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La cartella di Fortini

Continuo il recupero degli articoli  dei vecchi siti di Poliscritture non più accessibili on line e ripubblico questo di Velio Abati comparso sul n. 9  cartaceo  del gennaio 2013. [E. A.]

di Velio Abati

Quand’ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese ’l teschio misero co’ denti,
che furo all’osso, come d’un can, forti.

Il realismo furente di Dante ha incrinato per qualche terzina il silenzio glaciale della palude. L’orrore indicibile si squaderna ora in un esserci eterno. Il passato non muore e ha annientato di colpo il futuro. Tutto l’universo infernale è infatti un viaggio alle radici della selva dove ’l sol tace, al fermentare d’un passato che divora chi vive. La terzina conclusiva incardina l’incubo nella posa definitivamente animalesca della vittima-carnefice, “occhi torti”, e nella fissità d’una coazione senza fine: “riprese ’l teschio”.
Il lettore sa che l’emersione del rimosso, il vis à vis con il suo carico paralizzante d’angoscia è la costanza di ogni scena espiativa, offerta al pellegrino sotto la mediazione vigile del maestro. Così come pervasivo è l’assillo politico che l’accompagna e che l’artificio del viaggio collocato alla vigilia della catastrofe umana – cioè politica, etica, estetica, filosofica ed esistenziale – dell’esilio, rende incombente, ad ogni passo ravvivata da profezie ora stizzose, ora neutre, ora intenzionalmente consolatorie.
Ogni dannato ha la propria fissità e ognuno diversamente rifrange la biografia del pellegrino. Mille sono i modi con cui ciascuno, per dirla con Pirandello, rimane agganciato al proprio assillo.

          Quando s’accorse d’alcuna dimora
ch’io facea dinanzi alla risposta,
supin ricadde e più non parve fora.
——-Ma quell’altro magnanimo a cui posta
restato m’era, non mutò aspetto,
né mosse collo, né piegò sua costa.

Può, tra le mille, assumere la postura nobile quanto marmorea dell’assillo pubblico, oppure il patetismo trepido e cieco della passione familiare. Ma ciò che inficia alla radice e quindi scaraventa nella discarica infernale energie e sforzi vitali della miriade di dannati è stata l’incapacità di ciascuno di trascendere l’immediato, di allungare lo sguardo verso il futuro: dilettoso monte, da cui solo si può decifrare il passato e vedere il presente.
Fortini conosceva bene questo punto della nostra umana condizione, quando ripeteva: ogni immediatezza, ossia ogni rifiuto della mediazione, è intimamente reazionaria.
Credevo che la mia generazione, esclusi i cinismi e i rampolli dominanti, avesse scoperto per tempo –ai primi anni Ottanta, ricordo – la lezione eroica del prigioniero comunista Antonio Gramsci. Ma non ho mai immaginato che avrei dovuto insegnare la speranza ai miei alunni, che il mio compito sarebbe stato formare alla speranza. Fortini, a un giovane che nel 1993 lo interrogava su che cosa debba fare, come debba vivere la propria quotidianità chi s’affaccia alla vita adulta, rispondeva: “io domando ai giovani con cui lavoro, se vivono con i soldi di papà, se vivono con i propri, quanto guadagnano”. La risposta presuppone una condizione oggi lunare, vivendo i giovani la corrosione, di giorno in giorno maggiore, delle possibilità di lavoro, di sostentamento, di relazione. Nella selva non c’è luce, i sentieri sono false piste.

Gli alberi sembrano identici,
la specie pare fedele.
E sono invece portati via
molto lontano. Nemmeno un grido,
nemmeno un sibilo ne arriva.
Non è il caso di disperarsene,
figlia mia, ma di saperlo
mentre insieme guardiamo gli alberi.

È in tale immobilità che germina la disperazione. Non c’è, in se stessi, nell’hic et nunc circostanziale possibilità di lume. Questo è l’acheronte per chi si trovi oggi ad apprendere e a insegnare. Perché la speranza, se è una necessità primaria, non vive senza alimento. Il sapere di cui Fortini parla alla figlia, nelle circostanze date, viene solo da fuori; meglio: dai tempi lunghi.
Da questa béance, prima di tutto esistenziale, in cui insegnante e alunni sono presi, proprio da questa assenza d’ossigeno che grava nell’aula e nelle case, trova vita e scopo la potente lingua dantesca. Il piacere del testo è per il lettore la messa in esperienza dell’uscita da sé, quella che il pellegrino compie con lui. Il lettore, alunno-docente, passo dopo passo, impara a riconoscere con Dante che il male, con la paura che esso genera, non è assoluto, ma ha un’origine e ha una fine.
Ho detto esperienza, perché di essa vive la fatica del concetto, non della spiegazione astratta. Fortini aveva un amore sconfinato per il conversare, come sa chiunque l’abbia incontrato. Le sue lezioni pomeridiane a Lettere in via Fieravecchia si protraevano indefinitivamente. Arrivava con la cartella, elegante, sorridente, bello nella sua capigliatura candida e iniziava la lezione. Ho imparato dalla sua lettura perché un poeta va a capo prima della fine del rigo.
Non c’era un termine formale alla sua lezione, a un certo punto si trasformava in altro. Via via gli studenti si alzavano dalle sedie fino a che rimanevamo i soliti quattro o cinque. Oramai parlava del mondo. Solo quando l’anziano custode – si chiamava Dante, mi ricordava la figura d’un carraio della mia infanzia – suonava la sirena, egli si decideva ad alzarsi, prima che le luci spente ci chiudessero dentro. Nella mesta spensieratezza del Settantasette si leggeva nei muri di Via Fieravecchia una scritta; girava voce che ne fosse autore Gianni Scalia: Franco Fortini, il Lattes a lunga conversazione. Una volta – eravamo già al secondo anno – ci confidò perché non faceva precedere nessuna introduzione al suo corso. Solo la strada percorsa fino alla fine avrebbe potuto spiegare gl’inizi.
“Essere figlio” scrive l’Istat “di un avvocato (cioè avere un’origine borghese) oppure di un operaio non è affatto la stessa cosa: le probabilità di diventare un libero professionista, imprenditore o dirigente – ossia di accedere alle posizioni di vertice della gerarchia sociale – nel primo caso sono relativamente alte, mentre nel secondo sono decisamente più contenute. I figli della borghesia sono in netto vantaggio sui figli degli operai dell’industria e dei servizi anche nelle competizioni per l’accesso alla classe media impiegatizia. Ciò significa che le diseguaglianze di classe continuano a trasmettersi di padre in figlio”. Credo che pochi ragazzi conoscano questi dati che li riguardano. Anche Lettera a una professoressa suona inoffensiva come una carta medioevale; troppo grande è il velo sia dell’ideologia dominante, sia delle apparenze arcaiche di cui quel testo si veste. Credo anche che generalmente sfugga loro, per quanto rapido e imponente sia il fenomeno, il degrado dell’istruzione pubblica, cioè l’aggressione alla forza emancipativa della scolarizzazione di massa dei trenta gloriosi, breve tempo di cui ha beneficiato la mia generazione. Non lo sanno, perché il passaggio dalla condizione di fatto alla sua consapevolezza ha bisogno del rischiaramento della coscienza.
Non sfugge però loro una verità della propria condizione, ovvero la sostanziale impotenza dell’istruzione a modificare il destino già iscritto nella carne della loro famiglia. Solo che ne rimangono atterriti, proprio in conseguenza della loro cecità circa le cause e la natura storica, ossia mediata, di quel destino. Quando domando per quale motivo andare a scuola, mi si risponde “per socializzare”. Per socializzare è di sicuro la constatazione di un’azione positiva esistente. Per socializzare è però anche la verbalizzazione d’un bisogno autenticamente vissuto. È il grido di uno spavento, d’un vuoto: se parli è meno buio, invoca un certo paziente di Freud.
Sono partito militare il primo aprile del ’78, pochi giorni dopo il rapimento di Moro compiuto dalle Brigate Rosse. Ero laureato da qualche mese. Fortini, seppi poi, era corso via dall’Italia, per cercar scampo dall’oppressione. Dalla rabbia, immagino, e dall’impotenza insopportabili. I trenta gloriosi si chiudevano nella tragedia farsesca, nell’imbecillità.
Quando sono tornato dal congedo, ho seguito altre strade, da lontano. Ho incontrato Fortini a intervalli radi. Ogni volta, ricordo, con festoso slancio paterno, a Milano, a Montemarcello, al mio podere. La presenza del suo insegnamento è maturata lentamente, quasi inavvertita. So che se qui davanti avessi i miei primi alunni e quelli attuali farebbero fatica a riconoscere la stessa persona.

[…] Celeste è questa
corrispondenza d’amorosi sensi

Con altro orecchio leggo oggi, scartando la magniloquenza che da noi puzza da lontano di ridicolo, di fetidume nazionalista, scovando invece e invitando a una verità più mite, fraterna e semmai indomita. Lavorando con i ragazzi, ho scoperto quanto a lungo il ramingo bordeggi rive di morte, dai Sepolcri alle Ultime lettere, fino alla Sera e a In morte del fratello. C’è ben poco di eroico, molto di bisogno di fratellanza, entro cui cercare ostinatamente un orizzonte di senso comune per il quale vivere e soffrire.
Trascinato via dalla risacca – era solo gl’inizi – che scomponeva e ora travolge destini e istituzioni, persi tutti i contatti. Non fui ai funerali di Fortini.
Fu Ruth a ricordarsi di me, di noi, dopo che era rimasta sola. Venne a trovarci. Facevamo delle passeggiate non distratte, quasi serene. Le piaceva ascoltare i canti e la fisarmonica, si cercavano i profumi della macchia. Tornò più volte. Ricordo le giornate piene di sole.
Dice Sartre da qualche parte che se le rivoluzioni costituiscono i momenti in cui i gruppi sociali sono in fusione, l’immobilismo è delle società fredde. Ma la restaurazione capitalistica che è seguita dopo i Settanta e che oggi giunge forse al suo culmine – che è sempre marciume, pestilenza sociale, devastazione di corpi e di anime – è ancora diversa: non c’è alcuna fusione visibile, né staticità, piuttosto un precipitare disperato, perché impotente. La distanza tra ciò che è necessario e ciò che ciascuno di noi può è tale da atterrire le energie più agguerrite, le menti più lucide.
Non si tratta di disperarsene, ma di capirlo.

Oh dei giorni mie fatiche, oh sorrisi
muti scavate e fidi nell’ordito:
– Dov’è l’inferno? dove i paradisi?

Dentro tremo, se fuor v’appaio ardito
che forti e fragili son i cuori e i visi
ma ultima la risposta che v’addito.

Per questo, punto tutte le mie forze a scartare l’erudizione e a coltivare intensa la critica. Mi tornano in mente le riflessioni di Fortini, lo scopro e lo coltivo maestro: agire perché si trovi e si manifesti più verità politica (dico “politica” e subito sbalordisco per la spaventosa distanza dell’odierna pratica posticcia dal suo significato) in una poesia sulle rose che in un documento politico e viceversa. Attivo con pazienza le verità che ho imparato, filtro le antiche sapienze, le metto ogni volta alla prova con le domande mute dei miei alunni, con le loro fatiche, le loro rabbie.
Ruth, dopo che la sua malattia precipitò, non volle più che andassimo a trovarla. La voce ferma e amica al telefono ci ripeteva che avrebbe deciso il tempo.
Ci chiamò in autunno inoltrato, invitandoci per il febbraio. Teneva sotto controllo il dolore con la terapia. Nelle poche ore che stemmo in via Legnano, dalla finestra dove si scorgevano gli alberi, era come sempre energica e determinata. Il non detto non tradiva pressioni sulla sua voce. A metà visita, chiese solo di farle un’iniezione. Spiegò tranquilla il modo a mia moglie, che non osò dirle di non averlo mai fatto. Tutti i pacchetti erano stati preparati, con i foglietti e le istruzioni di chi trasloca.
Sarà per la fiducia nella vocazione dell’uomo al bene, di cui parlava Brecht, o forse per il necesse della speranza, che soprattutto mi capita di ricordare il Fortini ‘cinese’. In un luogo riferisce l’insegnamento del saggio taoista al giovane andato a chiedergli d’istruirlo. Vuoi scoprire il segreto di fabbricare l’oro?, gli risponde press’a poco, comincia a percorrere tutte le mattine dieci chilometri a piedi. Oggi comprendo che la cosa più difficile, ma quella decisiva, non è la meta, bensì la direzione. Oggi comprendo la conseguenza suprema dell’umana condizione: nemo enim nostrum sibi vivit, et nemo sibi moritur. So e scopro ad ogni passo e insegno e comprovo che il futuro è la nostra realtà, è la verità del nostro presente, il senso del nostro passato; che quel futuro è intimamente, appassionatamente di parte. Non qualunque parte. Solo quella degli sconfitti, solo la parte di noi debole e oppressa detiene la ragione e la forza del futuro comune:

“Oppressori e sfruttatori con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro ‘libertà’ non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero. Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini”.

È un giornalista dell’“Unità” a raccogliere nell’agosto, a due mesi dalla morte, le ultime riflessioni, che il quotidiano titolava E se il marxismo fosse il futuro? Più il tempo della mia vita scema, più insegno la passione, la fatica e la forza dei tempi lunghi. In quella primavera Fortini aveva scritto che quanto di te rimane, di tutti rimane, non sono i libri, non sono nemmeno gli affetti, nemmeno l’insegnamento, ma ciò che la tua vita ha cambiato nel rapporto con gli altri uomini.
Quando, di rado, mi capita di andare a tenere qualche discorso pubblico, apro l’armadio. Prendo un morbido sacchetto celestino d’altri tempi, con una grande scritta in nero, Furla. Si chiude con una filza di cordino nero. Appena lo apri, si spande il profumo di cuoio. La cartella marrone sembra appena uscita dalle mani dell’artigiano. Ha un solo graffietto sotto la piega che la chiude. Non una cucitura è strappata. All’interno vi sono tre scomparti per pochi fogli, giusto di formato A4. Su quello anteriore è cucita, a reggipenne, una striscia di vacchetta. La cinghia che sorregge la cartella è lunga e comoda, può essere indossata senza impaccio anche con la giacca blu con cui arrivava a lezione fresco e furioso.
Ci dispongo il foglietto d’appunti, controllo che vi sia un lapis, ripasso a memoria la scaletta. Il borsellino di cuoio nero, fermato su tre lati con la cerniera, lo lascio invece chiuso nello scomparto. So che all’interno porta stampigliato in caratteri gialli una parola, “mundi”.

Antiberardinelliana

COMMENTO VELOCE
“Secondo gli ultimi dati Istat, il numero dei lettori in Italia diminuisce. Nel 2016 solo il 40,5 per cento degli italiani ha letto un libro, mentre il mercato digitale è in crescita […] Che dai quattordici ai diciannove anni si legga pochissimo è uno dei sintomi più inquietanti e scoraggianti” ( Berardinelli)

Da “Giornalismo culturale. Un’introduzione al millennio breve” di Alfonso Berardinelli (qui) ripreso dalla pagina FB di Annamaria Pagliusano

Parte dei fenomeni denunciati esistevano già prima della digitalizzazione dei saperi. Non sono imputabili ad essa, ma alle strutture classiste della società. Che magari la digitalizzazione sta rafforzando e meglio occultando (per assenza di lotta di classe organizzata, di politica non populistica,  etc.).
Berardinelli non dice cose false, ma troppo di buon senso (snobistico). E’ uno che, rispetto ai chiacchieroni, parla sulla base di una buona documentazione. Ma la sua interpretazione dei fenomeni in corso non va in profondità. Per cui insiste pure lui su molti luoghi comuni. E soprattutto cede alla nostalgia idealizzante: ah, il lettore-studioso di una volta! (quello forse della sua giovinezza).
Terra terra. È troppo chiedersi se – per caso, eh! – i giovani (e i vecchi, meno gli adulti che lavorano) non leggano comunque? Certo, non o meno libri cartacei e non i classici della letteratura delle ex patrie lettere, ma altri testi. Magari di solito brevi (come sui social). E ancora: in tutto quello che leggono (non dai libri) non possono mai  trovare spunti – anche casuali, anche minimi – per far scattare nelle loro menti e nei loro discorsi un pensiero insolito o un’idea non conformista, se non proprio originale? Quanti (di ogni età) navigando in rete, incuriositi o interessati, leggono anche testi lunghi, magari dopo esserseli scaricati? E i tanti scriventi, su cui Berardinelli ironizza, davvero non leggono mai? E, ammesso in teoria che non leggano, non pensano? Mai?  E’ reale poi una divaricazione così estrema tra scrittura e lettura? Per cui o tutti a scrivere o tutti a leggere? Boh!

