver dedicato molto tempo alla conoscenza della storia della sua vita prima del matrimonio con mia madre (dicembre 1947) per una serie di ragioni elencate in una recensione al libro di Giuseppe Antolino, un mio compagno di scuola (qui), che, invece, sapeva tutto o quasi tutto di suo padre.
Scrissi: «Insomma, leggendo il libro del mio compagno, ho scoperto di conoscere pochissimo quel periodo di vita di mio padre. Perché? Bella domanda. Forse perché, educato alla politica con le manifestazioni antimperialiste della guerra Usa nel Vietnam, non amavo (e non amo) questo passato colonialista del nostro Paese. “Italiani brava gente”?… Smettiamola! Poi proprio in quegli anni si scopriva che i nostri avieri avevano ripetutamente irrorato d’iprite (e altri gas) quelle popolazioni. Forse perché preferivo il padre ribelle, comunista e occupatore di terre irpine del dopoguerra a quello “civilizzatore”, fascista e a caccia del “posto al sole” nelle terre etiopi. Fra le mie scelte e quelle sue degli anni Cinquanta coglievo maggiori elementi di continuità. O forse perché abbandonare una donna e un figlio, anche se si è costretti, non mi sembrava un motivo d’orgoglio. O forse perché la perdita della primogenitura rappresentava una ferita inconscia da rimuovere. O perché mio padre non era un grande narratore ed io ero un distratto e pessimo uditore…».
Diciamo pure che ho operato una rimozione. Ho fatto male, perché proprio la sua storia di vita evidenzia a chiare lettere la politica fallimentare del regime fascista.

6.- Recentemente un intellettuale liberale del calibro di Ernesto Galli della Loggia in un editoriale apparso sul Corriere della Sera (1/11/2021, difende la vulgata del Mussolini che “ha fatto qualcosa di buono”. L’elenco è il solito e non voglio neanche ripeterlo. «Ma cosa vale tutto ciò di fronte all’altro lato della medaglia? Di fronte al non potere senza permesso stampare un volantino o convocare una riunione pubblica per discutere di una qualunque questione, al non potere abbonarsi a un giornale straniero di proprio gusto o organizzare un sindacato? Che cosa vale di fronte all’essere guardati con sospetto se invece di un buon cattolico si è per caso un valdese, alla possibilità di essere fermati e arrestati a discrezione di qualunque poliziotto, di dover restare sempre zitti e buoni, pena un pestaggio o un litro di olio di ricino, di fronte al primo idiota che indossi una camicia nera? all’obbligo di dover essere sempre d’accordo in pubblico con quello che pensa o decide Lui? E che cosa valgono oggi, retrospettivamente, tutte le “cose buone” di cui si è detto sopra di fronte alle leggi razziali, alla decisione di allearsi con le belve per fare una guerra, per giunta senza neppure curarsi di disporre dei mezzi necessari, di fronte alle distruzioni senza pari abbattutesi di conseguenza sulla penisola?» (Corsera, pag.28)
Ecco, secondo Galli della Loggia, il piatto positivo della bilancia. Rileggo. E poi rileggo ancora. Alla terza volta penso a mio padre. Nel 1923-35 è apprendista vaccaro a Montella. Stampare un volantino? Convocare una riunione? Abbonarsi a un giornale straniero?… Sì, in effetti, ne ha un gran voglia e gli scoccia non poterlo fare.
Cattolico?…Valdese?…Si, in effetti, recentemente, studiando a fondo i movimenti pauperistici del cristianesimo,  ha deciso che, essendo un povero, si sente più in sintonia con i valdesi e, quindi…
Scherzi, a parte.  Ecco come ragionano gli intellettuali liberali. Non guardano neanche il mondo dalla loro finestrella. Semplicemente lo identificano con il loro mondo: libertà di stampa, di riunione, di religione, di parola…Tutte esigenze giustissime e da difendere a spada tratta.
Ma della Loggia, che considera positiva la riforma Gentile, sa quanti erano gli analfabeti durante il fascismo? Quasi uno su tre (il 27%). Esattamente quanti ne contava l’Italia liberale.
La storia di vita di mio padre e di tutta la sua famiglia fa capire che il fascismo ha lasciato in tutta la penisola milioni di contadini (e non solo) in uno stato sostanziale di analfabetismo. Salvo che non si voglia considerare alfabetizzato e istruito una persona che sa fare la sua firma e che ha frequentato la scuola fino alla terza elementare.
Quando si dice che il regime aveva il consenso della stragrande maggioranza di italiani, cosa si intende per “consenso”?…Quello espresso da mio padre nel momento in cui, dopo l’assolvimento dell’obbligo militare, nel 1937 firma volontariamente e parte per l’Africa orientale?…Ma che alternative ha?  Relegarsi in campagna a pulire una stalla, a tirar via paglia e merda da sotto le mucche, a riempire di fieno la mangiatoia, a mungerle, ecc. ecc.
La libertà non è solo quella di parola, di stampa, di riunione, di religione…Libertà è anche il pacchetto più o meno ampio di possibilità che una persona ha.
È chiaro che un giovane bovaro nelle sue condizioni è una persona ideale per la propaganda del regime: l’Etiopia come eldorado, terra, lavoro e donne, un posto al sole altro che i muggiti delle vacche di Montella…
Io non interrogo, non chiedo, non domando. Ma mio padre sorvola. Su questo periodo è abbastanza reticente. E non solo per via della donna e del figlio su cui preferisce tacere. Anche perché, essendo inquadrato nell’esercito, sicuramente partecipa ad operazioni militari non sempre confessabili.
Per quanto mi riguarda, non ho dubbi. Alla fine condivide la filastrocca popolare bisaccese:
“Duce e duce che ngiai fatt’a riduce / lu jorne senza pane e la notte senza luce” (Duce, duce come ci hai ridotti / il giorno senza pane, la notte senza luce).
L’analfabetismo era una piaga così diffusa nelle campagne che, durante tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, l’UNLA aveva a Bisaccia un suo edificio e organizzava i corsi serali di educazione degli adulti.

7.- Il liberalismo è un’ideologia. Sostiene notoriamente l’assunto che una società è composta da una somma di individui autonomi e sovrani. “Ogni uomo è dio / il testo pensiero povero /stantio” ho scritto una trentina d’anni fa. Per carità! Non ho nessuna voglia di metterla in discussione in questa occasione. Ma un individuo non cresce in una famiglia? Non ha bisogno di risorse, relazioni, stimoli?…Nessuno di noi nasce “individuo autonomo e sovrano” e, magari, pure col “pensiero critico”. Lo si diventa. Questo processo si chiama “individuazione”. Ma per “individuarsi” occorre “socializzarsi”, così come per parlare una lingua occorre esporsi alla conversazione con gli altri.
Se questa “socializzazione” non ha lo scopo di formare “individui autonomi e sovrani”, si modella una massa di gregari, obbedienti alla voce e alle parole del Capo. Credere-obbedire-combattere. Se poi questi individui non sanno né leggere né scrivere (o lo sanno fare pochissimo) si indebolisce il processo di individuazione.
Imparare a trasferire sulla carta i propri pensieri (magari, non soltanto per comunicare alla propria moglie come si sta in carcere) attiva processi fondamentali per dirigersi verso quella meta dell’”individuo autonomo e sovrano”. Ammesso che sia raggiungibile. Perché neanche un re è completamente autonomo e sovrano. “Il re è nudo”, racconta Andersen nella sua fiaba…
Comunque, che individui poteva formare il regime fascista?…
Quella di mio padre, secondo me, è la storia di una persona che subisce direttamente e/o indirettamente una catena di violenze sociali e culturali. A partire da quella di finire sotto padrone a nove anni. È la storia di una persona che introietta una visione violenta e autoritaria dei rapporti sociali.
Ecco perché per lui mandare i figli a scuola diventa un dovere fondamentale: perché ha subito molte umiliazioni.
Quando insiste a ripetermi l’episodio del dito medio alzato contro don Attilio, forse non vuole soltanto dirmi che si è comportato da ottimo allevatore di cuccioli, sacrificandosi per mandarci a scuola. Forse vuole dire che dobbiamo ascoltare la sua storia di violenze subite, scriverla, rifletterci sopra. Lo chiede soprattutto a me che per decenni scrivo centinaia di volantini e articoli con lo scopo di denunciare le condizioni di bisogno di persone umili come lui e la mia famiglia. Come?!… Si fa raccontare tutto sulle condizioni di lavoro in questa o quella fabbrica e non mi domanda nulla su come vivevo quando facevo l’apprendista bovaro?…

8.- Chi scrive è un privilegiato. Non solo perché fin dall’origine questa attività viene esercitata da un ceto sociale privilegiato. Ma perché potenzia enormemente il processo di individuazione. Scrivere è come costruirsi una stanza tutta per sé. È vero che può trasformarsi in una prigione. Ma spesso è uno spazio di conoscenza del Sé nel proprio rapporto con gli altri. E così si cresce. È lo spazio della coscienza morale e dell’immaginazione, della responsabilità e della finzione.

Quando ti ho riconosciuto,
eri già passato, già consegnato
alle falde acquifere della morte.
Nel sottosuolo poroso della memoria,
non c’è volo di rondine che possa
salvarti, né grido di gabbiano
che possa riportarti alla lieve
carezza del mare.
                        Non posso nulla contro
questo continuo mancare.

So che mio padre non avrebbe potuto scrivere tali versi. Non avrebbe potuto ricavare, ad esempio, dai suoi cinque anni di prigionia versi simili a quelli del “Diario di Algeria” di Vittorio Sereni; ma un quaderno in cui s’appuntava con la sua grafia non proprio da prima elementare, perché capiva che non poteva continuare a tracciare le parole come un bambino di sei anni, gli avvenimenti più importanti che gli capitavano, poteva scriverlo. Chissenefrega se sarebbero state pagine infarcite di errori d’ogni tipo e se certe volte sarebbero apparse indecifrabili. Hanno decifrato i geroglifici. Avrei decifrato anche i suoi.
Francamente non capisco quelle persone che vorrebbero avere a che fare soltanto con opere di grande letteratura. La scrittura non è stata inventata per far esprimere esclusivamente i campioni e i premi Nobel. Sereni, un poeta che amo, non sarebbe stato defraudato di nulla se mio padre avesse raccontato la sua esperienza della prigionia, a suo modo e con i suoi scarsi mezzi a disposizione.
Il fatto, secondo me, è che non aveva una grande pulsione a narrare né a documentare. Non si sentiva né testimone né protagonista. Viveva la sua vita di prigioniero e la cosa finiva là. Aveva già introiettato la scarsissima importanza della sua vita confrontata a quella di una “grande personalità”. Peccato. Anche questo suo atteggiamento andrebbe addebitato probabilmente ad un’educazione fascista, di destra. Si fosse imposto di scrivere almeno un’ora alla settimana cosa gli era successo, oggi avrei un diario da leggere e non starei qui a lambiccarmi. O forse starei ancora qui a lambiccarmi per cercare di decifrare i suoi racconti e i suoi pensieri, ma avrei qualcosa tra le mani. Serviva solo a me o, al massimo, ai miei familiari? Può darsi. Non ci sarebbe stato nulla di male.
Ma la vita, si sa, è ricca d’imprevisti.

9 – Spero di no, ma ho l’impressione che la carriera lavorativa di molti giovani d’oggi stia diventando molto simile a quella di mio padre: precaria e flessibile. Oggi qui, domani là. E con salari o stipendi tutt’altro che appetibili. Le condizioni economiche, sociali e culturali sono indubbiamente mutate, ma molte sono le attività in cui chi lavora si trova da solo a fronteggiare padroni e padroncini sempre più sfuggenti e tutt’altro che socialmente responsabili.
Ovvio: la stragrande maggioranza dei nostri giovani non pascola più mucche o ara terre. Questo lo fanno gli stranieri contro cui si scaglia Salvini e, purtroppo, una buona parte della nostra società. In conclusione, il clima sociale, culturale e politico non mi sembra entusiasmante.
Forse riflettere sulle storie di vita dei nostri padri e dei nostri nonni può servire ad elaborare o rielaborare frammenti di “coscienza storica” utili ad affrontare il nostro presente.
Per questo ho scritto la “Cronologia essenziale della vita di mio padre”. Principalmente per questo.

Sull’altopiano di Verteglia

NOTE DI FINE ESTATE (3)

di Donato Salzarulo

 

Domenica Giuseppina dichiara sciopero: niente sugo, pasta comprata o fatta in casa, padelle da pulire, tavola da apparecchiare o sparecchiare.

«Non mi hai detto, l’altra sera, tornando da Montella, che è un luogo assai interessante da visitare?… Ebbene, io non ci sono mai stata. Mettiti d’accordo con Agostino e portatemi là. Ci sarà pure un ristorante, una trattoria, un luogo in cui assaggiare qualcosa di buono …»

Alcuni desideri di mia moglie per me sono ordini. Anche perché quando lei dichiara sciopero in cucina, io non sono come quei meravigliosi e invidiabili mariti, pronti a sostituirla e a dimostrare che sanno fare quasi meglio di lei. Il mio non è un vanto. È soltanto una costatazione. Ai fornelli sono poco meno di un inetto. Lo so, non devo neanche esagerare a dire questo. In più di mezzo secolo di matrimonio, potevo pur imparare qualcosa. Sì, tutto vero. Ma, come recita il proverbio, “Tra moglie e marito non metterci il dito”. Gli equilibri di una coppia sono spesso in bilico e va già bene se finora siamo riusciti a gestire i nostri conflitti con saggezza e qualche inevitabile sofferenza…

La nostra non è una guerra,
ma una lunga avventura,
una partita escogitata
per rivelarci ogni giorno
i segreti del vento,
il sorriso giocoso
dei nostri sguardi infantili.

Verso mezzogiorno, grazie alla bravura e alla fraterna disponibilità di Agostino, sistemati nella sua macchina, viaggiamo diretti verso l’Altopiano di Verteglia, frazione di Montella. Mangeremo al Ristorante “La Faja”, una bella struttura immersa nel verde.
Per arrivarci, ad un certo punto, ci lasciamo alle spalle la Statale 7 e ci inerpichiamo lungo la Statale 574. Però, prima di svoltare a sinistra e dirigerci verso il Terminio, sentiamo che la macchina perde potenza. Qualcosa non va.
«Nulla di grave…», ci rassicura Agostino, «devo spegnere per qualche minuto il motore e poi ripartire.» Si porta così nella prima area di emergenza.
Breve sosta. È una bella giornata di sole e scendiamo a respirare. Sotto gli occhi a destra abbiamo la vallata, a sinistra l’altura.
«Da queste parti stava zio Minguccǝ» ricorda improvvisamente mio cugino.
Zio Minguccǝ è mio padre, che si chiamava Domenico, ma per familiari e paesani era, appunto, Minguccǝ.
«Ma va’…Non ricordo bene, però mi pare che stesse dalle parti delle montagne di San Gerardo o di Calabritto…
«No, t’assicuro, stava da queste parti…».
Non insisto, mi fido di mio cugino. Conosce la Campania sicuramente meglio di me.

