Tutti gli articoli di Ennio Abate

Fortini, la guerra, la pace

di Ennio Abate

Chi sta in alto dice: pace e guerra

sono di essenza diversa.
La loro pace e la loro guerra
sono come il vento e la tempesta.

La guerra cresce dalla loro pace
come il figlio dalla madre.
Ha in faccia
i suoi lineamenti orridi.

La loro guerra uccide
quel che alla loro pace
è sopravvissuto.

(Bertolt Brecht, Poesie di Svendborg)


La Seconda guerra mondiale e Foglio di via La guerra entrò nella vita di Fortini  con il suo richiamo alle armi nel luglio 1941. Nei mesi seguenti egli riuscì ancora ad alternare servizio militare e studi universitari, ma lo sfascio dell’esercito italiano (8 settembre 1943) lo spinse a raggiungere con altri dispersi la Svizzera. Internato nel cantone di Zurigo con centinaia di fuggiaschi italiani ed europei, vi conobbe esponenti dell’immigrazione antifascista, lesse per la prima volta alcuni scritti di  Lenin, aderì al Partito socialista e incontrò Ruth Leiser, che diventò la donna della sua vita. Partecipò anche alla repubblica partigiana formatasi in Valdossola, che però era già in fase di ripiegamento.

I versi di Foglio di via, scelti tra i moltissimi scritti degli anni  ’40-‘44, sono il primo risultato poetico di Fortini giovane. Ricevettero poche recensioni (di Calvino e Ragionieri in particolare), ma scarsa attenzione da parte dei suoi amici letterati fiorentini.

Anni dopo, nella Prefazione del 1967 alla nuova edizione di Foglio di via e in alcune interviste, Fortini sottolineò quale forte cesura la Seconda guerra mondiale aveva segnato nella sua esistenza, sebbene gli eventi più tragici del conflitto mondiale l’avessero soltanto sfiorato e giudicasse ora (un po’ mortificandosi, come nel suo stile) quella sua esperienza “assolutamente trascurabile” se paragonata alle sofferenze di tanti coetanei deportati in Germania, in Africa o in India.

Lo stacco fra  il prima (adolescenza all’insegna dell’elegia, passione per l’arte e la letteratura, partecipazione sia pur diffidente e scalpitante ai Littoriali del regime fascista) e il dopo (servizio militare, sbando, internamento in Svizzera) fu netto e duro. I rapporti che stabilì, da isolato, con militanti politici antifascisti e formazioni partigiane non furono privi di esitazioni e il contatto con soldati e civili nelle caserme o per le vie delle città bombardate gli svelò l’insufficienza della sua cultura “piccolo borghese”. «Che cosa gli poteva servire aver letto Proust, Joyce, Rilke o Gide?», scriverà nella Prefazione del 1967; e in un’intervista aggiungerà poi: “È solo con l’esperienza del servizio militare, l’incontro con i contadini italiani vestiti da soldati, da fanti, che ho cominciato a capire qualcosa” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.511).

Nella crisi, quel “qualcosa” affiorava a fatica dal populismo tipico dell’epoca. Era sì sufficiente a staccarlo definitivamente dall’ambiente letterario fiorentino in cui s’era formato e ad unirsi a Elio Vittorini, che stava per fondare Il Politecnico, ma tenui sono le tracce  di una visione politica di classe del fascismo e della guerra. Essa maturerà negli anni successivi e, del resto, era quasi assente allora; e non solo fra i suoi coetanei intellettuali. Se rileggiamo, infatti, Agli italiani (8 febbraio 1944), una conferenza tenuta in Svizzera ai connazionali internati come lui in “quarantena” nel campo di Adliswill (cantone di Zurigo), notiamo che la denuncia dell’avventura fascista e la volontà di reagire si appellano soprattutto  ai valori della  patria distrutta.

Nella presentazione alla recente pubblicazione dei Saggi ed epigrammi di Fortini, Rossana Rossanda ha ricordato  i tanti tratti culturali che il giovane Fortini aveva in comune con tutta la generazione degli anni Venti: “stesse letture, stessi interrogativi, stesse frequentazioni, stesso fastidio per il fascismo, stesse incertezze a impegnarsi fino all’occupazione tedesca”. E Fortini, quasi a conferma, così aveva da parte sua rievocato quel clima culturale:

“L’antipatia nei confronti del regime fascista era strettamente collegata con gli atteggiamenti  intellettuali ed estetici di un giovane che allora si interessava soprattutto di arte e di letteratura. Ma questa non era soltanto la mia posizione. Era quella di tanti giovani di estrazione piccolo borghese o borghese che nella Firenze di allora amoreggiavano con la cultura d’avanguardia e con la poesia, amavano il cinema populista francese [...] e trovavano il fascismo soprattutto maleducato e volgare, banale e culturalmente rozzo. [...] L’antifascismo nostro di allora era un antifascismo che potremmo oggi chiamare di destra, cioè un antifascismo  che trovava ridicolo ed insopportabile il fascismo per i suoi atteggiamenti plebei”. (Fortini, Un dialogo ininterrotto, p. 609)

La guerra gli si presenta, dunque, innanzitutto come viva esperienza del mondo dolente e confuso dei rifugiati conosciuti a Zurigo. Di questa realtà insospettata parla come di una “rivelazione”, sottolineando – e qui ha un peso coglie l’impronta fortemente letteraria della sua formazione – che quel periodo fu l’unico della sua vita in cui non avvertì più “nessuna differenza fra la parola stampata e quella detta”. Gli parve che una fluidità sorprendente si stabilisse fra la parola meditata  nell’assenza fisica di interlocutori, propria della poesia e della letteratura, e la parola più immediata e corporea della comunicazione orale con gente in situazioni materiali durissime o sfuggite allo sterminio nazista allora quasi inimmaginabile, come quel gruppo di ebrei dell’Europa orientale che in una cantina recitava preghiere “intollerabili come urla di gente che fosse tormentata e battuta”.

Fra 1944 e ’45, sempre a Zurigo, lesse anche alcuni testi dalla Resistenza francese, ricevendone un ulteriore incoraggiamento a compiere scelte radicali, come affermò nell’intervista del 1993 a Jachia (Fortini,  Leggere, scrivere).

Berardinelli, in uno dei primi studi sistematici dell’opera fortiniana (Berardinelli, Fortini), ha visto in quegli anni un passaggio del giovane scrittore da un “antifascismo dell’anima” ad un “antifascismo politico”, che riguardò le scelte morali e politiche, ma anche lo stile della sua scrittura; ed in   Foglio di via ne abbiamo la prima registrazione.

Nella raccolta, infatti, troviamo da una parte poesie dai toni duri e realistici e un linguaggio che mira all’oggettività e alla coralità e, dall’altra, la persistenza del clima assorto dell’educazione ermetica fiorentina.

 Sul piano letterario il realismo delle scelte linguistiche e stilistiche, spia di una forte tensione verso  l’impegno politico e storico,  è  tipico di quegli anni di guerra, alla cui durezza il giovane scrittore s’impone ora di non sfuggire più nemmeno in poesia, ma l’impronta della precedente educazione, classica ed etico-religiosa, s’interseca ora con i motivi resistenziali e non come elemento inerte; e si presenta – come ha visto acutamente Lenzini – sia come «momento ‘nichilistico’,  di deiezione e angoscia» sia – dialetticamente – come attesa e  speranza.

Fortini non passa, cioè, dalla precedente formazione al neorealismo che dominerà in vari modi dal ’45 fino agli inizi degli anni Cinquanta. Resta più isolato. E basti confrontare il populismo di  tanta letteratura della Resistenza (Pratolini, Viganò, ecc.)  con la ritrosia pensosa (non ostile) verso il “popolo”, evidente nel suo romanzo, Giovanni e le mani, pubblicato nel ’48.

Foglio di via  e Giovanni e le mani  passarono presto sotto silenzio. Non rientravano soprattutto nella retorica tutta «patriottica» della Resistenza, che, surrogando  presto la sconfitta reale dei partigiani, la presentò come lotta di tutto un popolo contro un’invasione straniera, cancellandone  gli aspetti più controversi di lotta di classe e di “guerra civile”, messi poi problematicamente in luce dallo storico Claudio Pavone. E il mutamento del clima politico negli anni Cinquanta portò in letteratura ad una svolta formalistica (la parabola di Vittorini  e il successivo neoavanguardismo  sono in proposito illuminanti), che svalutò la direzione di ricerca imboccata da Fortini, lontana dall’oleografia neorealistica e nazional-popolare eppure in contrasto con l’”americanizzazione” che poi ha trionfato in Italia e in Europa. Fortini dovrà proseguire sulla sua strada in un relativo isolamento e guardando altrove (verso Francia e Germania prima e poi verso la Cina).

L’esperienza della guerra e della Resistenza restano per lui fondamentali sul piano politico, etico ed estetico. Su di esse il suo marxismo si consolidò restando “critico” e il rapporto scoccato in quegli anni fra letteratura e storia non fu mai più sciolto.  Lo testimoniano tutte le sue opere successive e la prontezza con cui reagì alle prime avvisaglie del “revisionismo storico”. Ancora nel 1993, in alcuni incontri organizzati all’università Statale di Milano, Fortini, relazionando su Letteratura e Resistenza, nel suggerire ai giovani le prove letterarie più alte di quegli anni, ricordò ancora con nostalgia l’attenzione dei letterati a quella sorta di “letteratura orale” che nasceva sui treni, allora tanto lenti da facilitare i racconti delle proprie vicissitudini da parte di ogni viaggiatore ad altri sconosciuti.

Primo intervallo: sulla “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” in Fortini  Già  in Foglio di via emerge una feconda contraddizione, che agirà in tutta la laboriosa carriera dello scrittore e che maturerà attraverso scelte politiche e di studio.  Berardinelli ha parlato in proposito di “compresenza conflittuale di storia e trascendenza”. È una formula che mette in luce l’inquietudine mai placata della ricerca di Fortini fra le polarità della cultura occidentale cristiano-borghese (materialismo/idealismo, mondanità/religiosità).

Questa sua inquietudine è stata spesso ricondotta al facile luogo comune di un Fortini tormentato, oscuro, intollerante e ha legittimato riserve o giudizi contrastanti su di lui anche da parte di amici e studiosi importanti. Timpanaro, ad esempio, lo considerò solo “un religioso sia pure tormentato”(Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002) e mai un pensatore veramente materialista, mentre Ranchetti ha visto invece in lui “un’etica… non religiosa ma ricca di affetto struggente per le cose reali” (L’ultimo saluto, in Testimonianze 372 febbraio 1995).

La stessa Rossanda scorge nel suo “essere stato mezzo ebreo, mezzo protestante, mezzo antifascista, mezzo resistente” la probabile origine di un’intolleranza verso se stesso e gli altri  più che la molla di un suo orientamento comunista radicale, fertile specie nel panorama della cultura italiana ed europea del secondo Novecento, prima irrigidite dalle contrapposizioni della Guerra fredda e poi acquietatesi nei compromessi della “coesistenza pacifica”.

Isolato da tanti suoi coetanei, più tranquillamente calatisi negli schemi atei, illuministi, marxisti e cattolici (o in soluzioni eclettiche), che la storia dal ’45 in poi ha istituzionalmente offerto, è stato lo stesso Fortini ad esasperare spesso un suo sentimento di esclusione in modi quasi disarmati, come quando in un’intervista per Il messaggero del 7 gennaio 1984, confidò a Renato Minore:

“Pochi giorni fa mi sono trovato di fronte due persone della mia stessa età, fiorentine: una è stata medaglia d’oro della Resistenza; l’altro un vero fascista, molto importante. Queste persone erano cambiate come cambiano tutti negli anni. E io mi sono trovato nello stesso stato d’animo che avevo tra il ’38 e il ’41. Ho avuto un attacco d’angoscia, ero uno che si sente ancora escluso...” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pag 344).

Ma, evitando sintesi e sublimazioni, Fortini ha avuto il merito di affermare verità lucide e radicali su questioni (le sue “questioni di frontiera”!)  cruciali ma di solito ipocritamente stemperate dell’ebraismo, del protestantesimo, dell’antifascismo, della resistenza. E la sua verifica dei poteri è stata continua e rigorosa negli anni (non solo il titolo di un suo libro del 1965). Poche “trascendenze”, insomma, appaiono, come la sua, tanto calate  nella materialità degli eventi storici e capaci di non appiattirla positivisticamente.

La formula della “compresenza conflittuale di storia e trascendenza” se non resta un’astrazione, ma aiuta ad  indagare le prese di posizione concrete, sempre chiarificatrici, di Fortini di fronte agli eventi quotidiani e storici e, nel nostro caso, di fronte alla guerra e alla pace, può, dunque, essere accettata. Fortini non ha mai smesso, infatti, di misurare il proprio sentire, la sua fede cristiana e la sua borghese “coscienza infelice” con il dramma storico e materiale, senza farne un alibi.

E perciò non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione”  come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psiconalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico  della biografia e dell’immaginario di Fortini  dalla  storia sociale e politica del Novecento.

Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e   le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.

Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.

Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli  sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.

 Il vecchio Fortini, con la sua  inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione  socialista.

La guerra nel tempo della pace: Fortini e il Vietnam Il tema della guerra ritorna incessantemente in numerose poesie scritte da Fortini negli anni successivi alla Liberazione, quelli “di pace”, del “boom economico” e della falsa “coesistenza pacifica”.

Provando a scegliere dall’indice di Una volta per sempre (ediz. 1978, che raccoglie le poesie di Fortini fino al 1973) solo i componimenti in cui il tema della guerra è più esplicitamente trattato, troviamo l’attenzione al nemico che muore nel pieno della liberazione di Parigi (Quel giovane tedesco, pag. 75), alle stragi (Sono morti ormai,  pag. 126),  alle “notizie divine della guerra” (Science  fiction,  pag. 139), alla confusione e all’ansia dell’8 settembre del ‘43 (Una sera di settembre), alla tragedia  del corpo di spedizione italiano in Russia (Ai nostri caduti in Russia, pag 150).

Col tempo nelle poesie le tracce della guerra  sembrano diradarsi (Dalla mia finestra  pag. 215). Ma essa non è scomparsa, avviene  lontano ed è comunque spiata dalla gabbia della routine quotidiana occidentale (Primo riassunto, pag. 226) o attraverso  notizie filtrate da una sensibilità solitaria, che interiorizza senza false mediazioni partitiche  lo scontro politico altrove ancora armato (4 novembre 1956, pag 230).

La guerra è sottofondo che persiste,  ora in sordina ora minaccioso. Anche in un presente che concede  al poeta la confidenza amorosa e nostalgica (1944-1947 pag. 241) o  in qualche fugace immagine  di gioia, non casualmente legata alla figura femminile (Alla stazione di Minsk,  pag. 245). Per tornare ad essere rivissuta come incubo gelido e mortuario (La linea del fuoco,  pag. 275), attraverso la lettura delle pagine di scrittori amati (Dopo una strage da Lu Hsun, pag 285) o in incontri quasi onirici con una sorta di alter ego fantasmatico (Ricordo di Borsieri, pag 310).

Negli anni Sessanta, dunque, la guerra è in Italia e in Europa un ricordo sempre più rimosso. Si è trasferita nei paesi del Terzo Mondo. Là solo è tragedia quotidiana. Qui è oggetto di controversie politiche o  notizia da manipolare. Essa ridiventa però un punto di alto di contesa politica internazionale con l’aggressione americana al Vietnam.

       Fortini, intervenendo ad una manifestazione per la libertà del Vietnam, tenuta in Piazza Strozzi a Firenze il 23 aprile 1967, prova a scalfire la rimozione collettiva. Il marxismo gli mostra che la vicenda del Vietnam è “una metafora dei conflitti di classe nazionali” e  che un filo stringe quella  guerra lontana alla pace opulenta e falsa dell’Occidente: una medesima violenza di classe si esercita in Vietnam  nella forma della guerra e in Occidente nelle forme dello sfruttamento capitalistico del lavoro.

            Con un breve comizio in dodici punti ribalta l’opinione, prevalente  anche nella Sinistra, che i Vietnamiti  fossero delle vittime e che la “coesistenza” inaugurata dal rapporto di Kruscev fosse davvero “pacifica”. Paradossalmente a trovarsi in una situazione migliore sono proprio i vietnamiti, che almeno lottano apertamente, rischiando la morte, contro l’aggressione americana, e non gli italiani che hanno  accettato la servitù dagli Usa.

     I punti sono trattati con un massimo di assertività;  e più tardi, ritornando anche sugli aspetti formali del comizio, dirà che aveva voluto costruire l’intervento “in forma modulare con variazioni su di un numero definito e ricorrente di frasi” (in forma ampia il ricordo del 1971 è trattato in Memorie per dopo domani, Quaderni di Barbablù Siena 1984).

Quel comizio è rievocato anche nei suoi risvolti politici in un’intervista a “La stampa” del 13 sett. 91:

“Una piazza di Firenze nell’aprile del ’67, dove si tiene una manifestazione per il Vietnam, con Lelio Basso e Giorgio La Pira tornati dall’Asia. C’era un’aria di melassa, con tutti gli interventi ufficiali. Ma era avvenuto il colpo di Stato dei colonnelli greci e a Berlino uno studente era stato ferito dalla polizia. I gruppi maoisti cominciarono a contestare. Io ho letto il mio testo, concepito come testo letterario, ma che ha avuto un effetto opposto. Voglio rileggerne qualche passo. “Sul Vietnam non ci si unisce. Sul Vietnam ci si divide”. “Tra Usa e Vietnam non è solo un film dell’orrore: è un conflitto fra due classi di uomini”. “Non basta dire americani a casa: perché gli Usa se ne vadano dall’Asia devono sapere di avere popoli nemici in Europa”. Claudio Petruccioli, su  Rinascita parlò delle mie “locuzioni deliranti”. In perfetta continuità con la vera tradizione stalinista del Pci, che era l’opposizione a qualunque forma di sovversione marxista, o non, che non passasse per i corpi istituzionali”

Nell’intervista non sfugge alla domanda provocatoria del giornalista, che gli chiede se quel discorso lo riscriverebbe tale e quale dopo i massacri di Pol Pot in Cambogia. Fortini chiarisce che no, non riscriverebbe negli stessi termini quel discorso:

“Certo che no. Assolutamente oggi non lo riscriverei così. Tuttavia, attenzione, non per Pol Pot, per la Cambogia, per le altre cose tremende che sappiamo. Neppure perché è venuto meno il comunismo sovietico. Ma perché è caduta l’altra grande ipotesi antimperialista: quella di un accerchiamento delle città da parte delle campagne, dei paesi sviluppati da parte dei sottosviluppati. È venuto meno, cioè, il mito della Cina. I sottosviluppati si sono trasformati anch’essi in consumatori. Il grado di unificazione del mercato mondiale è incomparabilmente superiore a quello che prevedevamo” ( Fortini, Un dialogo ininterrotto, p.622).

Non dobbiamo ridurci, sembra dire implicitamente, a ragionieri dell’orrore, né a scegliere il regime  in cui l’orrore è minore o meno appariscente (l’orrore americano al posto di quello vietnamita o sovietico o cinese?). Dobbiamo scegliere ipotesi politiche che mirano alla libertà e a conflitti più alti fra gli uomini contro ipotesi politiche che vogliono conservare privilegi antichi e moderni e abolire ogni conflitto. Questo è il senso della sua risposta, in aperto contrasto con l’”aritmetica dell’orrore” che purtroppo, sulla scia del revisionismo storico, si è imposta in questi nostri anni recenti (e di cui il “Libro nero del comunismo” è un esempio).

Secondo intervallo: il professore marxista e i “nipoti felici di verità tranquille” degli anni Sessanta Fortini cala spesso in poesia gli eventi storici da lui vissuti. In una poesia intitolata Vietnam, italiano e storia. 1966 (in  L’ospite ingrato primo e secondo, pag. 126) il presente – che vede la resistenza del Vietnam, il poeta che la segue attraverso le immagini televisive, facendo l’insegnante e chiedendo “un filo di consenso alle orde/ dei nipoti felici di verità tranquille” – è raccordato al passato: “Ricorda il Trentacinque le rose del liceo/ il professor Ugolini che non aveva la tessera.”

Il professore Ugolini di questa poesia sembra un autoritratto per interposta persona o comunque un’immagine di fermezza morale paterna e solitaria. E può  far riflettere un riscontro empirico, raccolto a distanza di tempo, all’indomani della morte dello scrittore. Esso chiarisce a sufficienza quanto fosse arduo recepire la sua pedagogia non neutra, da professore di lettere marxista, da parte di studenti degli anni Sessanta, che pur si risvegliarono nel ’68 dal loro torpore.