Due fiabe

di Rosella Bertola


IL LAGHETTO DI MONTAGNA

Il laghetto di montagna, dove d’estate vado a pescare le trote e ad osservare le salamandre che guazzano tra i sassi, ora è tutto ghiacciato. La sue superficie sembra una pista di pattinaggio e l occhio si perde in una distesa di bianco abbagliante. Tutt’intorno a me non c’è alcun rumore: il cinguettio degli uccelli, che nella buona stagione allieta il cuore e quasi stordisce, ora ha lasciato il posto ad un silenzio magico, interrotto soltanto dal fruscio della neve che cade all’improvviso dagli alberi, sciolta dal sole. Il paesaggio, intorno, è come incantato: la boscaglia ammantata di neve gelata sembra un ricamo prezioso. Questa è la stagione più bella per il piccolo lago: tutto quel bianco accanto al turchino del cielo lo fanno assomigliare ad un luogo di sogno.

STORIA DI UN TRENINO

Nella stanza dei giochi di un bambino, c era una volta un grande plastico appoggiato a terra, su cui viaggiava un trenino elettrico. Era un giocattolo bellissimo ed affascinava il bimbo che lo possedeva; egli trascorreva con lui molto del suo tempo. Tutto era bello: il paesaggio rappresentato, la sua varietà di aspetti. C’erano laghetti, montagne, villaggi, una stazione con la fontanina e l orologio; c’erano anche le immancabili sbarre, che si abbassavano automaticamente al passaggio del treno, quasi per tributargli un inchino. Il piccolo convoglio di latta spadroneggiava sul suo mondo di cartapesta; andava, tornava, appariva e spariva attraverso gallerie, gole di montagne, oppure prendeva una grande rincorsa e sferragliava veloce attraverso la pianura, che lo conduceva alla stazione, da dove, dopo una fermata di un momento, avrebbe ripreso il viaggio di sempre. Quel viaggio divertiva molto il bambino, egli non si stancava mai di manovrare i comandi: ora avanti, ora indietro, le possibilità del trenino erano molte, bastava premere un bottone od abbassare una leva ed egli eseguiva, immancabilmente. Il trenino, di certo, la strada la conosceva a memoria: per lui, sul plastico, non c’erano più sorprese. Le curve non gli nascondevano ormai nulla di nuovo e l’entrare nell’oscurità della galleria non gli appariva più spaventoso come una volta. Così un giorno il trenino, stanco della monotonia dei suoi movimenti, decise che non avrebbe più percorso la tortuosa strada ferrata che ormai lo ossessionava. Attese la notte, per poter agire con tranquillità e quando fu certo che nulla l avrebbe disturbato, si dispose a mettere in atto il suo piano. Raccolse tutte le forze che possedeva (ed anche tutto il coraggio) e con un improvviso balzo uscì dalle rotaie, infilò la porta della stanzetta e finalmente ebbe la sensazione di essere libero. Si trovò subito nella vasta anticamera della casa, che conosceva solo di sfuggita, per averla sbirciata spesso, pieno di curiosità quando nel suo giro di un tempo allungava i fanali al di là della porta, per vedere com’era fatto il mondo. Fu aiutato, nel suo piano di fuga, dal gatto di casa, un soriano innamorato che aveva appuntamento con la gattina. Esso, uscendo quatto quatto, aveva lasciato aperto l’uscio di casa. Per il trenino fu un attimo: oltre quella porta incominciava il mondo, quello vero, con le montagne vere, i laghi con l acqua, il cielo con le stelle, non col lampadario. Durante il viaggio ebbe un momento solo di malinconia; ripensò al suo amico aquilone, che era rimasto imprigionato nella cameretta dei giochi. Era ancora là, sullo scaffale impolverato, ad attendere sempre la bella stagione, le giornate di sole che in quella città erano rare nel corso dell’anno. Chissà, forse un giorno anche per lui sarebbe arrivata la libertà: ne parlavano spesso assieme, quando erano compagni di sventura. Quel correre libero nella città buia non spaventava affatto il trenino; si sentiva sicuro con i suoi fari luccicanti, ogni tanto, con allegria, azionava il fischietto per annunciare a tutti la sua contentezza. Aveva una grande curiosità da soddisfare: desiderava vedere una stazione vera. Quando riuscì a raggiungerla ebbe come un brivido; gli sembrava quasi di essere tornato ai vecchi tempi; non sapeva se piangere o ridere e gli riuscì di sorridere al pensiero delle sue dimensioni, lui così piccolo al confronto dei treni che vedeva. Quell’aria che respirava, comunque, non riusciva affatto a sembragli simpatica: troppe cose lo riportavano alla sua condizione primitiva ed egli non desiderava proprio risentirsi nei panni di prima. Scelse perciò un altra soluzione: sarebbe stato un treno indipendente. Aveva già dimostrato a se stesso di sapersela cavare da solo, anche senza binari, capi stazione, palette e semafori. Avrebbe continuato così, esplorando tutto ciò che lo avrebbe incuriosito. Lo si vede spesso correre tra le aiuole del parco: ora ha anche dei viaggiatori, i passerotti del giardino, ed è tanto contento di essere utile a qualcuno. A volte il trenino compie dei giri speciali; al mattino di buon’ora, quando le strade sono ancora deserte gli piace andare ad osservare la città addormentata: i passerotti, qualche grillo pigro, una cincia curiosa a bordo e via ciuff ciuff si parte per una nuova scoperta.

Nota (2006 di E. A.)

Le due fiabe che qui pubblichiamo andrebbero definite “di lavoro”. Sono state scritte da una maestra, Rosa Bertola, che nel comporle ha sicuramente avuto in mente le bambine e i bambini del Secondo Circolo didattico (scuola elementare) di Cologno Monzese. Volti, voci e corpi di bimbi d’oggi hanno riacceso memorie della propria infanzia, rimodellato l’idea d’infanzia della maestra e di se stessa in rapporto affettivo e didattico con loro, riempito di emozioni impreviste quel tempo detto ‘anno scolastico’, che scorre separato dal tempo di fuori: delle strade, della città, della televisione.
Le due fiabe – altre restano nel cassetto e si spera presto di raccoglierle in libro – nate senza pretese di farsi letteratura, come scritture d’occasione motivate da esigenze pratiche (insegnare la lingua italiana, calamitare attorno a parole semplici la fantasia del gruppo-classe, afferrare il fantasma sfuggente del ”mondo” mediante i nomi, trasmettere “qualcosa” – un senso – quello che, in tempi di certezze, si diceva “una morale”) – hanno un primo pregio in questo legame stretto con la realtà viva, fissa e mutevole al contempo, del fare scuola.
Sia la prima, quasi un haiku per brevità e tema, che la seconda, più articolata e mossa, richiamano con immediatezza la potenza dell’infanzia: di stupirsi di fronte al “silenzio magico” di un paesaggio innevato; di maturare, grazie alla ripetizione del gioco – una ginnastica che i bimbi s’impongono con piacere e a cui gli adulti sfuggono – scatti di libertà e di fuga dai mondi di cartapesta (tutti, non solo quelli dei bambini, lo sono un po’ o possono diventarlo).
Se le estraiamo, come minerali, dal magma vivo della situazione in cui sono nate e le esponiamo in una rivista “per intellettuali” come Poliscritture, non è per un semplice atto d’omaggio ad un’amica da poco morta o per paternalismo. Lo facciamo perché sono un esempio di quel plurale, che oggi si svela  in tanti scriventi “non autorizzati”; e che programmaticamente come rivista puntiamo a indagare e a mettere in fecondo – crediamo – cortocircuito con un altro plurale, quello delle scritture “alte” argomentative, riflessive, analitiche, espressive. Ma nel caso delle fiabe, c’è un altro problema da affrontare: è possibile oggi tenere problematicamente aperto e fluido il legame tra l’immaginario infantil-materno che ci pare esprimersi nelle due di Rosella Bertola, e lo strabordante immaginario “adulto” ipercommercializzato che ci travolge attraverso la TV?
In nome delle “cose serie” (il Mercato, la Politica, la Scienza, il Progresso) l’infanzia e il maternage vengono a un certo punto cancellate. Oppure i loro effetti costruttivi e dinamici sono confinati: nella scuola elementare, appunto; nella famiglia che dovrebbe tornare “sacra”; o in un quotidiano detto “normale”.
Altri ne fanno oggetto di studio specialistico (pedagogia, psicologia) o di rituale e episodico omaggio (la giornata mondiale del bambino, la festa della mamma).

Resta da presentare la maestra-bambina che ha scritto queste fiabe. Rosa Bertola è stata maestra elementare a Cologno Monzese dal 1971 fino alla sua morte avvenuta nell’ottobre del 2005. Cresciuta come tanti sotto il segno della tradizione più autoritaria esistente in Italia: quella della Chiesa cattolica (iniziò la sua carriera di maestra insegnando religione; ed è noto il controllo che la Chiesa cattolica impone a queste figure d’insegnanti), seppe stare ad occhi aperti nei tumulti che negli anni Sessanta e Settanta coinvolsero una scuola elementare per figli d’immigrati (allora “comunitari”  ma trattati come gli attuali “extracomunitari”) paurosamente carente nelle strutture e nella didattica. Si confrontò con quei fermenti di ribellione e affiancò inquietamente al suo venerato Manzoni il quasi eretico don Milani di Lettera a una professoressa, impegnandosi nell’innovazione didattica e nel movimento che tra 1979 e 1983 portò alla scuola a tempo pieno.
Nel suo lavoro Rosella, secondo una tradizione che si va perdendo, desiderava che i suoi scolari imparassero a memoria delle poesie; li educava ai dettagli, fossero parole e numeri o i fiori del giardino della scuola da seminare, veder crescere, nominare, disegnare. E fu una donna capace di coltivare passioni: per la poesia, la geografia, il disegno, la musica, la scrittura. Nutrì così sia il suo lavoro di maestra che la sua presenza attiva nelle istituzioni: nel Consiglio di Circolo, ad esempio, e dovunque in una città di periferia si potesse discutere fuori dai conformismi. Nell’agosto 2001 le fu scoperta la malattia che poi la condusse a morte: insegnando finché ebbe la forza, resistette alla implacabile cancellazione del suo mondo.

* L’articolo fu pubblicato nel n.1 cartaceo di POLISCRITTURE (MAGGIO 2006)

Facebookando sull’assalto di Forza Nuova alla sede della CGIL


Appunti politici

di Ennio Abate

Questa è  la posizione  generale su vaccinazione e green pass che avevo espresso il  4 settembre 2021 in risposta a X su FB:

 Bisognerebbe essere cauti e non confondere il proprio discorso con quello degli avventurieri. Come singoli poi non vedo nessuna strada alternativa. O ti vaccini e fai il green pass. O ti associ e protesti con questo movimento ambiguo e senza un vero progetto alternativo.  Per me l’attuale “opposizione” sfrutta il malcontento, ma non ha una reale alternativa di governo della pandemia. Dire no, criticare le scelte (anch’esse ambigue o di parte) del governo non basta, purtroppo, a costruire un’alternativa. E ancheconsiderando soltanto il piano della salute, ammesso che le “terapie domiciliari”  siano scientificamente valide (per la maggioranza dei casi a rischio) non esiste oggi una forza politica organizzata per imporre questa scelta all’attuale governo. O fare un altro governo che cambi strategia. Con la realtà si fanno i conti. Non saltandola e guardando solo al malcontento.

Negli ultimi due giorni (9 e 10 ottobre)  ho  avuto modo di confrontarla (e confermarla) leggendo su FB le reazioni di alcuni tra i commentatori politici che seguo con più attenzione . E a chi mi ha fatto notare che a Roma in piazza c’era il “popolo” ho obiettato così:

'Popolo' è un termine ambiguissimo. Popolo sarebbe questo della foto, quello di piazza Venezia ai tempi di Mussolini, quello delle manifestazioni degli anni '70? Non è soltanto il numero a qualificare una folla come 'popolo'. Vanno considerati almeno gli obiettivi, la composizione sociale (ceti, classi o gruppi sociali), i leader che in esso agiscono più o meno approvati, le forme di lotta attuate.

Sulla solidarietà (critica e circoscritta a questa aggressione) alla Cgil non ci piove. Ma evitiamo di farla diventare “santa subito” soltanto perché assaltata dai neofascisti di Forza Nuova. Bisogna dirlo che da tempo non è più in grado di difendere gli interessi dei lavoratori.

APPENDICE

Qui di seguito una selezione dei commenti letti su FB

Vittorio Agnoletto

Tutta la mia solidarietà alla CGIL per il vergognoso attacco subito. Indecente e inaccettabile il comportamento della polizia che ha lasciato mano libera ai fascisti.

Conversazione con Adriano Sofri

L’assalto alla sede della Cgil da parte di manifestanti sedicenti No Green-pass è un episodio osceno all’interno di una vergognosa manifestazione di fascisti e di imbecilli al centro di Roma.


Massimo Tesei  

 su fascisti non c’è dubbio, basta guardare i ceffi di Forza nuova infiltrati in ogni iniziativa. Imbecilli non c’è dubbio perché nemmeno vi accorgete di essere sempre strumentalizzati dai fascisti, veri campioni di libertà e di democrazia.

 Cosimo Minervini 

Quello che è successo a Roma è gravissimo. Aver permesso l’assalto della sede della Ggil da parte della polizia è ancora più grave. I leader di queste manifestazioni sono noti fascisti. Non ci sono né scuse, né giustificazioni. I così detti no green pass si dissocino pubblicamente o sono complici dei fascisti. Tertium non datur.

Stefano G. Azzarà 

Capitanata dalle bande fasciste uscite a bella posta dalle fogne, la feccia piccoloborghese che ha nell’arbitrio assoluto il proprio unico credo tracima per le strade e assalta le sedi delle organizzazioni dei lavoratori, tirandosi dietro i lumpen di ogni classe sociale.

Speriamo che la Costituzione della Repubblica – la cui verità è l’equilibrata prevalenza dell’interesse generale sugli interessi particolari – sappia difendersi e venga difesa.

Purtroppo, in assenza di una sinistra seria tutta questa sceneggiata porterà a una ulteriore stabilizzazione dell’ordine grandeborghese.

Lino Di Martino 

REAZIONE SALUTARE DELLE FORZE POLITICHE E SINDACALI ANTIFASCISTE.

Ci contavo, perché i fatti di oggi sono gravissimi, ma radicati in una ‘distrazione’ di molti anni. Ottima l’idea di una manifestazione nazionale a Roma, ma soprattutto la volontà politica esplicita di mettere al bando, secondo Costituzione,le organizzazioni, sette e bande neofasciste e neonaziste. Necessarie una vigilanza antifascista permanente e una mobilitazione dell’Unione Europea. IMHO, of course.

Riccardo Rosati

 la mia non è una teoria, ma una valutazione. Le tutele sono venute a mancare gradualmente negli ultimi decenni con la sconfitta di un glorioso ciclo di lotte contro il capitale. Non mi importa se chi partecipa ad una protesta imbecille non sia tale perché possiede qualche talento individuale, resta un idiota sociale. Il punto di vista che difendo non è l’intelligenza astratta, ma quella degli interessi di classe, che per quanto di aperture larghe io sia, non credo vengano rappresentate da confuse bandiere new age, libertari del weekend, stregoni, terrapiattisti, impauriti senza criterio, esercenti di discoteche e cazzari vari. Chi non accetta la sconfitta non conosce più il nemico, chi non conosce il nemico si aggrappa a tutte le scorciatoie immaginabili, che non funzionano più, se non per assaltare una sede sindacale, che per quanto criticabile, non va assaltata al comando di una armata brancaleone di fascisti satolli

Nicola Lagioia

Gli intellettuali che, per puro narcisismo, per appannamento, per sopraggiunta anzianità, per orgasmo televisivo, per terrore di un passaggio del testimone, hanno portato avanti in questi mesi discorsi del tutto alieni alla ragione, al buon senso, alla statistica, persino alla matematica, si ritrovano oggi (nemmeno più cattivi maestri, ma utili idioti) branditi dai violenti, dovrebbero avere la decenza di riflettere un po’ di più, e l’intelligenza di fare ciò che non fanno da decenni: mettersi in discussione.