Dopo una decina di minuti, risaliamo in macchina. Avvia il motore. Tutto funziona bene, ci rimettiamo in carreggiata e affrontiamo una lunga salita.
Finalmente si apre allo sguardo un’ampia radura. Vediamo la bandiera del ristorante. Agostino parcheggia e, mettendo i piedi a terra, mi ricordo che soffro di cardiopatia ischemica. Non posso più superare certe altitudini. Controllo sul cellulare: siamo a 1230 metri. Un po’ mi rassicuro. Ma non del tutto. Mi viene in mente mia madre, cardiopatica a vita. Quando dalla pianura colognese tornava all’altura bisaccese (850 metri), smaniava per qualche giorno. Diceva di sentire il cuore accelerato. Chi gli stava vicino avvertiva chiaramente i suoi battiti. La valvola di Björk sembrava amplificarli. Anch’io mi porto ripetutamente la mano destra sul cuore. Intanto guardiamo le decine e decine di mucche nel parco ed ammiriamo le chiome dei tanti faggi nel bosco. Sul ciglio della strada, di uno di essi, mi attira il groviglio di radici nodose, venute allo scoperto fra le rocce.
Restiamo così per un po’ sospesi, quasi in pausa; poi, controllata l’ora, decidiamo di presentarci al ristorante.
«Magari, beviamo un aperitivo», dice mia moglie che, negli ultimi giorni, ha preso l’abitudine di gustare lentamente un crodino allungato con acqua minerale. Nulla da fare. Il ristorante non ha tavoli liberi all’aperto. Sono tutti occupati. Molte persone hanno pensato, come noi, di fare una gita in montagna.
Prendiamo, allora, posto all’interno, ci accomodiamo e leggiamo il menù che il cameriere si affretta a portarci. Cinque minuti per consultarci e ordiniamo due antipasti, tre primi e due secondi, una bottiglia d’aglianico ed una d’acqua minerale.

Abbastanza tradizionali gli antipasti: affettati (coppa, prosciutto crudo e soppressata), dei bocconcini, due fette di caciocavallo podolico – Montella è la patria di questo formaggio – e soffritto di verdure (peperoni e melanzane).
Ottimi i tre primi: tagliatelle ai funghi porcini per me e mio cugino, pasta pasticciata per Giuseppina.
Tagliata per me e agnello alla brace per Agostino sono i due secondi. La consorte assaggia l’uno e l’altra. Data la fatica che faccio per spezzettarla e mangiarla, confesso che la parte di manzo sistemata nel piatto e chiamata “tagliata” non mi sembra controfiletto…
Ottimo il vino e ottimi anche i dolci (torta al cioccolato e tiramisù) gustati da moglie e cugino. Giudizio finale: abbiamo mangiato bene. Il tutto ad un prezzo abbastanza abbordabile per una gita domenicale.

“Post prandium aut stare aut lento pede deambulare”. Scegliamo di fare un giretto lungo il parco dove le mucche pascolano tranquillamente o riposano.

Mentre usciamo, Agostino incontra un amico di Avellino e si ferma a parlare per qualche minuto. L’aspettiamo in cortile. Quando ci raggiunge, dice che si tratta di un ex compagno di Avanguardia Operaia. Gli ha detto che noi siamo i cugini “milanesi”.
«Ah, come quelli che hanno scritto la storia di Avanguardia Operaia a loro uso e consumo…». Convengo e racconto di Ennio che ha trattato con grande attenzione il problema su Poliscritture. (qui) Ha fatto dei rilievi e delle critiche che sostanzialmente condivido…
Andando avanti, incontriamo una coppia di bisaccesi (marito e moglie), salutiamo e procediamo.

Dopo una mezz’oretta “digestiva”, ritorniamo verso la macchina. Stabiliamo di scendere giù a Montella per mangiare un gelato. Al ristorante non ne vendono.
Giuseppina non ci tiene ad andare al Complesso monumentale di Santa Maria della Neve; tra l’altro, pare che non sempre sia aperto…
Lungo la strada incontriamo delle mucche. Agostino rallenta e manovra con prudenza.

Quasi la metà del territorio montellese è a bosco. Dall’altopiano al centro abitato dobbiamo scendere di oltre 600 metri di quota e, andando giù, si incontrano anche diversi castagneti.
Oltre che per formaggi e caciocavalli, Montella è famosa per le sue castagne. A me piacciono moltissimo quelle “del prete”.
Ecco di fronte a noi il monte di Santa Maria della Neve e a fianco quello del Santissimo Salvatore, patrono del paese. Stiamo per arrivare…

Tempo un quarto d’ora e ci sediamo all’aperto ai tavolini di un bar. A distanza sociale regolamentare, come prescrivono le norme anti-Covid, ci sono altri quattro clienti.
Noi mangiamo il gelato e loro stanno bevendo birre.
Tiene banco un signore un po’ su di giri, con un bastone vicino alla propria sedia e col piede destro fasciato e appoggiato su un’altra sedia. Parla al signore più anziano al suo fianco. Sta prendendo in giro un giovane che beve birra e non ama il vino. Siccome lui il vino lo ama assai (e si vede!), non riesce a capacitarsi di come ciò sia possibile.
Io sento parlare di vino e domando se possiamo comprarne qualche litro.
«Certo!…» fa il signore «Lo vende lui…» ed indica l’uomo al suo fianco.
Il compaesano conferma, ma continua a ripetere che non può venderlo perché la moglie non vuole. Da come ne parla sembra che abbia in casa una tiranna con potere assoluto.
«Ma si tratta di pochi litri» insisto.
Allora, il signore col piede fasciato, che, per inciso, dice di recitare in non so quale teatro napoletano, si propone come mediatore. Andremo insieme dalla moglie del suo amico e lui, che la conosce benissimo, le chiederà di venderci dieci litri di vino. Il signore anziano acconsente e facciamo così.«Una decina di minuti e siamo qui» dico a Giuseppina che rimane seduta al bar ad attenderci.
Non l’avessi mai detto.
Riusciamo a prendere, dopo aver superato apprensioni e diffidenze della signora, dieci bottiglie di vino, poi…Poi l’artista col piede fasciato e in difficile equilibrio si offre di portarci a comprare anche un provolone podolico – caciocavallo corregge Agostino -. Ce lo venderebbe un suo amico in campagna.
«Cinque minuti!… È vicino…Non è molto lontano da qui…»  continua a ripeterci, mentre la macchina da Montella continua a svoltare a destra e a manca, per un tempo interminabile.
Infine, arriviamo nella masseria di questo suo amico. Si trova nella confinante Bagnoli irpina (è il cellulare che me lo dice).
Quando scendiamo dalla macchina, stiamo attenti ai cani, che si mostrano non proprio pacifici e amici dell’uomo, e restiamo fermi in attesa. Ci viene incontro l’amico, un omone con la pancia che gli pende davanti come una larga borsa. Dal modo in cui lo saluta, si capisce che lo conosce.
Ci prega di aspettare perché stanno finendo di lavorare dei caciocavalli. Ha ragione. Mi affaccio sulla soglia e vedo un giovane in canottiera bianca che sta modellando la pasta.
«Ecco mio padre al lavoro, penso, ecco cosa imparava quando, ragazzo di nove anni, stava in qualche casone o in qualche masseria sicuramente peggiore di questa, senza mattonelle e senza piastrelle bianche sul muro.»
Compriamo due caciocavalli: uno per il cugino e uno per me. Non lo mangerò. Lo porterò a Torre Vado.
Altro che dieci minuti. Dopo un’ora abbondante, torniamo al bar. Giuseppina è più che preoccupata, ma non avendo con sé il cellulare non ha potuto telefonare. Delle cinque bottiglie di vino comprate, una la regalo all’artista “mediatore”.
Saliamo in macchina e prendiamo la via del ritorno a Bisaccia. Con Agostino ci salutiamo al quadrivio di piazza Duomo. Quando entriamo in casa, guardo il grande quadro di mio padre attaccato al muro. È il mezzo busto di un giovane soldato, un bel giovane pronto a partire per l’Africa orientale.

 

CRONOLOGIA ESSENZIALE DELLA VITA DI MIO PADRE

                                                                                                     Il gelso ancora attende
                                                                                                      il tuo ritorno ai campi,
                                                                                                      ancora il melo sbircia                                                                                                                                                       le tracce del tuo passo.

28 febbraio 1914: Nasce a Bisaccia. Quasi certamente in via dei Fiori. Non saprei dire con precisione dove: se sull’unica stanza sulla loggetta dove, durante la mia fanciullezza, ho sempre visto nonno Donato o se nei due vani di fronte dove stavano nonna Concetta (frequentemente) e zia Francesca (sempre). È il primo figlio della coppia.

fine 1913-1914: nonno Donato emigra clandestinamente negli USA, dove resterà fino al 1919.

1914-1919: Trascorre tutta l’infanzia solo con la madre. Di questo periodo resta una foto, forse fatta per essere spedita al nonno in America. Lui ha su per giù due anni. Sta ritto su una sedia di paglia e appoggia la mano destra sulla spalliera. Indossa una vestina con un colletto bianco. Ha nella mano sinistra un giocattolo. Guarda verso un punto che non è l’obiettivo del fotografo. Ha un bel visetto curioso e non mi sembra mal patito. La nonna è una giovane donna sui 27-28 anni. Ha un portamento superbo, bello. Non la diresti una popolana, una contadina.

!919: Al più tardi in autunno, nonno Donato torna dagli USA.  Pare che nelle lettere che la nonna gli mandava fosse espresso ripetutamente il lamento della sua condizione insopportabile di “vedova bianca” (“La carne vuole la sua parte”, sarebbero state, tradotte in italiano, le sue parole). Le date della partenza e del rientro segnalano un altro fatto rilevante: mio nonno non partecipa alla carneficina della prima guerra mondiale. Successivamente tenterà di ritornare in America clandestinamente, ma viene bloccato nel porto di Trieste e gli costa cara. Zia Francesca diceva che perse quasi tutto quello che aveva guadagnato nel suo primo espatrio. Da quel momento ambedue i nonni si dedicarono alla coltivazione della vigna di Valle fiumata e probabilmente di qualche altra terra in affitto. Misero anche al mondo un po’ di figli.

5 agosto 1920: nasce Maria Francesca, la seconda figlia della coppia. Con questa zia avrò un legame affettivo molto intenso. Sposerà zio Vito, un cugino di mia madre. Lo farà in municipio durante un breve congedo militare, mentre lo zio era in partenza per la rovinosa campagna di Russia (non ricordo se nel 1941 o 1942). Dichiarato disperso, la zia resterà vedova di guerra, fino all’anno successivo – se non ricordo male – alla morte della nonna (1964). Sposerà in seconde nozze Antonio Arminio, zio di Franco. Non avrà figli.

1922: nasce zia Antonietta, la terza figlia. Si sposerà con zio Michele ed abiterà a Lacedonia, dove ho frequentato l’Istituto magistrale dal 1963 al 1967.

1920-21: Domenico frequenta la prima elementare. Il suo curriculum scolastico terminerà con questa classe. C’è bisogno di lui in famiglia per l’accudimento delle sorelline e per i tanti mestieri, più o meno facili, che anche un bambino può svolgere nei campi.

1923: Viene mandato con un paesano in una masseria di Montella. All’origine della decisione ci sarebbe stata una mancata vigilanza di mio padre sulla sorellina Francesca, che, abbandonata a sé stessa, rischiò di finire nel pozzo della vigna; in realtà, forse, andando via, c’era per i nonni una bocca in meno da sfamare e una piccola entrata (da apprendista bovaro) assicurata alla famiglia.

1923-1935: mio padre impara il mestiere del vaccaro, un mestiere che gli vedrò fare durante la mia infanzia nella masseria di Tavoletta, a Cerignola: pulire la stalla, governare e rigovernare le mucche, portarle al pascolo, mungerle, lavorare il latte e ricavarne ricotta, trecce, formaggi, caciocavalli, ecc. Credo che in questo periodo impari anche a lavorare il legno. Sempre da bambino e sempre a Tavoletta l’ho osservato intento a costruire mestoli di varie dimensioni, forchettoni, mortai per schiacciare il sale, cesti, canestri, panieri… A Bisaccia, nella casa di Via Vescovado, in un tiretto della cristalliera, quello a destra, conservava tutto ciò che gli tornava utile per farlo: lima, raspa, sgorbia, martello…

1924: nasce zio Pietro. Sarà per tutti noi lo zio napoletano. Nel dopoguerra sposerà, infatti, zia Carmela, un’infermiera conosciuta nel sanatorio dov’era ricoverato.

1926: nasce zio Antonio. Avrà un destino simile a quello di mio padre. Sposerà zia Rosina, una compaesana. Emigrerà prima in Germania, si stabilirà successivamente ad Orta Nova e, infine, a Cesano Boscone. Sarà il più longevo della famiglia.

1928: nasce zia Giuseppina. Sposerà Giuseppe, un pugliese di Orta Nova, che morirà agli inizi degli anni Sessanta. La zia resterà vedova con tre figli maschi per tutta la vita. Nei primi anni Settanta si sposterà a Chivasso in provincia di Torino.

1935: compiendo 21 anni ed essendo iscritto sicuramente nella relativa classe di leva, viene chiamato a fare il soldato. Svolgerà il servizio in fanteria. So che, durante il regime fascista, era previsto un servizio premilitare obbligatorio dal compimento del 18° anno di età. Non so cosa sia successo realmente a lui, né so dove abbia fatto il militare. So che andò in Africa orientale. Ma quando?… Probabilmente nel 1937. Nel senso che, trascorso il periodo obbligatorio, firma la ferma da volontario. Cosa avrebbe fatto se fosse tornato a casa?… Ritiene opportuno seguire la propaganda del regime fascista che promette, per chi segue l’esercito in Africa orientale, terra e lavoro con mirabolanti ricchezze naturali (oro, platino, petrolio, ecc.). Insomma, invece di andare come il padre in America, cerca la fortuna nelle terre etiopiche.

settembre 1937: si trova sicuramente in Africa, in una località che lui chiama “Aiscia”. Lo leggo dietro una sua foto che portava con sé. Ha pantaloni lunghi da militare, relativa camicia a maniche corte con cravatta (un accessorio che avrebbe odiato per tutta la vita). Gamba e piede sinistro leggermente in avanti, braccia conserte, capelli alla Mascagni, sguardo serio, rivolto all’obiettivo. Se non proprio da bellimbusto, ha un’aria, comunque, da giovanottone con la voglia di conquistare il mondo. Ha ventitré anni compiuti.