Trascrivo perciò alcuni brani della testimonianza-ricordo di un ex studente di  Fortini, Franco Romanò. Essa combacia quasi perfettamente con la situazione delineata nella poesia Vietnam, italiano e storia. 1966 e ci dà,  per così dire, il punto di vista dei «nipoti felici» di quegli anni:

“Conobbi Franco Fortini nel lontano 1965. Ero iscritto all’ultimo anno di ragioneria al Mosè Bianchi di Monza e lui era il nostro professore di lettere. Quando entrò in classe il primo giorno, lo sguardo era serio e severo; aveva una brutta borsa di pelle, identica a quella che gli avrei visto portare venti anni dopo. La mise sulla cattedra e poi, invece di sedersi, scese dal predellino e stando in piedi davanti a noi, ci guardò un po’ e poi iniziò un discorso che per quegli anni si può senz’altro definire memorabile:

“Mi chiamo Franco Lattes, sono di origine ebraica, durante la guerra fui costretto a riparare in Svizzera, tornai a Firenze con la liberazione. Poiché io voglio che ci si conosca bene senza sotterfugi vi dirò che sono marxista, sono stato iscritto al Partito socialista ma oggi non lo sono più, sono un poeta e uno scrittore, mi occupo di letteratura ma conosco anche l’industria. Ho stimato molto un grande industriale italiano, Adriano Olivetti, ho lavorato in quell’azienda, fui io a dare il nome alla prima macchina da scrivere, la lettera elle: il nome lexicon lo suggerii io.”

Dopo aver detto questo si sedette tranquillamente in cattedra. Tutti noi eravamo allibiti, ci lanciavamo occhiate perplesse, interrogative [....]

Altre volte si sedeva in cattedra e non parlava, se ne stava cupo e raccolto in sé; sapevamo, allora, che era successo qualcosa di grave nel mondo, da qualche parte. Fu così, per esempio, quando fu giustiziato da Franco l’anarchico Grimau; a Milano il giorno prima c’era stata una manifestazione credo anche con scontri, lui vi aveva partecipato. In questi casi al silenzio di una  decina di minuti seguiva una rapida spiegazione dei motivi della sua indignazione, poi la lezione cominciava” (in Testimonianze per Franco Fortini, Cologno Monzese 1966)


La contraddizione nelle proprie radici: Fortini e la guerra dei Sei giorni (1967)  Nel giugno 1967 le truppe israeliane e quelle egiziane si scontrarono nel deserto del Sinai; e in Italia e in altri paesi occidentali l’opinione pubblica si schierò subito con Israele, accettando la versione  che la guerra era stata una  risposta ad un’aggressione araba.

Fortini scrisse in quell’occasione I cani del Sinai. Il titolo  del libro derivava da un inesistente proverbio arabo: “Fare i cani del Sinai”, un’espressione che significa “correre in aiuto al vincitore”, “stare dalla parte dei padroni”, “esibire nobili sentimenti”.

Si tratta di un saggio composto di note politiche a caldo sugli eventi di quell’anno in aperta polemica verso i simpatizzanti dello Stato d’Israele, e di un austero resoconto autobiografico sulle proprie ascendenze di ebreo italiano, nel quale si sofferma su vicende di parenti e sulla sua stessa storia familiare e personale (i rapporti con i valdesi, la sua conversione).

 I cani del Sinai sottolinea che, con quella guerra contro gli arabi, “ebraismo, antifascismo, resistenza e socialismo”, fino ad allora pensabili come  “realtà contigue”, non lo sono più.  La guerra ancora una volta ha stravolto l’identità culturale del paese che la fa. Israele  è diventata altro da quello in cui si era sperato al momento della sua fondazione. È ora complice e punta avanzata in Medio Oriente dell’imperialismo statunintense.   E, quando la guerra dei  Sei giorni è diventata notizia, la sua manipolazione e  la sua sterilizzazione a chiacchiera da salotto è talmente imponente che gli stessi amici ebrei di Fortini,socialisti e comunisti, si mostrano sconcertati, indulgenti verso Israele e restii a prendere atto del cambiamento avvenuto. Solo lui insiste, isolato e malvisto, a trovare intollerabili le accuse rivolte agli arabi con argomentazioni – scrive – che trent’anni prima  erano state  usate dai nazisti contro gli ebrei. E mostrerà anche in seguito amicizia e solidarietà attiva verso i palestinesi, come provano le sue accorate riflessioni di un viaggio in Israele del 1989, raccolte in Un luogo sacro di Extrema ratio.

In un’intervista di Gad Lerner  del 1982 a Radio popolare (L’ospite ingrato, 2, 2003), che aveva come sfondo le stragi  israeliane in Libano di quell’anno (Sabra e Chatila, operazione “Pace in Galilea”), ritornano, filtrati dalla memoria e dalla meditazione su tante altre sconfitte, i temi politici de I cani del Sinai: la critica all’opinione democratica e colta, schierata comunque con Israele (“si pensa che gli israeliani esagerano; ma in sostanza, nel profondo, si pensa che sia meglio, possibilmente, cancellare i palestinesi”), quella alla funzione de-realizzante della comunicazione massmediale (“l’occhio dei mass-media è un occhio incaricato di non far vedere, quello che fa vedere viene  nello stesso tempo assorbito e annullato”), la presa d’atto che l’immensa tradizione culturale ebraica è ormai esaurita e che la storia e le vicende dello Stato di Israele nulla hanno più a che fare con essa.

Lerner vorrebbe vedere nel conflitto in Israele una “nuova grande ondata di irrazionalismo”. Ma Fortini gli ricorda che  esistono due razionalità, una cosciente, una meno cosciente, “ma che non per questo è meno razionale, e cioè meno adeguata ai fini che si vogliono raggiungere”.

 Per lui la classe dirigente israeliana strumentalizza le minoranze religiose estremiste, abbastanza esigue in Israele su una popolazione sostanzialmente laica e spesso atea. E respinge pure la tendenza, che in quegli anni di “crisi della ragione” si faceva strada da noi, ad abbandonare ogni lettura degli eventi storici basata sulla descrizione dello stato dei rapporti socio-economici; il che – aggiunge – “costituisce la riprova di una condizione di guerra: come quando nella guerra contro l’hitlerismo e il fascismo vi fu un momento in cui l’interpretazione canonica di tipo marxista venne omessa completamente […] per sottolineare la figura del cattivo, del non-uomo, del mostro”.

Terzo intervallo: la “regola del morto-vivo” in arte Anche se non si sofferma su una propria opera, ma sulla versione cinematografica del libro,  il film Fortini/cani, girato da Jean-Marie Straub e Danièle Huillet nel 1976, in cui lo scrittore  legge  brani del suo stesso libro, la Nota 1978  all’edizione in francese de I cani del Sinai torna utile per chiarire come Fortini passa dalla riflessione politico-autobiografica su un evento storico  alla sua resa artistica (o più in generale alla poesia).

Siamo in tutt’altro clima rispetto a Foglio di via. Lì scelte linguistiche e stilistiche  tendenti al realismo. Qui, invece,  i fatti  trattati nel libro del ’67, pur giudicati indispensabili (“in loro assenza non si fa nulla”)   vengono allontanati e sono affrontati  come fossero spoglie che hanno perduto ogni passione  e immediatezza. La polemica politica ha ceduto il passo alla meditazione: “Fra qualche anno”, egli afferma, “nessuno comprenderà più che cosa sono stati la guerra in Vietnam e il conflitto arabo-israeliano”.

Gli eventi storici vengono guardati “come beni perduti per sempre e non a noi  destinati”. Ora interessano soprattutto “le lacune del reale” o “un reale senza fantasmi di consolazione”, senza lirismo e senza autobiografia.  Perciò sottolinea: quando nel film parlo di “realtà”, la mia voce si fa stridula, è “soverchiata dall’assenza” di realtà.

Solo così  le parole, dice, diventeranno “cibo di molti”.  È una visione dell’arte (e non solo del cinema, spunto della riflessione in questo caso), che Fortini deriva “da alcuni pochi e assoluti maestri” e si fonda sulla “regola del morto-vivo, dello zombie”. Un’immagine dell’artista che pare quasi modellarsi sul Cristo dell’ultima cena, la cui figura ben si concilia con le regole che qui Fortini sostiene.

Fortini e la prima Guerra del Golfo Sulla Guerra del Golfo del ’90, “operazione di polizia internazionale avallata dall’ONU” subito dopo la caduta del Muro di Berlino dell’anno prima, Fortini scrisse su il manifesto vari articoli.

Lo scritto più elaborato è Otto motivi contro la guerra (9 settembre 1990, ora in  L’ospite ingrato, 2, 2003). È un bilancio epocale dell’atteggiamento tenuto dai marxisti contro la guerra. E viene scritto in una situazione politicamente disastrosa, non dissimile da quella creatasi alla vigilia della Prima guerra mondiale: la maggioranza della Sinistra italiana – portavoce più autorevole Bobbio – è per la “guerra giusta” contro l’Irak di Saddam. L’unica debole opposizione è morale e proviene soprattutto dagli ambienti cattolici.

Il disastro è riconosciuto. A questo punto della storia del Novecento, che ha visto sconfitte le guerriglie terzomondiste e  il crollo della stessa Cina di Mao, Fortini ritiene davvero esaurite le risposte elaborate dalla tradizione socialista, che si aspettava il cambiamento dei rapporti di forza fra gli uomini dal lento evolvere dei meccanismi, e da quella comunista, per la quale la modificazione sarebbe avvenuta per via di coscienza ed organizzazione. E lo dice  nei suoi consueti modi drastici e senza rinunciare a testimoniare anche l’impotenza della sua generazione:

“Quello che è  crollato non è soltanto l’impresa comunista, l’Est, il muro: ciò che è crollato sono due secoli di cultura occidentale. Ciò che è stato demolito non è il comunismo, casomai è il comunismo come parte dell’eredità dell’illuminismo […] Al momento del “crollo” (partiti comunisti ufficiali, muro, Urss) e della “apocalisse”, ossia del discoprimento di ciò che avremmo dovuto vedere anche prima (guerra del Golfo, mutamento delle procedure internazionali) i ventenni andarono in cerca degli ultrasessanteni per farsi spiegare che cosa fosse successo. E abbastanza rapidamente, noi vecchi abbiamo esaurita la sequela delle spiegazioni e dei ricordi, perché il mondo era troppo mutato sotto i nostri medesimi occhi [...] Certo il marxismo di “Quaderni rossi” di trent’anni fa può aiutarci a capire il Giappone, la Corea, il Brasile, la ex Urss e gli stessi Usa, meglio dello pseudolaburismo [...] Ma in queste materie non basta capire [...] Bisogna avere tempo e forza di agire [...]  C’è stata una frattura, un mutamento dei codici [...] e siamo entrati in una situazione mondiale di autodistruzione, dei corpi e degli spiriti, degli equilibri fisici e mentali che unifica il pianeta” (Fortini, Un dialogo ininterrotto, pp. 709-711).

 Che fare, allora, contro questa guerra? I mutamenti indotti dalla superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti hanno svuotato l’indicazione leniniana: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile è possibile, sottolinea Fortini,  “solo al di sotto di un certo livello di tecnologia degli armamenti”, ampiamente superato oggi.  E, commentando  il verso di una canzone anarchica (“La pace fra gli oppressi, la guerra agli oppressori”), lo aggiorna: quella pace non è più esente da contraddizioni e conflitti fra gli stessi oppressi e “quella guerra non è necessariamente da combattersi con le armi”.

Non siamo però, come potrebbe sembrare, all’accettazione del pacifismo o della non-violenza. Da marxista, Fortini al pacifismo continua a rimproverare una disattenzione verso “gli effetti distruttivi del modo presente di produrre e consumare” e la svalutazione della “mediazione politica”.

Il pacifismo, scrive, “non mi persuadeva allora [si riferisce agli anni  ‘50] né oggi” e ripubblica come se fosse ritornata attuale una sua lettera a Capitini di quarant’anni prima (1950), alla vigilia della guerra di Corea.

Fin troppo convinto forse che, se una grande confederazione sindacale fosse stata capace di proclamare lo sciopero generale contro la guerra americana, avrebbe avuto il consenso necessario, contrappone la scelta religiosa, morale o filosofica  contro la guerra a quella pratico-politica, per lui indispensabile. Bisogna “uscire dalla morale verso la politica”, scrive, sostituire alla morale dell’intenzione una morale del risultato, scegliere di “combattere politicamente l’impero del mondo”.

 Il bene, dunque, anche in questa situazione catastrofica per la sinistra, non sta nella non-violenza, nel rivendicare una impossibile assenza di conflitto, nel chiedere solo che tacciano le armi. E persino in alcuni passi, dove sembra avvicinarsi a quanti intendono la non-violenza come lotta e non arrendevolezza, ribadisce che la non-violenza può essere presa in considerazione soltanto se è un’arma contro la guerra, magari simbolica come l’Intifada.

L’accento è posto ripetutamente sul valore fecondo del conflitto e sul legame dialettico, anziché di netta separazione, tra conflitto e pace: “senza conflitto non si dà riposo o “pace””. I “facitori di pace” non sono quelli che negano o mistificano i conflitti, ma quelli che “spostano la frontiera degli inevitabili  e fecondi conflitti”. E non smette di  ricordare, contro ogni facile illusione, che il conflitto è sempre un “male” per ottenere un “bene”, il cui raggiungimento però non è garantito.

La sua visione delle cose resta radicale anche in una situazione  in cui non s’intravvede la via d’uscita politica da lui stesso auspicata. Fortini non distoglie la mente dalla tragicità dell’esistenza umana e ripete con altre parole verità scritte già in altra occasione, nel 1985,  ben prima della guerra del Golfo del ’90:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin ‘che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi” ( Fortini, Non solo oggi, p.303)

L’assenza di conflitto non equivale, dunque, alla pace. La storia è conflitto. Compito politico non è sedare i conflitti, ma promuovere quei conflitti che facciano crescere gli uomini e trasformino il nemico prima in avversario e poi in collaboratore necessario e prezioso. E il nemico  che va trasformato oggi è quello “che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci”. Questo nemico era nel ’90, più che in passato, rappresentato per lui dagli Stati Uniti (Egli, in altra occasione, li definì un “regime abietto…da quarant’anni nemico del genere umano”).

 La sua critica coinvolge ora anche le posizioni di sinistra che considerano azione politica valida solo quella che si svolga nella metropoli, al “massimo livello di sviluppo produttivo”; e quindi dove la “realtà tecnologica del capitale internazionale che si esprime essenzialmente nella forma che noi chiamiamo americana” si è già affermata.

 Queste posizioni, secondo Fortini, accolgono senza andare per il sottile il “progresso tecnologico con tutte le sue conseguenze anche quelle che si possono prevedere aberranti o pericolosissime”, perché condividono con il nemico una morale “da signori”, basata sull’accettazione della “virile durezza della realtà” e, come i signori, disprezzano quanti nel mondo “non tengono il passo”, rimangono indietro, sono schiacciati dalla macchina” (vivono nella morale “del servo”).

Egli fa i nomi di Tronti, Asor Rosa, Negri e Cacciari e collega questa tendenza al trotzkismo.  Contro di essa scrive un articolo fortemente  polemico (Filoamericani di sinistra: colonizzati  e contentiil manifesto 3 mag. ‘91) respingendo l’illusione di una “superiorità della cultura e della tradizione occidentale”, dannosa e  facilmente, come possiamo vedere, preludio a soluzioni belliche.

Altri interessanti spunti sono sparsi in due recensioni: una a Türke, Nel sottoscala del diritto, la violenza della ragion di stato (il manifesto 21. giu. ‘91), la cui meditazione sulla violenza affrontava la “verità insostenibile del fondamento violento di ogni ordinamento civile”, compreso quello democratico; ed una ad un libro di sociologia delle comunicazioni (Rossella Savarese, Guerre intelligenti) dove  veniva denunciata la complicità inconfessata fra i consumatori e i produttori di informazioni e l’apoteosi del processo di de-realizzazione, che nella guerra del Golfo del ‘90 aveva raggiunto una “limpidezza iperrealista  o postmoderna”.

Ma ci sono anche altri interventi chiarificatori. In particolare ne La guerra in Europa (1993), pubblicato postumo in Jugoslavia perché, Gamberetti, Roma, 1995, ora in L’ospite ingrato, 2, 2003, Fortini  riassume e sembra condividere una serie di tesi  in circolazione  a partire dalla guerra del Golfo: fine delle guerre fra stati sostituite da operazioni di polizia, nascita di un “Impero unico e onnipotente”, svuotamento degli organismi internazionali divenuti agenti dell’unica potenza statunitense, rischi di distruzione fisica ed economica di una “parte anche grande del genere umano”, gestione dei mezzi d’informazione in modo da persuadere “una buona parte del mondo che una guerra del Golfo non c’era mai stata”. Ed arriva ad affermare “la fine tendenziale della nozione di imperialismo” e la costruzione di un potere distruttivo e coercitivo che “non si era mai dato nella storia del genere umano”.

Quarto intervallo: l’”ironia lacrimante” delle Sette canzonette del Golfo      Anche in occasione della prima guerra del Golfo, la riflessione di Fortini sugli avvenimenti è passata in poesia. Ne sono nate Sette canzonette del Golfo, una sezione di Composita solvantur, ultima raccolta edita dal poeta in vita, nel 1994, anno della sua morte. Ne vorrei parlare confrontandole con  la sua prima raccolta, Foglio di via, per cogliere il contrasto fra gli inizi e la conclusione della sua produzione poetica.

Si nota subito che gli elementi elegiaci di Foglio di via, come abbiamo visto, erano immersi in un contesto tragico ma carico di speranze collettive e fraterne, mentre quelli delle Sette canzonette del Golfo trovano intorno una situazione di solitudine e  di  sgomento e Fortini deve affidare all’ironia la sua non rassegnazione e la sua più solitaria speranza.

    Ne Il poeta di nome Fortini, Lenzini ha messo in vista tale contrasto. Una “situazione d’attesa”,  la tendenza alla “coralità”, la presenza esemplare dell’immagine femminile – si tratta di una donna proletaria (A un’operaia milanese), una sorta di “angelo–nunzio della prossima liberazione”, accostabile anche al fanciullesco ladro di ciliegie  di Brecht e alla quale viene attribuita una funzione catartica e salvifica – caratterizzano Foglio di via: “un’umanità nuova” sembra annunciarsi.  Temperie storica e prospettiva “trascendente” si compenetrano. Brecht e Noventa, due degli autori di riferimento di Fortini,  si danno la mano. Tutta al singolare invece, calata in un privato di solitudine carico di sarcasmo, è la vena poetica delle Sette canzonette del Golfo. Assente ogni figura femminile, qui si ironizza amaramente sulla pace del vecchietto, una pace tra l’altro non conquistata, ma concessa dagli dei e che può  allietare solo chi si contenta di poco.

Questa falsa pace, contro la quale il Fortini “terzomondista” mosse tante volte le sue critiche, si consuma mentre “lontano lontano si fanno la guerra» e il «sangue degli altri  si sparge per terra”. Ma ora  questa lontananza sembra insuperabile dagli apatici occidentali: allarmati, essi si succhiano il dito che si sono punti durante qualche faccenduola casalinga, concedendo un pensierino alla guerra che li coinvolge quanto una storia a fumetti.

Una sproporzione abissale si è imposta fra fatti quotidiani e fatti storici. La “derealizzazione” è compiuta. Quel filo rosso che legava negli anni Sessanta la lotta del Vietnam alla possibile lotta di classe in Occidente si è spezzato. Fra socialismo e barbarie sembra abbia vinto proprio quest’ultima.

E la poesia? Essa non soltanto ha perso la benefica figura proletaria dell’operaia di Foglio di via, rimpiazzata dalle immagini scostanti di adolescenti ben nutriti e gaudenti di Aprile torna (“Godono pepsi cola ignude gole”), ma anche il ritmo percussivo e corale della prima raccolta.  Quello qui dominante sembra farsi “ninna-nanna per l’addormentamento, narcosi e ebetudine procurata” (Lenzini).

Come può un poeta ormai isolato, che vive in Occidente, indirettamente complice e beneficiario della “vittoria democratica” armata conquistata in Irak, piangere i morti arabi fatti da Usa e alleati occidentali, se nel suo paese contro le “guerre umanitarie” è venuta meno un’opposizione politica e la maggioranza dei suoi concittadini è favorevole alla “guerra giusta”? La sua poesia ormai non serve neppure come guanciale per i morti (“Potrei sotto il capo dei corpi riversi / posare un mio fitto volume di versi?”).