Francesco Bertolotti

Adesso i neofascisti stanno rompendo veramente i coglioni. Cosa c’entra il no Green pass, il no vax con assaltare la sede della CGIL e poi come si fa a caricare le forze di polizia che stanno garantendo la legge questi sono i prodromi del Fascismo

Marco De Guio

Questa volta non ci sarò. Il fascismo violento delle squadracce ha avuto un ruolo in un preciso periodo storico, alla fine di una guerra mondiale, in un contesto politico nel quale le forze di sinistra avevano una presenza non compatibile con i programmi del capitale di riconversione e sviluppo dell’apparato produttivo. Non credo che oggi il pericolo sia determinato dall’agire di qualche frangia violenta della destra estrema. Il controllo sociale è totale, il governo Draghi ha disarmato le organizzazioni della sinistra e imbrigliato i sindacati.

La mobilitazione contro la CGIL sembra un’arma di distrazione di massa a conferma delle linee tracciate dal governo e difese dalla cosiddetta sinistra. La condanna dei fatti di Roma da parte di tutti gli attori della scena politica ed economica mi lascia sconcertato.

La mia parola d’ordine è sempre stata “scendere in piazza ogni volta che la destra provoca azioni violente”, ma questa volta non riesco a mobilitarmi, mi sento preso in giro, sento di avere di fronte solo le scelte che qualcun altro ha deciso di lasciarmi.

Non vengo al presidio e non parteciperà allo sciopero generale del sindacalismo di base che non ha avuto il coraggio di inserire nell’elenco delle rivendicazioni l’opposizione all’utilizzo del Green pass come elemento di discriminazione, dei lavoratori in primo luogo.

Giovanni Scirocco

Ulteriore domanda: come mai i capi di forza nuova, presenti a fare danni in tutte le manifestazioni, sono sempre a piede libero? E a coloro che si ritengono molto di sinistra e che marciano con costoro, una calda raccomandazione: attenti a non fare la fine degli anarchici e dei sindacalisti rivoluzionari finiti con Mussolini…

Antonio Moscato

i toni populisti e l’agire violento sono una replica in sedicesimo della violenza squadrista di cento anni fa. E’ bene essere chiari: questo tipo di violenza è sempre contro i lavoratori e le lavoratrici, anche quando sembra scagliarsi contro obiettivi istituzionali e rivendicare “libertà”. Forse i raid di questa sera turberanno l’armonia fra neofascisti dichiarati e settori di piccola borghesia che, fin dall’inizio della pandemia, si sono mostrati insofferenti alle misure di precauzione ma anche i cosiddetti settori pacifici sono del tutto estranei alle rivendicazioni di un servizio sanitario pubblico e di un reddito per tutte e tutti che, invece, sono state agite dai settori più avanzati dei movimenti sociali e del movimento operaio

Michele Corsi

TRE DOMANDE

a seguito dell’assalto fascista alla sede CGIL

  1. Cosa sarebbe accaduto se al posto dei no green pass ci fosse stato un corteo dei centri sociali o di metalmeccanici incazzati o di studenti mobilitati in manifestazioni non autorizzate?
  2. Cosa sarebbe accaduto se nel corso di una manifestazione di sinistra ci fossero stati atti di vandalismo e attacchi alla polizia?
  3. Cosa sarebbe accaduto se un gruppo di manifestanti di sinistra avesse fatto irruzione nella sede NAZIONALE di un partito di destra minacciando e devastando?

[…]

Siamo il Paese dove al G8 di Genova chi ha diretto il massacro è stato promosso, chi l’ha perpetuato, ha sequestrato e ha torturato non è nemmeno stato identificato, ma chi ha divelto un segnale stradale ha trascorso anni di carcere. Ma basta che uno sia di estrema destra e in questo Paese non gli succede mai assolutamente NIENTE. Quando le combinano proprio grosse e li mettono al gabbio, tornano fuori in men che non si dica e si rimettono a fare indisturbati le stesse cose.

E non mi si dica che là era pieno di poveri no green pass che sono tanto da comprendere. Non ho alcun rispetto per gente che manifesta contro il green pass come se fosse il grande problema su questa terra e se ne fotte allegramente che la gente venga licenziata e prenda stipendi da fame. Gente che non si accorge di essere manovrata come pupazzi dall’estrema destra per quel che mi riguarda può solo andare a farsi fottere. E non mi si dica che la CGIL non merita solidarietà perché non difende i lavoratori, dato che mi si dovrebbe spiegare perché non sono state assaltate le sedi della CISL o della UIL.

Ma quello che mi preoccupa è un centro sinistra imbelle che continua a stare dentro un governo DA CUI DIPENDONO LE DECISIONI ANCHE SULL’ORDINE PUBBLICO. Mentre l’estrema destra si organizza, si espande, saccheggia indisturbata assaltando le sedi del movimento sindacale. Allarmismo? NON è fantasia: perché E’ GIA’ ACCADUTO.

Brunello Mantelli

In merito all’assalto squadrista di ieri alla sede centrale della CGIL, a Roma:

Prego l’amico e compagno Andrea Colombo di non fare confusione, una confusione tipica della piccola borghesia (merdosa), tra mob, mass, e class. Il mob è quello dei linciaggi, il mass è quello dei mouvements, il class è quello che si riconosce come soggetto collettivo.

Il mob è strumento della reazione, il mass è ambiguo in sé, il class è rivoluzionario (se intendiamo per rivoluzione NON la presa di qualche palazzo d’inverno, ma un processo di trasformazione della società)).

Quello di ieri a Roma era mob, esattamente come, oltre due secoli fa, i “lazzaroni del cardinale Ruffo”.

Se questi ultimi ti dovessero piacere, caro Andrea Colombo, allora per favore fatti smettere di piacere Eleonora de Fonseca Pimentel; casomai scrivi che l’aristocratica e colta dama (tale era) se l’è cercata, ad essere contro quelle che tu chiami, sbagliando, “masse” (io invece mob).

Mi sa comunque che più che un seguace di Karl Marx sei un adepto di Gustave Le Bon. Saresti, lo sai, in ottima, calva e mascellare compagnia.

Marco Revelli

Condivido. Quelle sono piazze naturaliter fascistoidi. Chi non lo vede è cieco o in cattiva fede.

Alessandro Visalli

Chiariamo. Non ce ne sarebbe bisogno, ma forse è meglio scrivere due righe.Sono la stessa persona che nel lontano 2014 ha scritto un duro post di commento della famosa intervista di Luciano Lama alla Repubblica nel 1978. Ma non ho alcun dubbio a stare con la CGIL quando viene assaltata da una folla che urla “libertà” ed è guidata da FN.
E’ chiaramente più facile scaricare sul singolo lavoratore e affidare il controllo alle imprese. Più facile e più coerente con la costituzione materiale del nostro paese. Opporsi a questo è sacrosanto. Farlo per le ragioni sbagliate è disastroso, ci troveremo con un enorme rafforzamento del senso comune neoliberale.
Dunque nessun fascismo nella folla
Ma quando questa folla, unita dalla rabbia per le promesse tradite, si forma intorno al significante tutt’altro che “vuoto” della “libertà” mostra di essere piena della cultura del nostro tempo. Vera figlia del completo dominio neoliberale. Si tratta, è semplice dirlo, di una folla liberale. Come ogni altra, solitaria.Dunque il sono dalla parte della CGIL e non sono dalla parte delle folle solitarie liberali. Oggi.

Pino Timpani

La mia impressione è che questo inasprimento dipenda anche dal risultato elettorale delle amministrative, in cui i grenpassari hanno preso una solenne bastosta, come prevedibile. Peggio di tutti Paragone, con tutto quello che ha speso in propaganda e con l’alleanza con Grande Nord, costola fuoriuscita dalla Salvini Premier. Hanno dato “fuori di matto” come suol dirsi. E’ diventato, ora, evidentissimo quanto questo movimento sia profondamente reazionario, compresi quelli che portano sigle “comuniste” in questa pagliacciata grottesca. E’ il sintomo del delirio particolarista.

Pasquale Cirillo

Perché io dovrei lavorare a fianco di un non vaccinato aumentando la possibilità di crepare? Il mio diritto alla salute va prima della paura e della manipolazione di soggetti asociali deboli psicologicamente? Perché la CGIL dovrebbe difendere questa gente e non me?

Lanfranco Caminiti

1.

l’assalto di ieri alla cgil a roma – è la nostra giornata del 6 gennaio a washington alla casa bianca. non abbiamo jake angeli cornuto – ma di cornuti ce n’erano parecchi. lì c’erano QAnon e trump a guidare i “patiti del complotto mondiale”, qui c’erano i fasci e castellino e fiore a guidare quelli del no green pass. certo, dobbiamo capire – e c’è sempre un tempo per capire. c’è pure un tempo in cui finisce, la necessità di capire.

2.

non tutte le motivazioni dei “complottisti americani” sono strampalate. come, di certo, non tutte le motivazioni dei no-green pass. poi, c’è la questione “politica”: lì la voce era trumpista. qui la voce è progressivamente (e a roma, sempre) diventata fascista

3.

[…] a roma i fascisti hanno fornito l’ossatura e la militanza alla “gente comune” che non li ha di certo cacciati dalle manif ma li ha accolti (sono quelli delle bombe, delle stragi eccetera, ma non da ieri, non nell’ultima settimana, ma durante tutte le manif no-green pass di questi mesi). si poteva e doveva rompere – e non, gridare “libertà libertà” insieme ai fasci

4.

 […] sono mesi che castellino e i suoi scherani organizzano queste cose – e mesi che ci lavorano sui social. poi, c’erano famiglie, gente con bambini eccetera. potevano benissimo – costoro, che hanno diritto a manifestare e dire la loro, prendere le distanze e organizzarsi per conto proprio. fare da “copertura sociale” a castellino e fiore mi sembra un “ragionamento” fuori di testa. ieri, era tutto pensato e organizzato: i media non danno più lo spazio di prima a questa protesta e non danno più spazio a castellino e fiore. dovevano farla grossa per riconquistarlo – era questo il “segno” di tutto

5.

noi – e lo dico in senso molto vasto, largo – non siamo stati in grado dire una beneamata mazza di senso su tutta la questione della gestione del contagio, parcellizzandoci su questo o su quello, intessendo discorsi generici e generali sul capitalismo apocalittico. siamo rimasti “tagliati fuori” da ogni possibile soggettività su questa vicenda enorme, epocale. impauriti per un anno e mezzo, rintanati, mentre le piazze venivano lasciate a ristoratori e destre (politiche e di piazza). poi, ci siamo svegliati, appena hanno allentato un po’. la partita però – l’arbitro l’aveva già dichiarata chiusa e tutti negli spogliatoi. così è andata. ci sono ultras sugli spalti che fanno ancora casino ma la partita, questa partita è già finita da un pezzo

Renato Tassella

Comunque i fatti successi ieri sono stati paradossalmente utili. Quella gentaglia ha smesso di manifestare il sabato pomeriggio, almeno a Roma. Chiuso. Gli stronzi che hanno imitato i trumpisti, tra le ovazioni dei “compagni”, così come all’epoca di Capitol Hill, sono e saranno al gabbio, riconosciuti attraverso i loro stessi filmati in possesso della polizia che li ha già identificati.

Daniele De Stefano

Purtoppo ieri è stato uno schifo dappertutto. Ieri sono passato per sbaglio vicino la manifestazione no green pass a Piazza Dante. Hanno detto al microfono che non esiste il cambiamento climatico. Gli ho urlato contro d’istinto. Gente che parla di grande complotto, di abolire la scienza e i giornalisti. Cioè 30 anni di lotte sociali cancellate in un lampo: Le lotte ambientali in Campania e la giustizia climatica, le lotte universitarie per l’istruzione pubblica e la ricerca libera. Le lotte per l’informazione libera e dal basso. C’erano pure persone che giravano nei cortei sociali. Qui non è più tempo di fare analisi del disagio. Al microfono c’erano persone alfabetizzate e alcuni erano persone che stanno negli spazi o organizzazioni sociali, in più pare che fosse stata organizzata da studenti universitari contro il green pass. Le cose che sono state dette sono gravissime. Per me non è ne giustificabile, né sostenibile.

Quanne nun ‘ngera o sottopassaggie e Via Vernieri

Narratorio/ Salierne
di Ennio Abate

Ah, chillu passaggie a livella! Qaunni vote a matine, quanne jeve a scola media abbascie a Via Arce o a miezze iuorne quanne turnaveme a ccase, steveme vicine ae sbarre abbasciate. P’aspettà ca ra nu mumente a n’ate passasse o trene. Quanne c’era nu poche e folle, chille ca arrivavane ra Porta Rotese o ra Via Verniere s’infilavane miezz’a gente c’aspettave. Passe o treno o nun passe? Nge vo tiempe o sta arrivanne? E ‘ngere sempe quacch’une ca se sfasteriave e ‘spettà e passave ambresse ambress, guardanne ra parte addò o trene aveva arrivà. Oppure chiane chiane, cumme se vulesse fa verè ca ere curaggiuse e se ne fregave ro trene. E accusì pure nui gugliune (ma ng’erene pure gent’anziene e quacche femmene), reveme n’uocchie primma a ddestre pò a sinistre e passaveme, ment’ a campanelle sunave, ca significave ca ‘ngere pericole. Ere cumm’a na sfide. Nui simme chille ca nun ‘nge ferme manc’a a paura e muri! E o guardiane ca steve dint’a stanzetta [guardiola] s’ere abituate e lasciave fà. E po’, pe spuntà a Via Arce, faceveme chella stradine ca curreve miezze a ‘sti murette. Erene mure vasce e fatte e prete grosse. E accussì puteveme verè tutti sti giardine: cull’insalate e e file e piante e pummarole. E erene chine pure e piante e limone, e nespule, r’arancie e mandarine. Po’ a forze e passà tutte e iuorne, quaccunne me ricettere ca si, turnanne ra Via Arce ieve dritte, invecie e fa tutta a vie re muretti, truvave na scorciatoie p’arriva subite ae binarie e po’ ao passaggie a livvelle. E accussì pigliaje pure io l’abbitudine e passà miezz’a a nu squarcie e na rete e fierre ca quacchune aveve rotte. E c’erene pure certi spuntun’e fierre ca te putevene ferì e cosce mente scavalcave. E po’ quante tiempe risparmiave? Na fesseria. Pe me però cuntava a sfide. Ie pure vuleve fà comme a l’ate guagliuni chiù curaggiuise e ‘nziste.

* Nota. La foto del sottopassaggio è ripresa dal post di Anna Anaisone su Salerno Archivio

Dentro l’immigratorio italiano

Riordinadiario 2006. Introduzione alle scritture
di Armando Tagliavento (Hermann) con intervista.

di Ennio Abate

 

Ieri sono andato a far visita ad Armando Tagliavento. Per me  è rimasto il bidello-scrittore, anche se ora è in pensione e nella vita (Armando è nato nel 1930) prima di “ficcarsi nella scuola” ha fatto il manovale, il fattorino, il disoccupato, il capomastro. Stava per diventare persino capufficio di una ditta di materiali edili ed ha sfiorato una carriera di scrittore di professione. Infatti, quando negli anni Settanta la cultura italiana ebbe un ritorno di  fiamma populista-neorealista (ricordo la letteratura “operaia”: Brugnaro, Guerrazzi, la rivista Abiti-lavoro…), Tagliavento ottenne un effimero successo come narratore: nel 1973 Feltrinelli gli  pubblicò nella collana dei Franchi narratori (patron Goffredo Fofi, che firmò la prefazione) un romanzo, Tra fascisti e germanesi. Vi narrava – con brio, spudoratezza e crudezze macabre quasi malapartiane – le sue avventure per sopravvivere durante gli scontri che insanguinarono l’Italia fra il ’43 e la liberazione.

Io l’ho conosciuto più tardi, negli anni Ottanta, all’istituto tecnico Molinari di Milano, dove appunto era bidello. L’ondata del ’68-’69, che aveva sollevato la sua esistenza assieme a quella di tanti fino alla ribalta massmediale, era da tempo esaurita e tutte quelle speranze rivoluzionarie, studentesche e operaie, affondavano nel mondo dei vinti metropolitani.

Tagliavento passava la giornata al suo tavolino, in fondo a uno dei corridoi a lui assegnato.  Leggeva o scriveva appena possibile, intrattenendosi a chiacchierare ogni tanto con gli studenti, per i quali era ancora un mito, e con qualcuno dei pochi insegnanti che lo coccolavano, l’occhio marpione pronto a scattare su studentesse e insegnanti bellocce.

Era malvisto da molti perché, chissà da quando, aveva preso a  bere di brutto, creando malumori e allarme. Qualcuno si mosse per  farlo licenziare. Feci un cartello, interessai quel che restava del sindacato nella scuola e un’amica dottoressa, che lo spalleggiò nella visita di  controllo all’ospedale militare di Baggio a cui l’avevano costretto. Rimase in servizio e arrivò alla pensione forse grazie a quella mobilitazione o forse per un sussulto di tolleranza della preside. Non senza passare però per Villa Turro, dove a suon di psichiatria – non credo basagliana – lo tirarono fuori dal suo alcoolismo cronicizzato.