1937-1941: probabilmente s’insedia come colono in Etiopia. Non so dire dove. Quasi certamente si accoppia con una donna del luogo con cui metterà al mondo un figlio.

1941: viene fatto prigioniero dagli inglesi e internato forse nel campo di Zonderwater, a Cullinan in Sudafrica. Una foto attesta che impara a fare l’infermiere. Al suo ritorno in Italia porta con sé un pentolino per mettere a bollire la siringa da disinfettare. Mio padre faceva le punture a tutti i familiari che ne avevano bisogno. Spesso mia madre diceva che aveva una “mano pesante”. Oltre all’attività di infermeria si dedica al pugilato. Ha il naso “schiacciato” da pugile. Fa 17 incontri e poi passa la mano. Perché, raccontava, in un incontro o in un allenamento, comportandosi assai scorrettamente, l’avversario gli ruppe due o tre costole.

1946: il primo gennaio del 1947 il campo di Zonderwater viene chiuso. Quindi, è probabile, che mio padre sia rientrato in Italia in quest’anno. 1937-1946: nove anni. Questo è il numero di anni che lui diceva di aver trascorso in Africa orientale.

dicembre 1947: sposa mia madre. Ho appeso alla parete dei Lari la loro foto matrimoniale. Mio padre ha una giacca con le maniche assai più lunghe del braccio. Chissà se l’abito era suo. Vanno ad abitare nella casa in affitto della Valle. Per entrarci si salivano tre gradini. È la casa che mi ha visto nascere e che non c’è più. Non so come i due sbarcassero il lunario. Immagino, coltivando qualche terra in affitto. Mio padre s’iscrive al PCI.

28 maggio 1949: nasco io. Suo primo figlio (italiano). Soprattutto figlio di mia madre.

Pasqua 1950: “Pasqua ventosa che sali ai crocifissi / con tutto il tuo pallore disperato”…Finisce in carcere ad Avellino per aver partecipato all’occupazione delle terre. Questo periodo è abbastanza documentato. Ho quelle che io chiamo le “cartoline dal carcere”. Praticamente lo scambio epistolare fra lui e mia madre, lui e la nonna, lui e zio Pietro (che gli viene in aiuto mandandogli duemila lire), lui e il suocero. I problemi più urgenti che ha la coppia sono due: come uscire dal carcere (a difesa degli occupanti si schierano deputati del calibro di Giorgio Amendola del PCI) e in quale nuova casa stabilirsi. Infatti, il proprietario di quella della Valle deve sposare il figlio e la vuole libera. Dal carcere uscirà dopo tre mesi. La nuova casa in affitto sarà quella sulla salita di San Nicola. Una casa che ricordo bene. Aveva una finestra su un dirupo e di notte spesso sognavo di rotolare giù.

22 ottobre 1950: nasce mio fratello. Il nome è Giuseppe come il padre di mia madre, che in quel periodo non sta bene in salute e morirà di lì a poco.

settembre 1952: tutta la famiglia si trasferisce nella masseria di Tavoletta, nella campagna di Cerignola. Il cognome del padrone è Giuntoli. Mio padre viene assunto come massaro. Governare le mucche è un lavoro che conosce bene, ma non lo ama. Non gli piace stare “sotto padrone”. I rapporti con Giuntoli, infatti, sono corretti, ma non idilliaci. Il sogno di mio padre era fare il contadino. Ma terre non ne aveva, altrimenti non andava ad occuparle. E non aveva neanche vigna, che per quel mondo era come possedere una miniera.

26 aprile 1953: nasce mia sorella Concetta. Il nome è come quello della mamma di mio padre. Io ho quasi quattro anni e mio fratello due anni e mezzo. Ricordo il viaggio che facciamo da Tavoletta a Bisaccia: la littorina, il pullman…ed io e mio fratello attaccati alla veste della mamma col pancione che doveva sgravarsi. Mia sorella nasce nella casa di San Nicola, un’altra casa che non c’è più. In concomitanza con la sua nascita, mia madre ha il primo scompenso cardiaco.

settembre 1955: Devo iscrivermi in prima elementare e, siccome a Tavoletta non ci sono scuole, vengo affidato alla nonna Concetta e alla zia Francesca. Mio padre ci tiene molto che i suoi figli vadano a scuola, mia madre un po’ meno. Per lui l’istruzione è fondamentale. Continua a ripetere che ha dovuto ingoiare nella vita molti rospi amari e si è convinto che saper leggere, scrivere e far di conto viene prima di tutto. Soprattutto, se non vuoi per i tuoi figli, come mio padre non voleva, la stessa vita di vaccaro.

Primavera 1956: nella masseria di Tavoletta viene ucciso il guardiano notturno. Non ruberanno mucche. Mio padre ha un fucile appeso in camera da letto. Ma la famiglia resta scossa. A giugno, quando chiudono le scuole, io trascorro l’ultima estate nella masseria. Ricordo che quando scendeva il crepuscolo e arrivava il buio, i nostri cuori si chiudevano e diventavamo piccoli come pulci.

Settembre 1956: la famiglia torna a Bisaccia. Con i risparmi di quattro anni – mia madre è stata sempre una formica – comprano la casa di Via Vescovado Vecchio, dove trascorrerò fanciullezza e adolescenza.

1956-1958: mio padre fa lavori saltuari: scavi per le strade del paese per i tubi dell’acquedotto pugliese (arriva l’acqua a Bisaccia e le famiglie non dovranno più andare a prenderla alle fontane), manutenzione delle cunette, rimboschimenti, ecc. L’obiettivo è riuscire a fare annualmente il numero dei giorni necessari a ricevere il sussidio di disoccupazione e gli assegni di famiglia. Coltivazione di alcune terre del demanio. Il conflitto fra mio padre, che si vuole contadino, e mia madre, che lo vorrebbe “sotto padrone” a custodire greggi o armenti, anima ogni tanto le nostre giornate.

1958: mentre giochiamo abbastanza violentemente e organizzati in bande, come era nostro costume, tiro una freccia alla squadra avversaria di cui fa parte mio fratello. Purtroppo finisce nel suo occhio sinistro. Una brutta disgrazia che lo segnerà per sempre. Disgrazia aggravata dalla scelta de miei genitori di mandarlo durante il periodo scolastico in un collegio di Visciano. L’intento lodevole era di proteggerlo. In realtà, non fu così.

1958-1959: mio padre emigra, grazie a un “atto di richiamo” dello zio Antonio o di qualche paesano. Andrà a curare vacche svizzere a Petit-Saconnex, nei dintorni del Palazzo delle Nazioni a Ginevra. Ad ogni ritorno invernale, porterà tavolette di cioccolato, pacchetti di sigarette, una volta degli orologi e un’altra volta una macchina Singer per mia madre. Nel 1959 frego delle sigarette dai suoi pacchetti e le prendo di santa ragione. Coi risparmi di questi due anni comprano una terra a Valle fiumata, confinante con la vigna della nonna Concetta e della zia Francesca. Lì mio padre farà la sua vigna. L’ho ereditata io e continua a rimanere incolta.

1960: Non so quale Ministero gli attribuisce un’indennità di profugo dall’Africa orientale. Non più di venti mila lire al mese. Mio padre torna a casa.

1960-1968: Lavori saltuari come quelli del periodo 1956-58, eccetto uno più duraturo di “stradino” fatto con l’ANAS. Per qualche tempo sognerà di diventare cantoniere. Lavori nei campi e nella vigna che, intanto, ha innestato e fatto crescere. Indennità di profugo. Per tutti questi anni la famiglia vivrà con queste risorse. Mio fratello resterà in collegio fino al settembre del 1968. Poi sarà il primo ad emigrare a Cologno, dove io lo raggiungerò.

21 settembre 1967: sposo Giuseppina. Al matrimonio sono assenti sia mio padre che mia madre. Mia sorella ha un piede fratturato ed è ricoverata all’ospedale di Foggia. Da qualche settimana mio padre lavora – sempre come vaccaro – in una masseria sulla strada per Manfredonia. Ci resterà pochi mesi.

1969: A gennaio mio padre si lascia convincere e viene da noi a Cologno Monzese. Farà prima lo stradino, poi sarà assunto nella fabbrica del latte Bonalumi. Durante l’estate, tutta la famiglia si sistema nella casa in affitto di Via San Martino, dove i miei genitori resteranno fino alla morte.

1972: nel mese di giugno mia madre subisce il secondo scompenso cardiaco. Nell’autunno sarà operata a Niguarda. Negli anni successivi effettuerà altri due interventi.

1981: mio padre va in pensione per raggiunti limiti di età. Guarda, intanto, dove può allestire e/o coltivare un orto. Chiamerò questa sua pulsione “La resistenza degli orti”.

1981-1991: farà la spola tra Cologno e Bisaccia. Venderà alcune terre ed il bosco. Ricomincerà, invece, a coltivare la vigna.

febbraio 1991: Una domenica sera dell’ultima settimana di febbraio, improvvisamente mi telefona mia madre: «Donato, corri qua…Tuo padre non riesce a parlare…». Corro. Lo portiamo al pronto soccorso del San Raffaele. “Ictus cerebri”.

13 giugno 1991: il giorno di Sant’Antonio, patrono di Bisaccia, verso le 12, raccogliamo l’ultimo soffio di vita di mio padre.

Non avevo un padre ricco di parole.
Scendeva a picco sulle cose,
da signore.

 

 

 

 

 

 

 

Complesso monumentale di Santa Maria della Neve

NOTE DI FINE ESTATE (2)

di Donato Salzarulo

Sono arrivato a Bisaccia l’otto luglio, verso mezzogiorno. Nel pomeriggio parto con Agostino per Montella. Franco Arminio, amico da oltre quarant’anni, presenterà «Lettera a chi non c’era. Parole dalle terre mosse», il suo ultimo libro. Lo farà nel Complesso monumentale di Santa Maria della Neve, un luogo in cui non sono mai stato. Vado volentieri a dare un’occhiata. Sarà un’occasione anche per salutarlo. Lo so impegnato a tempo pieno per tutto il mese di luglio e agosto, nella promozione dell’opera…Un’opera che conosco.
Prima che l’otto giugno venisse pubblicata, Franco ha continuato a inviarmi in posta elettronica le varie bozze. Non che abbia messo mano. Cambia le pagine a un ritmo vertiginoso. Ma so di cosa parla e come è distribuita la materia. La prima poesia, che ho letto decine di volte, è dedicata a suo padre, zio Luigi, una persona che ricordo benissimo:

Il Grillo d’Oro
sta sul lato morto della strada,
è l’ultima casa aperta
sulla destra di via Mancini.
Il luogo è antico
e c’è ancora un’aria
che tiene caldo il cibo:
mio padre cura ogni tavolo
come se fosse un nido,
riempie il piatto, gli dà peso.
Io sono il figlio che scrive,
la mia pietanza non si vede,
lo smalto è leso.
Io recrimino sul mondo
sempre più sfinito e astratto.
Mio padre non pensa al mondo
ma solamente al piatto. 

La sintassi della poesia è scorrevole e semplice. Pochissime le subordinate (due relative e una modale). Il lessico è quello quotidiano. I versi, quasi tutti piani, eccetto l’ottavo (“mio padre cura ogni tavolo”), hanno un’oscillazione metrica che va da un minimo di cinque sillabe (versi: 1, 5, 13) ad un massimo di dieci (verso 2). La maggioranza si attesta sulla misura media dell’ottonario (versi: 3, 8, 11, 14, 15, 16); tre sono novenari (versi: 4, 10, 12), tre settenari (versi: 7, 9, 17) e uno è senario (verso 6). La musicalità è assicurata prevalentemente dalle allitterazioni, da alcune ripetizioni di parole (“piatto” e “mondo”) e da alcune rime (peso / leso, astratto / piatto).
Arminio risulta attento alla lingua, ma non insegue (e non ha mai inseguito) esperimenti neo-avanguardistici né pensa (o ha mai pensato) che una poesia possa risolversi tutta sul piano dei significanti linguistici o degli istituti tradizionali (metrica, rime, ecc.). Si tiene lontano tanto dal linguaggio oscuro, ermetico quanto da quello manieristico. Il suo tono è gnomico, osservativo, riflessivo. Recrimina “sul mondo /sempre più sfinito e astratto”, ma ha bisogno di quel mondo. Ha bisogno di nutrirsi di “terracarne” o di “terre mosse”.
In questa poesia la divisione del lavoro tra padre ristoratore e figlio scrittore appare pacifica, scontata: il primo si muove in un’atmosfera calda, cura ogni tavolo “come se fosse un nido” (immagine di sapore pascoliano) e pensa solo al piatto (ossia al lavoro e a servire i clienti); il secondo scrive, ma la sua “pietanza non si vede”. Come non si vede?…In quest’ultimi mesi è il poeta che vende libri di poesia più degli altri. Diciamo che, al tempo della stesura di questa poesia – parecchi anni fa – la sua attività non era giudicata granché. A cominciare forse dai familiari. (Penso alla poesia di Palazzeschi sul poeta che si diverte…). Il suo splendore è metaforicamente danneggiato. Perciò è inquieto, s’affligge, si cruccia per l’andamento del mondo “sempre più sfinito e astratto”. Due aggettivi che richiederebbero una lunga analisi.
Il Grillo d’Oro è il nome del ristorante gestito da zio Luigi. Attualmente continua l’attività paterna Vito, il primo figlio. Il ristorante non si trova più sul “lato morto” della strada di Via Mancini – “lato morto” perché secondo il Piano di ricostruzione post-terremoto dell’Ottanta, doveva essere abbattuto. – Il ristorante oggi si trova in Piazza Convento. “Lato morto”, però, rimane un sintagma efficace: non solo perché nella poesia si oppone all’aria calda (di vita) che caratterizzava l’osteria e zio Luigi, ma perché Via Mancini, pur non essendo stata abbattuta, grazie ad una variante provvidenziale dell’amministrazione dell’ex sindaco Frullone, continua ad avere, comunque, molte porte chiuse. Tutto il paese ha ormai un “lato morto”. O forse più lati.