Vale la pena di notare, per contrasto, che di fronte alla prima guerra del Golfo uno scrittore arabo, sia pur molto “occidentalizzato”, come Ben Jalloun riconosceva ancora un alto valore civile alla poesia. Nel presentare un suo poemetto proprio su quella guerra del ‘90, Dalle ceneri, egli scrisse infatti: “La poesia s’intestardisce a dire. Il poeta grida o sussurra: sa che tacere potrebbe sembrare un delitto, un crimine”. Per Ben Jalloun la poesia, prendendo la parola “per gli insepolti, gli scorticati, gli impiccati, quelli gettati nelle fosse comuni”, ancora serve.

Il confronto non suoni irriverente verso Fortini:  egli fissa lucidamente come si è ridotto  nella gabbia del privato l’uomo occidentale post-comunista in questo fine secolo, qui, da noi. Una poesia epica o una poesia “civile” non ha senso dove l’epos e la civiltà vengono meno. E forse, dai tempi bui che stiamo vivendo, possiamo solo guardare altrove, come  il giovane Fortini guardava a “una folla di sconosciuti fratelli maggiori” nell’Europa sconvolta dal nazismo.

     Le Canzonette del Golfo sono pienamente integrate nei componimenti di Composita solvantur? O svelano sotto la loro ”ironia lacrimante” (l’espressione è di Fortini stesso) elementi più amari e pessimistici rispetto agli Otto motivi contro la guerra visti sopra o, in generale, rispetto alla visione marxista della storia?

L’ultimo Fortini suscita ancora una volta giudizi contrastanti. Luperini, ad esempio,  ha visto nelle Canzonette del Golfo o, più in generale, nella posizione di Fortini su questa guerra un abbandono del suo ottimismo storico sociale e un suo  finale accostamento a motivi ricorrenti e addirittura portanti del discorso di Sebastiano Timpanaro (Luperini, Ricordando Timpanaro, in L’ospite ingrato 2001-2002).

Per Lenzini invece, proprio nel momento più tragico, Fortini è ancora capace  di “ricerca e slancio utopico”, perché il suo pensiero dialettico sa che all’aumento della negatività e dell’oppressione corrisponde sempre lo sviluppo di “altro”.

Edoarda Masi ha ricordato che Fortini (come Lu Xun) ha sempre ironizzato sulla poesia, anche se per lui era in realtà la cosa più importante; e ritiene che  le Canzonette non siano affatto in contraddizione con il suo “proteggete le nostre verità”.

E Composita solvantur, anche secondo il parere di Rossanda, è una  piccola summa del pensiero fortiniano: “è come se avesse voluto tenere assieme una parte delle avanguardie del passato, il meglio del ’68 e il soldato sovietico che, sotto l’avanzata tedesca, grida ai compagni: non possiamo arretrare” (Rossanda, Ospite ingrato 1, pag 169)

Anche per me le Canzonette del Golfo  non sembrano una caduta dell’ultimo Fortini e stanno sullo stesso piano di Composita solvantur . Eppure mi pare che resti il problema d’intendere meglio l’accento in qualche modo diverso non solo  delle Canzonette ma di Composita solvantur rispetto alla precedente produzione. La poesia, anche in questo caso, aggiunge o toglie qualcosa alla prosa.

Non posso che riecheggiare dubbi e impressioni non solo miei e indagare con cautela. Si tratta solo di finzione poetica che, quasi temendo di essersi lasciato troppo andare,  Fortini  in un’appendice autocritica (Considero errore) metta sotto accusa la propria “complicità con avversari e interlocutori” delle Canzonette?

E se davvero la poesia è stata per Fortini la cosa più importante, come trascurare la sua tenacia per tanti anni a «mostrare a dito i limiti della poesia» o dichiarazioni come questa:«Non posso sapere quanto l’esitazione fra i due fantasmi del sé – quello che si rappresenta nell’atto poetico e quello che si figurava in un modo di essere piuttosto che in quello dello scrivere – abbia leso uno dei due o tutti e due» (Memorie per dopo domani, pp. 27-28) ?

A me pare che la coincidenza  fra la malattia che portò alla morte lo scrittore e l’esaurimento della prospettiva comunista in cui aveva lavorato per tutta la sua vita gli imposero quasi contemporaneamente un alt. Composita solvantur mi pare che registri quest’ultima cesura individuale e collettiva assieme: il futuro per la prima volta nella vita di Fortini era da affidare completamente e soltanto ad altri. I progetti che aveva composto per una vita erano minacciati. Non una “svolta”, dunque, non un ripiegamento sul materialismo timpanariano e tantomeno un abbandono nichilistico. Ma neppure più la presenza di un’inalterata “ricerca e slancio utopico” o l’idea della trasfigurazione o della rinascita.

L’inquietudine fortiniana si arrestava. La morte imminente e personale,  sentita più che pensata, mi pare preponderante in tutta la raccolta. Essa disfa le cose composte (dal poeta, dagli uomini in lotta nel tempo storico) e questo scioglimento delle cose personali e collettive va accettato (sopportato). Ma da qui anche l’allarme, la raccomandazione data dal moribondo in punto di morte ai vivi. La sua opera personale è compiuta. Il nuovo ordine sociale è più che mai a venire. Possibile ancora? Impossibile? Non so pronunciarmi. L’appello “proteggete le nostre verità” consegna ai vivi quello che è da salvare, quello che ha contato per l’individuo e per la storia  degli uomini con cui ha vissuto, compresa la verità del comunismo. Ma solo, ancora più drammaticamente, come possibilità.

Concludendo: nella “guerra permanente” a dieci anni dalla morte di Fortini  Nel percorso che abbiamo compiuto abbiamo visto la costanza del ripudio fortiniano della guerra (inconciliabile con l’idea di rivoluzione socialista) e la varietà di toni che esso ha assunto nel tempo: speranzoso e corale nel 1946; assertivo e tendente all’estremo (dire estremista sarebbe una concessione imperdonabile agli avversari di allora e di oggi di Fortini) nel 1967  di fronte all’aggressione americana al Vietnam o a quella israeliana contro gli arabi; allarmato e sempre più amaro nel ’90 davanti alla Guerra del Golfo.

Si delinea così nelle sue opere quasi una parabola che va dalla fine della Seconda guerra mondiale all’attuale precipizio della “guerra permanente”  con in mezzo il picco alto di speranze degli anni Sessanta (Cina,’68-’69).

Dieci anni dopo la morte di Fortini, la nostra rilettura dei suoi testi viene a coincidere con l’acutizzarsi della tragedia di un Medio Oriente sempre più divorato dalle bombe. Gli Usa continuano pervicacemente ad imporre il loro monopolio militare e la guerra “è tornata al centro di uno scenario mondiale che non ha precedenti nella modernità” (Rossanda). Persino i giornalisti più filoamericani avvertono: l’incubo della terza guerra mondiale “è già in corso” (Pirani). E sempre più drammatica è diventata l’assenza di un’opposizione non puramente simbolica alla guerra, mentre  il dibattito politico si è arenato proprio su quelle posizioni  pacifiste, combattute dall’ultimo Fortini. Per lo più, infatti, viene teorizzato il “grande rifiuto della politica”: la politica è “figlia della guerra» ha sostenuto la filosofa Cavarero; è “un fallimentare rimedio al disordine del male” aggiunge Revelli.

Ora chi rileggesse il recente dibattito di LIBERAZIONE, La politica della non-violenza, dovrà ammettere onestamente che alla domanda posta da Ingrao alla sua apertura (“Come si risponde all’aggressione armata? Che cosa si fa contro la violenza armata dell’aggressore?”), le risposte, pur risalenti al ‘90 desumibili dalle posizioni di Fortini, specie dagli Otto motivi contro la guerra sono ancora oggi più lucide e meno elusive di quelle dei tanti intervenuti. (Anche se, personalmente, non mi sento di tacere dei dubbi:  ad esempio, cosa intendere in concreto per “una violenza con altri mezzi e senz’armi” o una “non-violenza eversiva”? In cosa essa si distingue dalla non-violenza attiva, di cui parla almeno una parte dei pacifisti? E ancora: d’accordo sull’”uscire dalla morale verso la politica”, ma oggi in concreto dove e come fare politica? Edoarda Masi, intervenendo su il manifesto, ha negato che la via da imboccare sia quella della politica in senso tradizionale. Bene. Ma il contributo di pensiero innovativo da lei auspicato da quali  soggetti   prevedibilmente potrebbe venire?)

Come mai, allora, tanto silenzio e disinteresse verso questi testi fortiniani e verso posizioni odierne (penso a Rossanda, alla Masi, a Tronti stesso) accostabili a quelle degli Otto motivi contro la guerra ?

 Si dirà che forse è sbagliato chiedere ai testi di Fortini del ’90 o  precedenti delle indicazioni politiche concrete e per una situazione ancora più deteriorata. O che egli non fu un politico puro.  Ma di sicuro in quei testi ci sono antidoti validi contro la cancellazione  della memoria storica di qualsiasi tradizione del comunismo, contro la sua riduzione a pura aspirazione o nostalgia o contro l’annebbiamento ideologico del capitalismo, che sarebbe diventato soltanto un «enorme guazzabuglio» e   si sarebbe «annullato diventando tutto» (Sofri). E anche contro la riduzione della politica a «militarizzazione o ceto politico autoriproducentesi»  (Rossanda).

Dobbiamo sapere che tanto silenzio non è legato a fattori contingenti. Quello calato su di lui è in buona parte lo stesso silenzio che incombe oggi sulle “rovine” del socialismo/comunismo, di cui egli chiese invano negli ultimi anni di vita un “buon uso” da parte della Sinistra italiana.

E proprio perché “lo scandaloso Fortini è così intrecciato con la storia – non solo culturale e non solo italiana – del Novecento” (Bonavita) e la storia del Novecento è stata scossa dai tentativi comunisti, a cui egli legò le sorti della sua persona e delle sue opere, dobbiamo anche sapere che quel silenzio non si romperà, se  non si riporranno in forme nuove e per il momento incognite quei problemi affrontati nelle esperienze comuniste.

Nel frattempo le nostre riletture dell’opera di Fortini dovrebbero evitare le  trappole dell’imbalsamazione o dei dissezionamenti. Non mi pare possibile ritagliare la sua figura dal difficile ripensamento della storia del comunismo.

Qualcuno, però, potrebbe obiettare col cinismo oggi di moda: “Ma dai, Fortini sarà stato comunista, ma il comunismo è morto, quindi anche una parte di Fortini è morta. Salviamo il poeta, il saggista intelligente, il polemista acuto; e lasciamo da parte il suo comunismo, il suo abbaglio, la sua fede. Viva è la sua poesia, come viva ancor oggi è la poesia di Dante.  Morta è la sua ideologia, come morto è il cattolicesimo di Dante”.

Direi  che bisognerà respingere questa semplificazione: troppo essenziale è, a mio avviso, quel legame fra Fortini e la vicenda comunista del Novecento, pur da lui declinata esistenzialmente in modi particolari. Un Fortini poeta e basta, un Fortini senza la sua volontà di essere comunista, da collocare in un contesto modernizzato e ipertecnologico  sarebbe  una decorazione, come lo è stato Dante in epoca moderna.

Meglio, allora, che resti anche lui un marziano: inattuale,  classico, ecc. piuttosto che alloggiato nei loculi predisposti per i “cattivi maestri” su Internet. Se arriveranno dei marziani comunisti, lo riconosceranno e tornerà a parlare.

Ennio Abate 6 settembre 2004

Su l’«Io» (senza il noi) di Massimo Parizzi

di Ennio Abate

                           «Io sono “io” (esisto) solo se posso dire noi»
                                                        (Jean-Luc Nancy)

«ciò che diviene sempre più visibile è l’avvenuta dissoluzione di quel We. L’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare». È quella dissoluzione e le sue conseguenze la verità difficile da accettare, poiché alla fine del We mondiale ha poi corrisposto, a cascata nel tempo, la decomposizione di tutti i piccoli noi che attorno a quello erano fioriti».
                                   (We Are Winning di Marcello Tarì, qui)

 Lettore  Allora, dopo tutti questi appunti, ti sei deciso a scriverla  la recensione su «Io»?

Samizdat  Sì, ma è venuta troppo lunga, preferisco parlarne con te.

Lettore  Attacca pure.

Samizdat Parto da un sunto del libro.[1] Un bambino abita in una casa popolare, s’innamora di una bambina, Roberta, che abita di fronte a lui; e desidera salire con lei sulla «spianata» che si trova sul tetto di un garage, ma lei rifiuta. Della vita di famiglia veniamo a sapere che: padre e madre si amano poco o niente e danno al figlio un’educazione cattolica; intorno agli undici dodici anni il bimbo si fa l’idea che la madre soffre e suo padre è cattivo e si sente in colpa per questo;  ha una sorella, con la quale divide la camera, gioca e impara a leggere e a scrivere; va in vacanza dai parenti di sua madre, che è nata a Brindisi; un giorno con la chiave che il padre ha dimenticato apre un cassetto,  di solito chiuso, e scopre «i ricordi di suo padre del fascismo» (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò», ecc.). Il ragazzo, diventato giovane, abbandona  la “casa del grande garage” e  va a vivere da solo in una casa di ringhiera. Ha una fidanzata. Ha degli amici: Adriano, di vent’anni più grande, che ha avuto il padre torturato dai tedeschi; Johnny, che  ama le novità, a cui piace vivere  in città  e la gira con una radiolina transistor all’orecchio; un pittore astrattista, Milo, e sua moglie, che dopo la morte di Milo, si uccide. Al liceo s’avvicina all’associazione cattolica Gioventù Studentesca; vota con scarso entusiasmo l’occupazione della scuola; distribuisce volantini e partecipa ad assemblee e manifestazioni, s’innamora di una compagna di Lotta Continua. Lavora come intervistatore e traduttore.  Vive con Bianca, con altri amici e il «padre buono» di Bianca. Fa dei viaggi da turista in Vietnam, Messico e Laos. Partecipa alla  carovana  per la pace a Sarajevo. In breve, il libro narra di come è diventato adulto un bambino nato in Italia nel 1950, vissuto tra Milano, Reggio Emilia e Brindisi. E  frantuma questa vicenda in 14 capitoli.

Lettore  Come? Frantuma?

Samizdat  Sì, Parizzi ha scelto una forma, che richiama le scritture sperimentali degli anni ’60-’70 del Novecento. Non narra  i fatti in modo cronologico e lineare, non «segue il calendario», ma  procede per salti temporali e spaziali, a zapping.[2] È una frantumazione ordinata,  ben pensata, solo in  apparenza neoavanguardista. È facile, infatti, cogliere il senso dei singoli frammenti e dell’insieme. L’autore non vuole scandalizzare o sfidare il lettore, ma spiazzarlo appena un poco e sedurlo affabilmente.

Lettore  Ti è parso che la forma non aiuti a capire meglio la storia, il contenuto?

Samizdat La vedo un po’ in contrasto con la vicenda stessa. La formazione di questo «lui» è  quasi banale: innamoramento fanciullesco; vita familiare e parentale chiusa in sé,  da ceto medio  e senza scossoni;  rottura non traumatica con il padre fascista; ribellione al mondo cattolico che non lo porta a posizioni “estremistiche”. L’umanità intravista nei viaggi, da turista, è e resta opaca e lontana. C’è ben poco di romanzesco e molto autobiografismo appena velato. C’è un saggismo che accenna a problemi enormi ma non risponde. Le domande “metanarrative” sono troppo secche e le risposte elusive[3] o rimandate. Sono perplesso.  Parizzi avvicina la mano a molti fuochi, ma non si scotta mai. Forse ci gioca con grande abilità e leggerezza postmoderna.

Lettore Mah, concedo che la vicenda del protagonista sia normale  e somiglia a quella di tanti suoi coetanei o quasi. Ma questo a me pare un vantaggio: così sono tanti  quelli che possono  seguire i ricordi e i pensieri,  sinceri o appena velati, che Parizzi ha disseminato  in più di 200 pagine. E confrontarli coi propri. I suoi destinatari sono quelli come me, gente cresciuta in ambienti cattolici tradizionali, conservatori e forse reazionari e che si  è formata nella scuola di massa democratica.  Non sono certo gli “estremisti”, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te. Scherzo, eh!

Samizdat Scherza pure, ma considera il titolo. Lo trovo sfacciatamente seduttivo nella sua adesione al narcisismo dei mass media e dei social.  È come se dicesse: non ho nessuna esitazione a parlare di io. Basta con i noi (cattolici, socialisti, comunisti, anarchici, patriottici, sovranisti, ecc.). E basta pure con la psicanalisi che, da Freud a Lacan, ha spaccato il capello in quattro sulla crisi dell’io.  Io il mio io me lo tengo ben stretto.

 Lettore  Parizzi, a differenza di te, si è riposizionato da tempo sul presente. Ti ricordi la sua rivista? Si chiamava «Qui. Appunti dal presente».  Non si può rimanere a rovistare il passato o le «buone rovine» fino ai  nostri ultimi anni di vita, orsù!  Lui il suo passato l’ha digerito. Ed è falso che si sia  appiattito sulle mode o sul  vocio di massa. Anzi, io ho interpretato il titolo come un segnale di sincerità,  modestia e onestà. Piuttosto,  è come se avesse detto: vi parlo di quello che ho vissuto, pensato e immaginato; e solo di quello; e a modo mio. E poi scrivere il romanzo di formazione di un ragazzo “normale” in tempi di spettacolarizzare e di esaltazione a tutti i costi dei bordeline, non guasta.

Samizdat Vedi che con questo io così in primo piano – in fondo un io “liberale” perché il presupposto del libro è che «tutti sono io»[4] soltanto o soprattutto io – Parizzi sottovaluta non solo il noi d’allora, della nostra giovinezza, ma il problema del  noi di oggi. Che manca e si sentono le  pesanti conseguenze.

Lettore  Un io “liberale” quello di Parizzi? Esagerato! Tendi sempre a politicizzare troppo e tutto. A me pare bello anche se non originale che il protagonista sia un io bambino stupefatto, incantato, curioso di fronte al mondo, attento alle sensazioni. Non vedi come intuisce e soffre dei drammi familiari e parentali? In mezzo a  quella piccola borghesia o ceto medio urbanizzato  di una Italia avviata al boom economico matura e si autonomizza dagli adulti. E lo fa  con quieta dissimulazione, senza scenate. Allo stesso modo attraversa i turbamenti sessuali dell’adolescenza. Infine a me piace davvero – particolare storico e più che generazionale oggi non trascurabile – una grande passione per la lettura, che in quegli anni era quasi l’unico sfogo concesso a bambini solitari.

Samizdat  Anche a me questa parte di «Io» ha fatto  simpatia.  Ho pensato al fanciullino, a Peter Pan, al puer aeternus.

Lettore   Ma no! In «Io» non c’è  mai abbandono alla pura immaginazione o al fiabesco o alle oscurità misteriche. Parizzi procede per supposizioni ben meditate. Sui ricordi non ci ricama, li riporta con oggettività e realismo. Ed usa un linguaggio preciso, colloquiale, sciolto, secco, vicino al parlato e senza ideologismi.  E le sue sono sempre annotazioni sintetiche.  È lontanissimo dalle descrizioni sociologiche strabordanti della «Scuola cattolica» di Edoardo Albinati o dagli amarcord sentimentalistici.

Samizdat Ma che tipo di maturazione  ha questo io bambino? A me pare che passi  dall’educazione cattolica ad un generico progressismo utopistico. E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra  Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. C’è un pregiudizio in «Io» (mai esplicitato o teorizzato, anzi direi occultato proprio dalla mimesi seducente del parlato): che un bambino sia  più naturale e autentico dei “grandi”. In fondo Parizzi si rifà a Rousseau e a Schiller. Da lì trae l’ideale etico ed estetico di rapporti umani dignitosi per sé e per tutti; dell’amicizia;  di un fare sì, ma mai ben definito, che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dell’intera umanità che abita la terra.  Belle parole. Questo ideale etico-estetico e magari oggi anche ecologico è senza base politica e sociale, senza noi (mi ripeto). Nel frattempo i conflitti, le guerre crescono.

Lettore Sempre dove  il dente ti duole torni, eh! Ogni sentimento o pensiero per  te, se non si traduce in politica, è vano. E poi dici  di non essere inchiodato a quel passato, quando vi  illudevate che  il noi politico dovesse essere “al posto di comando”!