Suo confidente “letterario” in quegli anni, lessi e gli commentai parte della sua incessante, fluviale e torbida produzione di scritture,  convincendomi sia del suo valore sia della difficoltà di trovare lettori che non si arrestassero di fronte alla sua foga espressionistica, barocca, persino kitsch, alla monotonia dei temi (in prevalenza porno-erotici), alle ripetitive e capricciose architetture narrative, alle trasgressioni ortografiche.

Per far risaltare il buono di quelle pagine, gli avevo suggerito di potarle da ridondanze ed eccessi, ma Tagliavento non mi ha dato mai ascolto: rivendica gelosamente il “suo” linguaggio, il “suo” stile;  e continua a giudicare un oltraggio qualsiasi aggiustamento o ripensamento. Preferisce pescare liberamente, anche arbitrariamente, sia nei bassifondi linguistici  sia nelle limpide acque  dei classici. Non crede al confronto, ma all’ispirazione, alla genialità o – detto senza moralismo e sprezzo -, alla follia inventiva. Don Chisciotte è davvero il suo modello: aristocratico, d’altri tempi o fuori dal tempo.

Ma come sono queste sue strabordanti scritture?  Esse presentano un lato onirico, visionario, sublimante  e un lato ossessivamente vitalistico. Nascono da un immaginario fortemente maschile (e maschilista). Poggiando su una base autobiografica alla quale mai ha rinunciato e che anzi continua  a coltivare nella memoria, Tagliavento porta alla luce immagini arcaiche ed elementari fortemente mitizzate, senza preoccuparsi della successione logico-temporale. E si è costruito un gusto letterario delimitato ma sicuro attraverso letture di opere della tradizione colta, popolare e di massa. Da autodidatta, in modo disordinato ma quasi eroico, specie se si pensi alle condizioni di partenza e agli ambienti  in cui è vissuto quasi sempre impermeabili al richiamo dei libri.

 Nelle sue pagine ha macinato dati delle sue esperienze con echi  soprattutto di Gadda (a livello  linguistico), Pasolini (per la tematica  “sottoproletaria” e cruda), dei  grandi romanzi (soprattutto Cervantes, Hugo e Manzoni per gli aspetti più visionari e tragici) e con   altre influenze grottesco-populiste, realistiche, fantapolitiche  o allegoriche, riferibili alla vasta gamma che va dai romanzi d’appendice ottocenteschi fino ai fumetti e al cinema di Totò. Ha succhiato cioè cultura dove poteva e l’ha rielaborata in quello che lui stesso, in questa intervista, chiama un «pot-pourri» (postmoderno potremmo aggiungere).

Sarebbe interessante, da un punto di vista storico-antropologico-sociale e non solo letterario, capire come forme culturali così eterogenee  siano filtrate in uno che ha scritto da outsider e alle prese con problemi materiali elementari di sopravvivenza e in contatto diretto con le fasce sociali più escluse. Le sue testimonianze di vita avrebbero potuto ben figurare tra le voci che Danilo Montaldi e Franco Alasia raccolsero attorno al 1960 in Milano, Corea fra gli immigrati presi nel vortice delle trasformazioni dell’Italia dal dopoguerra al boom economico.

Da quel coro di “subalterni” però Tagliavento in parte si distacca, proprio perché accanito scrittore in proprio  più che testimone orale. Nei fondali delle sue poesie e dei suoi romanzi s’incontrano, sì, squarci di vita di famiglie contadine e sottoproletarie, di caserma o di ambienti malavitosi, cioè di un tessuto sociale messo in subbuglio dal grande esodo verso l’industrializzazione. Però, lontano da ogni rappresentazione realistica,  egli  accentua nei personaggi estratti dai suoi incontri “dal vero” aspetti grotteschi, orrorifici o stregoneschi. Fino a spingersi nel fiabesco, presentandoci  eroi litigiosi e spacconi, animali parlanti e protettivi, terribili mostri e draghi, principesse bellissime e sfuggenti oppure battaglie ripetute fino all’esaurimento da poema ariostesco o paesi utopici calcati su Eldoradi alla Voltaire.

Tagliavento ci  mostra i sussulti dell’immaginario di un migrante d’origini povere e contadine alle prese con il miraggio metropolitano. E soprattutto quello erotico-sessuale dei migranti maschi, di cui ha parlato Tahar Ben Jelloun[1] in Le pareti della solitudine, ricordando come in fondo ai loro deliri ci sia «quella donna sognata che, anche se è soltanto un’immagine sulla carta patinata di una rivista», parla e tiene compagnia, alleviando e tenendo aperta   una «ferita».

Quest’immagine di donna – reale e immaginaria – è onnipresente nei romanzi e nelle poesie di Tagliavento. I bei corpi femminili suscitano nel protagonista maschile una voglia ossessiva di possederli  e peripezie tragicomiche. E in genere tutte le figure maschili, per lo più tratteggiate approssimativamente sotto l’aspetto fisico e morale, hanno per così dire una vita in pubblico ridotta, perché sempre intente a prepararsi al rituale della seduzione e del coito.

Il narratore, quando arriva a descriverlo, molto liricizzando il goloso godimento dei corpi, fa esplodere tutta una sensualità orgiastica, sadica, maschilista, ricorrendo ad una batteria inesauribile di aggettivi, iperboli, neologismi, termini bassi popolareschi o dialettali. Sia per le immagini che per il lessico  Tagliavento qui oscilla (ecco l’elemento novecentesco) fra dannunzianesimo e pasolinismo da una parte e fiabesco e sublimante dall’altra (ecco l’elemento arcaico, popolare). E in più si presenta come un Gadda plebeo soprattutto per la scelta di termini sbilenchi o strapazzati, arcaismi o chicche che, non potendo essere dotte, sono involontaria parodia del linguaggio letterario aulico.

Il piacere non è però paganamente goduto dai suoi maschili cacciatori. L’atto sessuale pur così ambito è giudicato una «porcheria» peccaminosa, una pericolosa ruberia da ladri e viene animalizzato  o spiegato come  oscura azione demonica che  sottomette tutti: vecchi e giovani, preti e laici.

A fare le spese dell’oscuro conflitto che accompagna questa ricerca del piacere però  sono soprattutto le figure femminili, ricondotte tranne qualche eccezione allo stereotipo popolaresco della femmina-vacca. Il protagonista maschile paga invece il suo pedaggio diventando preda di sensi di colpa, che lo portano alla fuga, a ravvedimenti improvvisi, moralistici e improbabili, alla morte.

Malgrado parecchie scene sembrino boccaccesche (lo sono secondo me solo a livello della descrizione dei comportamenti esteriori)  manca l’indifferenza di Boccaccio verso la morale ufficiale o la comicità  e la schiettezza di un Rabelais verso i bisogni  materiali e sessuali dei corpi. Tagliavento si dibatte tra un erotismo  sognante (a livello del profondo tutto iscritto nell’orbita del materno e del bisogno di protezione o accoglienza) e moralismo ideologico di marca cattolica.

In quel che gli resta di vita pubblica, il protagonista delle scritture di Tagliavento è invariabilmente eroe picaro, astuto e un po’ furfante. Va contro tutti ed è sottoposto a continue prove per uscire dal suo isolamento. Quando gli capita poi d’ottenere l’agognato riconoscimento del suo valore, finisce però per rifiutarlo, per ricominciare il suo vagabondaggio fino all’annullamento-punizione finale.

A differenza  infatti degli eroi delle fiabe, che sono unitari e vincitori, quello dei romanzi di Tagliavento è scisso: ora  inerme e vittima, ora spaccatutto e giustiziere; ma comunque soccombente ai suoi innumerevoli nemici, che però sono controfigure o emanazioni diaboliche di qualcosa di oscuro e ostile: il Destino.

Le peripezie che  questo impone vengono raccontate attraverso passaggi bruschi e poco motivati o troppo convenzionalmente giustificati. Il narratore inserisce così nel tessuto fiabesco più tradizionale, in apparenza ingenuo e sotto sotto orrido – stravolgendolo dunque – tremori e angosce esistenziali novecentesche. E così la storicità  contraddittoria ritorna in evidenza: Tagliavento partecipa a suo modo delle acquisizioni raffinate della letteratura alta e nel contempo non ha mai abbandonato la tradizione popolare e fiabesca  del C’era una volta.

Egli ha tentato altre volte, dopo il primo insperato successo, di pubblicare. Ma, trovate chiuse, anche per il clima culturale mutato, le porte dell’editoria che conta,  l’ha  fatto qualche volta a sue spese, vendendo («come uno straccivendolo», dice sua moglie, una proletaria casalinga che gli bada  da una vita lavorando da sarta)  fra  amici e conoscenti  qualche copia dei suoi romanzi. Forse anche per una orgogliosa e autodifensiva autosufficienza, romanzi e poesie da lui scritti sono in gran parte inediti. Ed egli ora ha quasi rinunciato a farli leggere, impegnandosi testardamente a continuare a scrivere, senza neppure più aspettarsi un qualche risarcimento.

Potrebbe essere scambiato  per un semplice grafomane. Non lo è.  A me  le sue scritture sembrano notevoli soprattutto per il gusto immediato e bizzarro nella scelta delle parole, nelle rincorse etimologiche e analogiche, nell’attenzione alle assonanze. Sono poi un esempio di letteratura prodotta in quelle condizioni di vita marginalizzate in cui si trova tuttora una buona parte dell’ex-proletariato da cui  è venuta fuori  l’odierna figura dei lavoratori più istruiti e dei precari laureati.

Quanti tra loro (e penso in particolare ai nuovi immigrati) vanno oggi producendo i loro racconti e fossero in grado di sentirsi vicini ad esponenti di quelle classi sconfitte che li hanno preceduti potrebbero trovare nelle  scritture “selvagge” di Tagliavento un loro antenato.

INTERVISTA DI ENNIO ABATE A  ARMANDO TAGLIAVENTO

Quand’è che hai cominciato a scrivere?

Il discorso di scrivere è una cosa che nella mia vita salta, zompa, balugina. Non è una cosa che mi sono prefisso. Comunque cominciò a Fondi nella zona della Ciociaria, dove sono nato, con la figlia del maestro Spirito. Avevo sei anni circa e doveva venire Mussolini o un federale, che si chiamava Amato (mi pare), a inaugurare una colonia. Mi disse: Armà, scrivi una poesia. E allora io scrissi: Viva viva il nostro duce / che con sé porta la luce / e viva il federale Amato / che di gioia ci ha colmato. Poi a una diecina d’anni cominciai a andare appresso alle cugine e allora scrissi una poesia che cominciava così: Saltano macchie, siepi e rupi / per sfamare i loro lupi /quando è notte e tutto tace / coi begli occhi di fornace / vanno in cerca del lungo bruco / eccetera. Non ricordo più  bene.

Tu che scuola hai fatto?

A Fondi avevo fatto la seconda e la terza elementare. Andavamo da un certo frate che c’insegnava a leggere e scrivere. Si chiamava  padre Giacomo. Poi non ci andammo più perché dovevamo pagarlo. Poi è venuta la guerra. E quand’è finita il paese è tutto un mucchio di polvere. Tutto bruciato, polverizzato. Non s’è trovato più un documento. Niente. Fondi è stata incenerita proprio. Ci rifugiammo nella chiesa di S. Francesco vicina al monastero. Ciascuno si arrangiava alla meglio. Poi è morta mamma. Mio padre è un essere umano che meriterebbe di essere ucciso mille volte. Prima di tutto ha caricato mamma di figli: mia madre a 33 anni ha fatto 12-13 figli. Ne sono sopravvissuti 8. Appena arrivati gli americani, noi per due o tre giorni andavamo per il paese rovistando per trovare qualcosa da mangiare. Un giorno zia Santina, la moglie di un fratello di mamma buon’anima, ci ha detto: Guarda Armà, noi usciamo. Mi raccomando  Antoniuccio. Qui c’è una bottiglietta col biberon. Ogni tanto ci date da bere. Il fratellino, di cui non abbiamo neppure una foto, dormiva dentro un tiretto del comò. Quello era il lettino suo. Noi ragazzi per andare in giro – mangiucchia di qua, rubacchia di là – l’abbiamo dimenticato. Quando siamo tornati, stava morendo.

La guerra  l’hai vissuta da vicino, vero?

Cavolo. Da una fessura  tra le rocce ho visto i marocchini violentare le donne. Uno di loro portava dei campanelli. Faceva un gesto così e si riunivano. Quando siamo sfollati, ci siamo andati a rfugiare per quasi un anno in cima al Cocoruzzo e abbiamo abitato dentro la capanna, dove c’erano prima i somari di Angellella Franco, la padrona di quel pezzo di montagna, questa ciociara. Più sopra ancora c’era la Crocetta di Campo di Mele, un altro paesetto.  Si chiamava così perché era un incrocio. Lì c’era Elvira, che veniva sempre a vendere i fichi a Fondi. Era tutto un incrocio di montagne, di vallate. Noi ragazzi ci mettevamo sulle soglie delle capanne, che erano fatte di pietre con il tetto di paglia. Ci mettevamo a vedere gli aerei che sfrecciavano nella vallata di Fondi e quasi rasentavano le nostre capanne. Per noi era un divertimento. Sotto, dove c’erano sette sorgive d’acqua, non potevamo scendere.  Qualche volta gli aerei per venire a bombardare si schiantavano vicino alle rocce. Avranno scaricato più di mille bombe. Noi le chiamavamo fasuleglie, cioè fagiolini. Se uno  volesse.. Io potrei scrivere ancora un altro libro intero sulla guerra.

Hai notato un cambiamento tra il periodo di prima e quello di dopo la guerra? Tu, la tua famiglia avevate simpatia per i fascisti o no ?

Uno non ci pensava neanche. Eravamo tutti fascisti allora.  Dicevamo: Churchille, Churcillone/ se ci esce l’America/ ci pensa il Giappone.  Dei comunisti niente, noi ragazzi non sapevamo niente. Io so solo che il primo partito che hanno fatto a Fondi  era la Lista Castello, perché c’è il Maschio come a Napoli, più piccolo però. Erano fascisti e democristiani insieme. Io a Latina ho fatto due nottate dentro perché, per avere un pezzo di pane,  insieme ad altri ragazzi vendevo senz’autorizzazione L’Unità, Rinascita, Noi donne. Da piccolo  uno che capisce?  Tu sei povero, hai bisogno di un posto di lavoro, di un letto caldo. Hai bisogno di una mamma. Noi non avevamo più niente.

Ma poi ti sei avvicinato ai comunisti fino a prendere la tessera? Perché?

Sì, io presi la prima tessera, quella della Fgci. Me l’ha firmata Berlinguer.  Lo feci per avere un’esistenza, un’identità. Io non potevo mai essere democristiano, perché ero figlio di poveri. E vedevo i comunisti vicini ai poveri.  Io non avevo casa, non avevo niente. Papà aveva una casa che aveva pagato 75 lire. Ci hanno buttato tre bombe sopra. C’era disoccupazione. Tutti erano disperati. A Fondi ci abbiamo la scalinata Santa Maria. E lì si mettevano i disoccupati. Allora tu sei esasperato contro qualsiasi forma di ricchezza. Vedessi l’arroganza di certi padroni bastardi. Cominciai a andare ai comizi, ai cortei. Dai comunisti più che un aiuto mi aspettavo una giustizia. Il lavoro per tutti, ad esempio. E poi   l’amicizia.

Ma così non ti mettevi contro altri  amici tuoi che erano fascisti?

Sempre una lotta è stata. Io sono stato sempre, diciamo, un po’ opportunista. Tutti lo siamo. Il padre di un mio amico s’è iscritto a un partito per far operare d’appendicite una sorella. I ricchi hanno sempre odiato i poveri. Io però ho sempre dato più adito [importanza] alle cose non politiche. Quando mi faceva comodo andavo anche dai preti a chiedere. Ero uno sfaticato, lassista. Non mi è mai piaciuto essere [inquadrato]. Ho fatto sempre il doppio gioco. A Milano poi sono stato  coi capelloni, ma ho votato sempre comunista. Il fatto del voto è sacro.

Ma la tua famiglia era fascista o no?