Ora hanno un respiro rassegnato
questi paesi.
Non sono più luoghi del sangue,
non ci sono più alberi e angoli segreti,
e non c’è più una morte che sia solenne,
sembrano morire come foglie,
come semplici conseguenze
di un affanno.

Ritornando al libro. Dopo la pubblicazione, mi è capitato di leggere delle recensioni. Quella di Roberta Scorranese sul Corriere della Sera del 17 giugno: «”Terre mosse”. Il sottotitolo ha la ricercatezza poetica di uno abituato a usare le parole, ma questo non inganni: la raccolta di scritti (in poesia e in prosa) non è un elenco di reportage dalle terre terremotate. Terre mosse è da intendersi in un senso più ampio: terre mutanti, in continuo movimento, terre che potrebbero non esserci più da un momento all’altro. Cancellate da sismi, alluvioni, frane, abbandoni, incuria. Ecco perché Arminio, da quel 1980, ha cominciato a visitare paesi, fondando il nucleo di una poetica precisa, in equilibrio fra elegia del paesaggio e ritratti umani.»
Quella di Filippo La Porta su Il Riformista del 2 luglio: «Il libro di Arminio si rivela infine come un esercizio spirituale laico, la proposta di una “filosofia”, di una postura di fronte al terremoto, al tremore. Per i terremoti non ci sono cure né vere spiegazioni, e certo non dipendono da noi: “La stessa cosa accade nel profondo di noi stessi, non possiamo entrare e uscire a piacimento dalla nostra inquietudine”. Che significa? Significa imparare che la vita non può essere immunizzata o assicurata, che quasi niente è sotto il nostro controllo (come ci promette la tecnologia), che il futuro non esiste e perciò si riempie di ogni nostra fantasia (la virtù teologale della speranza, per quanto umanamente comprensibile, secondo Pasolini genera alienazione dal presente). Si delinea qui l’abbozzo di una filosofia antica, segnatamente stoica: “il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone” (Seneca). Il messaggio non è però solo di rassegnazione: bisogna “tremare” e al tempo stesso usare il tremore. Accettare la finitezza umana – sarebbe insensato opporvisi! -, la fondamentale impotenza, la nostra “infermità”, ma costruire attraverso l’infermità un senso dell’esistere e una solidarietà di tutti gli esseri umani di fronte al nemico comune (si veda la “Ginestra” leopardiana).»
Arminio stoico?… E pensare che nel mese di maggio, quando ho sfogliato il pamphlet di Walter Siti «Contro l’impegno», nelle due paginette e mezza a lui dedicate, ho letto che, malgrado la sua farmacia poetica, restava un “nichilista riluttante”… Ah, questi critici!…Se lo conosco bene, tra la prima e la seconda etichetta, Franco, preferisce la seconda.
In macchina, mio cugino mi racconta che si è ritrovato in posta elettronica pure lui il file del libro in bozza e che ha corretto scrupolosamente gli eventuali errori di stampa. Ha così potuto leggerlo attentamente e per quest’incontro tradurrà in inglese qualche poesia. Canterà anche…
Ascoltarli sarà per me un vero piacere. Non ho voglia di scrivere niente. Non sono mai stato un critico letterario o uno scrittore in servizio permanente effettivo. Dopo il viaggio mattutino, mi rilasserò e potrò continuare a produrre il vuoto nella mente.

«Ancora non lo sai
- sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che sempre più ha voglia di morire –
non lo sospetti ancora
che di tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore del vuoto?»

Siamo arrivati. Scaccio i versi di Sereni dai neuroni e, nel frattempo, Agostino parcheggia la macchina in una radura non molto ampia, vicino al Complesso monumentale. Non è stato facile arrivarci. Nonostante avessimo cliccato luogo e via sulla mappa del cellulare, sbagliavamo l’ultima parte di strada in salita. Attenzione alle merde di vacca! Ce ne sono parecchie intorno a noi.
Breve tratto a piedi, in leggera discesa, tra alberi di castagne e finalmente la vista del Complesso. Davvero bello e incantevole. Lo sguardo spazia su una vasta vallata. Sotto il monte si vedono i tetti dell’agglomerato urbano di Montella.
Saluto calorosamente Franco ed altri amici. Dopo un po’ gli organizzatori ci propongono di visitare la mostra di Enrico Mazzone. Mentre ammiriamo le opere dell’artista, alle quali accennerò più avanti, buttiamo l’occhio anche sugli ambienti che attraversiamo: il chiostro, i lavatoi, le cucine, il forno per il pane, il refettorio, i dipinti murali…Tutto il complesso comprende il Castello Angioino, la Chiesa di Santa Maria della neve e l’ex Monastero francescano. Noi siamo riusciti a visitare soltanto quest’ultimo. L’incontro deve cominciare…

Prendo posto nello spazio all’aperto in cui Franco parlerà. Prima, però, a mo’ di introduzione c’è l’esecuzione di alcuni brani musicali da parte di un gruppo di musicisti. Si tratta di Diego De Simone, Vincenzo Natale e Gerardo Pizza. È la prima volta che li sento. Mi sembrano abbastanza bravi…Ascolto in religioso silenzio.
È il momento del mio amico. Su come conduce ed anima questi incontri ho già scritto su Poliscritture. (“Ad Avigliano con Franco Arminio”, qui). Siccome il canovaccio è, più o meno lo stesso, ho poco da aggiungere.
Siamo in uno dei luoghi più belli del mondo, dice e condivido. Tutti hanno diritto a un attimo di bene… E se la poesia riesce a donarlo, perché no?… Quando nessun essere umano ti cerca, abbraccia un albero. Sia nel senso più comune e banale che il rapporto con la natura può rinfrancare e rigenerare lo spirito, ma anche in quello più radicale del porre fine al nostro divorzio dalla natura: «Forse una buona cosa da fare è abituarci a pensare che le cose che accadono alle piante o agli animali hanno la stessa importanza delle cose che accadono agli umani. […]. La differenza tra umano e non umano non ha più senso.»
Sono tornati i miracoli: il tiglio di Bisaccia in piazza Convento, che sembrava destinato alla morte, si è ripreso. È importante stare in un luogo che si ama…
Non rimuoviamo il fondo religioso che c’è in ognuno di noi, ecc. ecc.
Voglio bene al mio amico, ma quando assume il tono profetico o da guru, preferisco tapparmi le orecchie.
Ascolto, invece, con molta attenzione le traduzioni in inglese che Agostino fa di due poesie tratte dal libro. Le riporto non soltanto per l’attenzione alla musica di un’altra lingua, ma perché sono tanti i bisaccesi (e non solo) in giro per il mondo.

Venticinque anni dopo il terremoto
dei morti sarà rimasto poco
dei vivi ancora meno.
 
Twenty-five years after the earthquake
of the dead little will have remained.
Of the living ones even less
 
Tu non eri qui quando il paese
aveva tutte le sue case aperte:
ogni vicolo era vivo
come una piazza,
il paese sapeva di sudore
e di terra,
galline sui ciottoli e uccelli
sui rami,
il sonno freddo dell’alba
sul dorso dei muli,
i padri di quarant’anni
che sembravano vecchi.
C’era una volta la desolazione
della miseria.
Ora c’è la miseria
della desolazione.
 
You were not here in the village
when all its houses were peopled:
any alley alive
like a city square,
the village smelled of sweat
and soil,
hens on the pebbles
and birds on the trees
the cold rest of the dawn
on the mules’ back
fathers in their forties
looking much older.
Once upon a time it was the desolation of misery.
Now the misery of desolatio.

Dopo aver tradotto le poesie, Agostino canta – molto bene, devo dire – una bellissima canzone di qualche decennio fa. La canta in italiano e poi anche in inglese. È quella che fa:

Sola me ne vo per la città
Passo tra la folla che non sa
Che non vede il mio dolore
Cercando te
Sognando te
Che più non ho

La serata termina con gli applausi entusiasti di tutti. Una mezz’ora se ne va tra complimenti e saluti agli amici. Alla fine, io e mio cugino andiamo a mettere qualcosa sotto i denti in una trattoria dalle parti di Lioni. L’unica che troviamo ancora aperta.

LA MOSTRA DI ENRICO MAZZONE

«Nigredo, Albedo e Rubedo. Magnum Opus: omaggio a Dante». Questo il titolo della mostra.
Pur avendola guardata in fretta e superficialmente, voglio accennarvi. Enrico Mazzone è un’artista giovane, nato a Torino nel 1982, e il suo omaggio a Dante ha tratti di sicura originalità. Non ha illustrato la Divina Commedia come hanno fatto diversi grandi artisti; un’illustrazione che era ovviamente anche un’interpretazione. Ha dipinto una sua Divina Commedia ispirandosi all’illustre fiorentino. Questa sua Grande Opera – 97 metri di lunghezza, 4 di larghezza, 6 mila matite consumate, 5 anni di lavoro – rappresenta una metamorfosi, un percorso spirituale che gli consente di passare da Nigredo a Rubedo attraverso Albedo…Un po’ come Dante che viaggia dall’Inferno al Paradiso attraverso il Purgatorio.
La sua poetica è abbastanza “ermetica, criptica e sibillina” – sono parole sue  -; il suo enorme lavoro, tuttavia, suggestiona, suscita meraviglia e volontà di capire di più. Sia chiaro, non sono riuscito a dedicare ad ogni pannello esposto più di trenta secondi. Ma mi sono permesso di scattare qualche foto delle tavole e me le sono guardate e riguardate con calma.
All’inizio ci sono frammenti di rocce granitiche incise: il profilo di un volto, due mani congiunte per pregare, i molti raggi di una stella…È così rappresentato il contatto con la materia prima e la voglia di trasformarla. Questa è Nigredo.
Poi vi sono le tavole di Albedo, per lo più gremite di figure disegnate a matita: vi sono figure realistiche, altre mitologiche, fantastiche, oniriche, folcloriche. Sono tavole che stupiscono per la pienezza, densità e vitalità delle scene rappresentate. Insieme a queste ci sono diverse tavole che l’artista contrassegna col titolo “Postilla”. Sono dipinte a colori e rappresentano personaggi del poema dantesco (ad esempio, Minosse), ma non sempre. Davvero Mazzone ha voluto personalizzare molto il suo percorso di lettura, assimilazione e trasformazione del poema.
Infine, Rubedo, che non abbiamo potuto vedere perché era esposto nella Chiesa, dove noi non siamo andati. Sia perché stava iniziando l’incontro con Arminio, sia perché – se non ho capito male – era chiusa.
Io, però, ho fatto in tempo a fotografare un pannello in cui Mazzone, imitando i versi danteschi, cerca di dare un senso al tutto.
Lo trascrivo qui:

«NIGREDO, ALBEDO E RUBEDO

Ho scritto infine dei versi, per aiutare l’osservatore a svincolarsi dalle convenzioni dalla cifra stilistica dantesca e dare più spazio alla sua personale interpretazione.
Compaiono dipinti in rosso sangue le battute iniziali:

Per versi oscuri e affini or prova ancora
A ripropor la selva e il suo disagio
Arbitrio
affine all’utile del plagio
Fondato sulla inutile Paura

Lo sguardo assente invidia la calata
dei Denti e invoglia a guisa di Plutone
Non era certo facile al vantaggio
Portare avanti e ferma una opinione

Così mi son celato in sette anni
lontano dalla casa dei miei Numi
Amati per i sempreverdi affanni
Nei miei confronti (che interpreto oggi acumi)

O Disio, avvezzo al fascino del Fato
Mai non sentito di cotanto sprezzo
Con sol Due Denti al vacuo e umil palato
Ritorno in fretta umano “Io non mi spezzo”.

I versi evidenziati [in grassetto], sono realmente stati dipinti con sangue di renna (importato dalla Finlandia in vasi protetti e sigillati a norma) per dare i connotati del color porpora (rubedo) e per simboleggiare la sofferenza del parto che dà alla luce la procreazione.

Una nuova realtà nasce.»

Al di là della metrica che in qualche punto zoppica, sono versi con una loro energia che si vogliono programmaticamente “oscuri e affini” a quelli dell’illustre fiorentino. Ha senso oggi riproporre “la selva e il suo disagio”? Il poetante avverte un certo “arbitrio”; ma è un “Arbitrio affine all’utile del plagio”. L’aggettivo “affine” ritorna e “l’utile del plagio” (della Commedia ovviamente) è “fondato sull’inutile Paura”. Nel gioco oppositivo dell’utile/inutile, par di capire che chi verseggia abbia provato una Paura (personificata) come quella dantesca nelle prime terzine dell’Inferno.
Più avanti accenna al fatto che “portare avanti e ferma un’opinione” non gli è stato facile né vantaggioso, perciò è stato costretto a celarsi per sette anni “lontano dalla casa dei miei Numi” (non solo i domestici Lari torinesi, ma anche autori di riferimento come Dante). Ho l’impressione che in questi versi il poetante alluda ai suoi viaggi per le città del Nord Europa: Oslo, Laavrik, Carlsberg, Berlino, Reykjavik, Rauma…(leggo nella sua biografia). Destino, ormai, più o meno comune, a molti nostri giovani. Che dire?…Ben tornato a Montella e in Italia.
“O Disio, avvezzo al fascino del Fato”…Purtroppo il Fato vuole che il mio incontro con queste opere si svolga in concomitanza con quello di Arminio. Penso che questo gigantesco lavoro meriti sicuramente più attenzione e approfondimenti. Spero che il Fato mi riservi un altro momento più propizio. Il “Disio” di arricchire la mia conoscenza dell’opera di Mazzone c’è ed è vivo.