Samizdat –  Stiamo  al libro. A un certo punto in «Io» si dice che «al mondo c’è da proteggere i bambini».[5] L’autore e il narratore, però, non si chiedono mai chi li può proteggere e se sia possibile proteggerli, se permangono e si acutizzano   guerre e conflitti sociali. Come fanno i bambini a crescere bene in una macelleria mondiale del genere? Mi accusi di nostalgia della nostra giovinezza, ma si può  anche restare ancorati al desiderio infantile dell’ «io non voglio diventare grande» e farne un principio.[6] 

Lettore  quando Parizzi narra del bambino irakeno che, alla caduta di Saddam, si ritrova in  «un gruppo di uomini che, tutti insieme, uscivano dalla piazza gridando» e corre e li raggiunge e si toglie una scarpa e inizia a «picchiare in testa  Saddam», costruisce una immagine potente che  spinge all’utopia.

 Samizdat  Quanti equivoci contiene quell’immagine! Estratta dalla storia tremenda della dissoluzione dell’Irak, è pura estetica, spettacolo. Tranquillizza la buona coscienza degli europei. I bambini non fanno la storia e anzi ne sono di continuo le vittime. La storia la fanno gli adulti; e in modi sempre terribili e a volte orrendi.   E quella è una statua, non Saddam! E l’hanno buttata giù proprio i “grandi” (i “Grandi della terra”) imbastendo una guerra sanguinosa e turpe nelle sue false motivazioni.

Lettore Ma Parizzi non sostiene che il bambino, picchiando il pezzo di statua con la scarpa, partecipa alla storia dei grandi. E, comunque, siamo un po’ noi quel bambino e l’immagine fa riflettere, scalda i nostri cuori.

Samizdat  Ma non ci aiuta a ragionare. Non so cosa pensasse il bambino reale, ma è certo che confondeva realtà e immaginazione. Or un travisamento del genere in lui posso sopportarlo. Ma perché l’autore o il narratore non riprende né commenta  né interpreta la scena da adulto e ci fa sapere cosa ne pensa lui?  Forse lui pure  si  è  lasciato attrarre dal lato estetico dell’episodio trasmesso  alla TV.   E poi – lo si capisce da  altri  brani saggistici di «Io» – legge i fatti soltanto sul piano morale. E ricorre alle categorie pre-machiavelliche di innocenza e di male.

Lettore Ma  è un romanzo. Non vedi il sottotitolo di «Io»?

Samizdat  Lo è? Fino a che punto?  Io riconosco che Parizzi, pur lavorando su frammenti eterogenei nel tempo e nello spazio, non ha rinunciato alla ricerca di una visione unitaria. Da romanzo, appunto. E trovo i vari brani collegati tra loro. Mi chiedo, però, perché così brevi le domande e spesso così elusive le telegrafiche risposte della parte “metanarrativa”, che dovrebbero funzionare da commento.

Lettore  Io, invece, ho trovate molto belle anche queste parti. Specie dal punto di vista della forma.  Mi paiono antifone o intervalli riflessivi ironici e spiazzanti. O quasi ipnotici refrain. O contrappunti a quanto appena detto dal narratore. O domande incalzanti da intervistatore. E in questo inseguirsi e riallacciarsi e ripetersi delle interrogazioni, oltre alla volontà di tener  desta l’attenzione del lettore, ci trovo proprio la ricerca di ricomposizione dei frammenti e di una  continuità tra tempi e spazi diversi. Da romanzo, dunque. Nella stessa direzione vanno anche le analogie che Parizzi  suggerisce in modi sempre allusivi. Ad esempio, tra una casa povera di  Napoli e  una casa di legno su palafitte in Thailandia. O tra il pittore Adriano e un anonimo pittore vietnamita. O tra l’elemosina negata al bambino a un semaforo di Milano e la vendita contrattata delle noccioline a Hué in Vietnam.

Samizdat Prevale troppo la quotidianità della vita familiare e parentale. Spesso la più delicata o persino edulcorata. Il quotidiano  rappacifica e incoraggia però la frantumazione di un discorso; e vela i punti drammatici dell’esistenza,  le falle, a volte le tragedie.

Lettore  E dalli con la frantumazione! Eppure hai detto tu stesso che è controllata.  Nessun flusso disordinato di coscienza o incoscienza, cavolo! Ti ricordi il punto in cui Parizzi parla di un sarto  bresciano, che ama e sa fare bene il suo lavoro, perché lo conosce bene? Ecco, secondo me questo sarto raffigura emblematicamente la sua scrittura. Che ha un’artigianalità ammirevole e non si lascia turbare dalla concorrenza della odierna e invadente comunicazione  massificata, ma con sapienza, anche monocorde,  cuce insieme e bene per tutte le 200 pagine i vari brani-pezzi di stoffa.

Samizdat  C’è ancora un’altra cosa che non mi ha convinto: la storia più vasta  entra soltanto nelle poche tracce  depositatesi nella vita dei familiari o  nella memoria, per forza di cose confusa e mitizzante, del protagonista-bimbo. Capisco che è nel mito che il bambino vive i primi  conflitti tra i suoi desideri (emblematico il salire sulla spianata)  e la realtà (Roberta che si rifiuta di seguirlo). Ma quando Parizzi deve passare dal noi ristretto e concreto – familiare o parentale o strettamente amicale –   al noi dei più, degli “estranei” o a un noi più astratto e universale (diciamo pure:  con ambigue pretese di universalità), esita e si arresta. Proprio nel punto, dunque, in cui il narratore  dovrebbe calarsi nel romanzo. E cioè dar conto dei conflitti maggiori del noi storico collettivo,  al quale per un po’ la sua generazione attorno al ’68  pur partecipò. Ti pare poco non rendere conto di quel tentativo  di re-immaginare addirittura  una “rivoluzione”, una rottura coi noi preesistenti e soffocanti?

Lettore   Mi vuoi dire che, quando si scrive un romanzo, l’autore è obbligato a occuparsi  di universale o di storia “vasta”? E chi lo dice?

 Samizdat  Nessun obbligo. Noto, però, che in «Io»  quel noi del ’68 è rappresentato in maniera sfocata. Cosa dicono, infatti, quei noi che fummo? Cose vaghe, che l’io/lui narrante (e in fondo l’autore, Parizzi) non capisce e poi neppure più ha tentato di capire. Prima avevamo un bambino,  poi abbiamo avuto un giovane. Entrambi  non si sono resi conto di cosa succedeva o vivevano. D’accordo. Chi può dire di avere  il faro della coscienza a disposizione in ogni  periodo della sua esistenza? Nessuno. Ora nel ’68  noi vediamo questo «lui» che distribuisce volantini, anche se «non ha molta voglia»; fa con altri studenti ripetizioni private ai figli degli operai; ha la spinta  a fondare una rivista che richiederebbe un lavoro in gruppo; è attratto da una  ragazza di Lotta Continua che gli piace. Poi va in vacanza e tutto sembra svanire nel nulla. Ancora d’accordo. Ma nella scrittura, a distanza di tanto tempo,  cosa dobbiamo pretendere dallo scrittore,  non più bambino  né più  giovane?

Lettore E che vorresti? Un bel poema alla Majakóvskij che esalti il coraggio dei militanti rivoluzionari di professione? Svegliati! Tanta gente ha vissuto quegli anni   con leggerezza, divertendosi. Erano pochi i seriosi o i fanatici.

Samizdat  Ma vuoi capire che  in «Io» non c’è una interrogazione sulle dottrine politiche o sulle ideologie che appassionarono o avvelenarono la mente di migliaia di operai, impiegati, studenti? E che il narratore guardava (per me scandalosamente!) a Proudhon non a Marx.? E che della politica marxista riecheggia slogan stereotipati? E che resta bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia?

Lettore-  Dai,  fra poco loaccuserai di rimozione o di tradimento piccolo borghese!

Samizdat – No, questo no.[11] Sono fesserie. E non  pretendo neppure che arrivasse a parlare delle tragedie degli anni Settanta fino all’assassinio di Moro. Ma mi delude in «Io» l’insistenza sull’infanzia.  Mi pare una scelta fondamentale, ma difensiva ed elusiva. Ordina tutta la narrazione, selezionando gli episodi in modo che alla fine tanto spazio  viene dato al familiare e parentale  e meno al pubblico-politico. Questo è il messaggio di fondo del libro per me.

 Lettore  Non condivido la tua opinione. E alla tua età dovresti aver chiaro anche tu cosa resta delle vostre biografie; e cosa di esse debba o possa farsi libro o romanzo. Parizzi con «Io» ha dato la sua risposta. Per lui resta un io che si sente in relazione con altri io, ipotizzati come a sé simili (o quasi).

Samizdat  Sì, ma è una relazione in forma emotiva o nella «forma oceanica»,  di cui parlarono Freud e Rolland agli inizi del Novecento.

Lettore  Per me invece dice una grossa verità: «i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero lo sentono vero, magari, ma non proprio reale come quello che possono vedere, udire, toccare.[…]. Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo».[12]    Ma, tanto per capirci fino in fondo, a te di quella storia cosa resta?

Samizdat Resta un io-noi sconfitto, forse dilaniato da fantasmi (gli  spettri di Marx?).  Questo io-noi sa che la polis non c’è (o non c’è mai stata) e che in questa epoca un altro noi non è definibile. Né la possibilità di una sua costruzione  è dimostrabile. Resta però che un altro noi è comunque necessario.

Lettore E cosa  ha di  tanto diverso il tuo io-noi dall’io di Parizzi? In entrambi i casi il noi di allora non c’è più e non lo puoi resuscitare!

Samizdat  In «Io» c’è una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai  più un noi.  Vanno in altra direzione.

Lettore E sarebbe una prospettiva così grave?

Samizdat Sì. Questi io non  sono pieni, maturi, adulti. Restano degli io-bambini, troppo bambini. Pochi giorni fa leggevo un’intervista a Nancy, morto di recente. Concordo con lui: un io si realizza solo in relazione al noi. Dev’essere un io-noi. Deve riconoscersi in una relazione reale e conflittuale con altri noi (o, forse, con altri  io-noi) avversari o nemici.  Solo così potrà partecipare responsabilmente ai conflitti della storia. Se questo noi oggi manca, è mancante anche l’io. (E la vecchia psicanalisi fa ancora bene a ricordarci che tutti questi io non sono più  “padroni in casa propria”, cioè pieni, maturi, adulti).

Lettore Quella di Parizzi sarà una visione “liberale”, ma nel suo empirismo è più realistica della tua. E poi non  è neppure così sicuro che Parizzi  abbia rinunciato a  pensare e a costruire un altro  noi. Il finale di «Io» resta indefinito e aperto: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».[13] Lo  sai forse tu?

Samizdat No.  Senza campi e colline e mari di fronte, ma davanti a questi palazzoni di periferia, non so dire o mostrare cosa  ci sarà.  Ma, dopo il composita solvatur che la nostra generazione ha vissuto, tengo fermo all’esigenza del noi: «contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica».[14]

Lettore-  Ah, sì?  Hai scommesso su un altro noi? Fa’ pure, ma a me sembri fuori epoca. Basta vedere  cosa accade del noi nel tuo gruppo di Poliscritture! Buona fortuna, comunque.

[1] SUNTO VELOCE DEI CAPITOLI

1.
Casa popolare. Piedi che camminano, corrono, saltellano. Gambe che scalano il Pizzo Nero. Malghe, temporale. Rachele e Edoardo scendono prima che piova. Pioggia, nuvole. A tavola con Rachele. Claude e Claire si lasciano. Gambe che pedalano a Reggio Emilia. Sui pattini. Gambe di ragazze. La terra calpestata da miliardi di piedi di donne e uomini. Ancora Claude e Claire. Parla la ragazza Roberta e dice io. Fidanzatina. Tu sei io? Ci saliresti sul tetto del garage (17). Il cielo (17, poi ripreso a pag. 182-183). Roberta va nel palazzo dei ricchi. Il bambino che si vuol far vedere. Il fiocco azzurro per il figlio che nasce, Leandro.

2.
Appartamenti di famiglie della piccola borghesia. La “casa” povera di un vecchio in qualche vicolo di Napoli. Casa su palafitte in Thailandia. Quello accasciato e magro che in Messico abita una casa senza porta. Cosa si fa in una casa. Johnny e la sua casa di single. Lui vive da solo in una casa di ringhiera. La casa dei ricchi col marmo. La casa del grande garage (dei genitori). Nella casa fotografato coi suoi al momento della cresima. La mendicante che vorrebbe ballare. Gli amici del padre e il paese (a Samboseto di Parma). Mona, attivista egiziana, in piazza Tahrir al Cairo. Ricordi del padre e del suo amico Adamo: da bambini facevano la cacca nei campi. Freddezza dei rapporti tra  sua madre e  suo padre. [Verità e menzogna]. L’amico che lo ospita a Napoli lo porta a dormire in una casa di Bagnoli con una parete dipinta e un motto:”Quando l’uomo sarà un amico per l’uomo?”.

3.
La casa di Zita l’attrice. Adriano. Ada. Bianca con Leandro, il bambino, nel quartiere che sta cambiando (sedi di multinazionali, moda, digitale).  Ada, una sua ex fidanzata. Adriano è un amico di vent’anni più di lui, un narratore, un chiacchierone, e ha avuto il padre torturato dai tedeschi. [Un pittore a Hanoi]. Riflessioni sulla pietà e la crudeltà delle cose. Sul passato. Sulla leggerezza. Sulla malinconia. Camminare fino a stancarsi. In bicicletta per Crema. Con la carta stradale del Touring. [Che cosa ci sarà… (pag, 44) ripreso poi in altre pagine]. Johnny che gira per la città con la radiolina a transistor. Uno che studia nell’appartamento vicino. Johnny gira per la città ed è entusiasta delle novità e del presente (46) e non vuole “litigare” con il presente. Amare tutto anche la pubblicità. Tornando in bici da Crema è colto da un acquazzone. “Che cos’è il passato, Non lo so”.

4.
La sera da bambino con padre e madre e la preghiera serale. [Riflessione su innocenza e male].  Da bambino s’allaccia le scarpe al mattino e s’incanta. [Riflessioni sull’animo che non sa di storia e di politica a partire da una scena dei miliziani di Hamas che demoliscono un muro e ancora “s’incanta”]. Gioca con la sorella a fare il commerciante. [Riflessione sul contenuto di classe dei nomi: signora, donna di servizio]. Notizie su sua sorella Federica. Separazione  dei maschi dalle femmine. [Thailandia: il turista americano e la giovane thai]. Essere accolto nel gruppo dei maschi. Notizie sul fratello che si è sposato in chiesa. [Coppie che ballano, anche il vecchio balla].  Il trenino dei ballerini. [Lo scirocco]. La camera che divide con la sorella. Impara a scrivere. Impara a leggere. [il bambino che al semaforo chiede l’elemosina. Sconcerto. Rifiuto di fargli l’elemosina]. [A Hue il bambino che vende noccioline e abbassa il prezzo] [Riflessioni sui “rapporti umani”: essere guardato in faccia]. Quando si allontanerà dai genitori, parenti, dalla “casa  del grande garage”,  è per andare in strada e guardare il balcone di Roberta. Che vuol vedere senza essere visto. Immagine di lui che gattona. La prima casa di ringhiera in cui va ad abitare da solo. Vicini di casa: Nino e Cecilia da Livorno. Annotazioni su lui che esce di casa, traffico ingorgato, e lui si mette ad osservare passanti e donne ed è attirato da quella donna che incontra tutti i giovedì. Chi sono gli altri?  Uomini, donne bambini.  

5.
Parla di un Natale di quando lui era neonato e elenca i parenti. Lui che esplora il vano di una cristalliera con gli specchi dove sono conservate bottiglie di liquore.  Il mobile con il cassetto chiuso conserva i ricordi del padre fascista (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò, un libro di fotografie) (63). L’anno in cui era nato lui nascono altri amici suoi. Leandro, il bambino che ride. Ricordo del padre preoccupato e di sua madre che guarda il marito infastidita. [In viaggio per Finale ligure. Recita di Tanto gentile e tanto onesta pare]. Cena di famiglia da bambino: “Ma la focaccia col pomodoro”. Il padre in pensione e la medaglia della banca. Il padre gli ricorda che i comunisti hanno fatto morire il nonno. [Tradire.. ormai si è incamminato sulla strada del tradimento … stacco dal padre]. In pensione a Collio in montagna. Domande sul comportamento degli adulti. [Lavoro di intervistatore. Intervista a una donna]. Una casalinga (sua madre) gli prepara il sugo di pomodoro e la merenda del pomeriggio prima di guardare alla TV Rin Tin Tin. A undici- dodici anni si fa l’idea che la madre soffre e il padre è cattivo.  E lui si sente in colpa. Suoi coetanei quattordicenni ispirati dai film di James Bond fondano un’associazione: “Dall’Italia con amore”. Riunione. Un giornalista della radio registra. E lo riaccompagna a casa. Suo padre l’aggredisce, lanciandogli addosso la cesta di vimini coi giornali. Le paure della madre, quelle del padre. Taglio del soffitto di compensato di un mobile per rubare al padre le sigarette. Al liceo l’associazione cattolica Gioventù Studentesca. Il padre buono di Bianca, Giuse, che si è trasferito nello stesso palazzo dove abitano lui e Bianca. Giuse racconta del suo viaggio in Senegal e dei bambini denutriti. Sottoscrivono a loro favore. Il padrino di cresima, Adamo, buono a differenza di suo padre. E altri padri buoni di cui vorrebbe essere figlio. La prima volta che può acquistare dei mobili. Il fratello che ha fatto un viaggio in Bielorussia gli porta delle matriosche. Bambini  di Cernobyl  ospitati per qualche mese: “si dovrebbe far qualcosa al mondo, per renderlo più bello” (73). Nella casa dove vive da solo ascolta il giradischi e la Quinta di Beethoven. Un usignolo. [Laos. Canto dei galli]. Il Giuse, il padre buono, ora malato, dal medico. Ancora il ricordo del Natale da neonato: sorriso amorevole della madre, storto del padre. Si sente invaso da questa “sarabanda” di parenti. Altro che Natale: desiderio di evadere: di essere “irraggiungibile, sulla spianata del grande garage” (77). Perché quando taglia lo scomparto  chiuso che “è venuto a simboleggiare per lui la paura di suo padre e di sua madre”  sfida la paura (77). Lavavetri sulla circumvallazione a Milano, che risale la fila delle auto e dice con risentimento qualcosa. Assemblea al liceo per votare l’occupazione della scuola. Scarso entusiasmo.

6.
A Brindisi in casa dei parenti.[la domanda «Che cosa ci sarà dopo quei campi 79.., 100, 181, 195]. Nella chiesa prima di andare a messa. Il professore comunista sfoglia il libretto di preghiere che gli ha sequestrato. Roberta non lo caga. Desiderio di salire con Roberta sulla spianata. Il nonno di Brindisi: “quando si mangia si combatte con la morte”. L’elenco degli io da pag.86 a pag. 92: e la conclusione: «Ma  allora, tutti sono io? Sembra proprio di sì». Samboseto, funerali del nonno. Esita poi si mette nel gruppo dei maschi, orgoglioso di esservi ammesso. Litigi in famiglia, non dire ad “estranei”. La divisione dei ruoli: uomini al lavoro e donne casalinghe. [Altra intervista a un consulente di banca]. Messaggi di Roberta dal balcone.

7.
Buttarsi nel lavoro. Il sarto bresciano. Una contadina nella Bassa. Un giovane in tuta. Il nonno squadrista di Busseto che scappa dai partigiani(101). Ricordi sfuocati. [La memoria è il cassetto dei morti]. Discorso con amici sui nazisti terribili. «Di quelle cose non sente la realtà sino in fondo. Sono accadute prima della sua nascita, e spesso, specialmente per i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero non lo sentono davvero… Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo» (103) Il Vietnam dopo la guerra]. Sradicamento  dal paese, sorriso storto in città del padre. [L’uomo che guarda di sbieco]. [Al mondo c’è da raddrizzare i sorrisi]. Anche la panettiera ha il sorriso storto. La tabaccaia col sorriso. Considerazioni ed esempi sulla spontaneità. Suo nonno ha ucciso? Il padre e il consuocero ricordano la caduta delle bombe durante la guerra. [Hue Vietnam] Quelli che non hanno fatto niente di male.

8.
I miliardi che vivono nel mondo. Per l’unica volta (110). Accenni agli abitanti di varie città nel mondo. Ancora sui tanti che camminano sui marciapiedi. Ancora Roberta dal balcone. Immagina Roberta in cucina che apre il rubinetto o a tavola coi genitori.[Discorsi tra amici su Narciso]. Gli piace fissare il balcone di Roberta più che incontrarla. Il sarto e i suoi problemi col padrone. Roberta non ha risposto al suo invito a salire sulla spianata. Sale sul Duomo. «Che cosa c’è in alto…» (117, 129, 152, 182). Le ragazzine thailandesi gli regalano una cavalletta di bambù. Al freddo e il libro di Peguy che girava in Gioventù Studentesca. Alfredo è l’incaricato di Gioventù Studentesca che  fa da guida spirituale ai giessini di una scuola. Nella casa di Alfredo ci sono tanti libri. Su Roberta e il suo bicchier d’acqua.