Mio padre era analfabeta. Anche lui era un opportunista. Mi diceva: nella vostra vita non fatevi mai le tessere. Era fascista, ma la tessera io non ce l’ho mai vista. Aveva un’idea e basta.  Papà era crudele. Gli uomini di prima erano tutti come lui: un bicchiere di vino, la zappa.  Però è stato in Germania. C’era andato col sindacato fascista. Ha lavorato sulla Bahn’hof, sulla ferrovia tedesca. Non poteva più tornarsene e se ne scappò. Lì ha imparato la lingua. Lui a cinema non c’è mai stato. E s’arrabbiava con chi ci andava. Diceva: vai a cinema a vedere le stesse cose che fai tu? Sono soldi sprecati. La mia era una famiglia di poveracci. Mamma sempre un po’ malaticcia.  E ‘sto lazzarone e disgraziato di mio padre. Far fare a una donna tutti quei figli!

Dopo la guerra che cosa hai fatto?

Ho vissuto  8 anni a Roma. Vi scappai con mio fratello Enio, un mezzo delinquente, uno scapestrato. Prima si è messo coi partigiani, poi coi tedeschi, poi per soldi si era messo con gli americani per andare a cercare i tedeschi. A Roma è andato ad attaccare i manifesti  al Vaticano e lo hanno sbattuto dentro a Regina Coeli per un paio di mesi.  Era amico del Gobbo del Quarticciolo, che era contro la legge. Non uccideva. Rubava per mangiare. Era un giustiziere. Aiutava i poveri e perciò alcuni lo chiamavano Zorro. Quando uno non aveva il lavoro, lui andava e  diceva: se non dai il lavoro a questo, io ti faccio fuori. Nella banda c’era lui, poi c’era Pezzancule, Pisciasotte, che l’avevano operato male e si pisciava sempre  addosso. Ci faceva parte anche mio fratello Enio. Un regista francese ci ha fatto anche un film su tutta questa storia. In quel periodo lì  io ero guaglione. C’avevamo una fame. Noi stavamo con zio Michele, figlio del patrigno di mio padre, che era impiegato all’assistenza postbellica. Lui ogni tanto prendeva in casa un nipote. Lo svezzava lì. E così ha fatto con Enio. Poi con me e man mano con altri.  Era uno zozzone. C’aveva un paio di donne e poi maltrattava la moglie, che faceva la serva al Testaccio, lavava i piatti, stirava e il marito le portava via anche quei quattro soldi che guadagnava. Mio zio aveva anche una fabbrichetta di varechina ai Parioli e io stavo al negozio con mio fratello Enio. La varechina ce la facevamo noi. C’era «la Bianca»,  «marca Bianca». Prendevamo dei vasconi e compravamo l’estratto per fare la varechina in questi vasconi. Poi coi tricicli andavamo girando per Roma. Eravamo talmente affamati, che man mano che prendevamo una lira, la rubavamo per comprarci la pizza. Mio zio diceva: prendete trenta litri di estratto per allungare la  varechina nei vasconi. E noi ne prendevamo la metà. Tutt’acqua era. Alla fine è fallito. Poi io trovai un portafoglio di un signore. Glielo riportai. E quello: che cosa vuoi? Dammi un lavoro. E allora sono finito in piazza Epiro, vicino a Cinecittà. Facevo il custode, il servotto anche degli attori. Ho conosciuto Bob Hope. Poi Enio ha buttato un gatto dentro la gabbia dell’ascensore e mi hanno cacciato  dal lavoro. Vivevo così. Poi ho preso a leggere di tutto. Salgari, ad esempio. Poi ho letto Atte, la liberta di Nerone e mi sono innamorato follemente del latino. Sono sempre stato innamorato della roba antica.

Ma come ti procuravi i libri?

Chiedevo ai vecchi. A quei tempi là  si andava in giro a raccogliere le cicche e poi le davamo ai vecchietti di Piazza del Popolo. Roma io la conosco a millimetri perché l’ho girata per tanti anni. I libri li chiedevo a chiunque. Ci avevo una faccia tosta. Facevo amicizia con uno, con un altro. Andavo a portare la varechina nelle case. Parlavo. Guagliò, di dove sei? Ero già piazzato. Avevo  14 anni ed ero molto bello e sempre a caccia di donne.

Quali libri hai letto? Quali ti hanno appassionato?

A me piace soprattutto il Don Chisciotte. Lo leggerei due volte l’anno. Tutto ho letto.

Beh, dimmi di cos’è fatto ‘sto ‘tutto’…

I promessi sposi li ho letti quattro volte. Don Chisciotte della Mancia l’ho letto in italiano e in spagnolo.  Il tuo ex collega del Molinari, Merisio, lui mi ha portato il Don Chisciotte  in spagnolo. Ho letto quasi tutto. Ad esempio I fratelli  Karamazov  di Dostoewskij. Poi il  Dictionnaire philosophique di Voltaire in francese, che adesso sto leggendo un’altra volta. Poi ho letto per 4 anni la Bibbia. Lì è un macello, un marasma. Ci sono tanti personaggi. È meravigliosa per questo. A me piace molto l’immagine dei contadini che stanno tirando l’acqua dal pozzo, quando arriva Mosè.  Va letta tutta la vita. E anche se la leggessi per mille anni, la leggerei sempre come un ameno libro di lettura. Non come un libro sacro. Ho letto tanto in francese. A me piaceva Notre Dame di Hugo, cose toste. Poi Madame Bovary di Flaubert, Balzac, Zola, Baudelaire.In italiano di Dante so dei  canti a memoria. Ho letto pure I Malavoglia, Mastro don Gesualdo, il  Decamerone. Poi ho studiato inglese e anche  qualche po’ di russo. Le lingue mi sono sempre piaciute, perché mio padre è stato in Germania più di vent’anni e quando veniva, gli chiedevo di portarmi una grammatica. Sono stato sempre un po’ esaltato dalla lingua tedesca.  Stern  l’ho letta per tantissimi anni. Il tedesco l’ho portato avanti fino adesso. E in Germania ci sono andato d’estate per vacanze. Mi stavano quasi prendendo al porto a fare l’interprete di tre lingue e mi davano 6 milioni al mese. Però c’erano i bambini [figli], dovevo lasciare tutto. Ho letto pure Umberto Eco. M’ha scandalizzato. Dice più Fontamara. Cristo si è fermato ad Eboli mi dice mille volte più di Eco. E poi più leggevi e più approfondivi. Qualsiasi cosa. Cominci una frase e subito viene una rima. È come se ci fosse un dialogo. Poi come giornali leggo Settimana enigmistica, sempre quella. Sono settant’anni. Prima si chiamava NET, Nuova Enigmistica Tascabile. Io quando prendo le parole crociate, guarda qua… Io tutta la vita avrei dovuto farlo questo, ogni settimana: ritaglio le foto degli attori e l’appiccico qui, faccio un archivio.

E che ti serve avere tutti questi volti? Perché t’interessano tanto?

Niente, curiosità. Perché amo tanto la cinematografia. A Roma andavo in tre cinema gratis: Arcobaleno, Iovinelli – dove vedevo sempre Claudio Villa – e Brancaccio. Perché mio zio andava in giro a portare le pizze con la bicicletta. Mi portava con lui. E così vedevo i film senza pagare.

Ma le parole crociate perché ti appassionano?

È una rivalsa. Quando prendo la Settimana enigmistica, faccio le più difficili.

Ti appassiona lo studio dei nomi, dei dizionari, dell’enciclopedia?

Sì, sì. Perciò poi faccio tutto questo casino quando scrivo, è come un fiume, come dici tu. Mi sono insaccato, nutrito di tutto, senza fare distinzioni.

Ma le preferite di queste letture?

Don Chisciotte. Perché sono io. Pensa a Dulcinea. Quella era una contadina che sceglieva i ceci in mezzo all’aia e lui si esaltava. Secondo me, lui si sarebbe accontentato anche di una strega pur di avere vicino una donna. Aveva un animo grande. Era pazzo, no? Con la sua immaginazione rendeva bella anche una donna brutta.  Don Chisciotte era secondo me malato. Non esiste poeta contento. Come fa uno felice ad essere poeta? Se non soffri, non puoi scrivere. Il poeta è uno che vive ammollato nella sofferenza. La sofferenza mi piace. Quando non c’è sofferenza, non c’è niente.

E ne parlavi con qualcuno delle tue letture?

Con i ragazzi del Molinari. Ho fatto il bidello lì per 35 anni. In mezzo a tutta quella gente lì parlavamo di letteratura, di lingue. Ne parlavo anche con qualche professoressa. Poi ho fatto il liceo classico al serale. Quando c’era il greco e qualche materia che c’interessava, stavamo in classe. Se no, con una scusa, ce n’andavamo. Ci davamo l’appuntamento al cinema di piazza Argentina con sei, sette  studentesse. Ubriacature, sigarette… Ero esaltato. Sono stato sempre un po’ femminaro, diciamo. Ma adesso son vecchio, brutto, non ce la faccio più.

E se dovessi presentare a dei giovani I promessi sposi che gli diresti?

Beh, c’è l’arroganza di don Rodrigo che è fondamentale. Poi c’è il perdono quando sta per morire. In tutti i personaggi mi trovo io.  Anch’io sono don Rodrigo. Tutti sono don Rodrigo. Nessuno è buono. Crediamo in Dio quando ci fa comodo. Siamo opportunisti, vigliacchetti.

Ma da Roma a Milano come e quando sei arrivato?

Dopo la guerra ho fatto diciotto mesi il soldato a Como e Varese. Poi sono tornato a Fondi. Poi sono stato da una zia di Monterotondo. E lì questa qui voleva appiopparmi la figlia Adele. Si arrivò al punto che mi fecero ubriacare e mi misero la figlia a fianco nel letto. Stavano preparando persino la dote. Io non dico  niente a nessuno e di notte me la filai a Monterondo città, in una pensione di due vecchie, una più cattiva dell’altra.  Lì conobbi Peppino, che faceva il camionista e che per poco non mi metteva sotto, mentre io con altri  stavo giocando con una palla di pezza per strada. Io dovevo pagare 8 mesi a questa pensionante, ma non avevo una lira ed ero disoccupato. E quell’anno fece otto volte la neve e a Monterotondo vennero i lupi.  Peppino mi porta a casa sua. Qui una volta ad un battesimo di una vicina venne invitata una ragazza, Ersilia. Ci siamo conosciuti e con lei sono andato in Abruzzi, a Lanciano, nei pressi di Pescara. Lì mi sono sposato con lei. Poi Peppino e la sua famiglia, che mi avevano ospitato,  si trasferirono vicino Vergiate, nella zona di Varese. Siccome ci scrivevamo,  andai anch’io da loro e  feci venire Ersilia e i due bambini che intanto erano nati. Poi il fratello di questo Peppino, che faceva l’autista di un miliardario, ottenne una casa in via Brembo. E noi avemmo un locale al quarto piano di questa casa. Dopo qualche anno sono usciti due locali  al piano di sotto. Ma eravamo senza lavoro e non abbiamo potuto pagare l’affitto. È venuto l’ufficiale giudiziario, ci ha fatto il sequestro e siamo andati a finire in Via Oglio, nelle case degli sfrattati. Abbiamo fatto tre anni lì e poi abbiamo fatto la domanda per le case popolari. E così abbiamo avuto questa dove abitiamo adesso, in  Via Chiari.

Te la sei vista brutta a Milano?

Quando stavo in via Brembo – era il 1960 – andavo raccogliendo le bottiglie vecchie con un amico di Ersilia. Poi ho fatto il muratore. L’avevo fatto da sempre. Anche  a Fondi bambino zappavo l’orto. Poi mi sono iscritto all’Istituto Tecnico Svizzero, una scuola per corrispondenza, e mi hanno dato il diploma di capomastro edile. Ho lavorato in piazza Frattini, dove abbiamo fatto un quartiere. Poi mi sono ammalato. Sono stato operato d’ulcera.  E nel 1966 entrai al Molinari come bidello, dove sono restato fino alla pensione. Ma prima per quattro anni ho fatto l’impiegato amministrativo alle Macchine Edili, che allora era in viale Ortles. Mi avevano preso come telefonista.  Poi era morto il capo e volevano fare me capo di  questa ditta di  due, tremila persone. Ma un ruffiano andò a dire che avevo la tessera della CGIL  e mi cacciarono via. Così, non trovando niente, un amico di mia moglie  mi suggerì: ficcati nella scuola. Feci ‘sta domanda. Io ero invalido civile per le operazioni che avevo subito. Ero diventato proprio un fuscello. Ebbi il primo posto e arrivai al Molinari.

E in mezzo a tutti questi movimenti, quand’è che hai cominciato veramente a scrivere?

Le poesie da sempre.  A scrivere di più ho cominciato sotto le armi. Ma in effetti ho scrivere molto nelle case degli sfrattati di via Oglio. Lì ci avevo del materiale accumulato, tutto un malloppo di carte scritte a macchina, un pot-pourri. Lì scrissi il primo libro intitolato L’uomo sbagliato.

Ma Tra fascisti e  germanesi, il libro che ti pubblicò Feltrinelli nel 1973?

Feltrinelli ha messo questo titolo a un pezzo tratto da L’uomo sbagliato. La storia è andata così. Ti ricordi  Pozzolini, quel professore d’italiano toscano che era venuto anche in televisione con Enzo Tortora ed insegnava al Settimo Itis? Lesse ‘sto malloppone di 7-800 pagine. Lui curava una rivista lì da Rizzoli. E disse: portalo a Rizzoli. Rizzoli stava quasi per pubblicarlo, ma lo trovarono troppo comunista, troppo rosso. E allora Pozzolini dice: mandalo a Feltrinelli che hanno una collana Franchi narratori. Mi chiamano  alla Feltrinelli e questo dottor Tagliaferri ha preso praticamente solo un pezzo di questo libro mio e gli ha dato lui il titolo. Goffredo Fofi ci ha fatto un’introduzione. Quello è un libro che a  farci un film…Poi lì alla Feltrinelli mi  dissero loro stessi: fai un libro sulla scuola vista da un bidello; e io ho scritto Scuola serrata, ma non me l’hanno preso. Al Molinari c’era un certo Willy,  che lavorava con questo editore Ghisoni e nel 1975 mi hanno pubblicato Scuola serrata. Poi a mie spese ho pubblicato a Lanciano nel 1993 Frau Magda. L’ultima donna. Adesso non m’interessa più pubblicare. L’altro inedito che ho scritto Il gran deluso l’ho sta leggendo anche il prete di qui che mi ha detto: Tu sei furbetto. Si è accorto che sono un po’ doppiogiochista in politica.

Facciamo un attimo l’elenco preciso dei tuoi inediti…

È un bel problema, perché io comincio, poi lascio lì. Non ho mai dato un ordine. Non ho pensato neppure a scrivere la data sui libri che ho fatto rilegare.

Però un po’ d’ordine bisogna farlo. Vediamo…Dopo L’uomo sbagliato scritto tra il ‘65 e il ‘70  hai terminato Lo sbandato attorno al ’72. Poi dal 1975 all’’80 hai fatto Il gran deluso. L’ultimo comunista, mentre Dissacrazione e verità raccoglie i racconti di tutta la vita e Una vita a pezzi  (circa 260 pagine) tutte le tue poesie. Hai poi da parte – qui ben rilegati nella tua libreria – una  estrosa guida turistica, Hamburg zu fuss [Amburgo a piedi], nata dalle tue visite a quella città, e i due libri sui dialetti: un  Vocaromanzo,  cioè romanzo-vocabolario, dove analizzi le parole del dialetto di Fondi  collegandole alle vicende della tua biografia [romanzata] e un Vocabolario del dialetto abruzzese  che hai depositato nella biblioteca civica a L’Aquila.  Infine stai lavorando adesso a Gente senza faccia, che definisci un poema. Se dovessi riassumere la trama di quest’ultimo libro?

Tutti i falliti si riuniscono dentro questa capanna di paglia (mi rifaccio al tempo della guerra…) e ognuno  racconta le sue beghe e i suoi guai di una vita da barboni. Per me è un capolavoro, una specie di Decamerone che potrei intitolare anche I ragazzi del capanno.

Ma questi libri li hai fatti leggere ad altri?

Adesso non sto bene. Non ci penso neppure a farli leggere, però chi legge le mie robe le trova buone e io vado avanti a scrivere. Adesso mi sono  infervorato e sto lavorando. È tutta una trama a flash-back. Parlo di tre donne però che  alle fine è una sola ed è mia sorella Elisabetta. E io m’invento che il marito la spara. E vado avanti…

Parlami un po’ del lavoro che fai quando scrivi…

Qui è un macello. Io invento tante cose. Non mi servo delle parole che hanno scritto gli altri. Ho il mio linguaggio. Sono capriccioso, scapigliato diciamo. Scrivo come voglio. Delle date proprio non me ne curo.