Il mio posto di vacanze

Piazza Duomo a Bisaccia

NOTE DI FINE ESTATE (1)

 di Donato Salzarulo

Non ho luogo migliore per le vacanze estive del mio borgo natio. Lontano dall’afa milanese, ormai pensionato, m’immergo per due mesi nel liquido amniotico di parenti e amici. Faccio ciò che per il resto dell’anno non faccio: siedo al bar, passeggio avanti e indietro in piazza Duomo, accompagno quasi ogni giorno l’amico Michele al Convento. Ha dieci anni più di me ed è tormentato dal corpo che non vorrebbe arrendersi, ma qua e là già cede e si deprime. L’ipocondria non affligge soltanto il poeta Arminio (altro mio amico). È una malattia diffusa come la malinconia che spesso ci afferra e paralizza.  Del resto, oltre all’età, la pandemia ancora imperversante non regala certo slanci ed entusiasmi.
«Ho grande nostalgia dei miei “Sonetti d’agosto”», mi capita di confessare a Michele uno dei primi giorni, mentre scendiamo per via Mancini.
«Non li conosco bene, non me li hai mandati e non li hai mai pubblicati.»
«Vero. Li scrissi qua, a Bisaccia: uno al giorno, come la mela del proverbio che toglie il medico di torno…Li scrissi nel 1987. Avevo 38 anni. In quei versi circola una grande energia. È di questa che avremmo bisogno e di cui ho nostalgia…»
«L’età è importante, molto importante…»«Sì, però anche il contesto sociale, culturale e politico conta…»
«Indubbiamente…Ma fammi sentire l’energia… Te ne ricordi qualcuno?…»
«Figurati!… Me li ricordo tutti. Allora scrivevo versi che dovevano essere memorabili, anche in senso letterale. Nel senso che la memoria doveva poterli ricordare facilmente…Ero convinto, infatti, che una poesia riuscita doveva essere musicale, imprimersi ben bene nell’orecchio e lasciare nella mente una sensazione piacevole su cui riflettere…»
«Un po’ come ci succedeva da studenti, quando imparavamo a memoria almeno quindici poesie all’anno…»
«Sì, un po’. Ma, al di là di questo utilissimo esercizio, il rapporto tra poesia e memoria è secondo me un tema fondamentale, costitutivo del linguaggio poetico…»
«Dai, allora, recitami uno di questi Sonetti…»
«Ti recito il terzo…Fa così:

 Non fuggo più, non sfuggo la calura
Io ti ricerco nella tua dimora
Non ho paura della tua statura
Non voglio che si affoghi nella gora

 Di spire in spire vengo alla tua altura
Di fragile splendor mi nutro ancora
Dei tuoi piedi conosco l’andatura
L’orrore bruci, vada alla malora

 Chiaro tormento luce di furore
Del tuo dolore antico mi coloro
Di questa storia penetro il rancore 

Le prugne acerbe colgo ed io m’indoro
Odoro tutti i petali del cuore
Così viepiù di te io m’innamoro.

«Mi piace…Sono le parole di un Io esuberante, baldanzoso, che intende innamorarsi sempre più della lingua poetica. “Di spire in spire vengo alla tua altura” è un verso bellissimo…Ridimmela di nuovo…»
Gliela torno a recitare; intanto passiamo attraverso le ortiche della Valle e cominciamo a salire lungo via Rollo. Tra poco spunteremo in piazza, dove Lina, la moglie di Michele, lo sta già aspettando amorosamente in macchina.
Domani è un altro giorno.

PROGETTI SFUMATI

Quando ai primi di luglio, parto per Bisaccia, ho in testa due o tre progetti di scrittura. Caccio nella mia borsa da viaggio una decina di libri (o forse più) per aiutarmi a realizzarli.
Quest’anno ho con me due libri di Berger sul guardare e sugli sguardi, uno di Didi-Huberman sull’immagine, un altro di Pinotti e Somaini sulla cultura visuale, uno di Dal Lago e Giordano sui mercanti d’aura e un altro di Gombrich su immagini e parole, quello assai noto di Sontag sulla fotografia e quello, altrettanto noto, di Foucault sulla pipa di Magritte che non è una pipa. L’intenzione è di andare avanti con la mia rubrica su Poliscritture.
Ma per non rinchiudermi nei miei “Punti di fuga”, nella borsa metto pure un “Ritorno a Francoforte” e alla sua Scuola di Giorgio Fazio e una conversazione di Nancy Fraser con Rahel Jaeggi sul capitalismo. Questi due libri un po’ me li sono cercati da solo, un po’ mi sono stati suggeriti dagli articoli di Cristiana Fischer sulla sua rubrica.
Poi, siccome ho scritto, oltre trent’anni fa, un testo poetico (inedito) intitolato “Sogno della casa”

– «Io meditavo
premeditavo
come scoprirti
seno fiorito» –  

e recentemente ho letto di scrittori e filosofi che hanno affrontato il tema da par loro, sistemo in borsa il libro di Coccia sulla “filosofia della casa” e quello di Andrea Baiani sull’abitare le case; proprio come volevo fare io con quelle, in affitto o in proprietà, abitate dalla mia nascita ad oggi.
Sia chiaro, non ho nessuna invidia per Bajani. Ho comprato il suo libro e sono contento che l’abbia scritto su un tema così caro. Naturalmente sono curioso di capire come lui l’ha affrontato…
Poi, per non farmi mancare niente, butto dentro, all’ultimo momento, un libro di Barenghi su Calvino; e il Siti di “Contro l’impegno”, che Elena Grammann ha recensito su Poliscritture. N’è nato un dibattito sulla letteratura che ho seguito un po’ con la coda dell’occhio, anche se il libro l’avevo leggiucchiato a maggio a Pietra Ligure.
Siccome nella mia mappa mentale (assai semplificata e sicuramente sbagliata) ho visto stagliarsi dietro le figure di Pasolini e Fortini, voglio rinfrescarmi le idee su Calvino… «Se una notte d’inverno un viaggiatore»…
Insomma, con tutti questi libri in borsa, la mia lunga vacanza nel borgo feudale sarebbe stata proficua ed operosa. Qualcosa di cui andar fieri. Avrei letto, scritto, commentato. Avrei fatto ciò che fanno gli intellettuali seri, mica gli influencer…Avrei.
Invece, come accade dall’estate del ‘68, – primo anno di ritorno a casa da emigrato (allora portai con me quasi una valigia di libri) – non ne ho letto quasi nessuno.
Per la cinquantesima volta (in due o tre occasioni non sono tornato al borgo) il comportamento si è ripetuto. Cosa da manicomio.
I libri sono i miei oggetti transizionali: la coperta di Linus, il mio orsacchiotto…
Vi prego, figliole, quando morirò, mettetemene qualcuno nella bara!…
Non desidero commentare oltre questo mio modo di fare.
Dovrei affidarmi ad uno psicologo, a uno psicoterapeuta o a uno psicoanalista, ma l’età lo sconsiglia.
Spero che prima della morte si compia il miracolo di partire con la borsa vuota o, addirittura, senza.
Anche perché nella casa del borgo ho di che leggere.
Infatti, anche quest’anno, mentre scanso accuratamente, le pagine dei libri portati, a un certo punto, non so perché, mi lancio su Moby Dick e la balena bianca, libro venduto due anni fa col Corriere della Sera prefato da Trevi e tradotto da Ottavio Fatica…
Bizzarrie della psiche, in balia della curiosità, delle seduzioni e dei dibattiti del momento…Quest’anno Trevi ha vinto il premio Strega.

Non sono un libro. E se lo fossi,
avrei molte pagine illeggibili
e tantissime altre – le più inquietanti
completamente bianche.

La spassosa inanitá del mondo

PENSIERI DOMENICALI

di Donato Salzarulo

«Ora che ci penso, Manganelli è l’opposto dell’intellettuale engagé (e parliamo di un’epoca in cui non esserlo era considerato un crimine). Tanto l’impegnato di professione si mobilita solo in nome di cause di importanza nodale scegliendo con cura argomenti elevati: democrazia, socialismo, legalità, giustizia sociale, ecologia…tanto Manganelli trae spunto e ispirazione da quisquilie. Tanto il mandarino pontifica, inveisce, sacramenta, tanto Manganelli dubita, blandisce, sta sempre lì a schermirsi. Tanto il militante parla a nome di tutti noi, tanto Manganelli ha ritegno a parlare persino per sé stesso. Tanto l’attivista di lungo corso è musone, giudicante, sicuro del fatto suo, tanto Manganelli è ilare, indulgente, malcerto. Peccato che il più delle volte le intemerate del guerrigliero siano rozze e corrive, a dispetto delle frivole e tuttavia così squisite divagazioni di Manganelli capaci di rivelare la spassosa inanità del mondo.»
(ALESSANDRO PIPERNO, La Lettura, n° 516 del 17 ottobre 2021, pag. 29)

DELL’ALTRA METÁ DEL LIBRO DEVE OCCUPARSI IL LETTORE

«Si scrive solo una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore»
(Joseph Conrad, citato da Gianfranco Ravasi nell’articolo “Il buon scrittore tiene la Bibbia aperta” apparso sul Domenicale del Sole 24 ore del 17 ottobre 2021, pag. III)

Non sono un intellettuale engagé (ma esistono ancora?), non sono un impegnato di professione neanche un mandarino che pontifica, inveisce, sacramenta (non ho cattedra all’Università, né sui giornali nazionali o nelle rubriche radiotelevisive), non sono un militante che parla a nome di tutti (quando riesco, dico, al massimo, ciò che penso), non sono un attivista di lungo corso della carta stampata né un guerrigliero…eppure, dopo aver letto, che Piperno – lui sì che è attivo, è impegnato, pubblica, ha vinto il premio Strega, ha cattedra, ecc. ecc. – invita a leggere Manganelli perché rivela “la spassosa inanità del mondo”, se mi fosse possibile, lo diventerei seduta stante: cioè (ah, questo cioè di altre epoche!), diventerei intellettuale engagé, impegnato di professione, ecc. ecc. Ma le pare sensato, signor Piperno, che un lettore, il quale deve occuparsi, teste Conrad, dell’altra metà del libro, lo faccia per ritrovarsi tra i neuroni la rivelazione della “spassosa inanità del mondo”? Se il mondo è vacuo e inutile, anche i libri di Manganelli lo saranno. Per quanto i suoi standard stilistici siano altissimi, dai suoi esercizi edonistici e dalle sue frasi voluttuose il lettore non potrà ricavare neanche il banale pugno di mosche. Altro che rivisitarlo! Lasciamolo dormire il sonno eterno e non se ne parli più.

La fede opaca di Fortini

Questo saggio è già comparso sul n. 6 – dicembre 2009 di Poliscritture cartacea scaricabile qui

Donato Salzarulo

Con te a volte appuntamento
mancato, ala d’eclissi, soffio
innevato.

C’è una poesia della raccolta «Composita solvantur» (Einaudi, 1994) che non mi risulta abbia ricevuto sinora molta attenzione o commenti. Eppure Fortini le attribuì una posizione “strategica”: collocandola all’inizio; facendola stampare in corsivo, con un carattere tipografico diverso dalle altre; dandole una funzione di apertura e di “illuminazione” del clima generale della raccolta, di guida implicita, ecc. In breve, un insieme di segnali che il lettore non può non notare. La poesia, senza titolo, è questa:

Per quanto cerchi di dividere
con voi dal vero le parole 

la fede opaca di che vivo
è solo mia. La tento ancora 

e l’occhio guizza, la saliva
brilla sull’orlo dei canini, 

o incerti amici, o incerte prove.

                   *

 Per quanto cerchi di conoscere
che cosa guarda dal sereno 

dove il celeste posa in sé,
di questo sono certo e fermo: 

i globi chiari, i lenti globi
templari cumuli dei venti 

non sono me.

Quattordici versi in tutto, orchestrati meravigliosamente e con incomparabile sapienza. Quattordici versi suddivisi in due tempi perfettamente equivalenti: sette e sette. Evidente la simmetria. La composizione è una, ma è divisa come una foglia di alloro in due parti. Sia i sette versi della prima che quelli della seconda sono distribuiti in coppie di novenari. Ancora il due, quindi, e ancora la simmetria. Ma i versi sono dispari e uno alla fine resta solo (“o incerti amici, o incerte prove.”, “non sono me.”). L’ultimo verso tronco è mimesi della poesia che si tronca e smette di dire. «L’uno che in sé si separa e contraddice, e tu fissalo; finché non sia più uno. E poi torni ad esserlo, e ti porti via» aveva scritto Fortini in «Una volta per sempre» (Einaudi, 1987)Una volta per sempre».

I primi versi di ambedue le prime coppie sono sdruccioli e in rima tra loro (“Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”). Sette: numero sacro per eccellenza, espressione della mediazione fra umano e divino. Sette sono le luci del candelabro ebraico, simbolo della fede perennemente accesa; sette i sacramenti, sette i peccati capitali, sette le virtù (quattro cardinali e tre teologali), sette le note musicali, sette i giorni della settimana, ecc. ecc. Il simbolismo del sette è ricchissimo. Poi, l’Uno che è in sé Due. Le coppie di novenari della prima e della seconda parte sono tre e tre. Altro numero di carattere indubbiamente simbolico, come il padre Dante e tutta la storia del cristianesimo insegna. Del resto anche la scelta di una misura metrica come il novenario non è certo dovuta al caso. Il simbolismo del sette, l’Uno che è in sé Due, la distribuzione trinitaria delle coppie, il ritorno della solitudine dell’Uno, le pause ritmiche del novenario, il verso tronco finale… Fortini ha insegnato che in poesia la forma è il contenuto. Il come di questo testo dice, allora, già molto di sé. Vorrei soltanto ricordare che «Composita solvantur» è l’ultima opera di questo poeta e rappresenta un po’ il suo testamento.

Sulla tessitura musicale non voglio dilungarmi più di tanto: appare come è evidente fitta di ripetizioni e variazioni attraverso rime, assonanze e consonanze, ecc. Nella circostanza, preferisco andare ad un’analisi più ravvicinata del testo: sia il primo verso sdrucciolo della prima parte che quello della seconda sono aperti da una locuzione congiuntiva, di natura concessiva, che ha implicitamente il sapore e il tono di un bilancio interiore: “Per quanto cerchi di dividere”, “Per quanto cerchi di conoscere”. Il gesto del cercare di dividere (che vale sul piano semantico sia come “condividere”, “rendersi partecipe” che come “frazionare”, “distinguere”) e quello del cercare di conoscere appaiono ripetuti come tentativi tenaci anche se condotti su terreni sdrucciolevoli e incerti nei loro risultati.

La prima coppia concessiva recita: “Per quanto cerchi di dividere / con voi dal vero le parole”. C’è un Io poetico, quindi, che si rivolge a un Voi con cui sembra avere in comune un’attività: quella di condividere con loro e/o di distinguere “dal vero le parole”. Sì, perché le parole, pare di intendere, non sempre provengono dal vero o non sempre sono capaci di rivelarlo. Ricercare e indagare su quelle parole che segnalano e mostrano il vero è perciò attività assolutamente importante. Ma questo vero di che natura è? Non è sicuramente quello a portata di mano, quello per cui alla domanda se in questo momento stia piovendo, una persona possa rispondere vero o falso. Il vero che l’Io poetico cerca di percepire e distinguere con quel Voi a cui si rivolge è tale che si trascina dietro un’importantissima confessione: “la fede opaca di che vivo / è solo mia.”  È un vero, allora, in relazione con la fede, che richiede una risposta personale, coinvolgente, impegnativa. Sottolineo: non è in questione un’opinione più o meno fondata, la verifica di un’ipotesi scientifica o la dimostrazione di un teorema. Fede è adesione piena di una persona, credenza profonda di cuore e mente, di sensibilità e ragione. Riguarda il tutto.