9.
Suo padre a capotavola. Racconta un episodio: doveva andare al lavoro e al bar la cameriera non gli portava il cappuccino. Visita ai genitori e freddezza. Competizione tra padre e madre sulla scelta del liceo per il figlio. [Adilah marocchino e il dolore di  perdere un lavoro che piace]. Scende dalla scala a chiocciola del Duomo. L’invecchiamento dei genitori. La madre morente (126). La madre morta. Difficoltà di dialogo col padre, ora vedovo: crede che sua moglie morta sia ancora ricoverata in ospedale. Morte del padre. Mirco e il doposcuola all’oratorio. Una processione. Uno studente svogliato. Da grande pensa di fare l’insegnante. Ancora a scuola: l’associazione studentesca. Uno scaricatore di porto: una vita da cani. Il sarto parla e vorrebbe cucire un abito per questo scaricatore (133). Parla  un becchino. [Un incendio di isbe e Mitja  che parla dei poveri]. Turisti su un pullman in Vietnam: gli zaini strappati a lui e a Bianca per costringerli ad andare in un certo albergo. Rifiuto.

10.
Giornata di neve. Ricordo della madre in cucina. Da piccolo sotto il tavolo dove i grandi non vanno mai. Un capriolo sulla stradina. Tanti mondi  e in Messico  un vecchio calzolaio, ipotesi sulla sua vita da povero. Ragazze che dicono io. Da Cesare il professore di  arabo. La ragazza dell’Arci Bellezza. Bambini che giocano alla campana. [Traghetto ad Haiphong].  Viaggio sul fiume in Laos. Il ragazzo decide di voler fare il traduttore. Al convegno nazionale  del movimento studentesco a Ca Foscari. Nell’università occupata lui  è col pigiamone azzurro. Il pittore astrattista Milo. Che cosa c’è da fare al mondo? Piantare giardini (148). Roberta, segretaria in una ditta di export-import. Lucrezia l’ecologista contro lo spreco dell’acqua. Il volantino dopo che «Allende è morto» scritto per i contadini e gli operai del PCI di Calice. Roberta ha trovato la “soddisfazione” nel lavoro (152). Piera la moglie del pittore Milo si uccide (152).

11.
Brindisi la città di sua madre ai tempi della guerra. Cenni alla storia di sua madre ragazza e delle sue sorelle. La nonna che fa le orecchiette. La passeggiata nel corso di Brindisi: maschi da una parte e femmine dall’altra. Imitazione del cugino. Timidezza. I ragazzi insinuano che sia “ricchione”. Ruggero un suo amico che frequenta la biblioteca e scrive di filosofia. Specchiolla, paesino di BrIndisi [Spiaggia del Vietnam] [La casa degli zii a Specchiolla]. Ascolto della musica senza pensieri. Lui, Bianca e il bambino Leandro. A Brindisi  in giro nella periferia dove abitano braccianti e muratori.

12.
Studenti  inquieti nella scuola. “Milano Studenti”, giornale dei GS. L’amico di San Vito dei Normanni che frequenta l’università Cattolica ed entra in urto col padre.  La società è indietro rispetto all’uomo (168). La rivoluzione. [Thailandia: una donna anziana e una giovane cariche di cataste di legna sulle spalle e i turisti]. A distribuire volantini davanti ad un ITIS di Milano. Partecipa ad assemblea in piazza Leonardo. L’operaio di Lotta Continua della Pirelli Bicocca. Vorrebbe fermarsi nella chiesa di un prete giesse, ma poi prosegue e va alla manifestazione. Corteo: braccia e piedi. Liceo Parini di Milano e attacco dei poliziotti. Manifestazione bella seguita in bici. Un poliziotto dall’aria spaventata vicino alla Statale. Uno armato di pistola. Lui si butta dietro un’auto.  I discorsi che si fanno: reificazione, immaginazione al potere, vogliamo tutto. Il dovere di volantinare alla Brion Vega. Non ha voglia di entrare a fare le ripetizioni ai figli degli operai (174). Cosa vuol fare? Una rivista. Miriam la compagna di Lotta Continua che gli piace. Fine delle lezioni ai figli degli operai. Vacanze.

13.
Zia Rosaria che l’accompagna a scuola in prima elementare. [Prima lezione d’italiano agli immigrati a Baggio]. Su una ringhiera davanti alla scuola elementare da ragazzo. Il carretto del venditore di castagne. Le strisce pedonali: era obbligatorio passarci. L’edificio massiccio della scuola elementare. Cosa ci sarà dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto? Descrizione di una folla: volti ossuti, etc. (181) [Hanoi]. Una festa ed esitazione a baciare una ragazza. Cosa c’è in alto e da lì cosa si vede: il bambino irakeno che picchia la scarpa sulla testa della statua di Saddam abbattuta e trascinata per strada. Parla il bambino. I mitra degli americani e il gioco da ragazzi di mitragliare [Huè, Vietnam: il figlio di un vietnamita che ha combattuto gli americani]. Ancora il bimbo  irakeno che racconta. Un amico d’infanzia figlio di un amico del padre. Timido lui e sfacciato l’altro. A confronto. Con l’amico sul terrazzo gioca a fare il processo di Perry Mason. Il padre mai andato in villeggiatura. Perché lascia la moglie e i figli in vacanze? La carovana  per la pace a Sarajevo. Il pullman coi partecipanti e gli olandesi  che  scambiano un funerale per una festa di matrimonio. Volevo vedere la guerra. Guido Puletti ucciso mentre consegnava aiuti ai profughi.

14.
Reggio Emilia scuola media. La lavagna verde. Spia con il binocolo e viene rimproverato.  “Non voglio diventare grande” dice Leandro. La foto della madre di lui in bici. In bici con gli amici e il vecchio che sbraita perché un figlio o nipote è stato investito da una bicicletta ed è morto. I vecchi di Reggio Emilia col garofano rosso. Con le maestre a teatro a vedere  «Canto di Natale» di Dickens. Maria Rosa malata di cancro dove i suoi vanno a mangiare a Natale. Greta che sciava ha un cancro ed è andata da lui e Bianca  in vacanza al mare.  Vito, il siciliano venuto dalle Madonie e che da ragazzo è stato morso da un’asina, cura capre e galline. [Il silenzio della montagna]. Una folla che si è riunita e gente incerta se andare e non andare “là oltre i campi, oltre la collina” (203). Una signora che spinge un passeggino e ancora un bimbo che dorme e succhia il ciuccio.

[2] Abati in una recensione su  “il manifesto”: ««L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa.» (qui)

[3] Pag. 47: «Che cos’è il passato? Non lo so.»

[4] Pag. 92.

[5] Pag. 183.

[6] Pag. 188 ripreso a pag. 194.

[7] Pag. 174.

[8]  Pag. 174.

[9] Pag. 175.

[10] Pag. 175.

[11] Anche se trovo sintomatico che l’unico cenno  a Fortini, che di quei “destini generali” sessantotteschi resta un simbolo, anche a Parizzi ben noto, in «Io» compaia solo per un episodio davvero minimo: «Ma lui, anche se lavora al computer tutto il giorno, il cellulare ce l’ha, e anche la smart tv eccetera, si annoia. Di più, si irrita. E, dopo averlo ascoltato un po’, finisce col rispondergli con la domanda che un poeta, un intellettuale che una volta andava ogni tanto a trovare, aveva scritto a matita sul margine di una rivista degli anni Sessanta che gli aveva prestato, accanto a un articolo che parlava entusiasta di autostrade e utilitarie: “In che senso un albero sarebbe più vecchio di una macchina?” (pag. 46).

[12] Pag. 103.

[13] Pag. 192.

[14] Mi aveva colpito la riflessione del filosofo francese Simondon, che non conoscevo e mi è arrivata attraverso la mediazione dell’articolo di  Paolo Virno apparso in «Derive Approdi» ( pag. 54, n.21,  primavera 2002). Da lì ho  preso questo stralcio.  Chiarisce ciò che a me pare  mancare in «Io» di Parizzi,  ma anche a me che ancora tento di una rivista-noi  malgrado “la polis che non c’e’”.

Questo saluto così e questo segno: siediti!

Ricordando Ruth Leiser

di Ennio Abate e Franca Gianoli Grandinetti

Questa intervista del 2003 era sul primo sito di Poliscritture, purtroppo non più accessibile, la ripropongo [E. A.]

Vado a trovare un’amica, Franca Gianoli Grandinetti, per parlare con lei di Ruth Leiser morta  il 14 marzo 2003. Non posso dire di aver conosciuto Ruth. L’ho vista e ho scambiato con lei qualche parola poche volte: una prima, intorno al 1988, mentre ero a colloquio con Franco Fortini, suo marito, nella loro casa di Via Legnano 28 a Milano; altre in riunioni del Centro studi a lui intitolato e a Fiesole, dove arrivò con dei quadri di Fortini (era in preparazione la mostra dei suoi disegni e dipinti che si tenne poi a Siena nel novembre 2001). Franca invece so che l’ha frequentata per anni e le è stata vicina fino agli ultimi giorni a casa e più brevemente in ospedale.

L’occasione di questo nostro colloquio su Ruth è rituale: vogliamo dedicarle un ricordo su INOLTRE. Senza pretese, amichevole, possibilmente non banale e chiuso ai pettegolezzi; e magari cercando anche di evitare lo stereotipo della “moglie del  grande scrittore”. Non ci sono troppi rischi in questa direzione. Penso, infatti, alla tenace riservatezza con cui Ruth ha curato, enza strafare, a memoria del marito, mettendo a disposizione del Centro Studi a Siena e della rivista L’ospite ingrato documenti, inediti, informazioni preziose; e, per contrasto, all’eclisse subita dall’immagine di Fortini dopo la sua morte.

Non parlare della «moglie di Franco Fortini». Ma ha senso? Per lungo tempo il mondodi lei ha coinciso con quello del marito: ideologicamente, politicamente e moralmente. Ed è stata innanzitutto sua moglie, anche se non soltanto “ moglie”, ma traduttrice, madre, terapeuta, compagna. È il lavoro di terapeuta che ha fatto nascere l’amicizia fra Franca e Ruth; e quando  comincia a parlare di lei, Franca sottolinea subito proprio la sua discrezione di moglie “classica” e contemporaneamente autonoma[1].  Autonomia di moglie, non di single, dunque:

 Ho conosciuto Ruth molto tempo dopo aver conosciuto Franco. Lui lo incontravo dal 1946 all’ Avanti!. Era appena tornato dalla Svizzera. C’erano riunioni con Nenni. Allora anch’io ero socialista. Ruth avrei potuto incontrarla già a quei tempi, in quest’ambito politico. Invece non capitò. Lei esercitava – seppi dopo –  un lavoro che aveva a che fare con la ginnastica e il training autogeno. Fu solo intorno alla metà degli anni Settanta, quando persi mio padre, che entrai in contatto con lei. Ero molto giù e  una comune amica mi disse: «Perché non vai da Ruth Leiser, ti troverai bene». Ho telefonato. Mi ha risposto Franco. Ogni tanto ci sentivamo. Tempo prima era stato anche gentile con me, quando in un momento difficile io avevo perso il lavoro e cercavo un aiuto. Ma allora anche per lui era dura. Era appena venuto via dall’Olivetti. «Sarà l’occasione che ci vediamo» gli dissi al telefono «perché ho sentito che tua moglie fa queste cose meravigliose…».

Quindi vado per la prima volta da questa signora, che si presenta bellissima[2] (era bella ancora adesso che erano gli ultimi momenti) e molto gentile. Abbiamo fatto subito amicizia. Sai, sono quei rapporti che vanno subito bene. Mi ha detto: diamoci del tu e così via…

Le sedute di training erano individuali. Ci sono alcuni movimenti di carattere ginnico che ti conducono a un rilassamento. La persona che gestisce  ti fa sdraiare, ti dice alcune cose, ti  spinge ad immaginare. So che ci sono persone che si addormentano anche. A me non è mai  successo. Poi, quando finiva la lezione (chiamiamola così…), Ruth m’invitava sempre a prendere il the in cucina. Era il the  verde e ho imparato a prenderlo da lei. Prima conoscevo solo  il volgarissimo the, che si comprava tutti in quegli anni. Ricordo anche che in casa c’era la figlia che studiava violino e dopo un paio di volte me l’ha presentata.  Io ho purtroppo una voce alta. Ho fatto l’insegnante di lingue e, per farmi sentire bene dagli studenti, mi sono abituata a tenere alto il tono di voce. E la figlia ad un certo momento dice: «Ah, quella tua amica dalla voce squillante…». La parola «squillante» mi fece rimanere  un po’così, la vedevo  in negativo.

So in partenza che un’amicizia fra donne è un continente  che non sveleranno mai. Quanto mi dirà Franca su Ruth e sulla loro amicizia  sarà una piccola parte di un vissuto che suppongo più complesso e ricco di sfumature. Ci saranno aspetti più  delicati e fuggevoli che non affioreranno neppure nel nostro colloquio. La memoria si bloccherà automaticamente. (Già la voce della Franca s’abbassa, quando spunta nelle sue parole la figuradi Livia, la figlia adottiva di Ruth e Franco). Non importa. Non si deve saper tutto delle persone a cui vogliamo bene o che semplicemente stimiamo. Immediatamente nella rievocazione di Franca emerge questo rapporto individuale di aiuto psicologico e corporeo. Franca era angosciata dalla morte recente di suo  padre. Ruth l’accoglie, si fa carico della sua ansia, le fa posto nel suo mondo: la stanza dove svolgeva il suo lavoro di terapeuta, ma anche la cucina che è luogo per eccellenza femminile. L’affascina con la sua bellezza, con la semplicità e franchezza dei modi («diamoci del tu»). Le fa intravedere  anche un altro stile di vita, abitudini di un altro paese, la Svizzera, una realtà  ancora a parte rispetto all’Italia, meno massificata. Il the verde, sottolinea Franca,  era allora poco diffuso, ma la stessa terapia del training autogeno era rara in Italia.  Hanno poi conversato (per quanti anni!). In quest’amicizia tra donne si  tessono parole. Di tanto in tanto s’inserisce Fortini stesso, il marito, il poeta, lo scrittore. Il tono cambia (dalla musica da camera alla sinfonia?):

 E dopo un po’, se c’era a Milano, arrivava Franco. Allora la conversazione  si faceva generale. Alcune volte era un vero piacere. Ad esempio, una volta lui tradusse il Lycidas  di Milton. Lo tradusse magnificamente e volle che glielo leggessi in inglese, perché voleva risentire dal vivo i suoni, il ritmo  dei versi. E quello è stato un momento per me  quasi magico. Perché dopo averlo letto a scuola in inglese e riapprezzato all’università, sentire una traduzione fatta così bene mi ha dato davvero una grande gioia intellettuale… Questo succedeva  quando Franco era a Milano, perché spesso per il suo incarico era a Siena, all’università.

Ma torniamo a Ruth. Dove aveva imparato il training?

 In Svizzera e mi aveva anche detto da chi, una persona molto valida. Adesso non ricordo il nome. Allora, a Milano, non era ancora una terapia di moda. Erano  poche persone a conoscerla. Era come per l’agopuntura. I primi tempi a esercitare la professione erano in quattro in tutta Milano, ed erano italiani. Poi c’è stata l’immigrazione anche di terapeuti cinesi. Con Ruth l’amicizia è diventata subito una cosa bellissima.

Col tempo l’amicizia dei primi tempi si è trasformata in confidenza. In certi momenti Ruth, la terapeuta, per il difficile rapporto con Livia, la figlia, ha a sua volta avuto bisogno dell’ascolto  di Franca, che era stata fino a quel momento la sua paziente. Questo groppo durerà anni e si complicherà. Franca giustamente non vuole parlarne per non tradire la fiducia di Ruth e di Franco. Io pure penso sia giusto rimandare la questione a qualche serio biografo di Fortini e non concedere nulla al revisionismo storiografico imperante, che riduce gli approfondimenti a piccoli scandali paraletterari. Mi faccio perciò dire di cos’era fatta la loro amicizia. Era fatta di «piccole cose», di riti quotidiani o stagionali, di scambi di cortesie e di aiuti:

Lei veniva qui da noi, ci si trovava spesso e ci invitava a cena anche a casa sua. In vacanza no. Una volta sola io sono andata su, a quella villa che loro avevano sopra Bocca di Magra e per una ragione concretissima.  Io ed Eugenio [marito di Franca] tornavamo dalle nostre vacanze in Calabria. La loro auto aveva  avuto un piccolo incidente, era rimasta ferma sulla strada e lei doveva andarla a recuperare. Allora l’ho accompagnata. E poi abbiamo dormito lì e ci hanno portato a mangiare in certi posti dove si stava davvero bene.  Siamo andati anche a vedere Monte Marcello.

A Milano invece la frequentazione è stata più intensa e ha riguardato sempre quelle che io chiamo «piccole cose». Ad esempio il cucinare. Sì, lei si era adeguata alla cucina italiana. Immaginati, con un toscano poi!  Ho in mente come faceva la salsa. La faceva durante le vacanze, lì al paese e poi la portava qua, a Milano. Era un’abitudine tipicamente mediterranea e lei l’aveva adottata.

Poi, quando Franco andava a Siena, si portava dietro 4-5 di queste salse. Sai che stare in albergo a Siena era ed è carissimo. Lui andava in un posto un po’ fuori della città, un posto molto bello, dove dormiva pagando  un prezzo decente. Però si doveva cucinare, almeno a sera. Magari a mezzogiorno se ne andava alla mensa universitaria.

In casa poi Ruth teneva moltissimo all’ordine. In questo era proprio svizzera.  Anche ultimamente le cose dovevano essere a loro posto. Avevo ammirato  queste sue bellissime pentole in cucina; e c’erano anche dei pentolini che negli ultimi tempi dovevo prendere per cucinarle alle sette di sera,   quando cenava. E sono stata anche sgridata da lei, perché una volta non avevo messo  le pentole nel posto giusto. E poi ci teneva ai fiori.   Aveva una fioriera di ciclamini sul davanzale. L’aveva coperta con fogli di plastica e ogni volta dovevo controllare  se c’era l’acqua. Ci teneva moltissimo.  Non l’avresti detto. Mi ha stupito, anche se so che ogni persona, pure un uomo, può amare i fiori,  goderseli e avere il piacere di curarli.

Ruth   per me era  una donna completa e attenta a certi riti minimi. Noi, ad esempio, quando andiamo in Calabria, troviamo un sacco di alloro. Però lei ci doveva portare l’alloro dalla Liguria. Non ce lo portavamo da giù, perché pensavamo che si potesse offendere. Ci teneva moltissimo a donarci il suo alloro della Liguria. E noi le davamo in cambio l’origano. Lei l’aspettava, perché diceva che era più profumato di quello che nasceva lì in Liguria. Sentire Ruth  che raccontava di tutte le personalità che incontravano Franco era interessante. Ma, in generale, parlare con lei era un  arricchimento continuo. Diceva sempre delle cose che servivano. Moltissime sono state le letture che ho fatto spinta dai suoi suggerimenti. Ad esempio il libro abbastanza recente di John Cooley, Una guerra empia, sulla guerra in Afghanistan. E t’accorgevi di quanto gli altri la stimavano, perché ad un  bel momento si scopriva cos’era Ruth, chi era veramente…

L’ambiente di  vita di Ruth e Franco non è stato molto comune. Circolavano  attorno a loro personaggi diventati importanti per la politica e la cultura dell’Italia del secondo Novecento.  Franca ne parla tradendo il fascino che questi racconti di Ruth le procuravano. Ma la singolarità di Ruth non  pare appannata o deformata dall’ambiente borghese e intellettuale in cui si muovevano i Fortini. «Ad un bel momento si scopriva cos’era la Ruth.. chi era veramente», dice Franca. Chi era Ruth veramente? Cosa la distingueva dal marito, dall’ambiente  delle amicizie o delle conoscenze che la fama di lui le faceva roteare attorno? Franca si muove per approssimazioni:

 Non so. Su il manifesto hanno ricordato Ruth con  due articoli. Mi pare che quello del palestinese Ali Rashid, che l’ha definita «nemica implacabile della disonestà intellettuale», l’ha capita a fondo. La famiglia da cui veniva era severa e so che era stata  educata molto rigidamente e sapeva  controllare le emozioni. A proposito dell’educazione, mi  viene in mente un piccolo episodio recente.  Quando negli ultimi tempi, noi amiche si andava a casa a darle una mano, io le dicevo: «Ruth, perché non mangi mai il pesce? Ti farebbe bene. Non è possibile che tu mangi solo verdura o quella bistecchina, quella roba lì…». E lei: «No, in casa mia non si mangiava il pesce, perché a mio padre non piaceva». Ma dico: «Come, a Bienne (lei era nativa di Bienne), una città bellissima che ha anche un lago vicino così pulito!». «No»  mi ripeté «siccome a mio padre non piaceva, il pesce non  entrava in casa e io non mi sono mai abituata a mangiarne».