I temi che mettono in moto la tua fantasia quali sono?

La guerra è fondamentale. La donna ovviamente per tutti gli uomini è il perno attorno al quale girano tutte le fantasie, perché la donna fa i figli. Poi l’amore, l’affetto. La religione niente, per me non esiste. Gli altri? Mi occorrono. Ho bisogno di tutti. I parenti? Io li sparerei. Non m’interessano, ci do poco peso.  E poi i luoghi: Fondi, Napoli. Roma no. Più i luoghi sono disastrosi più [accendono la mia fantasia].

Fai differenza tra quanto scrivi in poesia e quanto scrivi in prosa?

Bah, non penso. Per me è tutto uguale. Mi metto a scrivere lì. Io sono stato sempre di questo parere – lo dicevo anche ai ragazzi al Molinari – che se Dante avesse scritto la Divina commedia  in prosa, come ha fatto Boccaccio,  questa sarebbe davvero un capolavoro. Io insomma tengo più per la prosa. Nella poesia la rima condiziona.

Tu hai continuato per tutti questi anni a scrivere da solo, senza incoraggiamenti. Perché lo fai?

Questa è una domanda a cui non è facile rispondere…

Ti accontenti di scrivere per te?

Purtroppo che fai? Mica ti puoi imporre. È come la morte. Io certe volte ho paura della morte, di rimanere solo. Però mi dico: se gli altri muoiono, tu perché non vuoi morire? Nasciamo e muoriamo. Se uno non nasce, non muore. Tu una volta mi hai chiamato ‘scrittore clandestino’. Non mi va.

Volevo intendere irregolare, non riconosciuto…

‘Clandestino’ non mi piace, perché tiene qualcosa di delinquente. Uno che fa qualcosa contro la legge. Tu non mi fai essere famoso e io te lo faccio apposta. Io non direi ‘clandestino’. Io mi sento un innamorato della saggezza.

Hai mai pensato di ripulire, aggiustare, sintetizzare, tagliare questa tua vasta produzione scritta?

Se dovessi fare una cosa del genere, farei crollare questo castello. Meglio lasciarlo così. È uscito così dall’anima, dal cuore, dalla tua volontà. Tu desideri una cosa e la ottieni. Io quando scrivo una cosa e mi piace…. È inutile stare a cambiare.

Ma il lavoro dello scrittore non è anche quello di ripulire, aggiustare?

Non mi piace, non mi piacerebbe. Tu mi consigli di ripulire, rendere meno rozzo questo linguaggio? Io voglio mantenerlo così. Non può venire meglio. Non accetto i limiti. Al circolo dell’Arci qui sotto casa hanno messo una targhetta: ingresso riservato agli iscritti. Io non ci vado più.

Tu sei vissuto sempre in questi ambienti  proletari e sottoproletari…

Sì, mi sono messo sempre coi  poveracci, i più analfabeti, i più malati.

Ti sei trovato in mezzo a loro…

No, lo facevo apposta. Non mi piace di essere meglio degli altri. Ho paura di far male agli altri. Ad esempio, io sono capace più di un altro a scrivere, ma non glielo dico, non mi vanto.

La  differenza la vedi, ma  non vuoi metterla in risalto? Vuoi mantenerti solidale con lui?

Sì, solidale.

Ma coi bidelli del Molinari com’erano i rapporti?

Nessuno mi poteva vedere, perché ero diverso. Non perdo tempo a chiacchiere…

Eri più amico dei i ragazzi però?

Sì, ma era anche pericoloso. Si andava a mangiare e a bere in quello sgabuzzino lì. Li mandavo dal pizzicagnolo a prendere il vino per conto di Armando, un amore di vino calabrese. Quante volte eravamo ubriachi. Io nun saccio chi santo mi ha aiutato a tirare la pensione. Quante ne ho combinate!

Gennaio 2006

APPENDICE:  BRANI SCELTI

Da Tra fascisti e germanesi  ( Feltrinelli, Milano 1973, pp.69-72)

La vita sul Cocuruzzo, sebbene da cani, correva lo stesso. lo avevo tanta paura della guerra. Avevamo fame ma Antoniuccio cresceva bello come il sole. Anche se si voleva scendere al paese per procurarci del cibo, dovevamo riunirci perché sarebbe stato un suicidio esporsi alle bombe americane. Sembravamo costretti a morire di fame dentro quei tetri tuguri di paglia e sassi. Ma un mattino, l’ultimo di gennaio, sbottammo. Il cielo era accappato di nero; elefanti di nuvole gonfie d’acqua s’alzavano avvolgendo gli aranceti. Io, zio Leandro, Lu­cino, Elio e una giunta di mortidifame calammo al paese, con la speranza di trovare qualcosa da mangiare. Scen­demmo piano piano per i sinuosi sentieri che affoga­vano nel verde del monte. Zio Onorio si unì a noi. Proprio quando arrivammo ai piedi del Cocuruzzo, sci­volando sulle erbe e sopra i sassi freddi, il cielo si coprì di macchie dell’antiaerea tedesca e una squadri­glia di apparecchi incominciò a seminare bombe e pal­lottole a tutto spiano dentro le rocce e sopra i giardini d’aranci. Ci mettemmo al riparo e i tedeschi, che lungo la costa stavano all’aperto, sparirono nelle grotte. Uno  di loro, però, non fece a tempo e col fucile si mise a sparare nel cielo. Non rimase in piedi per molto e gli aerei se n’andarano vincitori versa il mare. Avvicinam­mo il tedesco, e allibiti ascaltamma le sue ultime pa­rale: “Non perderemo la guerra, il Fűhrer ha detto che abbiamo l’arma segreta, non fa nulla che voialtri italiani ci avete tradito, vinceremo lo stesso, gli americani li butteremo. a mare.” E piangeva con la mano. affondata nel buco che teneva sotta la pancia, aspettando di morire.

Giungemmo presso il paese a sera inoltrata: avevamo paura dei bombardamenti e d’essere rastrellati dai te­deschi. Erano due mesi che non ci azzardavamo a calare a Fandi. Il prablema era di entrare in paese senza che nessuna ci vedesse. Tentammo con cautela di aprirci un varco attraverso i comandi tedeschi. C’era nell’aria la natizia che i liberatori americani fossero oramai quasi alle parte, ma stentavamo a crederci; di cose allora se ne raccontavano tante. Giungemmo dentro il paese. Per i vicoli non latrava un cane, la paura ci straziava. Papà e zio Leandro ci precedevano camminando sotto gli architravi pericolanti e noi li seguivamo, sbattendo i denti per il freddo e per la fame. Poi mio padre se ne ri­tornò sul Cocuruzzo, accanto a mamma. A Fondi, le strade, i viali e le piazze, non esistevano più; il paese s’era trasformato in un immane cimitero senza croci. Percor­remmo via Vetruvio Vacca senza incontrare una traccia di vita. Non ci perdemmo d’animo, specialmente zio Leandro, il quale, vista l’impossibilità di raccattare qual­cosa da mangiare, propose di andare a vedere cosa mai era rimasto delle nostre case distrutte. Lui davanti e noi dietro, varcando come iene le macerie e i tritumi, arrivammo, stanchi e con la lingua fuori, sulle rovine della mia casa. Il ritratta di mamma e papà pendeva ancara affogato nella polvere dall’unica lembo di muro rimasto all’impiedi. Zio Leandro ebbe l’ardire di stac­carlo dal muro senza procurarsi un graffio. Ritratto alla mano, mio zio avanzava barcollani, gettando gli acchi di qua e di là, coi capelli canuti rizzati in testa come un riccio. Noi lo seguivamo al calcagno.

Non finimmo di arrivare in piazzale Portella, che ci sorprese un bombardamento. Per fortuna non c’erano mura in piedi che ci potessero crollare sopra le spalle. Ci appiattellammo panciaterra sotta il marciapiede e restammo a baciare il selciato, finché i bombardieri si allontanarono. Ci rizzammo da quella posizione e ce la squagliammo. Attraversammo il Ponticello e andammo. a piazza Cardinale. Ci imbattemmo in un certo Cazzomatto, che con la sua faccia di puttana c’invitò a an­dargli appresso promettendoci di farci guadagnare il pane. Lo seguimmo e ci condusse dentro una casa dove, frugando ben bene, trovammo un barile di ulive all’ac­qua. Poi scendemmo in cantina, dentro la quale a stento si riusciva a tenersi in piedi. La trovammo piena di botti sforacchiate dalle palottole tedesche e fasciste; era tutta allagata di vino, con sopra uno strato di moscerini che si poteva tagliare a fette. Riempimmo delle damigiane e le nascondemmo per poi portarcele sopra la montagna. In altre cantine, c’era della gente che andava tastando i muri e i pavimenti a caccia della roba murata. Facevano man bassa di tutto. Noi li guardammo e prendemmo solamente da mangiare. Ci fornimmo di fagioli e di fichisecchi, mentre gli altri rapinavano gioielli, biancheria, vini. lo nel contempo guardavo Lucino, che sturava una bottiglia di liquore e l’assaggiava, e poi apriva e assaggiava l’altra ancora, fina a sbronzarsi. A un bel momento gli cominciò a girare la testa, ma lui non capiva ragione: assaggiava e rideva come uno scemo. A Elio venne un accesso di tasse (lui ne ha sempre sofferto), Lucino faceva il matto ragionando con l’alcool e io mi lamentavo che volevo mamma. D’im­provviso, mentre carichi di mangiare e bere stavamo attraversando una lunga cantina scarrubbata, per portarci sulla strada e andarcene, passarono dei tedeschi. Ai gravi passi teutonici, sotto l’intimazione di zio Leandro, ci nascondemmo dentro le botti vuote. Elio tossì ancora e zio Leandro lo assalì con una valanga di im­properi e minacce a bassa voce. Ma nessuno ci udì. Caricammo il vino, i fagioli e le olive e finalmente par­timmo.

 

 

La Notte di Natale (1982)

E' la notte di Natale.
Va un tale
ad accattare in un bare un cartoccio di sale
per la sua zucca astrale.
Egli s'insacca nella sua mantellina sbrindellata
e ingerisce di volata
i diciassette piani del palazzo in cima al quale
tana. Egli è povero, non ha un cavolo.
Inoltre è detentore di un lercio ceffo sul quale
affiorano rimarcabili caratteristiche da farlo
da tutti reputare un rospo cornuto.
Ebbene, questo figlio di cagna, tutto impettito,
tronfio d'ignoranza e arrotolato in un palltò crivellato
di mozzichi d'incinte mignatte, squarciando lo smog
entra nella fumigosa mescita summentovata.
Egli è avvolto nelle pene nere
del mondo le più megere.
Tiene gli occhi bruciati di pianto
e s'alluma un mozzone di sigarro raccattato
perterra fuori dal bare
ai piedi della soglia di pietra di Trani.
E' la notte di Natale
e sotto i suoi fracichi, sporadici denti,
da vetusto tempo costui non mascica un tubo.

Soltanto ogni tanto ei getta i suoi occhi abbottati
di debiti nel ventre della vetrina
di una tavola calda, mirando, traverso
la lastra vetrosa, gli altri le coscie dei polli
sbranare, bicchieri ricolmi di sangue di vite
trincare, e leccarsi le dita cosparse di vermiglia
vernice di caviale.
E' la notte di Natale.
L'individuo se ne va piangendo il male
che tiene all'addome, e d'allora
non mangia, e soffre dolori di fame.
Nel bare si stiracchia, appoggia le spalle
aggobbite al termosifone
e gode un po’ di calduccio ghisoso, e un languore
gli bazzuca nel cuore dardi scagliati
da un arco baleno d'amore.
Egli guarda, adesso, le facce sgualdrine
dei giocatori di tressette, e il mozzone toscano
gli brucicchia le labbra spaccate,
tinte di morte.
Lo rimira ognora nel bare la gente
e lui pensa: "E' la notte di Natale
e il tossicoso locale
mi guarda cogli occhi alcolini."
Egli se ne frega; si muove, si raggomitola
rannicchiosamente raggomitolato sul peccoso bancone
e col suo brutto muso di cane barbone
tracanna un ponce.                                                                                                      .
Appresso si sbavacchia la bocca fetente di trinciato forte
colla manica lurcia del suo malnato cappotto                                                     .
e sfodera a sorte
dalla saccoccia delle sue brache stinte e rattoppate
cento lire ammaccate.
E ammicca al barmanne se dentro
quel bare ci fosse un juke-box da suonare.
"Bighellone abbuffato di pidocchi maledetti!
- gli sparacchiano a musincinti gli avventori
e la racchietta mogliettina del gestore -­
Il suonatore a bottoni eccolo là!
Non ci vedi? Sei strabbicco, cieco o baccalà?"
La gente del bare l'attornia, lo vuole scannare.
Menomale!
E' la notte di Natale.
E il mandrillo mugola: ”Ma come, siete stati voi a dirmi
che quel coso là non è affatto un juke-box,  bensì una cucina
a gas, allora cos’aspettate?
Su, datemi un pentolino e un ovo, ho fame!
Io colle mie cento lire volevo suonare delle canzoni!
Magari! - pensava il gringo fra sé e sé - un ovo di struzzo
scapolo al tegamino, sarebbe buono, oppure una braciola
di maiale."
E’ la notte di Natale.
Gli avventori del bare, scocciati del parlo del tale,
se ne stanno andando, quando
egli mormora: “Ma si può sapere checcazzo di mescita
è questa, che non possiede neppure un tegamino nel quale
poter cucinare quel gatto soriano
che viene adesso di qua, o qualche microsolco suonare?"
Gli scagnozzi giocosi, snudandosi fuori dal bare,
se ne vanno, quando uno chiama un altro: "Andiamocene, Peppe!
Non lo vedi? E' stato sempre così scemo e ignorante quellolà! "
E la folla, noncurante, se ne va.
E' festa.
Il tipo accatta il sale per la sua testa.
Sbocca dal locale
e, gridando, se ne va appazzato nell'interno del viale.
E' la notte di Natale.
Ei corre col cuore schiacciato nel focolaio dell'ariaccia
smogosa. Si porta dal giornalaio
e chiede un panino imbottito.
"Signore, ma lei forse è ammattito?
- gli spara l'edicoloso - E' la notte di Natale,
non posso darle, barbone, che un giornale."
Eppoi all'illuso lo vede un bambino,
che gli fa una pernacchia e gli dice: "Cretino!"
E' umiliato il tale.
"Ma questo zozzo mandrillo è proprio un deficente?"
pensa un mercenario della Polizia Stradale.
E' la notte di Natale.
Egli si diparte colle spalle gelate
e chiappa un tassì provinciale.
Mentre l'illuso non fa altro che granfare il tram
che va alla Previdenza Sociale.
E' la notte di Natale.
Il criminale azzecca ansimante i diciassette
piani del palazzo sul quale tana.
Ma non piglia l'ascensore.
Forse ha perduto la chiave,
o che non paga la pigione quell'essere astrale?
E' la notte di Natale.
Ha le labbra screpolate di voraggini di fame,
quel brutto muso di cane.
Questo tale
lo si chiappa sempre nelmentre si stende
come una maledetta scolopendra
o un porcello di Santantonio sotto il ponte
ove egli effettivamente cova il suo odio
come un serpente velenato,
il fetentone, il megalomane nato.
Cionondimanco si trova adesso sul grattacielo
e guarda dabbasso la rapa dell'animale
e le cappotte di metallo addebbitate
che scorazzano sopra la cambiale.
E' la notte di Natale.
Ridacchia come un Belzebù questo figlio di varana.
Si fabbrica una cerbottana,
colla quale,
dopo aver abbussolettate le bollette non saldate,
le bazzuca sul peccato ch'è dabbasso
e ridacchia come un Drakula.
Soffoca, sventra l'apertura della gelosìa,
ammocca la testa matta dalla bocca della casa
e scorge sulla strada il mercatante che viene a scannarlo
e a sequestrarlo corre il mobiliere
e l'altro usciere azzecca a bazzucarlo,
solo perché il tale
non pagava la cambiale.
E' la notte di Natale.
Si catenaccia nella sala capita1ista di polvere
e ragnatele
e sullo storpio tavolino traccia un (O) con un bicchiere
di vino e scribacchia sciocche poesie.
Adesso a1luca, grida ei come un disgraziatone
e violentemente molla tutto quanto giù dal finestrone
sino a riempire di elettrodomestici e di mobilio
tutto il mondo,
questo tale,
questo idiota, questo cane vagabondo.
Il tipo ha uccisi tutti,
dimodoché persona più protesta,
e solamente lui al mondo resta
a gettare gli occhi sul viale
alla notte di Natale.
Egli sta nel bare a piangere tristezza e miseria
vicino al juke-box, e ode il disco (Lo Straniero).
Finalmente muore il tale
cadendo col capo sul davanzale
e accattando il sale
per la notte di Natale.