Il mettere in primo piano questa certezza personale, non credo comporti una preconcetta svalutazione di quel Voi collettivo, impegnato, come l’Io poetico, nella ricerca del vero. È consapevole, però, di muoversi su un terreno scivoloso, incerto (“o incerti amici”). È probabile, infatti, che non tutte le persone di quel Voi siano impegnati allo stesso modo, con lo stesso sforzo e la stessa intensità nella ricerca. Da qui il tono di una confessione intima e, allo stesso tempo, risoluta; libera e necessaria; partecipata e tuttavia distaccata. Una dichiarazione di fede che appartiene alla vita dell’Io e che coinvolge tutte le fibre della sua esistenza individuale e sociale.  “Fede opaca”, scrive Fortini. E bisogna intendersi. Opaca è aggettivo che oscilla dal “non trasparente” al “poco comprensibile”, dal “poco luminoso” al “poco rischiarato”, allo “stare in ombra”. Non penso che Fortini attraverso l’aggettivo voglia sminuire il sostantivo, dargli meno valore.  È poeta che so traduttore di figure limpide come Simone Weil. Scrivendo “fede opaca”, è probabile che avesse presente Giovanni della Croce o altri mistici per i quali la fede è «notte oscura dell’anima». Non è luce, produce luce. È certezza interiore che appartiene in modo esclusivo e totale al singolo.  Non è credenza cieca, superstiziosa, dogma incrollabile e inattaccabile. Di queste credenze anche collettive possono a volte alimentarsi le ecclesie. È confessione esplicita di certezza, punto fermo in ombra, poco luminoso che, forse proprio per questa sua opacità, riesce a produrre, come sostenevo prima, grani di luce; è, comunque, un nutrimento (“di che vivo”) da sperimentare, da mettere ancora alla prova nella vita quotidiana (“La tento ancora”). Nutrimento che produce sul piano individuale effetti salutari come mostrano proprio i versi successivi della poesia: “e l’occhio guizza, la saliva / brilla sull’orlo dei canini”. Guizzare, brillare. Azioni indubbiamente vitali, scatti, segnali di vivacità e luce. Così quest’Io, che ancora una volta mette alla prova la sua “fede opaca”, ne trae benefici per nulla disprezzabili: l’organo della vista risulta potenziato e si muove dinamico e brioso; e, come nel famoso esperimento di Pavlov, di fronte allo stimolo che essa rappresenta, aumenta la salivazione del soggetto. L’acquolina in bocca è riflesso condizionato; è, però, anche manifestazione della voglia di mangiare, assimilare e nutrirsi; segnale di presa di possesso, pulsione e desiderio forte, per certi versi, aggressivo di mordere e afferrare il cibo. Ma qui il cibo da afferrare, mordere, assimilare, il pane e vino da mangiare e da bere sono le relazioni sociali dell’Io col Voi, sono quegli “oggetti d’amore” e conoscenza rappresentati dai tentativi ostinati di condividere e individuare le parole dal vero. Conclusione dell’Io poetico: “o incerti amici, o incerte prove”. Il tono è un po’ sconsolato, ma non rassegnato e rinunciatario.

Conclusione mia, provvisoria, riferita a questi primi sette versi: il testo è attraversato da una dialettica di certezza-incertezza. La prima è relativa alla fede personale, la seconda alle condivisioni sociali, ai tentativi e alle prove che vengono effettuate per distinguere insieme agli altri “dal vero le parole”. Generalizzando si potrebbe dire: sul terreno sociale e/o “ecclesiale” dell’appartenenza, che rappresenta sia il momento della “tentazione” della propria fede, del metterla alla prova e sperimentarla, sia quello della vitalità e vivacità esistenziale, domina l’incertezza. Nella storia sociale e politica mentre le “amicizie” di ognuno di noi sono incerte e incerti sono i tentativi che facciamo per raggiungere le verità, è certa, invece, la fede opaca che ognuno si porta dentro e con cui nutre le sue prove di esistenza.

La dialettica certezza-incertezza domina anche nella seconda parte della poesia. L’incertezza questa volta è relativa agli atti conoscitivi, soprattutto quelli rivolti al “che cosa guarda dal sereno // dove il celeste posa in sé”. Il “celeste”: aggettivo sostantivato. Relativo al cielo, cioè ad un luogo in cui qualcosa che sta tra un “corpo”, un “regno”, un “padre” più o meno sublime e ineffabile, è immobile, fermo in sé, sia nel senso dell’adagiarsi, calmarsi, sia nel senso dell’appoggiarsi e aver fondamento. È qui, da questo luogo sereno, terso, privo di affanni che proviene uno sguardo verso un oggetto, un “che cosa” impossibile da conoscere nella sua totalità e completezza, per quanto l’Io poetante tenacemente si sforzi. A fronte di questa incertezza, in antitesi, c’è l’annuncio poetico di una certezza e di una fermezza un po’ simile a quel posarsi in sé del celeste: “di questo sono certo e fermo:” E su cosa non ha dubbi e tentennamenti quest’Io? “i globi chiari, i lenti globi / templari cumuli dei venti // non sono me.” La parola ripetuta, che fa da baricentro è “globi”, cioè le sfere terrestri e celesti. Ma potrebbero essere anche i globi oculari di quel celeste che guarda dal sereno. Comunque, i globi sono il soggetto della proposizione che, dopo alcune apposizioni, si conclude con la sottolineatura di una non identificazione: “non sono me”.  La certezza dell’Io è dunque questa: pianeti e universi luminosi, tersi come quel sereno in cui “il celeste posa in sé”, conosciuti e lenti nei loro movimenti, ammassi religiosamente sovrani (“templari”) dei venti (del divenire e della trasformazione), non s’identificano con il me, oggettivato dall’Io. “Dove il celeste posa in sé […] non sono me”. La rima precipita il significato verso questa non identificazione del Sé celestiale e del Me poetico. Come dire? Questi Me, questi accusativi che ognuno di noi produce fino alla morte, queste oggettivazioni artistiche, poetiche della propria esistenza sono altra cosa rispetto al Sé immobile e autoriflesso che guarda dal suo luogo sereno non si sa bene cosa, con globi contenenti cumuli di divenire. Se è vera questa non identificazione e se il sereno col “celeste che posa in sé” rappresentano modi di indicare il Divino, se ne deve dedurre che esso non è solo o prevalentemente una “costruzione” degli esseri umani. Non è il frutto delle loro illusioni e alienazioni.

Difficile trarre conclusioni meno che provvisorie da questo modesto tentativo di lettura. A me sembra che in questi versi circolino pensieri importanti relativi alle seguenti questioni:

  1. Rapporto “ecclesia” (anche comunista, sebbene nel nostro presente sia quanto mai sprofondata nelle catacombe) e “fede opaca” del singolo. Nell’ecclesia si sta insieme per distinguere e conquistare il vero, ma bisogna stare all’erta, non dimenticare il terreno sdrucciolevole e incerto degli amici e delle prove. La certezza può essere a carico della propria fede, non della propria appartenenza. Fortini non è individualista, ma la lotta per dividere “dal vero le parole” è un compito centrale e viene prima di qualsiasi appartenenza. D’altronde che Fortini sia stato tutt’altro che “intellettuale organico” alle varie svolte di questo o quel partito del movimento operaio è abbastanza noto. Così come noto è il suo insistere, sul tema dell’amicizia, piuttosto che sull’incontrarsi sul separarsi e estraniarsi.
  2. Nel luogo sereno in cui essere e divenire coincidono, il me non c’è. Le oggettivazioni umane non sono alienazioni, ma non sono neanche attributi della Sostanza divina. Il celeste è l’altrove, il luogo da cui guarda un qualcosa d’incerta comprensione e concepimento umano. Domanda: Fortini quale concezione ha di Dio? Conoscendo la sua biografia, la risposta potrebbe apparire scontata: quella giudaico-cristiana. In un’altra poesia, infatti, della raccolta – poesia posta sulla prima di copertina – parlando di come gli diventerebbe più acuto il dolore delle ossa, rivolto quasi certamente a Dio, lo invita a incenerirlo: “Grande fosforo imperiale, fanne cenere”. Dio, quindi, come intelligenza suprema e sovrana. Mi viene anche in mente che pochi anni prima, nel 1991, aiutò Paolo Jachia a raccogliere un’antologia dei suoi testi, una specie di dizionario composto da cinquantanove voci («Non solo oggi. Cinquantanove voci», Editori Riuniti, 1991) e una di queste era proprio Iddio. Non si trova nessun discorso filosofico o teologico. È semplicemente ripresentata una bella poesia già apparsa in «Una volta per sempre». Titolo: “La partenza”. Forse è opportuno, a questo punto, rileggerla:

 

Ti riconosco, antico morso, ritornerai
tante volte e poi l’ultima.
 Ho raccolto il mio fascio di fogli,
preparata la cartella con gli appunti,
ricordato chi non sono, chi sono,
lo schema del lavoro che non farò.
Ho salutato mia moglie che ora respira
nel sonno sempre la vita passata,
il dolore che appena le ho assopito
con imperfetta, di sé pietosa, atterrita tenerezza.
Ho scritto alcune lettere ad amici
che non mi perdonano e che non perdono.
E ora sul punto di dormire
un dolore terribile mi morde
come mille anni fa quando ero bambino
e lo chiamavo Iddio, e Iddio è questo
ago del mondo in me.

 Fra poco, quando dai cortili l’aria
fuma ancora di notte e sulla città
la brezza capovolge i platani, scenderò per la via
verso la stazione dove escono gli operai.
Contro di loro fiume triste, di petti vivo,
 attraverso la mobile speranza
che si ignora e resiste,
andrò verso il mio treno.

 La poesia è datata 1960-1962. Partire è un po’ morire, dice il proverbio. Prima di morire davvero, Fortini ci regalò ancora per oltre un trentennio le note acute dei suoi pensieri e delle sue riflessioni. È significativo, però che nel 1991, riproponeva questo componimento. Dentro c’è l’Iddio: questo “antico morso”, “dolore terribile”, “ago del mondo” conficcato nella sua e forse nella nostra carne. È il Dio dell’Antico Testamento, il “grande fosforo imperiale”.

Bisognerebbe togliere credo la poesia iniziale che ho cercato di commentare dal suo splendido isolamento, connetterla con altre sorelle e con altri testi. Obiettivo: comprendere meglio la dimensione religiosa di Fortini insieme alla sua saldatura con quella politica e culturale. «La religione non può essere identificata col misticismo o con l’irrazionalità. Hegel lo sapeva. E anche Marx.» scrisse il poeta in «Insistenze» (Garzanti, 1985). Esplorare i molteplici sensi di questa “fede opaca”, capire come alimenta energie vitali e produce importanti visioni dialettiche, rimane perciò compito fondamentale di ognuno di noi. Le nostre fedi, come quella di Fortini, dovrebbero saper scendere per le vie, incontrare i volti vecchi e nuovi del lavoro sfruttato e produrre, anche sulle questioni ultime e penultime, salutari eresie e intelligenti combattimenti culturali e sociali.

26 Ottobre 2009

Figure dolenti


GALLERIA DI RICORDI TRA RACCONTO E RIFLESSIONE

di Donato Salzarulo

Ripropongo questo testo del 2008 già comparso sul numero 4 cartaceo di Poliscritture (scaricabile qui). 

 

Credo si chiamasse Michele. Aveva un anno o due più di me. Si era adolescenti.

Stavamo un giorno affacciati sul parapetto di piazza Convento, quella che, come la siepe leopardiana, apre allo sguardo l’ultimo orizzonte. Si stava lì a godersi il pomeriggio di sole appenninico, quasi in silenzio o raccontandosi, come spesso si faceva, donne e sogni. Un urlo ci colpì. E due secondi dopo vedemmo Michele crollare a terra e il suo corpo farsi elettrico, tremare, sbattere, sussultare. «Tenetegli la testa, tenetegli la testa» ingiunse una voce adulta proveniente dalla panchina sotto il tiglio della piazza. «Tenetegli la testa…Potrebbe farsi male». Ma noi si era paralizzati, terrorizzati. Una manciata di secondi ancora e quel corpo in preda a sé stesso, alla sua crisi si calmò. Il viso pallido, funereo. All’angolo delle labbra una striscia di bava. Restò per terra immobile diversi minuti con noi, intimoriti, a cercare di prestargli soccorso. Poi arrivò il padre e il fratello più grande.

In seguito seppi che si trattava di crisi epilettica. In seguito, andato via da più di un decennio dal paese, seppi della morte di Michele. Non so se per epilessia o per qualche sua complicazione. Oggi mi pare che per questa malattia non si muoia e che il “mal caduco”, come popolarmente si chiamava una volta, è tenuto abbastanza sotto controllo dai farmaci.

A Michele ho sempre ripensato, quando ho avuto in classe alunni epilettici, quando ho acquisito parenti dichiarati sofferenti di questo male, quando un po’ di anni fa ho letto L’idiota. Dostoevskij soffriva di epilessia e come lui il principe Myškin, eroe del romanzo.

La malattia irrompe nella quotidianità, è dentro. Da ragazzi si stava in bande. A scuola terminata, bel tempo o maltempo, si andava per le strade a sfidarci, a lanciarci sassi, a bussare alle porte, a rovesciare conche d’acqua piovana raccolta dai canali, a giocare al piattello, a figurine, a salta la cavallina. Tra di noi, ai margini, si aggirava un mio omonimo. Ben più grande, però. Sui vent’anni forse. Non frequentava quelli della sua età, ma non frequentava neanche noi (come avrebbe potuto?). Ciondolava silenzioso, guardando furtivamente, orecchiando. A volte si allungava sui sedili, su un parapetto di muro, sulle scale di una loggia. Inoperoso come un buono a nulla. Parlava spesso da solo. Qualche volta qualcuno lo mandava a riempir barili alla fontana. E lo si vedeva trascinare litri d’acqua sulle spalle. Non era cattivo, ma noi lo rendevamo tale. Quando lo vedevamo aggirarsi disadattato tra l’una e l’altra età, col cranio rasato a zero, cominciavamo a prenderlo in giro, a chiamarlo col suo nomignolo, a tirargli sassi. E lui ci rincorreva, ci minacciava, ce ne diceva di tutti i colori. Un po’ paura di lui ce l’avevamo, un po’ ce la procuravamo. Donato col suo pantalone di tela e la giacca scura e sdrucita faceva da spettro alla nostra fanciullezza. Un giorno non l’abbiamo visto più. «L’hanno portato ad Aversa, al manicomio» dicevano concordi le voci del paese.