Era una donna che «sapeva controllare le emozioni». Ecco il primo elemento di un possibile ritratto di Ruth, penso. È un dato  che sembra avvicinarla alla personalità marito. Ma quello di un uomo è lo stesso tipo di controllo che sa esercitare una donna? Quello di lei lo immagino più pacato. Fortini ha invece spesso dichiarato quanta fatica gli costasse controllarsi, e come fosse per lui un obbiettivo che gli sfuggiva, quasi un ideale. Un bel contrasto fra mondo protestante e mondo latino-cattolico? Mi piace pensare a Ruth come una donna dell’Europa del nord, educata in famiglia ad uno stile di vita  severo, patriarcale, d’altri tempi. Ma forse si tratta di fantasmi derivati da letture storiche. Ruth era una donna moderna e intraprendente, aveva potuto studiare e studiare lingue:

 Gli studi lei li aveva fatti  al liceo di Zurigo. Non so se poi avesse completato un corso universitario vero  e proprio. All’inizio la sua attività professionale era quella di traduttrice. Conosceva benissimo anche il russo. Conosceva cinque lingue, chiaro: tedesco, italiano e francese, perché si era formata in Svizzera. E poi: inglese e russo. In Svizzera non faceva la traduttrice. È venuta via abbastanza presto. Era del 1923. S’è sposata giovanissima e nel 45’-‘46 era già in Italia. In uno dei suoi scritti Franco ha sottolineato che Ruth aveva voluto seguirlo anche nell’Italia distrutta dalla guerra. Aveva cominciato a lavorare come traduttrice in Italia con delle persone che avevano una specie di agenzia. E negli ultimi tempi ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere questa simpaticissima signora, il cui marito fa questi lavori. Ruth mi  disse: «Io ho lavorato molto con Mariesa ai tempi…».

Era una donna laboriosa  e discreta, che alimentava la ricerca del marito ma non competeva con lui sul campo letterario che egli s’era scelto né viveva dei riflessi della sua notorietà:

Il lavoro di traduttore di Franco deve moltissimo a Ruth. Penso che parecchia  roba sia stata fatta proprio da lei. Poi Franco rivedeva, rimaneggiava, rendeva poetica la parola. Ma il grosso del lavoro, quello che si dice «di base», lo faceva Ruth. Forse l’italiano all’inizio era la lingua che meno conosceva, ma la sua esperienza delle altre è stata preziosa per Franco. Poi lei ha imparato anche l’italiano alla perfezione. In uno di questi ultimi giorni mi fece leggere una sua lettera. Le dico: «Ruth, ti sei impossessata così bene dell’italiano e ci vedo l’impronta di Franco». E lei ha ammesso: «Sì, hai ragione…». Una come lei sapeva assorbire. Sono tutte piccole cose, queste. Ma ti dicono com’era Ruth.

Era pronta a ricevere e a dare con naturalezza.  E senza essere “appendice”, né “specchio”: non viveva di riflesso della fama del marito. Certo è stata sempre accanto a lui e nella sua ombra, perché non voleva mettersi in mostra. In una certa circostanza  che  preferisco non  precisare mi  disse: «Io non voglio fare come quella lì, che quando è diventata vedova, si è ostentata da tutte le parti». Lei è sempre stata di una discrezione persino troppo castigata. Non so, adesso che è morta,  come si dice,  nisi bonum.. Però lei era proprio così: te lo può confermare chiunque l’abbia conosciuta. Franco veniva invitato spesso anche all’estero. Ricordo un loro viaggio  in Canada, dove Franco andò a tenere una serie di conferenze. Ruth l’ha seguito,   ma  perché amava viaggiare. Aveva fatto tantissimi viaggi anche da sola.  Per esempio in Cina: erano andati prima insieme, lei e Franco, ma poi lei ci ritornò da sola,  perché voleva vedere certe cose che le interessavano.  Quindi,   quando lo seguiva all’estero,  contava la componente   della sua innata curiosità per il mondo e per gli altri e non il fatto di presentarsi come la moglie di…

Era una donna innamorata e legata al marito:

 Una volta mi disse: «Mi sarei fatta ammazzare per lui…». Per dire che tipo di sentimento forte aveva questa donna controllata, ecc. E sono stati per tutta la vita molto legati. Ricordo un episodio di  poco prima che Franco morisse, quando era ricoverato in ospedale a Casorate.  Lei,  Ruth, si era rotta un piede andando a trovarlo al Fatenebenefratelli, qui a Milano, dov’era stato all’inizio della malattia. Quindi non poteva camminare. Io ed Eugenio abbiamo voluto fargli una sorpresa e abbiamo portato in auto Ruth con il piede ingessato a Casorate.  Quando siamo arrivati, Franco dice: «Mi avete fatto il più grande regalo che mi si poteva fare:  mi avete portato Ruth».  C’era questo  grande affetto  fra loro. Del lavoro di Franco  mi parlava solo occasionalmente.   Dalle sue parole veniva fuori soprattutto la stima che aveva per lui, politicamente parlando. Come lui non ce n’erano tanti. Era consapevole della sua  onestà intellettuale,  della sua dirittura politica, del suo rischiare. Perché effettivamente Franco non aveva un carattere facile,   lo sappiamo,  e “bisticciava” sempre  intellettualmente   con parecchie persone.

Era una donna coraggiosa che non temeva di affrontare il dolore e la morte:

Era severa con se stessa prima che con gli altri. Io la trovavo eccezionale: riusciva a mantenere  delle coerenze   che con gli anni non sono facili da portare avanti.  Per questo, man mano che la conoscevo di più,   dicevo: «Ma Ruth sei straordinaria…Ma come hai fatto…». Per esempio, ha voluto operarsi di cataratta    a ottobre. Così è venuta a casa nostra.  Noi abbiamo un oculista nel palazzo. Si è fatta visitare e lui però le ha detto che c’erano poche speranze. Aveva la cornea  rovinata, non so se per processi naturali o dalla chemio che aveva fatto e ancora faceva. Comunque, lei  ha voluto lo stesso fare l’operazione. Certo, si sa che oggi giorno quest’operazione non è una cosa difficile. Ma io mi chiedevo come facesse ad avere quella decisione, visto tutto quello che aveva addosso. Perché,  oltre alla faccenda tumorale, c’era la storia di quella maledetta cervicale. Aveva in tutte le cose un grande rigore, un rigore morale. E non  perché fosse credente, no:  era solo nata protestante, quella era   la religione in cui l’avevano educata. Tuttavia, ultimamente mi disse una volta: «Sai che io non piango mai. Questa volta ho pianto…». È stato quando forse ha capito che non  c’era più niente da fare. Parliamo ancora di gennaio.

Ed era attenta agli altri, quasi una forma elementare di  comunismo:

I rapporti coi suoi fratelli li ha sempre conservati. Ma aveva soprattutto un grande legame con una sorella   e con una nipote. Quest’ultima purtroppo morì giovanissima. Mancò per asma. Era  andata a vivere col marito sul Juras, in una zona agricola sovvenzionata dal governo svizzero. Vivevano lontani dai centri abitati.  Lei  ha avuto una crisi notturna  d’asma e non hanno fatto in tempo a portarla in ospedale.

 Degli amici e nemici di Franco? Ti dirò che Ruth non era una persona pettegola. Era soprattutto molto rispettosa: prima di lanciarsi in un giudizio su qualcuno ci pensava. In politica   tutti sanno quello che lei ha fatto per Emergency: l’asilo per i palestinesi, ad esempio. L’ultimo giorno che si è sentita male ed è stata portata all’ospedale, ero a casa sua in Via Legnano e c’era questa signora venuta da Genova,  che credo fosse una delle donne in nero. Io ero preoccupata, perché me la teneva a parlare tanto tempo. Non volevo che parlasse troppo,  che si affaticasse. Invece Ruth non ha voluto smettere e poi mi disse: «No, era una cosa molto importante…».

Anche quando ormai era già malata, ha fatto un lavoro enorme per salvare tutti i materiali di Franco. Ha imparato persino a usare il computer per recuperare ogni cosa. Il primissimo materiale era stato dato a Maria Corti,  a Pavia. Poi tutto il resto fu dato a Siena [al Centro studi Franco Fortini]. Ricordo un pomeriggio che ero lì con lei, in una delle ultime giornate. Ho ricevuto questa telefonata da Siena. Lei aveva detto: «Mi raccomando, perché è la nostra vita. Mi raccomando molto, perché io posso peggiorare da un momento all’altro. Venite presto». Lei ha messo a posto tutto: per il Centro studi, per la figlia, per la nipote,   per Emergency,  per l’asilo dei palestinesi.  Ha  sistemato ogni cosa.

Non credo di poterti dire altro. Per me è stata una cosa bella, un’amicizia sentita. E un’amicizia che non escludeva la politica: parlavamo sempre di politica. «Io sono comunista» diceva. Fa un po’ impressione sentirlo dire oggi e da una svizzera.  Mi pare che da queste cose emerga una donnina proprio straordinaria.

Niente le è stato risparmiato. Avevo cominciato a dirti degli occhi.  I medici la ricoverano per una notte dopo l’operazione. Per prudenza,  perché si teme l’infezione. E lei ha preso l’infezione.  Era indebolita nelle difese organiche dalla chemio. Negli ultimi tempi, quando sapeva  del tumore (a parte che lei voleva morire   già da questa estate), le abbiamo telefonato sia a Trieste, dov’era stata in un primo tempo, che in provincia di Belluno da un’amica.  Già allora faceva discorsi di morte. Poi a settembre: «Io sto male, non ce la faccio più, desidero solo morire».

Negli ultimi anni, dopo la morte di Franco,   aveva ottenuto l’aiuto di una signora marocchina. E poi c’era la moglie del portinaio di  Via Legnano, che andava a stirarle i panni o a  lavarle i vetri.  Mi aveva fatto promettere (non solo a me, a tutte): «Non fatemi andare in ospedale», ma è stato impossibile. Non voleva. Diceva: «Vedi, questa casa è piena di sole. Io qui cammino…». Io invece me la ricordavo buia  la casa, ma poi mi sono ricreduta: è davvero piena di luce.

 L’ultimo giorno che la vidi   era sotto morfina, però capiva. Aveva su la maschera  e mi ha fatto così, un cenno con la mano e con gli occhi. Mi ha invitato a sedermi. Le ultime parole che ha detto: «Acqua di mele». Voleva l’acqua di mele da bere; e invece gliel’hanno proibita. Non so perché, non doveva bere. Dopo il disturbo (occlusione intestinale e anche renale)  forse non doveva bere. E allora ci dicono che dovevamo bagnarle le labbra. Sono stata lì un po’ a farle questo. Poi è venuta altra gente. Me ne sono andata che dormiva.  Ecco, questo saluto così e questo segno: siediti!  Sempre gentile, pronta a  pensare all’altra persona.

 Possiamo chiudere. Franca ripensa alle immagini ancora nitide di Ruth moribonda. Io, salutandola, penso a questa piccola comunità di sole donne, quasi tutte anziane, che hanno saputo stare accanto a Ruth accompagnandola fino al punto estremo. Solo le donne sono capaci di essere così attente alla materialità dei corpi che si ammalano e si disfano?

 aprile 2003

[1] Anche Edoarda Masi ha rivendicato «la sua formazione di donna libera e spregiudicata: lontanissima dal provincialismo di tante donne italiane di sfera colta e magari femminista, vera cittadina del mondo, capace di parlare e scrivere cinque lingue, ha saputo coltivare pura una propria sfera indipendente di rapporti e di conoscenze e ha inventato un proprio lavoro di terapeuta, oltre quello di  traduttrice in collaborazione col marito» (il manifesto, 15 marzo 2003).

[2] «Una volta su insistenza della figlia Livia, parecchio tempo fa, Ruth mi fece vedere una foto di quando era giovane. Era  di profilo, veramente bellissima. Sembrava un’attrice.  Era molto giovane,   avrà avuto un 24-25 anni, immagino.  Capelli biondi, questo nasino…».

Riordinadiario 6-14 settembre 2021

di Ennio Abate

6 settembre 2021

Cercando Gilbert Simondon

Il monumentale lavoro di Simondon può essere letto come un tentativo di sovvertimento radicale del concetto di individuo, inteso come elemento di base del cosiddetto principio di individuazione. Questo principio è stato infatti principalmente declinato, lungo il corso della storia del pensiero occidentale, in due maniere, al contempo opposte e consonanti. Da un lato, infatti, esiste la tradizione sostanzialista (o atomista) – che, risalendo fino a Democrito e Leucippo, prosegue carsicamente il proprio corso fino alle soglie della fisica moderna, passando per la monade leibiniziana; dall’altro lato, invece, troviamo la tradizione che potremmo definire ilomorfica, di provenienza aristotelica, che si pone a fondamento di ogni filosofia dualista. In quest’ultima tradizione di pensiero, infatti, l’individuo rappresenta una sorta di complemento o, per meglio dire, una sorta di compromesso tra forma e materia.

Simondon ha tentato di aggirare entrambi questi approcci, provando a sovrapporre al concetto di forma il concetto d’informazione, non inteso meramente come messaggio differenziale in un sistema comunicativo, bensì letteralmente come in-formante, cioè come ciò che si forma, si produce e si rigenera deformandosi. Il concetto d’informazione ha permesso così al filosofo francese di penetrare nei meandri delle più diverse branche del sapere, muovendosi trasversalmente dal “mondo” fisico e biologico a quello psichico. Essendo alla ricerca del principio d’individuazione (che, come vedremo, è tutto fuorché un principio), Simondon ha cercato di indagarlo in tutta la sua complessità, affrontandolo simultaneamente da un punto di vista fisico, biologico e psichico.

A questo scopo Simondon ha elaborato una nozione d’individuo radicalmente in contrasto con quella delle due “scuole” atomista e ilomorfica, le quali – pur trovandosi apparentemente agli antipodi – non hanno mai cessato di declinare in maniere differenti l’idea che l’individuo (sia esso atomo o complesso materia-forma) sia il principio fondamentale – ovvero il termine radicale e ultimo, condizione e scopo finale – della relazione globale di cui esso partecipa. Mentre, per Simondon, l’individuo non è che una fase dell’individuazione, cioè momento di un processo di trasformazione che attraversa diversi stadi e differenti cariche di “potenziali”. Questi ultimi – concetti mutuati da alcuni tardi riferimenti del suo “maestro” Merleau-Ponty (a cui è dedicata l’opera) – vengono concepiti da Simondon come elementi preindividuali.

Per Simondon l’errore principale delle filosofie sostanzialiste e/o dualiste è stato infatti, da sempre, quello di considerare l’individuo come un principio, come un quid da cui si può partire per comprendere la realtà. Ma questa è per Simondon un’idea statica del mondo, che concepisce la realtà come un gigantesco paradosso di Zenone, in cui gli stati sono separati nel tempo e non comunicanti. Simondon si fa beffe del principio di equilibrio stabile e, appoggiandosi alle scoperte della fisica quantistica e della termodinamica, elabora una teoria in cui ogni stato che possieda ancora dell’energia residua – e che non sia quindi morto – si trova in un equilibrio detto metastabile, perché comunque carico di potenziali.

Una concezione così radicale e innovativa non poteva non includere anche una diversa concezione dell’essere, e sarà proprio in questo ambito che Simondon effettuerà un vero e proprio ribaltamento. Scrive:

L’essere non possiede un’unità d’identità, come nel caso dello stato stabile, nel quale non si possono verificare trasformazioni; al contrario, l’essere possiede un’unità trasduttiva: in altre parole, esso può sfasarsi in rapporto a se stesso e può straripare da una parte e dall’altra del centro. Ciò che si concepisce nei termini di relazione o dualità dei principi, consiste, in verità, nel dispiegamento dell’essere, che si configura, a sua volta, come più che unità e più che identità. Il divenire costituisce una dimensione dell’essere e non può essere concepito come ciò che gli accade sulla base di una successione cui sarebbe soggetto in quanto essere originariamente dato e sostanziale

L’operazione d’individuazione, dunque, “produce” l’essere individuale – non ne è la logica emanazione. L’individuo è una “fase” di quell’essere la cui dimensione è il divenire e il cui stato è in tensione metastabile, perché carico di potenziali. L’informazione è il mezzo attraverso cui le fasi si producono all’esterno e all’interno dell’individuo in base al suo essere fisico, biologico o psichico. Mentre la trasduzione è il processo attraverso cui l’essere si dispiega nelle sue dimensioni. Si tratta qui, per Simondon, di elaborare la possibilità teorica di un processo che sia allo stesso tempo al di là della logica e al di là della dialettica: un movimento analogico, né deduttivo, né induttivo.

(da Gilbert Simondon, il filosofo dell’avvenire? di Cristiano Carchidi 12 Dicembre 2016 http://www.chartasporca.it/gilbert-simondon-il-filosofo-dellavvenire/

 

13 settembre 2021

Memoria: Proust/Fortini

Oggi come oggi non c’è quasi quarta di copertina, articolo di webzine, pronunciamento intellettuale di piccolo o medio cabotaggio che non contenga la parola ‘memoria’. Segno che il fenomeno ha perso rilevanza.

Si può stare abbastanza sicuri che se qualcuno parla di memoria, nelle due o tre righe seguenti salterà fuori Proust. A un più attento esame, si scoprirà che il qualcuno o non ha mai letto Proust, o, se l’ha letto, se lo è dimenticato.

In Proust l’unica memoria che conta, la memoria involontaria, non ha quasi nulla a che fare con la memoria quale la si intende generalmente. A propriamente parlare, non è nemmeno un fatto di memoria ma di sensazione. È il ripresentarsi, in due momenti distinti del tempo (che chiameremo A e B), di una stessa sensazione (la sensazione deve essere abbastanza rara per non confondersi nella routine dell’abitudine, essere ad esempio una sensazione dell’olfatto o del tatto) che l’io percepisce come identica, cioè indistinguibile, nei due momenti; che è di fatto indistinguibile; per cui l’io percipiente non ha, a partire dalla sensazione, alcun appiglio per sapere in quale dei due momenti del tempo si trova, il che significa letteralmente che il tempo trascorso fra A e B è abolito, che l’io percipiente si trova fuori dallo scorrere del tempo, e che dunque tutto ciò che il tempo, nel suo scorrere, ha precipitato nell’oblio è di nuovo presente e fruibile. Seguono numerosi e importantissimi corollari. È chiaro che qui il senso di ‘memoria’ è un senso molto particolare. A rigore, non posso nemmeno dire che sono io che mi ricordo.

Il passaggio funambolico che i cultori della memoria non tentano neanche, ma danno per acquisito, è quello da “la memoria” a “Le Mie Memorie”, cioè da una facoltà che rimane per moltissimi versi oscura, alla parte interessante in cui porca miseria posso parlare di me e delle mie succosissime esperienze, ne posso fare un bel racconto, cioè precisamente quello che Proust aborriva e alla cui fattibilità in determinatissime circostanze tutte da esaminare è arrivato dopo un percorso lungo e travagliato.

Dopo aver assicurato, ai pilastri della memoria involontaria e a un paio di altre cosine su cui ora non ci soffermiamo, la struttura della sua cattedrale (gotica), Proust può applicarsi alle “parti di riempimento”, cioè ai muri non portanti fra un pilastro e l’altro. Quando la gente parla di Proust e di memoria, normalmente è di questo che parla: del “riempimento”, che è importantissimo, certo, e in un certo senso il midollo da succhiare della Recherche, ma che cos’è? L’idea è che il narratore racconti la sua vita (a quello gli serve, no, la scoperta della memoria involontaria) articolata grosso modo in sette parti che corrispondono ai sette volumi della Recherche. Nel corso della vita il narratore ha inoltre incrociato un gran numero di “personaggi” che, com’è ovvio, ora popolano il romanzo. Ma è proprio così? Se il narratore raccontasse la sua vita il lettore avrebbe fondati motivi di lamentarsi: un racconto sconclusionato, pieno di buchi e in certi punti apparentemente contraddittorio, cronologia non lineare e anche all’interno dello stesso “nucleo” narrativo assai incerta: se in una pagina il narratore appare come un bambinetto di otto o nove anni, ecco che alla pagina seguente gliene daresti quindici. Biografia per nuclei tematici allora? Se si vuole; ma anche lì il narratore è tutto fuorché sempre in primo piano, spesso e volentieri cede la ribalta ad altri, è ridotto al ruolo di osservatore, di narratore della storia altrui, storia che eventualmente si è svolta prima della sua nascita, per cui non si può nemmeno parlare di memoria. Certo, la famosa madeleine è il “clic” che mette in moto tutto ciò che si trova fra il momento in cui il dolcetto tocca il palato del narratore, nel primo volume, e la fine del romanzo. Ma è la storia di una vita? O non è piuttosto, fra un pilastro e l’altro, l’analisi ironica, profonda, geniale e puntuale, secondo il modello dei classici francesi del XVII secolo (les moralistes, che non sarebbe da tradurre ‘i moralisti’, ma ‘gli psicologi’), della psicologia umana nei vari personaggi e nel narratore stesso? Non è il tema il funzionamento della coscienza e dunque anche della memoria? Un romanzo che tematizza se stesso; così in ogni caso lo intende il narratore. E l’articolazione che collega la teoria della memoria (pilastro) ai portati dell’analisi psicologica (riempimento) è ben salda, e comporta lo sbriciolamento di quello che generalmente si intende per “io”. Cioè il contrario dell’intenzione dei memorialisti, che è ricostituire, arrivare a una verità identitaria.