IL BRIGANTE SILVESTRO  da Dissacrazione e verità  (raccolta inedita di  racconti, pag. 135)

Nella Selva Vetere, chiamata così per via che viene tagliata dal fiume Vetere, metatesi di Tevere, che nasce dal Monte Perito e muore nel lago di Fondi, una volta vi abitava un pastore di nome Silvestro. Aveva ventidue anni allora; giovane tozzo, brutto e analfabeta, aveva sempre il fucile retrocarico a portata di mano, se lo poneva accanto al letto quando la notte dormiva. Ca­morrista e maffioso. Anche se aveva sempre ucciso e rapinato, lui, a botto di schioppettate, faceva dire di sé: «Fino adesso ha voglia la gente di parlare, Silvestro ha ventidue anni e nessuna condanna sopra le spalle, non ha mai fatto del male a nessuno».

Lo temevano tutti. La Selva Vetere era il suo dominio; nei suoi lugubri ventidue anni aveva campato sempre di prepotenza. Era un uomo solo, errante, anche attraverso i Monti Aurunci, dietro alle sue pecore, ogni tanto ne violentava una, facendola [s]trillare come una rigazzina di primopelo. Emarginato dalla vita, egli non amava nessuno; sapeva soltanto che ogniqualvolta si piccava una cosa in testa, manteneva sempre la sua promessa fatta: «O ti piglio, o mi subisci, o ti fai subire; o mi dai la carne tua, o sennò io me la piglio». La sua famiglia era degna di lui medesimo, strafottente rapinosa, vendicativa e faidale. Costoro dominavano colla minaccia, sempre sul chivalà e sicuri, col fucile in braccio, carico e inesorabile. Erano incapaci di pensare al bene, votati al male. Capacissi­mi di rapinare e uccidere a sangue freddo, nonché di bruciare le capanne, pagliari, rozze dimore di quei poveri selvaroli.

La losca famigliaccia cantava sempre: «Se ci rompete le ossa dentro ci trovate il rancore, se ci tagliate le vene, dentro ci trovate il veleno, se ci spaccate le cervella, dentro ci trovate il delitto; se ci aprite il cuore, dentro ci trovate una pietra».

Dietro la capanna, dimora della terribile famiglia, ci stava una grotta ignorata da tutti. Un giorno però questa venne scoper­ta da un boscaiolo, certo Polo, che lo fa subito presente alla Legge: «Sì, c’era puranco un mio collega con me; abbiamo visitato la grotta, calando giù per una scala a chiocciola. Dentro a essa ci stava un letto, tre o quattro sedie, un tavolo e tante armi moderne». Silvestro non agiva mai solo, aveva con sé un’ombra, il suo angelo custode e braccio destro Bellone, giovane diciannovenne, truculento; capigliatura corvina e riccia su capoccia arietina. Naso grifagno, occhi rossi, spupillati, bocca di caprone con zanne di lupo. Alto quanto un cerro, bestiale erotico maniaco sessuale ermafroditico. Come Bellone catturava qualcuno, maschio o femmina, bambino o vecchio alla luna, li violentava con stupro. Una volta lo ficcò dietro a un vitellino redo[2] appena nato, facendolo morire dissanguato. Questo animalone si sarebbe fatto uccidere per il brigante Silvestro, il pastore invaghito della bella contadina Driade, che dimorava in una pagliara della medesima contrada della Selva Vetere. La fanciulla Driade, bella come una mela cotogna, alta, florida, sana, colle carni fresche e sode e il seno, pieno, pieno di melloniche tette, assai schiattacore.

In famiglia erano lei, il babbo, la madre, la sorellina e il fratello Gildo, ragazzo robusto, alto e bello da mettere invidia. Non molto lontano dalla loro capanna abitava lo zio Corbo, uomo austero e forte, che anche lui, purtroppo, subiva angherie, rapine e minacce dal bandito Silvestro. Ciò non ostante, quest’uomo non osò mai la­mentarsi, nè lui nè gli altri selvaroli, temendo rappresaglie dal bandito Silvestro, questo rozzo bandito camorrista, guappodicartone e mafioso. Silvestro sicché aveva il cuore in frittura per la bella contadina Driade, che di lui non voleva sapere proprio il bel resto di niente, facendo anzi capire in mille modi e maniere al giovane bandito, che le loro future nozze erano un’utopia. Intanto il bandito tutte le volte che la vedeva lavorare nei pantani, sotto il cielo azzurro di Fondi, scendeva da cavallo e la pigliava selvaggiamente:

«Vieni qua! Mi hai messo la febbre perniciosa nel sangue, ti desidero assai assai, con tutta l’anima; perché non vuoi darmela? Ebbene, allora ti sbardello sopra la terra spoglia e nuda e te lo ficco tutto quanto dentro la quadraccola. Vedrai come ce lo tengo il pistolone lungo e ciotto; ti fo addicreare una frega, ti azzaffo e affogo la zunna di saponella, ti voglio montare con tutta l’anima, come fa il mon­tone colla pecorella. Ti impre[g]nerò facendoti partorire un bel marmocchio tutto nostro. E che, sei la regina di stocazzo, tu, che non puoi fare in culo con me?»

Le ripulse della bella Driade inasprivano sempre di più l’animo di Silvestro. Siccome in ogni colluttazione che intercorre­va tra i due amanti, era sempre la femmina ad avere la meglio, data la sua consistente forza e statura, Silvestro, allora, che era una mezzasega, rispetto a lei, la minacciava con gli occhi di brage: «Ah, non molli? Nèh! Mi piglierò vendetta crudele su di te e sopra alla tua famiglia, vedrai, non finisce così, per me non è ancora notte! Non vuoi il mio amore ardente, allora io, un giorno o l’altro, come è vero Santrocco, te la faccio pagare a caro prezzo».

I due malviventi, Silvestro colla sua spalla destra Bellone, una mattina sentivano un rotolare di carretto sopra la via. Si trattava di un certo Fiore. Appena i due banditi gli arrivarono a tiro, Silvestro lo fece scendere dal mezzo. Gli chiese: «Compare Fiore, dove si trova adesso Driade?».

«Alla pagliara della zia Bortone. Ci sta pure la sorella Emma, col cugino Tommasino con lei, in tutto sono quattro cristiani».

«E indove si trova Gildo, il fratello di Driade?». «E’ andato a fare delle compere a Fondi». «E suo cugino Aristide?». «E’ allettato per malattia, compare Silvestro». «Allora puoi andare pei fatti tuoi!» gli dice il bandito «Grazie, tante, grazie anzi delle notizie che mi hai fornite, addio!»

Il Fiore, col suo carretto ripigliava la via per Fondi.

Adesso i due briganti, Silvestro e Bellone, sicuri di avere campo libero, si versarono nella Selva Vetere. «Caro Bellone!» gli diceva ora Silvestro «Gildo è ito a Fondi, a fare delle spese, un uomo man­cante; Aristide si trova a letto malato, un altro uomo di meno; Driade quindi non ha difensori di sorta, è sola; non c’è persona al mondo che la possa aiutare. La sua vecchia zia Bortone col cuginet­to Tommasino, che giacciono con lei nella pagliara, non contano. Siamo quindi gli unici dominatori del campo, i padroni, possiamo agire a nostro pieno piacimento, nessuno ci disturberà. Però sono ancora le sei, ora in cui tutti lavorano; le mandrie non sono ancora rientrate nelle stalle; i vaccari, i bufalari, sono ancora sparpagliati per la Selva Vetere. Poi, chi zappetta, chi dissoda e ricaccia i pantani, sotto questo sole che brucia, come l’anima mia, per la bellissima Driade. Se ci muoviamo adesso e ci sentono, possono accorrere a difenderli, bisogna, per questo, aspettare, ancora non è il momento. Siamo cauti! Calma, perché vendetta sia fatta; non portiamo prescia, il gatto per la fretta fece i gattini ciechi. Verso la notte spaccata i villani dormono,[nessuna] persona ci vedrà a quest’ora, tranne la Luna d’argento». «Aspettiamo allora insino alle undici, Silvé!» consiglia­va il Bellone; queste cinque ore poi so’ io come fartele passare».

I due briganti penetrarono nella grotta nascosta, dove abitava la puttana di Bellone, colla quale Silvestro si sollazzava bonobono, ficcandoglielo ripetute volte nella zunna e altrove alla presenza del suo bracciodestro Bellone. Eppoi ancora con Bellone bevvero, mangiarono, cantavano e chiavavano insieme colla scrofa, chi davanti e chi didietro simile ad accoppiamenti animaleschi.

Arrivate finalmente le undici, i due manfrini, lasciata la puttana, sazia nella grotta, pigliarono a camminare verso la capan­na nella quale dormiva Driade, la sorella Emma, la zia Bortone e il cuginetto Tommasino. Nessuno si trovava a quell’ora sveglio per la Selva Vetere, pareva che nel mondo non ci fosse più crea­tura vivente. Tutto taceva. Tale silenzio veniva rotto soltanto dal canto lugubroso degli uccelli di rapina e dal secco brusìo di qualche foglia che tombava vorticosa perterra in quell’amara notte. Si udiva però il losco rumore dei loro passi guardinghi che procedevano inverso il malaffare. I due briganti arrivarono davanti alla pagliara, la cui porta, che pareva una feritoia di casamatta, era serrata. Silvestro vi andò vicino, dopo avere fatto svegliare i quattro, prese a minacciare col suo fucile: «Allora, Driade, ti ostini ancora a non volermi?»

«No!» [s]trillava lei «Meglio la morte!»

«Ma che cosa ti ho fatto io di male? Io ti voglio solo per sposa, ti voglio bene!»

«No!» lei lo respingeva! «Uccidici piuttosto tutti e quattro!»

                «Esci fuori dalla capanna, Driade!» Silvestro cominciava a innervosirsi. «Ti voglio per moglie. Perdonami se quella volta ti ho ferita col pugnalotto!»

«No!» insisteva lei caparbia: «E’ meglio morire».

«Porco della Ma. e Dio ansemble!» bestemmiava Silvestro con assai raccapriccio. «Allora, Bellone, taglia e prepara la legna».

Il brigante tagliava frasche e l’ammucchiava intorno alla capanna. Dopo pure tronconi lignei in croce piazzava in faccia alla porta.

                Ammannito tuttoquanto perbene, Silvestro disse: «To,Bellone! Afferra questo fucile e spara qualora si avvicinasse qualchuno!».

Silvestro appiccò quindi il fuoco alla pagliara, da dove presero a uscire urla laceranti. Driade, alla quale si stavano già incendiando i panni addosso, cedeva pietosamente: «Silvestro! Sposo mio di letto, aprima [sic] la porta, spegni il fuoco; vengo fuori, esco e mi ti sposo, non bruciare pure la zia coi miei fratellini! Essi sono innocenti, non ci entrano niente coi nostri peccati».

Driade metteva la testa fuori dalla paglia della capanna, mentre Silvestro gliela respingeva dentro, dicendole:«E’ troppo tardi oramai!».

La pagliara bruciava e il fumo strozzava la gola dei quattro le cui carni venivano di già escoriandosi e brasandosi sotto la furia delle crepitanti lingue di fuoco.

Driade scongiurava. In quel mentre a un galoppo seguiva una figura oscura. «Chi è che disturba?» si chiedeva Silvestro «Tu intanto, Bellone, resta di guardia alla capanna, fino a che non è diventata un mucchio di cenere; io vo’ a vedere chi è».

Il brigante partiva, fucile spianato, pronto a uccidere. Scorgendo Gildo, fratello di Driade, che veniva da Fondi, gli alluccò: «Ma perché giungi a questa ora di notte? Sei un cazzo di ostacolo e ti frapponi come un bastone nodoso fra i miei piedi. Ma il destino si deve compiere in tutti i modi.Vattene, Gildo, da dove sei venuto, sennò ti sparo!».

Il giovane, ignaro di quelle fiamme, legava il suo cavallo, senza rendersi conto del pericolo che stava per correre. Come poi stava aprendo bocca, Silvestro gli deflagrò il primo colpo, facendo così cilecca. Gli disse allora: «Non ci fa una minchiazza, Gildo, ti metti in corriva con me? Vuoi ficcare il naso nelle mie cose? Il mio schioppo è un duebotte, l’altra cartuccia è già in canna: banghe!». Gli uccide il cane, che guaì pietosamente, con uno strascico che echeggiava per tutta la Selva Vetere. Gildo l’aveva capito che nella pagliara della zia Bortone stava morendo bruciata la sorella cogli altri innocenti. Siccome Silvestro stava ricaricando il duebotte, egli pensò:«Qua io, in tutti i modi, sono un uomo morto; loro due, Bellone armato di accetta e Silvestro di fucile. La capanna brucia, vorrei andare ad aprire la porta, per salvare mia sorella Driade cogli altri. Ma mi faranno fuori. Eppoi chi saprà mai chi fu l’artefice che aveva bruciato queste quattro anime innocenti? Quindi, l’unico testimonio sono io». Gildo eccosì monta a cavallo e corre dallo zio Corbo, che saputo del fattaccio, lo consiglia di avvertire la legge.

Compiuta la strage, mentre Driade colla zia Bortone e i due bambini finivano di carbonizzarsi nella brage della capanna, Silvestro e Bellone s’allontanavano dal focaraccio accostandosi alla dimora dello zio Corbo. Là giunti, i due banditi lo invitavano ad apparire sull’uscio. Il povero disgraziato, prendendoli colle buone, affinché suo nipote Gildo facesse a tempo ad avvertire la legge, apparve sulla porta della sua capanna, scalzo e in camicia allungo. Allora Silvestro gli scaricò il fucile addosso, facendolo cadere secco in una piscolla di sangue. Poi con Bellone si diedero alla macchia. Di lì a poco il povero Corbo moriva. Intanto erano giunti sul posto del rogo gli aiuti chiamati da Gildo, ma nulla poterono fare per le povere vittime oramai incenerite. Silvestro e Bellone vissero dapprima uniti,eppoi come videro che ciò era pericoloso, si separarono. II bandito Bellone uscì dalla Selva Vetere e Silvestro viveva nascosto nella grotta. Dopo, in seguito a delle spiate, Bellone venne catturato e giudicato. Venne condannato a tre anni di reclusione. Anche Silvestro fu giudicato dalla stessa corte in contumacia venne condannato all’ergastolo. Da quel giorno di Silvestro non si ebbero più notizie; dopo si venne a sapere che aveva vissuto tre anni nella grotta nascosta colla puttana di Bellone. Silvestro scappò in Abruzzo, qua dove cambiò due volte nome, con falsi documenti si sposava ed ebbe due figli. 21 anni dal fatto, mentre Silvestro saltava da un tetto all’altro di una casa, cadde sulla strada dabbasso, rompendosi tutte e due le gambe, infine fu catturato e morì marcio dietro alla cancella.

 Note

[1] Tahar Ben Jelloun, Le pareti della solitudine, Einaudi, Torino, 1990 e 1997, p.XVIII

[2] Redo Vitello o puledro durante il periodo di allattamento

Milano da bere e Milano dabbene 

Riordinadiario  (15 dicembre 2005)

di Ennio Abate

[Per chi avesse letto e non solo guardato Alias (supplemento de Il Manifesto) n. 48 del 10 dicembre 2005]

Le passioni di Milano: undici pagine con foto grandi, raffinate e inconsuete, sei articoli e due interviste (la prima allo storico dell’arte Giovanni Agosti; la seconda – fatta nel 2003 – al compianto Giovanni Raboni). Tema: il confronto tra ieri e oggi, tra «una certa Milano» di una volta e la «Milano da vomitare piuttosto che da bere» di oggi.
Stajano se la prende con il «traffico mortale», la fungaia delle «cappuccine» sui condomìni dei ricchi, la corruzione «che è sempre esistita», ma non nel «modo impudico e programmato» messo in luce dall’inchiesta di Mani pulite (1992).
De Mauro evoca i funerali delle vittime della strage di Piazza Fontana (dicembre 1969) per dire che poi «Milano si sentì di colpo sola» e «si ripiegò in una sorta di smania autodistruttiva […] in un laboratorio di abiezione politica».
E via seguitando: tra il lamento e la nostalgia.
Domande: E’ mai davvero esistita, se non nell’immaginario, questa Milano «un tempo ironica, affettuosa, anche se frenetica» (Stajano)? La sentirono mai così le «care ombre» dell’eterogenea famiglia letteraria (Rebora, Gadda, Sereni, Fortini, Spinella, Oreste del Buono) evocata qui da De Mauro? Come giudicare il rimpianto di Raboni per la «Milano industriale della buona borghesia operosa» o la sua convinzione che Milano avesse «perso l’anima […] vendendola […] durante il boom economico»?
Obiezioni. Ai rispettabilissimi personaggi convocati da Alias per discutere della «capitale morale» d’Italia andrebbe ricordato:
1) l’accoglienza non proprio «affettuosa» data da Milano agli immigrati in genere dal Sud e da altre campagne negli anni Cinquanta-Sessanta (si rileggano “Milano, Corea” di Alasia e Montaldi!);
2) la durezza del capitalismo italiano (e non solo della «Milano industriale») che l’anima da vendere proprio non ce l’ha;
3) la contiguità tra Milano dabbene e Milano da bere, vera matrice della odierna «Milano da vomitare».
In conclusione una cosa è certa:  quando  i nuovi patarini [1] (gli operai e gli studenti che nel ’68-’69 lottarono per una Milano città futura, non futurista!)  le due Milano – la colta e la volgare –  freneticamente brigarono (ohibò, ciascuna per conto suo!) per bloccare, addomesticare e distruggere quelle  istanze morali, culturali e politiche sorte così inaspettatamente.
Cari amici di Alias, il vomitevole sta tutto qua.