Quando a Torino, tra il ’67 e il ’68, tra l’occupazione di Palazzo Campana e il primo esame di pedagogia generale, ho letto alcuni libri di Laing, mi sono chiesto di cosa soffrisse il mio omonimo. Io diviso? Psicosi? Schizofrenia? Boh. Donato non mi sembrava così pericoloso da dover essere rinchiuso. Cosa era successo? Cosa aveva fatto di tanto grave? Boh. Forse avevamo voluto semplicemente togliercelo dall’anima.

A legge Basaglia approvata, col decreto di chiusura dei manicomi, tornando in vacanza al paese, ho spesso sperato di rincontrare il mio sfortunato omonimo. Nulla. Una voce un giorno mi disse che aveva dei parenti in Puglia. Forse stava lì. O forse era morto.

Non posso testimoniare. Non ho visto coi miei occhi. Il racconto, però, mi è stato fatto da gente fidata: mio fratello, mia sorella, mia madre, mio padre…Erano lì, erano in casa. C’erano anche zio Antonio e zia Maria. Lo facevano spesso, dopo cena. Si raccoglievano intorno al camino per chiacchierare, spettegolare, litigare.  Io avevo altre esigenze ed ero a caccia di sguardi femminili nella piazza del paese. Tornando a notte fonda, ad occhi delusi e mani vuote, come quasi sempre accadeva, mia madre che riordinava: «Figlio mio, non puoi immaginare cosa è successo stasera!… Tua zia!…La sarta!…Due uomini non riuscivano a mantenerla. Urlava come una pazza contro di me. Rossa in faccia. Invasata. Completamente invasata. Coi capelli che ognuno se ne andava per i fatti suoi. Ha avuto una crisi.»

La zia sarta era una cugina di mia madre. Sposata a un calzolaio, non aveva potuto coronare il suo sogno di maternità. Ce l’aveva così con tutte le donne, soprattutto le parenti, che di figli ne avevano almeno tre e non erano certo più “intelligenti” di lei. Su questo punto la zia non transigeva. L’intelligenza ce l’aveva tutta lei e lei poteva fare ben altro che la sarta, se…Insomma, delirava un po’. E siccome sembra che torni a piovere dove già piove, la zia, oltre alla sfortuna di non avere figli, visse la tragedia di un unico fratello morto in Germania ancora giovane e in circostanze tutt’altro che chiare. Il corpo fu ritrovato in un lago e non si capì se ci finì coi suoi piedi accidentalmente o intenzionalmente. Si congetturò anche che qualcuno ce l’avesse spinto.

Con la sua morte lasciò una vedova e un figlio. Come si può immaginare il pargoletto venne risucchiato dalla zia.

Ecco, la malattia ha questa capacità di risucchiare. Per questo probabilmente la si teme. Quale fosse la diagnosi per la zia non so. Quasi certamente quella sera in casa nostra ebbe una crisi psicotica. Fu ricoverata in una clinica ad Avellino. In quelle camere tornò, mi pare, altre volte, quando la sofferenza e il dolore dell’esistenza l’avvolgevano in un vortice.

Finché abitava nella piazza del paese, sempre, nel periodo delle vacanze, andavo a salutarla. Di lei, dei suoi occhi guardinghi e stralunati, del suo passo felpato, della sua figura bassa e fragile, non ho mai avuto paura. L’ho guardata, invece, sempre con attenzione e affetto, curiosità e gentilezza. Soprattutto dopo l’ingestione di testi psicanalitici e di “anti-psichiatria” consumatasi a partire dal movimentato anno torinese.

La zia ora è morta. In famiglia ogni tanto ne parliamo. È quasi inevitabile quando vediamo il suo unico nipote, nostro parente, anche lui ormai cinquantenne e orfano ormai di tutti (padre, madre, zia), passeggiare sulla piazza del paese. Solo, non sposato e ovviamente senza figli.

Ogni tanto scherzo con mio fratello e mia sorella. «Stiamo attenti – dico – in famiglia abbiamo una bella riserva di folli, sia sulla linea materna che su quella paterna.» Infatti, oltre alla zia sarta, un’altra cugina di mia madre è ricorsa di tanto in tanto alle cure degli “psi”. Avevano lo stesso nome. Ma per il paese era “la rossa”. Inutile dire che penso al Verga di “rosso malpelo” e che lo stigma se lo portava già nel nomignolo. Poi abitava vicino al cimitero. Da bambini, quindi, doppia paura. Meno male che mia madre non era una grande frequentatrice di tombe e le capitava di portare un lumino sulla lapide di suo padre, morto relativamente giovane, soltanto in occasione della ricorrenza annuale. Allora ci teneva e dovevamo andare con lei. Impossibile non fermarsi a casa della zia. Nel quarto d’ora di conversazione ci tenevamo ben stretti alle sue ginocchia. Del resto era stata proprio lei a metterci in guardia sull’imprevedibilità dei comportamenti della cugina. Se devo dire quel che penso, mia madre esagerava. La zia era a mio parere innocua. Indubbiamente segnata. Nubile, forse senza amori. A disagio nella sua esistenza o nel suo stato sociale. Il paese poi sapeva essere istituzione totale. Per cui la zia, avendo avuto la madre fuori di sé per il figlio morto in Russia e altre tragedie, non poteva non essere anche lei un po’ fuori di sé. Tra le famiglie si facevano strani ragionamenti sulle eredità delle malattie. Se ti capitava di appartenere a una “famiglia di pazzi” eri messo piuttosto male. Il pregiudizio funziona sempre. Anche oggi la pressione contro la legge 180 e la richiesta di tanto in tanto sbandierata di riapertura dei manicomi si nutre più di pregiudizi che di argomenti razionalmente fondati. La follia non sta di casa soltanto tra i folli dichiarati tali. E ve ne sono di diverse specie. Quella delle zie era, tutto sommato, innocua. Quella di certi capi di stato, invece, andrebbe forse più denunciata, contenuta, bloccata.

Comunque, questa era la linea materna. Sulla paterna, c’è la storia di zio Cecco, la birba di famiglia.

Il giorno che doveva sposarsi mia nonna andò a ritirarlo in una cantina. Se ne era dimenticato. Il matrimonio, si dice, è la tomba dell’amore e forse mio zio non voleva cascarci. Peccato che non animasse solo sequenze di questo tipo che oggi potrebbero apparire, per certi versi, simpatiche. Nel suo corpo germogliavano aggressività varie, violenze, azioni nocive e insopportabili. Fu meno fortunato delle zie. Finì in manicomio. Ero ancora bambino quando la sua esistenza si concluse.

Ammetto: la follia piace ai romantici. C’è chi sostiene che vada a braccetto con la genialità. Può darsi. Ma quando una mattina del 1978, varcato il cancello della scuola in Viale Lombardia, mi vedo venire incontro il custode allertato: «Attento! – mi dice – in Direzione, c’è uno che pensa di essere il vero direttore», beh, in questi casi, un brivido percorre il tuo corpo e non pensi più agli aforismi, ai giudizi, a tesi più o meno fondate. Che faccio? La scuola è tutta in allarme. Dalle aule viene un mormorio, una finta indifferenza, un tramestio di maestre che provano a tener buoni i bambini e a continuare la lezione.

«Oh, buongiorno! – dico – come va?». L’uomo sulla quarantina, in giacca e cravatta, installato alla scrivania, neanche mi sente e continua a dare ordini all’applicato che gli sta di fronte. «Io sono il direttore!… Io!…Non  quel coglione!. Quello è un usurpatore, in combutta col Provveditore…Questo posto è mio!… E tu stai zitto e obbedisci!..»

Come si fa a non obbedire? Così io e Nino, l’applicato, cerchiamo di conservare la calma, ingiungendoci con gli occhi il sangue freddo. Presidiamo intanto le porte; che non gli venga voglia di recarsi nelle aule; che si limiti a parlare con noi. Proviamo a capire. Ma c’è poco da capire. La canzone è sempre la stessa. Quel posto di direttore è suo e il titolare glielo avrebbe soffiato.

Si va avanti così per una decina di minuti. Poi arrivano due infermieri. Non appena li vede, li riconosce e si alza. Non fa resistenza. I due lo chiamano per nome, lo prendono sottobraccio e lo portano via. Successivamente veniamo a sapere che abitava nel palazzone di fronte alla scuola, che era un emigrato, che viveva solo.

Scherziamo col direttore (io allora facevo il vice): «Usurpatore di posti!…». Racconta di averlo incrociato, in provveditorato, una sola volta in vita sua. «Ah, quindi, un legame c’è!…»

Chissà quante volte quell’uomo s’era affacciato al balcone e aveva visto maestre e bambini entrare ed uscire. Chissà quante volte aveva immaginato di poter essere altro da quel che era, rimediando, magari, a qualche suo fallimento. Direttore per un quarto d’ora. Meglio che niente.

Sessione d’esame autunnale. Mattina presto. Viaggio in una carrozza per Torino. Me la sono scelta vuota. Ho con me il pacco di libri. Ci sono capitoli da ripassare, pagine da tornare a leggere, mappe da ripercorrere, concetti da fissare. Frenetico ruminare della memoria. Ho lavoro e famiglia, politica e passioni. Studio negli intervalli. Che nessuno mi disturbi in carrozza! A nessuno venga in mente di rivolgermi domande o di accendere frammenti di conversazione! Il mio capo calato sulle pagine aperte sarebbe di per sé un segno di chiusura, di barriera. Così rannicchiato sul sedile e concentrato, sento una voce altissima provenire dal corridoio: «Ooliooo cuooore!…Si beeevee con amoooree!».

La voce, mio Dio!, si avvicina. Entra, è finita!, nella carrozza.

Il compagno di viaggio è una persona alta e allampanata. Sedendosi, continua a ripetere quei versi di una pubblicità dell’epoca, se non sbaglio. Ha in testa un copricapo alla Napoleone e indossa un vestito sbrindellato. Da dove sbuca questo?!…Accidenti a lui! Certe volte si è egoisti non per partito preso. Semplicemente perché qualcuno ci fa saltare, con la sua sola presenza, il nostro piccolo o grande piano. «Ooliooo cuooore!…Si beeevee con amoooree!»

«Come è andata la battaglia?», gli domando, «Quanti soldati sono morti?»

Non risponde. Dopo pochi minuti di silenzio e di sguardo mio ben rivolto al suo, si alza e se ne va. Ci rimango male. Ormai m’ero distratto e incuriosito. Parlare un po’ con lui non mi sarebbe dispiaciuto. Avevo probabilmente commesso qualche errore. Forse lui poteva pensare di essere Napoleone, io dovevo considerarlo, invece, soltanto una persona.

Ascoltare e dialogare con chi sta male e soffre non è facile.

Altre figure potrei “sistemare” in questa galleria. Conosciute personalmente o raccontatemi da altri: dalla mia alunna, in prima media, affetta da autismo alla madre depressa di un collega, dall’amico che in una crisi psicotica andò in giro nudo vicino alla Croce alla maniaca che raccoglieva carte per le strade fino a rimanerne sommersa. I vigili dovettero svuotarle l’unica stanza in cui abitava, un sottano, per il rischio elevato d’incendio. Poteva restarne bruciata.

Giorni fa ho chiesto ad un amico poeta se avesse un contributo da proporre per questo numero di POLISCRITTURE sul “disagio”. Mi ha risposto, mica tanto scherzando, che, se volevo, poteva mandarmi la sua foto. Ecco, nella galleria, potrei mettere, oltre alla sua, anche la mia. Non solo per l’album di famiglia al quale ho accennato. Ma perché tutti soffriamo di malinconia e stati momentaneamente depressivi. Come evitare la morte di un nostro caro o di una nostra cara? Come non pensare alla nostra? Tutti manifestiamo manie, ingorghi psichici, indifferenze, invidie, rancori, nevrosi, stati schizoidi, paranoici, psicotici. Vorrei non aver nulla a che fare con Olindo e Rosa, i due rei quasi confessi di Erba. Giuridicamente non ho nessuna responsabilità per quanto è successo. Non c’ero neanche! Se televisione e stampa non mi tempestassero con le loro immagini fredde e assenti, non saprei nulla della loro esistenza. E, tuttavia, posso credere che il “funzionamento mentale” (cognitivo, affettivo, emotivo, neuronale) di un folle e/o di un assassino sia così diverso dal mio? Se lo è, in cosa lo è? Dove, in quale punto, in quale momento, ogni storia si ramifica e singolarizza ed ognuno diventa un “caso” a sé? Perché Abele e perché Caino?…

Domande da milioni di dollari si dirà. Argomenti inesauribili, buoni ad impegnare decine e decine di esistenze. Centinaia, migliaia. Però, noi siamo fatti così. Cerchiamo il senso. Non ci basta essere presenti in questo mondo, respirare, percepire, nutrirsi, lavorare, riprodursi. Vogliamo chiarirci e spiegarci, afferrare e comprendere. Siamo affamati di significati. Vogliamo capire ciò che ci accomuna e ciò che ci divide, ciò che ci rende simili e ciò che ci differenzia.

In fondo, anche un assassino ha una testa (magari, non ben fatta come la vorrebbe Morin), un cuore e uno sguardo (magari, di ghiaccio), una doppia circolazione sanguigna, un funzionamento digestivo, metabolico e neuronale. Anche un assassino vede, sente, percepisce, parla, immagina, sogna, pensa. Vorremmo che fosse mostro, omuncolo o ciclope proveniente da un mondo totalmente altro. Belva, ad esempio, o marziano non di Marte. L’estraneità spaventa e, nello stesso tempo, rassicura. In fondo non siamo degli Hitler, non siamo impiegati anonimi e banali della fabbrica dello sterminio. Sì, forse sì. Per certi versi, sì. Non lo siamo. Non possiamo dimenticare, però, che folli, assassini, aguzzini, sterminatori sono impastati con la stessa farina degli Abeli, appartengono alla stessa specie di homo sapiens e/o insipiens. Questo, per la biologia almeno, per le neuroscienze. La biologia molecolare ci rende astrattamente uguali, la storia concretamente ci divide, differenzia, distingue. L’un contro l’altro armato.