Proust però, alla fine, è uno scrittore per letterati e decadenti. La salvezza che propone è esoterica: per pochi eletti. Non è democratica. Anzi no, è troppo democratica. In un articolo del 1982 (vedi nota in basso), come dice egli stesso enunciando in modo assertivo senza dimostrare, Fortini compie in non più di otto righe il rimarcabile tour de force di passare da quella che egli chiama la “formulazione elitaria” di Proust alla sorprendente affermazione che “il genere di vita quotidiana ormai solidamente costituito nelle società urbane del moderno universo tecnologico di produzione e consumi ha creato nel giro di un cinquantennio le condizioni perché in masse grandissime di uomini gli episodi di emergenza della memoria involontaria si moltiplichino e dilatino sino ad occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del «ricordo» [si intende il ricordo consapevole e volontario].” Se lo dice lui. È il processo, dice, che altrove ha chiamato “surrealismo di massa” e che consiste appunto nell’ipertrofica e generale proliferazione dell’”universo della «memoria involontaria» (ossia del piacere e del sogno)“. Ora, Fortini può giocare coi termini come gli pare – e a me sembra che almeno della memoria involontaria si sia fatto un’idea tutta sua -, ma memoria involontaria e surrealtà, se pure hanno dei legami, da precisare, col piacere, certamente nell’intenzione dei loro scopritori non sono “sogno”, anzi esattamente il contrario: sono l’unica realtà veramente vera, e se non marciano al suono del piffero marxista, non mi pare però corretto stravolgerle per arruolarle a forza. Ma per Fortini il punto non è né Proust né tantomeno i surrealisti. Quello che gli interessa è rivalutare il “ricordo”: la memoria discorsiva e facilmente trasmissibile di un passato collettivo, senza tante fisime di opere d’arte o stati psichici strani, e non importa se, non essendo ancorato nella verità della memoria involontaria o della surrealtà, il discorso collettivo è sempre tendenzialmente retorico, quindi falso, manipolabile, manipolato, necessariamente parziale, alla fine inutilizzabile. Questo non conta. L’importante è che abbia una “sua definitività narrativa“, che “già in sé [contenga] giudizio e scelta” – che sia cioè arbitrario, rispecchi una cocciutaggine, e che la sua definitività sia sufficientemente definitiva per passarlo di mano in mano nei secoli.
(da  SULLA MEMORIA di Elena Grammann, https://dallamiatazzadite.com/2021/09/08/sulla-memoria/)

 

13 settembre 2021

Ma noi discutiamo di…

Non so se nel frastuono che tutto copre delle polemiche su Green Pass e vaccini ci sia un’astuzia del potere, o se, semplicemente è l’effetto di una banale dinamica autorafforzante del mercato delle ‘notizie’ (il tema ‘vende’), unito alla lotta partitica feroce in corso sottotraccia, entro l’artificiale perimetro governativo (per cui si provoca la Lega, per danneggiarne il leader rispetto ai competitori esterni -Meloni- ed interni -Giorgietti-, e, d’altra parte se ne subiscono i veti, da cui la politica vorrei-ma-non-posso del GP), ma l’effetto oggettivo è quello di una nuvola nerastra e polverosa di polemiche vacue e urlate che nascondono completamente le tantissime cose serie, importanti, persino epocali che stanno accadendo (entro e soprattutto fuori del paese).

La dinamica dei prezzi e della sconnessione delle supply chain mondiali mostra l’avvio di un passaggio tra il modo di produzione neoliberista mondializzato e qualcosa di diverso (quanto, come e quando, nonché dove lo potremo misurare in qualche anno); la ritirata anglosassone prelude ad una avanzata del ‘mondo multipolare’ (che ha molto a che fare con il punto precedente); il lavoro potrebbe cambiare, tornando ad una qualche forma di potere e, al contempo trascinando modifiche della forma territoriale; la risposta politica a queste tensioni di trasformazione potrebbe prendere la forma di un attivismo statalista di nuovo conio. Nessuna di queste cose è già formata, sono tutti piani di conflitto intrecciati e possono andare in direzioni diverse.

Ma noi discutiamo di ciò che ci viene messo davanti agli occhi. Se uno insiste a sottoporre un tema ciò che bisognerebbe chiedersi non è se è giusto o sbagliato, ma quale altro nasconde. Ovvero, di cosa non si deve parlare.

( da Alessandro Visalli https://www.facebook.com/alessandro.visalli.9/posts/10219403875584090)

14 settembre 2021

 Fernando Savater su malattia mentale

 Savater sollecita l’attenzione di chi intende venire a capo della sofferenza comunicativa sopra il contesto in cui chi soffre è preso e si muove. Non tuttavia allo scopo di addebitare al contesto la responsabilità della sofferenza, perché alla determinazione del contesto di vita di chi soffre partecipa il soggetto stesso, qualora commetta l’errore di regolare le forme comunicative a modalità che egli trasferisce da alcune infelici forme comunicative in cui si era ritrovato in precedenza. I difetti di comunicazione – scrive Savater – possono essere messi in conto sia al «contesto in cui il soggetto si muove, sia ai […] principi applicati dal soggetto stesso»; dipendono, cioè, tanto «dall’incomprensione ostile dei destinatari del messaggio»,quanto«dalla perdita di autonomia che la sua accettazione positiva comporterebbe per il soggetto».[6]

A volte sono le forme comunicative presenti che non danno modo alcuno agli interlocutori di riconoscersi in una veste umana. A volte, non è tanto la relazione presente ad imbalsamare la comunicazione, ad afferrare in una morsa alienante il soggetto: in qualche caso è la parte che giuocano gli altri attori della comunicazione, quando il volto dell’incomprensione è necessario all’interlocutore per mantenere ruoli di potere e di prestigio; altre volte è lo stesso soggetto a porre la relazione comunicativa in una impasse: o perché giuoca il ruolo di partecipante passivo, secondo esperienze comunicative precedenti, o perché se ne sta chiuso in un mondo proprio, in cui rintanarsi, diffidente, se non chiaramente ostile, verso ogni interlocutore; oppure perché assume atteggiamenti camaleontici, disposizioni adattive ed imitative che evitano qualunque tensione tra gli interlocutori, assumendo condotte che, annullando il giuoco delle parti, vanificano la comunicazione.

In sintesi, Savater sostiene che il disagio e la sofferenza psichica possono esser accostati analogicamente alla malattia, perché accadono quando “cadono malate” le forme comunicative alle quali determinati individui affidano la funzione di riflessione della propria identità e di messa a punto della propria soggettività. Cioè, la comunicazione può essere definita, oltre che difettosa, come quasi sempre è, anche “malata” quando il difetto riguarda la possibilità concessa ai suoi interlocutori di rimanervi presenti nel ruolo di soggetti, i quali patiscono l’eventuale dislocazione dal piano delle affermazioni e dei riconoscimenti della propria soggettività.

 (da Riflessioni di Savater sopra la nozione di malattia mentale e le relative sue concezioni (prima parte) – di Piernicola Marasco https://www.altraparolarivista.it/2021/09/12/riflessioni-di-savater-sopra-la-nozione-di-malattia-mentale-e-le-relative-sue-concezioni-di-piernicola-marasco/ )

 

  • L’immagine di copertina è ripresa dalla rivista “altraparola”

Voci messe a tacere

Nawal al Sa’dawi

di Clara Janés

«E passiamo da queste donne che lottano a viso aperto e dicono ciò che devono dire rischiando la vita, alle più occulte, alle più costrette al silenzio, cioè alle donne afgane con il corpo interamente coperto dal burka, compresi gli occhi, che nonostante tutto si sono espresse in brevi poesie che impressionano per la loro bellezza, la loro incisività e la libertà interiore che riflettono. Sono ovviamente poesie anonime, affidate all’oralità.» (Janés). E perciò  ripubblico oggi questo saggio già comparso sul n. 3 cartaceo di Poliscritture nel novembre 2007 (scaricabile qui)  [E. A.]

Sono ancora tante le voci messe a tacere, voci di donne, voci vincolate alla terra e alla sua ricchezza, e pertanto alla possibilità di dare frutto. Resteranno mute per sempre o come la terra in inverno aspettano il risveglio di primavera? O semplicemente aspettano di raggiungere lo stadio di piena fecondità? Penso ai luoghi in cui non è arrivata la scrittura, alle tribù africane o alla foresta amazzonica… Là quelle voci si manifestano fondamentalmente nel grido, nella ninnananna, nel dolore per la malattia e la morte, ma anche nella preghiera, nella maledizione e nel formulario magico. Non sono mute, tuttavia hanno ancora bisogno di assorbire nutrimento per poter sbocciare. Ci sono altri luoghi nei quali permangono silenziose però convivono con la possibilità di dare frutto, perché la ricchezza del suolo è tale da permetterlo, ma rimane ancora latente. Sono luoghi in cui la società non “oscura” del tutto le donne, però le mantiene appartate, occulte o, perlomeno, differenziate dagli uomini. E lì, mentre la maggior parte di loro sembra rassegnata a tacere, alcune osano svegliarsi: ciò succede anche in paesi nei quali si vieta loro di esprimersi pubblicamente.

Prescindiamo dall’Occidente e limitiamoci alle aree in cui la situazione è incandescente e che presentano enormi contrasti: l’India, i Paesi Arabi, Iran e Afghanistan. Vedremo come si riscontri in questi ambiti geografici sia l’arretratezza che la massima raffinatezza; vedremo come in alcuni, quando la donna giunge a esprimersi, ciò che affiora immediatamente è la questione sociale, mentre in altri è il rapporto tra i sessi; vedremo anche come la poesia si carica di lirismo o di humour, e la prosa si trasforma in arma di denuncia. Eppure, in questi paesi, nonostante gli ostacoli, ci furono fin dalla remota antichità voci femminili sagge e decise.

In India, la donna scrive fin dall’antichità e addirittura fa sfoggio della sua eloquenza nel contesto sociale di cui fa parte. Ciò si riflette nella lirica: infatti nella bella antologia Kuruntokai (dal III sec. a. C. al III d. C.), le poesie, di una bellezza e di una ingenuità incomparabili, sono prevalentemente poste in bocca di donna e riguardano di norma una giovane che, rivolgendosi a una sua amica, dà libero sfogo al lamento per la separazione dal suo fidanzato, che partì in cerca del danaro necessario per sposarsi o per altri motivi connessi con la rigidità delle usanze relative alle nozze.

CIÒ CHE LEI DISSE
        (alla sua amica quando lui rimandò il matrimonio)

 Amica,
sebbene la mia forza
sia venuta meno e la mia verginale bellezza
sia svanita,
sono ancora viva
nella solitudine
                 come le foglie che spuntano durante la pioggia
                 tra le stoppie dei dorati steli del miglio
                 e i pappagalli le mangiano o le distruggono
                 nei campi lungo i declivi.

Non tutte le voci femminili dell’India si esprimono in forme così ingenue e semplici. Nel Mahabharata, epopea scritta più di mille anni prima di Cristo, figura il bel racconto intitolato Savitrì. Dato che nella cultura indù la donna e l’albero si identificano, la giovane Savitrì accoglie in sé tutta la sapienza dei boschi. E chi dice bosco, dice cammino verso la cima, attraversando la “selva oscura”. Lungo questo cammino, l’oscurità non la induce a tornare indietro; la foresta, per lei, diventa luminosa poiché è il luogo della minaccia evidente, della prova e della vittoria. La minaccia è la morte del suo sposo Satiavàn; la vittoria sono le sue parole unite alla sua intelligenza.

Savitrì è l’altra faccia di Orfeo. Se questi con la sua voce dominava fiere e alberi, lei riesce a sottomettere una divinità. Morto Satiavàn, segue Yama, il dio che sta portando via con sé l’anima del suo sposo e con eloquenza gli parla della propria fede e della propria devozione. Passo dopo passo, si addentra sempre più in terreni separati dalla vita. Quattro volte il dio la esorta a lasciar perdere, e le fa anche un regalo, ma lei continua ad avvicinarsi al luogo fatale. Infine il dio, sedotto dal suo parlare, le concede la vita del suo sposo. Ad ogni argomentazione eloquente di lei, Yama risponde con espressioni come questa: “Gioia del cuore, stimolo di sapienza, spirito di bontà sono le tue parole”, e alla fine esclama: “O donna devota al proprio sposo, chiedimi una grazia incomparabile!”. Così Savitrì ottiene che Satiavàn ritorni in vita. Dunque, va più in là di Orfeo, forse perché vive il suo amore come una forma di devozione.

L’India, che ha preceduto le altre civiltà in quasi tutto – basti ricordare la scoperta dello zero – le ha precedute anche nel creare l’immagine della donna intelligente e retta. Questo personaggio femminile è un chiaro precursore – ma lo supera anche – di quello di Porzia, la protagonista di Il mercante di Venezia di Shakespeare, la dama che grazie al suo modo di argomentare salva la vita del suo amato. Nelle terre del Gange, dunque, le donne potevano pur bisbigliare qualcosa, anche se, fin dai tempi antichi, la realtà per loro era dura: si bruciava la vedova sulla pira del marito, la donna abbandonata dal marito non poteva risposarsi ed era costretta a una vita emarginata e senza diritti. Di una realtà non molto migliore di questa le donne sono vittime ancora oggi, anche se è in corso un processo di emancipazione. Il quale, nonostante la persistenza dell’analfabetismo e la mancanza di un contesto sociale adeguato, consente che ci siano delle artiste pubblicamente riconosciute, come la cineasta Depa Metha, la poetessa Sujata Bhatt o la romanziera Anita Nair. Consapevoli che la lotta deve proseguire ora più che mai, le scrittrici indiane mostrano un volto impegnato, da quello combattivo di Savita Singh, a quello di Surekah Vih teso alla difesa della libertà personale. Savita Singh si lancia nella lotta con grande finezza.

SENZA ÀNCORA NÉ VINCOLO

 Il vento rifiniva un’idea
nella testa di un uccello
che si era appena fatto il nido.
Era venuto a dirmi anche
che io sono soltanto un frutto del tempo
e che non sono nessuno per pensare alla mia trascendenza.
La tristezza che senza sosta gocciola nel mio intimo
da un rubinetto ossidato e inarrestabile,
è anche una apertura alla creazione malinconica.

Sul far della notte,
l’uccello era ben insediato nella sua casetta,
mi aveva lasciato a vagare
per il largo mondo,
senza àncora né vincolo.

Sono donne colte le scrittrici indiane di oggi, e hanno anche il vantaggio di possedere bene l’inglese oltre alle rispettive lingue materne, la qual cosa consente loro l’accesso – per partita doppia, dare e avere – alla cultura universale.

È particolarmente interessante la visione piena di humour di Sujata Bhatt. Trascorsa l’infanzia nel suo paese natale, studiò negli Stati Uniti e attualmente vive in Germania. Nella poesia che segue sembra sorridere di alcuni aspetti della vita indiana:

IL VIROLOGO
             a mio padre 

A diciassette anni arrivò a Benares
per studiare medicina ayurvedica.
La prima cosa che fece fu bagnarsi nel Gange
esaudendo i desideri di sua madre.
Poi si sentì sporco
tornò nella sua stanza
e fece un altro bagno.
Quella sera scrisse una lettera
a sua madre – deluso
che mettere il piede nel fiume sacro
non lo avesse fatto sentire più puro.
Doveva esserci qualcosa d’altro – senza dubbio.

Spostiamoci ora all’Ovest e vediamo come nei Paesi Arabi succeda qualcosa di simile, ma con sfumature differenti, come il sesso vi occupi una posizione importante e come la lotta della donna si attui in maniera diretta attraverso la prosa. Anche in questi paesi le donne scrivevano fin dai tempi antichi, fin dalla prima epoca dell’Islam, però a scrivere erano soprattutto le principesse o le animatrici delle feste (feste per uomini, ovviamente), ossia mescitrici o cantatrici, come alcune delle poetesse arabo-andaluse. La libertà con cui si esprimevano continua a sorprenderci, sebbene si debba tenere presente che le storie di Le mille e una notte, così piene di erotismo (le più antiche delle quali risalgono al secolo X), facevano parte della loro tradizione e figuravano narrate da una donna. Nel secolo XI Muhya al-Qurtubiyya, di umili origini, protetta ed educata dalla principessa Wallada, si lanciò a satirizzare la sua signora – chissà per quale motivo – con la stessa incisività con la quale la principessa satirizzava il suo amante, il poeta Ibn Zaydùn.

Muhya scriveva così:

Wallada ha partorito e non ha marito,
si è svelato il segreto,
ha imitato Maria,
ma la palma che la Madonna scuoteva
nel caso di Wallada è un pene eretto.

E ora vediamo quanto è simile nel tono questa poesia di Wallada:

CONTRO IBN ZAYDÙN

 Il tuo soprannome è l’esagono, un epiteto
che non si staccherà da te
neanche dopo che la vita ti avrà lasciato:
pederasta, checca, adultero,
bastardo, cornuto e ladro.

Non è facile intendere come mai nel mondo arabo, nonostante la sua cultura, esistano certe differenze, vedendo che, parallelamente a una immensa maggioranza di donne nascoste e quasi mute, vivono poetesse assai notevoli, vere pietre miliari nella modernizzazione della loro letteratura, come l’irachena Nazik al-Malaika o la palestinese Fadwa Tucàn, autrice di una straordinaria poesia di lotta. Costei, nata in Nablùs, fin da giovane si sentiva calpestata dalla storia, e venne incubando una voce che si sarebbe innalzata profonda e lacerante:

[…] quando passa una brezza su cinquanta corde,
quali cinquanta sanguinanti melodie!
Come poté la cisterna di sangue diventare stelle e alberi?

[…]

Ahimè, spiga nel petto dei campi!
Il tuo cantore dice ancora:
se sapessi il segreto dell’albero!
Se seppellissi tutte le parole già morte!
Se avessi la forza della tomba silenziosa!
– oh, mano di vergogna che pizzica queste cinquanta corde! –
Se scrivessi la mia storia
con la falce,
e la mia vita con la scure…

Questa eccellenza creativa convive con la più terribile arretratezza sociale. È sconcertante la diffusione progressiva dell’Islam rigorista: in Egitto, per esempio, in dieci anni si è passati da un 10% al 90% di donne che portano il velo. Ciò va posto in relazione con l’immobilismo sociale. In questi paesi alcune donne, poche, parlano anche per le tante che non parlano. Ne abbiamo esempi stupefacenti in scrittrici come Fatima Mernissi in Marocco, Assia Djebar in Algeria, o Nawal Al Sa’dawi in Egitto.

Fatima Mernissi, che condivise il Premio Príncipe de Asturias con un’altra lottatrice, l’americana Susan Sontag, è autrice di numerosi libri, però le basterebbe aver scritto Marocco attraverso le sue donne per occupare il posto che occupa nella letteratura di protesta. Storica e sociologa, afferma che il problema della condizione della donna in Marocco è più politico che religioso, e nel libro citato risponde, mediante una serie di interviste, alle seguenti domande: “Che tipo di donna si nasconde dietro il velo?”; “Come vive la donna che, abbandonata la tradizione degli avi, si azzarda a mostrare il viso?”. Nelle sue pagine si ritrova “il reale in presa diretta”. E il reale, in questo caso, è l’imposizione del silenzio mediante l’ignoranza e la costrizione religiosa, e ciò avviene in maniera così brutale che spaventa.