Nota

[1] PATARIA e PATARINI. – Dal nome del mercato degli stracci in Milano (pataria), il nome di patarini (id est pannosos, “straccioni”, spiega Bonizone da Sutri) fu per dileggio affibbiato dagli avversarî ai seguaci di un movimento (oggi anch’esso noto col nome di pataria) sorto verso la metà del sec. XI nella parte più umile del popolo milanese contro gli abusi ecclesiastici e l’oppressione dell’alto clero. (Continua qui

Esperimenti sulle mie “poeterie”

Tabea Nineo, Giovane giardiniere 1987

di Ennio Abate

Esperimento 1. Vocazione liceale (1961/82)

 Le vacche del sabato sera/ han ruminato la filosofia/ dell’erba settimanale.// Professore/ e se fossi/ un buon poeta?  [Variante: Professore/ non ho la ragazza!]/ Piscia nell’angolo assieme agli altri.// Che saggezza alla fine della settimana/ nella merda di vacca!

Esperimento 1.1.

Integrazione e rielaborazione dialettale in “Salernitudine”, Ripostes 2003

 A reggine Elisabbette

E venette
pure a regine Elisabbette!
E cavalle
facettere: ih!ih!
E ciuccie
o scutuliarene
ppe salutà
a reggine madinglan!

Ma sabbete assera
e vacche s’erene magnate
a filosofie ra settemane.

Prufessò, prufessò
forse nu picch poete sò?

Figlie mie, si a ffilosofie
cresce mmiezze a merde e vacche
e a poesie e l’allegrie
se trovane mmocca ae ciuccie o e cavalle
je nunn’o saccje.
Cheste è na nuvità.
Addimmannalle
a rreggine Elisabbette!

Curre, primme ca parte!

La regina  Elisabetta

E arrivò [in città]| anche la regina Elisabetta!/ I cavalli| nitrirono.| Gli asini lo agitarono| per salutare| la regina made in England!/ Ma al sabato sera le mucche | avevano già ruminato| la filosofia dell’intera settimana. / Professore, professore| forse sono un po’ poeta? / Figliolo,  se la filosofia | cresce in mezzo al concime di mucca | e la poesia e l’allegria si trovano in bocca  ad asini o cavalli | io non lo so.| Questa è una novità. | Chiedilo  | alla regina Elisabetta! / Corri, prima che parta!

[Nota 1975: Amara presa in giro della mia condizione di studente con desideri repressi]

[Nota dicembre 1983: Animalità contro poesia? No, contro ottusità e violenza del comando sociale. Fragilità del desiderio [che, per avere una conferma, si affida ancora ad autorità pur sapendola ostile]. ‘Piscia’ ha una connotazione offensiva [di repressione del desiderio]. L’equivalenza saggezza=merda di vacca vorrebbe essere gentilmente irriverente.

 

Esperimento 2. Liceo Torquato Tasso (1977)

Sala operatoria/ dove la mia adolescenza/ dubbiosa come lumaca/ se spuntare fuori o no/ in quel solleone idealista/ ossequiò le foglie di fico sulle pudende dei suoi amputatori.// E improvvidamente / trascinò con sé in sala professori/ un padre già sconfitto.// Chiedeva conto delle loro trimestrali decapitazioni / che ancor oggi raccatta/ nel tormento di una ribellione rinviata.

Esperimento 2. 1.

Incauto padre mio/ sconfitto contadino/ che ti trascinasti nell’atrio delle loro sale operatorie/ chiedendo conto delle trimestrali amputazioni/ sulla mia intelligenza adolescente!// Come lumaca in un guscio di timidezza/ esitavo a scoprire le foglie di fico/ che ponevano sulle pudende dei loro stessi eroi.//Spuntare fuori  nel solleone della loro filosofia dello spirito?// Giammai!/ Ossequiarli/ e filar via.

Esperimento 2. 3. 

Da “Unio” (2014) Torniamo a scuola. Anzi è Unio che torna al liceo frequentato da giovane. Accompagna suo padre nella sala dove,  da studente, i professori ricevevano i genitori. E’ più solenne di allora.  Quasi un teatro greco. E ci sono capannelli di persone attorno a qualche professore. Unio saluta con familiarità uno che conosce. Lui e suo padre sono però in ritardo. E il padre continua a camminare piano piano. Unio  ogni poco si giraindietro e l’aspettao. Quello però avanza sempre più impacciato. E, quando raggiunge faticosamente Unio, mostra il volto di un paesano intimidito da un mondo che teme e non conosce. Ora è Unio che si impone di essere padre di suo padre. E quasi lo rimprovera. Come fosse un ragazzino. Avanzano insieme ancora per una decina di passi. Ma in un punto, dove Unio sa che ci vuole cautela nel muoversi, suo padre mette un piede dove non doveva. Sconsolato lo vede che tenta di ripulirsi alla meglio la scarpa sporca di merda. Ma cosa ci fa una merda nei corridoi di un liceo?

 

Esperimento 3. In dialogo tra  vari tempi di E[nnio]

 E 58 – Avevo scritto questi versi: «dentro la tana delle lucertole/ nei rigagnoli/  nei gusci di noci/  sotto le foglie/ in mezzo ai nidi abbandonati / un silenzio c’era / e luce e calore/  che neppure supponevo».
E 2017 – Era un ricordo delle tue esplorazioni  in campagna?
E 58 – Sì, durante le vacanze, io, mio fratello Egidio e i  due cugini coetanei – Guglielmo e Vincenzo – andavamo  spesso in giro per la terra della loro nonna Francesca. In pieno pomeriggio. Non temevamo il caldo di luglio. Qui ho messo assieme le tracce di alcune sensazioni di allora. Mi colpiva il silenzio della campagna. Ne ero meravigliato.
E 2017 – Hai immaginato di seguire una lucertola in uno dei suoi nascondigli? Di scorrere come l’acqua, quando si  toglieva il tappo dalla base della cisterna per farla andare  lungo la traccia  già scavata nel terreno?
E 58 – Non ti so più dire se immaginavo o se e cosa pensavo allora.  Ricordo che una volta – ero solo – feci una gara per capire se ero più veloce io o l’acqua che usciva dalla cisterna. Che arrivò impetuosa e velocissima perché il terreno era in pendio.
E 2017 – Chiudersi in un guscio di noce come  in una cassapanca. Stendersi sotto le foglie come fossero lenzuola. Accoccolarsi dentro un nido senza più le uova. Tuo cugino Guglielmo – il più piccolo – sapeva dove trovarle. E, avvistato il nido, s’arrampicava poi a piedi nudi sui rami dell’albero per prenderle. Nelle fiabe sono state esplorate certe metamorfosi: passaggi  dall’umano al mondo animale o dalle dimensioni a noi abituali a quelle rimpicciolite. Mi viene in mente Alice o Gulliver.
E 58 –   So che sono libri famosi, ma non sono mai stato veramente attratto da questo tipo d’immaginazione.
E 2017 –  Eri  troppo terrestre e realistico? Dimmi, però, perché più tardi hai tradotto quei tuoi versi in dialetto: Ma dint’e lacertele/ miezz’e nire abbandonate/ addo` a luce e o cavere /manch’e  penzavem’e…
E 58 – Non posso rispondere io. Dovresti chiedere a E 90 o a E 92. Sono stati loro che, leggendomi nel loro tempo, hanno aggiunto quegli inserti in dialetto. Io allora scrivevo  solo in italiano. Il dialetto lo usavo oralmente. E con chi  mi parlava in dialetto.

 

Esperimento 4.  Riordinadiario.
Riflessioni sulla composizione del «Reliquario di gioventù»

 20 gennaio 2018 Avevo raccolto questi frammenti poetici giovanili (o “poeterie”, termine usato attorno al ’92, quando partecipai al premio Laura Nobile dell’Università di Siena) sotto il titolo di «Reliquario di gioventù». (Vedi in Samizdat Colognom n. 5). Poi  ho avuto dei dubbi. ‘Reliquario’ rimanda al campo religioso. Non è che «Reliquario di gioventù» verrebbe a dire che sacralizzo la mia gioventù o queste tracce di quel periodo, quei ricordi? Insistendo a rielaborarli (a  svilupparli, datarli, a rintracciare i luoghi o le occasioni a cui si riferiscono), mi sono accorto di entrare in un’esperienza tutta  al presente: quella della scrittura, che di certo per me non ha regole sacre.

Ma perché ritorni spesso su questi scritti di tanti decenni fa? Che nodo irrisolto c’è? E pubblicarli oggi che senso ha (per te o per altri)? Cosa rivela questo desiderio di dire ancora di un passato  a cui quasi nessuno più pensa? O li vuoi narrare a te stesso, che è l’unica cosa gratuita e possibile  a un vecchio?

Da giovane, senza capirci nulla, qualcosa avevi letto di Montale. (E allora di Fortini  manco conoscevi il nome…). Ora, se non avessi  letto quei libri e subìto suggestioni da quei poeti letti nell’antologia di scuola o in quelle (escluse allora dal programma) del primo Novecento che ti avevano prestato all’ultimo anno di liceo, avresti mai scritto  quei ricordi di Barunisse? Chi attorno a te ti suggeriva di scrivere?  E perché scrivere proprio sui pochi ricordi dei primi cinque- dieci anni trascorsi in quel pezzo di campagna?  C’entrava davvero quella prima lettura di Montale o di Govoni o di Palazzeschi? O di più  la lettura di Pavese fatta attorno al 1958? Nel suo discorso che riguardava il mondo contadino ci stavi, anche se non capivi bene i suoi scritti sul mito. (E assaggiasti anche Lorca. Leggesti dei suoi gitani  una sera. Eri solo nella stanza da pranzo con la luce accesa e poco prima di andartene da SA). E perché non scrivevi allora (fine anni Cinquanta, inizi dei  Sessanta) della tua “vocazzione” tutta legata al vissuto, salernitano e parrocchiale, di città provinciale?  E perché di Pavese in quell’anno leggesti quasi tutto? Non solo perché i suoi libri uscivano allora e ti era facile  farteli prestare da un amico commesso di libreria. (Lui te li  prestava di straforo, tu li leggevi e glieli riportavi intatti). No, Pavese toccava temi che in qualche modo erano un po’ nella tua esperienza  fatta daragazo, sia pur brevemente, in campagna.

La poesia allora la cercavi lì. In quei suoi libri  e in quel vissuto che ti aveva dato piacere o oscuro turbamento. Da lì  la spinta  a  scrivere, a fissare in parole, in versi o quasi versi un’esperienza che era libresca, di sensazioni e di sentimento.
E poi eri attaccatissimo a quei luoghi. Pochi mesi prima di  abbandonare SA, facevi ancora lunghe e stordite passeggiate a piedi. Fino a Fratte (al cimitero dov’era sepolto il tuo amico suicida M. B.). O, ogni tanto, in filovia dai tuoi parenti rimasti  a Casalbarone o ad Antessano.  E  perché il Reliquario  l’hai fatto leggere  tardi, molto tardi, proprio  a Michele Ranchetti? A farlo leggere prima a Fortini mai ci pensasti. O avresti esitato. Perché era più saldamente nella dimensione industriale e marxista. Più tardi hai scoperto che  c’era persino qualche sintonia tra il tuo sentire  e quello di Pasolini de «L’usignolo della Chiesa Cattolica».

Esperimento 4. 1. Nota dell’autore da vecchio
(inviata ad un editore per un’eventuale pubblicazione
in cartaceo del «Reliquario di gioventù»)

Delle poeterie, scritte tra il 1958 e il 1963 (dai 17 ai 22 anni) tra Salerno e Milano,  ho scelto quelle che sembrano avere un valore non puramente privato. Le ho suddivise in 8 sezioni tematiche (Campagna, Religio, Madre, Esplorazioni, Ragazze, Morte, Spleen, Visioni) e aggiunto in Appendice tre poesie (Vicoleggio, La ragazza dei preti, Mio padre) già pubblicate in Salernitudine, perché hanno una stretta parentela con queste.

Ho riletto dubbioso tante volte nel corso degli ultimi decenni questi frammenti.  Il loro senso e tessuto linguistico è convulso, allusivo,  scarno e  a volte monco. Vi ritrovo echi – datati – delle letture d’allora: i lirici greci, Pavese, Baudelaire e, nella sezione Visioni,  Lorca. Tuttavia sempre ho resistito  all’impulso di cestinarli. Non solo perché documentano – bello e brutto – il mio apprendistato poetico solitario e  da autodidatta; e,  come punte d’iceberg, mi hanno poi aiutato ad esplorare  il  sommerso, la vicenda complessiva da cui provengono – esito a dire: la storia –  in un narratorio inedito a cui continuo a lavorare. Ma perché vi colgo tracce di una vicenda più collettiva: – un morente paganesimo contadino, percepito nella condizione afasica, sognante, stupefatta e  fiduciosa dei primissimi anni d’infanzia; – il marchio ambiguo, retrivo e protettivo, di popolari e castigatissime  gioie dell’educazione cattolica, come le ho chiamate poi con sarcasmo e distacco da adulto; – l’oscillazione, nella scoperta della metropoli (Milano), tra  l’atteggiamento di un  flaneur  giovanilmente vorace  e impacciato e quello dello straniero o del migrante predone.
Devo alla generosa attenzione di Michele Ranchetti, tardivamente incontrato e che nel 2003 lesse versi per decenni tenuti nel cassetto, un giudizio  ben centrato: « ho letto le tue poesie più volte: l’immagine che mi è venuta in mente è quella di un grappolo d’uva nera su un tralcio abbandonato. Gli acini sono dolci, amari, secchi, verdi, maturi, rossi: il vino che ne risulterebbe sarebbe rosso scuro, forte, mezzo buono e mezzo no, amaro, e che va subito alla testa».
Sì, il tralcio abbandonato è il Sud. E il vino (le poeterie  o le prime prove o le vanterie poetiche) ha i pregi e i limiti di una coltivazione bruscamente interrotta. Il titolo, Reliquario di gioventù, dice il legame che ho mantenuto con quelle  prime emozioni e scoperte e vuole essere un riconoscimento al lavoro compiuto dal fragile  apprendista che ero: della poesia e di quel «mestiere di vivere», di cui – primo tra le mie letture per passione –  mi parlò in quei lontani anni  Cesare Pavese.

 

 

 

Un commento su LPLC

COME CI SIAMO ALLONTANATI (ANCHE DA FORTINI)

di Ennio Abate

«E questo ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui. L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro sia in continuità con il pre-catastrofe. […] Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo? (Bernardo De Luca, qui)

Eppure «l’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo» c’era anche ai tempi di Panzieri e Fortini. Come mai non abitava quelle menti «come una seconda natura» come abita oggi «le nostre menti»?
Suggerirei a LPLC2, visto che a settembre festeggia i suoi  dieci anni, di passarsi la mano sulla ideologia postmoderna che è imperversata nel 99% degli articoli pubblicati. (E basti contare gli articoli dedicati in questi altri “dieci inverni” a Fortini).

P.s.

@  Bernardo De Luca
A  questo link (qui) una mia lettura del 2004 quasi sullo stesso tema della sua lectio magistralis (per un eventuale confronto-dialogo) e qui sotto lo stralcio delle mie conclusioni di allora:

«Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.»

Ennio Abate 6 settembre 2004