Due anni fa, a fine marzo, visito il museo di Art Brut di Losanna. Il suo teorizzatore è Jean Dubuffet, artista e collezionista francese. Nell’anno torinese tra le mani mi era capitato un suo libretto, «Asfissiante cultura». Ma allora per me la cultura non era asfissiante e non ne ricavai granché. Ecco un altro pregiudizio: gli studenti del ’68 non erano contro la cultura. Erano contro l’autoritarismo e la cultura delle classi dominanti. Erano contro la maschera della “neutralità”.

A Losanna riscopro Jean Dubuffet e la sua voglia di libertà e sovversione dei valori filosofici ed estetici dominanti. La cultura si fa asfissiante quando paralizza l’immenso patrimonio di creatività e intelligenza presente in ognuno di noi, quando blocca la forza dell’esistenza, la sua irriducibile base istintuale e “selvatica”. Il bisogno di espressione è incomprimibile. E, quando viene compresso, la malattia può dilagare meglio. I tantissimi normali, per lo più, soffrono d’impotenza creativa.

Quante persone, dopo aver trascorso anni ed anni sui banchi di scuola, non prendono più in mano una penna, una matita, un libro? Quante persone si fanno prendere dal panico se devono scrivere un bigliettino d’auguri?

A Losanna vado con un gruppo di studentesse e alcuni docenti dell’Accademia di Brera. Accompagno Lucia, la seconda figlia. Ha finalmente deciso l’argomento della sua tesi. Si concentrerà sulla vita e sulle opere di un artista “irregolare”, uno di quelli che Dubuffet amava: Aloïse Corbaz. Ha visto alcune sue tavole nel catalogo «Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa» e ne è rimasta affascinata. È anche intenerita dalla storia d’amore di questa donna. Nata a Losanna nel 1886, a 27 anni, dopo essere stata costretta dalla sorella primogenita a rompere la sua relazione con un prete spretato, si trasferisce come istitutrice in Germania, nel castello di Potsdam. Qui investe affettivamente, come si direbbe oggi, niente meno che sul principe Guglielmo II. Sogno d’amore fiabesco, ardente e impossibile.

Quando per lo scoppio della prima guerra mondiale, torna a Losanna e vede il suo sogno crollare, comincia a dare segni di squilibrio, ad assumere comportamenti strani, a fare dichiarazioni visionarie e deliranti. Sostiene, ad esempio, di essere stata messa incinta da Cristo; va gridando per le strade che le stanno rubando il fidanzato. In breve, finisce in manicomio a trentadue anni e vi rimane fino alla morte. Tra quelle mura lotta per esprimersi. Comincia a disegnare, raccogliendo furtivamente carte tra le immondizie da scarabocchiare nel gabinetto, scrive pagine di una sua cosmogonia e attraverso un processo di proiezione permanente, sostituisce il mondo antico di un tempo che la nega con il suo universo immaginario, molto complesso e strutturato. Da vittima si trasforma in creatrice.

Nel 1941, la dottoressa Jacqueline Porret-Forel va ad incontrarla nella saletta di stiratura del manicomio, diventata suo feudo. Ne rimane affascinata. Comincia a portarle regolarmente carta e matite colorate. L’ascolta, comprende la sua attività, raccoglie i frammenti della sua storia, ne parla e scrive.

Per compilare la sua tesi, Lucia non può non studiare gli scritti di questa dottoressa. Uno per tutti, la monografia «Aloïse et le théâtre de l’univers» pubblicata dall’Edizione d’Arte Skira di Ginevra.

Ma la figlia non conosce il francese. Dovrò tradurre per lei. Ecco, tra l’altro, perché sono a Losanna.

«Dai, papà, perché non dici che questi argomenti piacciono anche a te!…». Edipismi? Probabile.

Fatto sta che da oltre due anni finisco col leggere storie di matti diventati artisti e storie di artisti diventati matti.

Buon ultimo, Adolf Wölfli.

Pochi mesi fa è stato tradotto in italiano il libro di Walter Morgenthaler del 1921 centrato sulla opera di questo artista che non sapeva di esser tale. Acquistandolo (titolo: «Arte e follia in Adolf Wölfli», ALET, 2007), guardo a lungo, nel retro di copertina, la sua foto. La mano destra è alzata, con l’indice rivolto verso un suo quadro. Ha in testa un basco nero, i pantaloni tenuti su con le bretelle, rigirati fino al ginocchio. Una camicia senza colletto, bianca, a mezze maniche e dei calzettoni da contadino, di lana ruvida, ripiegati sulla caviglia. È ritratto nella cella in cui si trovava nel 1920. In primo piano, nell’angolo a sinistra dell’osservatore, la pila dei suoi quaderni. Totale: 25.000 pagine scritte fittamente, contenenti la sua autobiografia. Sulla colonna di fascicoli, in inchiostro rosso granato, il grafico ha sovrapposto un giudizio di André Breton: “L’opera di Wölfli è una delle tre o quattro più importanti del Novecento.” È possibile farsene un’idea guardando le 25 tavole poste al centro del libro.

In appendice, la cartella clinica: «Ospedale psichiatrico di Waldau. Numero di ricovero: 4224 D 3. NOME: Wölfli Adolf. Data di nascita: 29.02.64 [1864, ovviamente]. Stato civile: celibe. Professione: contadino. Paese di origine: Schangnau. Residenza: Berna. Domicilio: Carcere giudiziario, Bühlstr. 27, Berna. Indirizzo dei familiari: Ufficio del Giudice istruttore II, Berna Marzo 1922. Nipote: Rudolf Wölfli, fochista, Bellevue Palace, Berna. DIAGNOSI PROVVISORIA: Caso in fase di analisi. DIAGNOSI DEFINITIVA: Dementia paranoides. Ricovero: 3 giugno 1895. Dimissione: 6 novembre 1930», giorno della sua morte.

Oltre alle 25.000 pagine dell’autobiografia, l’opera ciclopica di Sant’Adolf, come ad un certo punto comincia a firmarsi, comprende qualcosa come 1500 illustrazioni e 1560 collage.

Racconto ad un’amica di Wölfli finito in manicomio, in totale isolamento, anche per alcuni suoi tentativi, non riusciti, di pedofilia: «Non parlarne – mi fa – non parlarne.»

Il conformismo sociale è una cappa di piombo che avvolge ognuno di noi, è lo smog delle nostre anime. Quante volte, girando per le classi, inibisco manifestazioni d’affetto nei confronti dei bambini per paura che possano essere equivocate o male interpretate?

Sono, come dubitarne?, dalla parte delle vittime non dei pedofili, delle stuprate non degli stupratori, degli oppressi non di chi opprime, degli assassinati non degli assassini. E, tuttavia, perché non abituarsi a valutazioni differenziate, a giudizi articolati? In fondo una persona non si esaurisce in un atto, in una scelta, buona o cattiva che sia. Una volta con termine forte, teologico, si diceva “redenzione”. In giurisprudenza mi pare si dica “ravvedimento”. L’importante è non schiacciare noi stessi e i nostri simili in un’identità-prigione, in una modalità di presenza che ci sottrae qualsiasi altra possibilità. Spesso ci imprigioniamo da soli e gli altri non fanno che rafforzare le sbarre invisibili edificate col nostro stesso contributo. Nella lista dei tuoi nemici, metti il tuo nome, recita, all’incirca, un verso di Fortini.

Ogni tanto mi capita sotto gli occhi la cartella clinica di mia madre. Era una cardiopatica. Avevo quattro anni quando ebbe il primo scompenso. Lei ne aveva trenta. Mi ricordo bambino confuso e scombussolato dall’andirivieni di parenti e vicini di casa che si affollavano al suo capezzale. Mi tenevo stretto all’inferriata di un balcone con dei vasi di piante grasse pungenti, piangevo spaventato e chiedevo: «Cosa avete fatto a mamma mia!… Cosa avete fatto!…».Un medico le praticò un salasso, per fortuna superò la crisi, e il ricordo sbiadì.

Avevo, però, ventitré anni quando ebbe il secondo scompenso. Ricoverata d’urgenza, fu ripresa per un soffio. In una pausa, con gli occhi appena aperti e temendo forse di doversi congedare per sempre, chiese: «Ho fatto tutto quello che dovevo fare?… Mi sono comportata bene con voi?…Sono stata una brava madre?…». La rassicurammo. «Sei stata e sei bravissima!… Devi stare ancora qui con noi. ». Riconoscimento. Bisogno d’amore. Emozioni, affetti, pensieri che s’accendono quasi certamente con neuroni e sinapsi ma che hanno senso e significano qualcosa soltanto “tra”: nelle relazioni “tra” madre, padre e figli, “tra” amici e amiche, “tra” persone. In un luogo e in un tempo, in una comunità, in una società. In breve, in un mondo.

“Tra” è anche tra sé e sé, tra lo spazio interiore, una sorta di teatro che giorno dopo giorno ci cresce dentro-fuori, e il campo di relazioni fuori-dentro che manteniamo aperte, facciamo stagnare o chiudiamo. Chissà poi se chiudiamo davvero! Quante relazioni ci rimangono dentro in una specie di vita fantasmatica, spettrale. Relazioni fatte d’incontri visibili, con persone in carne e ossa (e non solo con esse), nutrite di parole, pensieri, fantasie, emozioni, immaginazioni, progetti più o meno realizzabili. Storie di vite interiori e di esistenze sociali.  Probabilmente essere presenti a sé stesso non significa nient’altro che porsi il proprio sé davanti e chiedersi quali possibilità si hanno. Questo vuol dire forse trascendersi, oltrepassarsi. Ci sono momenti, situazioni, eventi che possono mettere in crisi questa presenza di noi a noi stessi. Quando non si vede via d’uscita, quando ci si sente in trappola, quando ci crescono dentro vortici, spirali incontrollati, voci invadenti che non si riescono a tenere a bada.

Uscire fuori di sé è necessario. Se ho capito qualcosa, sono le modalità di uscita che possono diventare incontrollabili. O forse bisognerebbe dichiarare il proprio scacco fin dall’inizio. Il re è nudo, l’Io è nudo. Non è padrone in casa propria. Abbandonarsi con la propria zattera corporea agli eventi – che rappresentano il modo ora lieto ora minaccioso, ora prevedibile ora imprevedibile, attraverso cui il mondo si apre a ciascuno di noi – e guidare – lasciarsi guidare tra derive momentanee e momentanei approdi. Tenere tra le mani il filo della propria esistenza è un lavorio quotidiano. “Mestiere di vivere” diceva Pavese.

Era proverbiale. Se una donna, giovane o vecchia, mostrava un comportamento un po’ strambo: «E che sei diventata Maria la pazza?!…», si sentiva apostrofare.

Abitava in una via per la Valle. La porta sempre aperta. Dovendo passare vicino, in quel punto, si diventava silenziosi e guardinghi, si buttava sospettosi l’occhio dentro, si valutava il pericolo.

Maria vestiva, dicevano le voci, da zingara: gonne larghe e vivacemente colorate, camicie bianche e sbuffanti, grembiali frasche e foglie, fazzoletto in testa smeraldo, annodato sulla nuca. Questo, in un paese in cui prevaleva il nero delle vedove o il blu carbonella delle donne con mariti e figli. Se non era blu, era grigio o avana. In certe occasioni verde scuro. «Dove te ne vai così sfarzosa?!…». Lo sfarzo che le donne si rimproveravano poteva essere rappresentato da un vestito turchese o verde chiaro. Saranno pure stati anni di boom economico, ma i colori del nostro mondo erano freddi, scuri. Senza dire dei tanti papà, a volte con intere famiglie, costretti ad emigrare.

Maria la pazza era imprevedibile, vociante, sbalestrata. Se la si vedeva arrivare alla fontana, col suo barile da riempire in perfetto equilibrio sul capo, le donne preferivano darle la precedenza. Per quanto possibile, la scansavano. La temevano persino gli uomini. Con qualcuno venne alle mani e portò per giorni il volto pieno di graffi.

Aveva figli, e noi non si voleva essere nei loro panni; marito, e questo ci importava di meno. Anche se, ogni tanto, lo si immaginava, poveretto!, costretto a tacere e sopportare. Lui che andava quasi quotidianamente in campagna.

Non ricordo se la situazione precipitò con la luce o col buio. Le voci dissero che minacciò con l’accetta marito e figli. O non minacciò soltanto. Addirittura provò ad affondarla nel corpo dei malcapitati.

Raccontarono pure che se la portarono i carabinieri, a fatica. Finì dove in quegli anni finivano tutti gli strambi, i disadattati, i fuori di giro, i violenti.

Di Maria non ho saputo più niente. Nessuno ha raccolto la sua storia.

10 MARZO 2008

* L'immagine è di  Aloïse (Aloïse Corbaz, dite)
La Couronne Impériale de la terre royale. Cahier Pâques 1943

Gli ulivi di Torre Vado

di Donato Salzarulo

Vorrei dare un nome ad ognuno di questi ulivi fotografati. Sono stati colpiti dalla Xylella fastidiosa, un batterio approdato nel Salento nel 2013. Rami rinsecchiti, foglie spente, scarsa produzione di olive, questi i sintomi della sua devastante presenza. La malattia si trasmette dalla pianta malata alla sana grazie ad un insetto. Nome scientifico: Philaenus spumarius. Nome comune: sputacchina. Esso si nutre di linfa. Se la succhia da una pianta malata, quando va a nutrirsi su una sana, le lascia, in  regalo mortale, il batterio, che, nutrendosi pure lui di linfa grezza, trova il suo posto ideale proprio nel sistema vascolare degli alberi. Nei vasi cosiddetti “xilematici” della pianta.

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Vetrine di Pietra Ligure

di Donato Salzarulo

1.
Per un po’ l’ho chiamato pomposamente “paradigma della vetrina”. Classico lampo della mente, l’intuizione è emersa nei circuiti cerebrali, durante una camminata mattutina sul lungomare di Pietra Ligure. Erano le nove e zero otto del sette maggio (tanta precisione è dovuta soltanto al cellulare). Stavo percorrendo la solita strada per andare a comprare i giornali. All’altezza del molo, la luce solare attraversava intensamente le larghe vetrate della giostra permanente per bambini. Attraversava e rifletteva, creando un effetto piacevole, uno spettacolo che attrasse la mia attenzione. Continua la lettura di Vetrine di Pietra Ligure