I problemi che le donne intervistate hanno dovuto affrontare fin da piccole (molte hanno cominciato a lavorare a 5 o 6 anni, strappate alla famiglia e al luogo natio) ruotano intorno a due punti principali: uno è in relazione con il sesso, l’altro con il mondo esterno. E vanno dalla lotta per liberarsi di un matrimonio imposto nell’infanzia alla necessità di lavorare, sia pure in condizioni degradanti, per liberarsi della miseria.

Per quanto riguarda il rapporto di queste donne con l’uomo, la posizione sociale è un fattore molto importante, poiché le situa su livelli diversificati rispetto agli abusi del sesso maschile. Per esempio, una donna chiamata Merien confessa: “Cominciai a informarmi sui mezzi per abortire e me li applicai tutti uno dopo l’altro. Uno dei primi consisteva nel bere il succo di sei limoni con una cucchiaiata di pepe forte”. Un’altra evidenza che risulta dalle pagine di Fatima Mernissi è l’ansia delle giovani marocchine di istruirsi, per liberarsi dalla dipendenza famigliare.

Letterariamente sono molto interessanti le opere dell’algerina Assia Djebar e della egiziana Nawal al Sa’dawi. La prima, di educazione francese, è autrice di intelligenti romanzi nei quali sempre si riflette la condizione della donna e la condizione storica del suo paese. Due di essi, L’amore, la fantasia e Ombra sultana, sono imperniati sulla dualità: il primo alterna un evento storico con uno attuale; il secondo propone due personaggi femminili che rappresentano due diversi stadi della evoluzione culturale. Assia Djebar, che è anche cineasta, rende visiva la sua narrazione come se la pagina fosse uno schermo. Leggendo L’amore, la fantasia si ha l’impressione di vedere le immagini concrete di una tribù massacrata nelle grotte di El Kantara nel 1830, la guerriglia di un secolo dopo, la fidanzata di Ben Kadruma esposta come un idolo carica di gioielli, la danza catartica di una vecchia, il gesto di una donna che riscalda con le mani i piedi di una bambina; mentre in Ombra sultana, l’”Ombra” ci impressiona, è una donna oscura che si rintana in una caverna dove si conservano tutti gli echi, è depositaria della vita ancestrale, si prende cura di bambini piccoli sempre attaccati alla sua gonna, non conosce altro che sottomissione o castigo, e va in giro sempre velata. L’altra, invece, la emancipata, la “Sultana”, se la gode, fa l’amore e fa della sua vita una danza multicolore piena di riflessi felici, sebbene alla fin fine questi risultino essere solo dei miraggi.

Assia Djebar ottenne il Premio della Pace della Fiera del libro di Francoforte nel 2002. In Ombra sultana racconta così il primo rapporto matrimoniale:

Lo stupro: non è questo uno stupro? La gente dice che è tuo marito, tua madre dice: “il tuo padrone, il tuo signore”… Lotti nel letto scoprendo di avere un vigore che non ti conoscevi. Il suo petto ti schiaccia. Ti divincoli, cerchi di toglierti da sotto il suo peso, ti irrigidisci sempre più – braccia spasmodicamente strette al petto – dentro l’abbraccio. […] Chiudi gli occhi, la conclusione si avvicina, ricominci la resistenza. […] Si avvicina il momento in cui dovrai naufragare. Chiudere occhi, orecchie e il fondo del cuore. Colare a picco.

– Non avere paura, piccola! – lui snocciola parole incomprensibili.
È necessario cedere? No, ricordati delle strade, si prolungano in te sotto un sole che ha disperso le nubi […] e così rivedi lo spazio esterno in cui si svolge la tua vita di tutti i giorni. Quando il fallo dell’uomo ti lacera, spada rapida, gridi nel silenzio, nel tuo silenzio: “No! No!” Lotti, lui ti colpisce, cerchi di ritornare in superficie. “Lasciati andare!” sussurra la voce nella tua tempia.
Il fallo continua la sua azione, e la bruciatura si ravviva nell’oscurità che va uccidendo in te le immagini della difesa. Non percepisci altro che uno sciacquio. Il maschio si è staccato, e le tue gambe giacciono inerti.[…] L’uomo è scomparso nel bagno. Quando ritorna ti tira un asciugamano, che rimane sulle tue gambe macchiate.
Vede le mie gambe. E vede il mio sangue. Ha comprato questo diritto..

Di queste tre scrittrici arabe la più impegnata, e anche la più perseguitata, è Nawal al Sa’dawi. Medico, autrice di più di 30 libri, studiosa dei problemi della donna da tutti i punti di vista, cominciò la sua carriera letteraria con Il volto nascosto della donna araba, in cui esponeva alcuni dei casi di cui, come psichiatra e medico di campagna, si era occupata, e rivelava avvelenamenti rituali, aborti, escissioni del clitoride ecc. Lottò contro la povertà, la discriminazione, fu incarcerata, visse in esilio, fu processata per apostasia, e non ha mai cessato di denunciare lucidamente l’ingiustizia, il dolore e la solitudine vissuti dalle donne nei paesi islamici, né di individuare le radici di questa situazione (come faceva Fatima Mernissi) che secondo lei sono più politiche che religiose.

Riuscì a diventare Direttrice Generale della Sanità in Egitto, però poi fu rimossa e incarcerata da Sadat. Fu anche direttrice della Associazione per la solidarietà con la donna araba, che ha un ruolo consultivo presso l’ONU. Inoltre è una grande scrittrice, come provano i suoi romanzi Donna al punto zero e La caduta dell’Iman. Le sue radici arabe fecondate dalla cultura universale producono un frutto insolito, che nelle sue mani si trasforma in autentica maestria. In Donna al punto zero – storia vera e terribile di una prostituta che fu condannata a morte per aver ucciso un magnaccia, narrata con una efficacia che fa rabbrividire – oltre alle interviste di quella donna ci fornisce la testimonianza di tutte le miserie da lei vissute prima di giungere all’unico gesto possibile, quello necessario per liberarsi di una situazione insostenibile. Non meno complesso è il romanzo La caduta dell’Iman, specchio della sua generazione, sconcertante eppur seducente, nel quale il tema dell’Islam e della condizione dell’uomo e della donna nella società islamica sfociano in un altro grande tema, quello della libertà. Questo romanzo, orientale per il colorito e occidentale per la sua modernità, è un capolavoro della narrativa araba contemporanea.

Quando affronta l’argomento della escissione del clitoride, riferendosi alle donne interrogate, le vere messe a tacere, Nawal al Sa’dawi osserva:

…la maggior parte non aveva la minima idea del danno che avevano inflitto loro con la escissione, e addirittura alcune pensavano che era un bene per la loro salute, che le puliva e le “purificava”…

Le interviste si sviluppano in genere nel modo seguente:

– Quanti anni avevi allora?
– Ero ancora una bambina. Avrò avuto sette o otto anni.
– Ricordi anche nei particolari l’operazione?
– Sicuro. Come potrei dimenticarmene?!
– Hai avuto paura?
– Molta. Mi nascosi in cima all’armadio (qualcun’altra può dire sotto il letto, in casa di un vicino), però mi acchiapparono e tremavo tutta mentre mi tenevano.
– Ti ha fatto male?
– Molto. Era come se mi stessero bruciando. Gridai con tutte le mie forze. Mia madre mi teneva la testa in modo tale che non riuscivo neanche a muoverla, mia zia mi bloccava il braccio destro e mia nonna si occupava del sinistro. Due donne, che prima non avevo mai visto, mi impedivano di muovere le gambe e me le tenevano allargate forzando. La “mammana” si sedette fra le due donne con in mano un coltello affilato, e con quello mi tagliò il clitoride. Ero terrorizzata e il dolore che mi straziava fu tanto intenso che perdetti i sensi.
– […] Quando hai scoperto che ti avevano tolto un piccolo organo del tuo corpo, che hai sentito?
– […] Mi dissero che se a una bambina non facevano quello, la gente avrebbe sparlato di lei dicendo che poi non si sarebbe comportata bene e che, arrivata all’età di sposarsi, avrebbe cominciato a correre dietro agli uomini, cosicché nessuno l’avrebbe voluta come moglie […].
– Ci hai creduto a quello che ti dicevano. Ovvio. Il giorno in cui mi ripresi dall’operazione ero molto contenta, sentivo che mi ero liberata di qualcosa di cattivo, mi sentivo pulita e pura. 

Pochi anni fa, venne finalmente sospeso il processo per apostasia che incombeva su Nawal al Sa’dawi, e che la avrebbe lasciata priva di qualsiasi difesa quando aveva più di 70 anni. Aveva corso il rischio di essere espulsa dall’Islam e di rimanere alla mercé dei fanatici, che avrebbero avuto licenza di ucciderla.

Torniamo ora alla poesia, che in virtù del suo valore simbolico non è obbligata a essere così diretta come la prosa, ma può ugualmente fungere da arma. Spostiamoci in Iran e parliamo di Forugh Farrojzad (1935-1967), la prima poetessa iraniana contemporanea, una grande rivoluzionaria anche per ciò che concerne lo stile letterario. Subì l’evoluzione del suo paese in senso contrario: cioè nacque in un’epoca di apertura, al tempo dello Scià Reza, che tentava qualche modernizzazione, costruiva ferrovie, creava scuole miste, imponeva con la forza l’abolizione dello chador, anche se non va dimenticato che incarcerava tutti coloro che considerava nemici, per la maggior parte intellettuali… Nonostante il clima di apertura, nelle famiglie della classe media si seguiva la tradizione, e così Forugh, che insieme a sua sorella Puràn frequentò la scuola mista, subì la ferrea autorità paterna (il padre era un militare di carriera) e quella di una società ancorata al passato. Era ancora una bambina quando lo Scià Reza, in seguito alla occupazione del paese da parte delle truppe inglesi e russe, fu deposto. A 13 anni già  scriveva versi in metri classici. A 15 studiava pittura, si innamorò di un lontano parente che aveva il doppio della sua età, e ottenne il permesso di sposarsi. Dopo la nascita del suo unico figlio cominciò a partecipare alla vita letteraria. Per la particolarità del suo carattere e il suo spirito libero, ben presto cominciò a subire gli attacchi e il rifiuto dell’ambiente letterario fino allora considerato una esclusiva del sesso maschile.

Ha 18 anni quando esce il suo primo libro, Prigioniera, le cui poesie iconoclaste e le cui libere concezioni, in particolare quelle relative al comportamento della donna, si scontrano con la disapprovazione degli accademici. Il libro risulta tanto scandaloso che le autorità religiose fanno arrestare il proprietario della maggior casa editrice dell’Iran che lo aveva pubblicato. Si tratta di versi pieni di vitalità, sconforto amoroso, allegria, recriminazioni, solitudine, abbandono, dubbi, sogni… L’uomo vi appare come orgoglioso, possessivo, infedele, conquistatore… Forugh si sente estranea ai ruoli convenzionali assegnati alla donna, il suo matrimonio si rompe. Divorzia, però il figlio viene affidato al suo ex marito, il quale non le consentirà più alcun contatto con lui. Questa è una ferita da cui lei non si riprenderà mai. Tenta di rientrare in famiglia ma suo padre la scaccia. Nel 1956 esce il suo secondo libro, Il muro, e compie il suo primo viaggio in Europa. In sua assenza si intensificano gli attacchi contro di lei da parte di uomini e donne scandalizzati. Nel 1959 va in Inghilterra a studiare cinema e nel ’62 gira un film sulla colonia di lebbrosi di Tabriz, per il quale ottiene il premio al miglior documentario. In questi anni in Teheran si registra una rinascita delle arti e della poesia e lei ne è una delle figure di spicco. Nel 1964 pubblica Nuova nascita, che i critici segnalano come un punto di svolta nella poesia iraniana moderna. Nel febbraio 1967 si preparava per interpretare il ruolo della protagonista nella Santa Giovanna di George Bernard Shaw, quando, al ritorno in macchina da una visita a sua madre, in un incrocio fu colta da malore e per evitare un veicolo sterzò verso un muro e morì.
Forugh Farrojzad era troppo inquietante per gli intellettuali iraniani, anche prima che cominciasse il regime degli Ayatollah. Era all’avanguardia nello stile di vita come nella scrittura. Introduce in poesia la conversazione, il linguaggio quotidiano, e con la stessa naturalezza adatta ad esso la metrica quantitativa tradizionale e, curiosamente, traduce il conflitto tra uomo e donna in un conflitto di stili.
“La mia esistenza intera è un verso oscuro”, così comincia Nuova nascita. Però, nei fatti, la sua poesia è un tendere verso la luce, verso “l’alba dell’eterno crescere”. La sua morte commosse l’Iran e circolò la voce che si fosse scagliata contro il muro deliberatamente. La poesia Si abbia fede all’inizio della stagione del freddo sembrava predirlo. Allora si disse che, tra i poeti dell’Iran contemporaneo, solo lei era paragonabile al grande Nima. Si disse anche che, dopo Hafez Shirazì, era lei il maggior poeta della letteratura iraniana. Una delle sue poesie che all’epoca costituì un grande scandalo, sebbene dal nostro punto di vista non sia possibile giudicare quanto fosse innovatrice, è la seguente:

MURAGLIE DI FRONTIERA 

Ancora una volta nella notte quieta
crescono come piante
le muraglie di clausura, muraglie di frontiera
per recintare i campi del mio amore 

Ancora una volta i rumori della città
come torbidi banchi di pesci spaventati
emigrano dalla mia riva scura
Ancora una volta le finestre
si aprono al gioioso incontro con i profumi sparsi,
gli alberi, nel giardino addormentato, si denudano della corteccia
e la terra, attraverso i miei pori,
assorbe indistinte particelle di luna.

***

Ora vieni più vicino
e ascolta
i palpiti ossessivi dell’amore
che si propagano
come il tam tam dei tamburi notturni
nel canto tribale del mio corpo

[…]

Io vengo dall’ultimo confine delle brezze
correndo attraverso il rifugio della notte,
e nel rifugio della notte
come una pazza mi abbatto
nelle tue mani con i miei capelli gravidi
regalandoti i fiori tropicali di questa zona verde e calda

[…]

Torna da me
torna all’inizio del mio corpo
al profumato centro del feto
all’istante in cui da te, di te fui creata
torna da me
che sono incompleta di te 

Ora le colombe
volano sulle cime dei miei seni
ora sui boccioli delle mie labbra
si sono posate le fuggitive farfalle dei baci
ora il mihrab1
del mio corpo
è pronto per la preghiera d’amore…

E passiamo da queste donne che lottano a viso aperto e dicono ciò che devono dire rischiando la vita, alle più occulte, alle più costrette al silenzio, cioè alle donne afgane con il corpo interamente coperto dal burka, compresi gli occhi, che nonostante tutto si sono espresse in brevi poesie che impressionano per la loro bellezza, la loro incisività e la libertà interiore che riflettono. Sono ovviamente poesie anonime, affidate all’oralità.

Fino a qualche tempo fa, le donne afgane potevano cantare mentre andavano a prendere l’acqua alla fonte o nelle feste. L’arrivo dei Taliban troncò queste minime libertà, però loro, di nascosto, seguitarono a cantare. Nonostante le misere condizioni di vita e pur essendo in genere analfabete, queste donne hanno mantenuto nella loro società l’arte della poesia per mezzo di componimenti brevi chiamati landay. Si tratta di versi non scritti che non seguono schemi né fanno riferimento ad alcun modello classico, ma conservano l’espressività emblematica delle voci del popolo. Sono semplici ed essenziali, cantano la natura, i boschi, i fiumi, le ore del giorno, o sono imperniati sul motivo della guerra, dell’onore, dell’amore, della morte: sono gridi del cuore, squarci di luce.

Presso i Pastùn, popolo guerriero per antonomasia i cui valori e i cui principi sono quelli della virilità e dell’onore, la donna si occupa del gregge, prepara da mangiare, cuce i vestiti, si occupa della concia delle pelli, irriga i campi, trasporta sulla testa pesanti fardelli… e non si lamenta mai. Tuttavia, pur estremamente sottomessa in apparenza, in realtà pratica la sua rivoluzione attraverso le forme del canto o del suicidio (v.: Sayd Bahodine Majruh,  El suicidio y el canto, Ediciones del Oriente y del Mediterráneo, Guadarrama, 2002). E la poesia, quando viene scoperta, equivale al suicidio.

L’amore della donna, presso i Pastùn, è una colpa grave che viene punita con la morte mediante lapidazione. Per questo motivo, quando una donna canta, i suoi versi sono dedicati all’amante lontano o contengono sarcasmi sull’uomo che non sa amare, e se in essi compare il marito, gli viene riservato l’epiteto di “piccolo orribile”, perché in genere si tratta di un uomo bambino, anche quando vanta una certa età.

 Il “piccolo orribile” non fa nulla, né l’amore né la guerra.
La sera, appena ha la pancia piena, va a letto e russa fino all’alba.

*

Apri una breccia nel muro e baciami la bocca.
Il “piccolo orribile” è muratore e saprà ripararla.

*

Vicino a te sono bella, bocca anelante, braccia aperte.
E tu, come un vigliacco, ti lasci cullare dal sonno.

*

Uno muore dal desiderio di vedermi almeno un istante,
l’altro mi caccia dal letto dicendo che ha sonno.

*

Se non sapevi amare,
perché hai destato il mio cuore che dormiva?

*

Oh, amore, se tremi tanto fra le mie braccia, che farai
quando il cozzare delle spade si trasformerà in mille lampi?

All’amante, invece, si riservano ben altri toni, a volte lo si invita anche a correre rischi:

Dammi la mano, amore mio, e andiamo nei campi
per amarci e cadere insieme sotto le coltellate.

*

Vieni pure crivellato dalle pallottole, amore,
io cucirò le tue ferite e ti darò la mia bocca.

*

Impara a mangiarmi la bocca!
Prima di tutto appoggia le labbra, poi forza dolcemente la linea dei miei denti.

*

Vieni e sii come un fiore sul mio petto,
perché possa rinfrescarti ogni mattina con uno scoppio di risa.

*

Sbrìgati, amore mio, voglio offrirti la mia bocca.
La morte si aggira per il villaggio e potrebbe portarmi via.

*

Amore mio, apri la mia tomba e contempla
la polvere che copre la splendida ebbrezza dei miei occhi.

La donna pastùn si confronta costantemente con la morte, canta il destino del corpo ed esalta il cuore come elemento della realtà fisica. In quanto creatura visceralmente terrestre, per lei la morte è un ritorno agli elementi: polvere, vento, erba, acqua, fuoco. Né l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’esercito sovietico, né i massacri e le deportazioni successive, né i Taliban sono riusciti a sradicare la sua necessità di poesia.

                                                                       (Traduz. di Franco Tagliafierro)

 

 

[1]Il miḥrāb è la nicchia che, all’interno di una moschea o di un edificio, indica la direzione della Mecca dove si trova la Kaʿba.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pace e guerra dopo l’11 settembre 2001

RIORDINADIARIO 2001. Appunti per un editoriale di inoltre 4 (nov. 2001)

Questi convulsi, eccessivi e  provvisori appunti,  estratti dagli articoli che lessi nel settembre di quell’anno su “il manifesto”, li  scrissi per orientarmi di fronte ad un evento che ammutoliva. E in vista di una discussione che speravo si potesse svolgere nella redazione della rivista “Inoltre” (qui), di cui allora ero “coordinatore per il Nord.  Non se ne fece nulla a causa di dissapori e tensioni interne tra i redattori. Li  usai poi in parte  per una conferenza  in un  Centro cultural di Santa Fiora (Grosseto) invitato nel novembre 2001 dall’amico Velio Abati.  Pur datati, contengono  spunti per riflettere a ventanni di distanza e sfuggire alla retorica  dell’anniversario che oggi viene imposta al mondo intero. [E. A.]

la bomba cade l'afghano
muore 
il mercante d'armi brinda il papa prega
il terrorista si prepara il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all'afghano che muore
al mercante d'armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc.
che muore
che non brinda che non manifesta che non scrive versi
che lontano, lontano
riceve solo la bomba  della nostra intelligenza

Ennio Abate 15 ottobre 2001


Premessa. Sorpresa, sconcerto, afasia, preoccupazione

(Prima  la guerra del Golfo, poi quella in Kosovo, ora Afghanistan e poi? Siamo alla terza guerra mondiale?). Senso di impotenza…come se il mondo fosse precipitato in un mostruoso videogame, in uno stadio infantile, presimbolico, pre-linguistico. Che è lo stato paranoide per definizione. Perciò dobbiamo parlare a tutti i costi. Per non restare affascinati e paralizzati dall’icona totale, dell’immagine spettacolare delle Torri incendiate e della Guerra globale. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

Anche “parlare a tutti i costi”, per ripetere «pace, pace» a chi continua  a bombardare, a tenerci all’oscuro dalle vere ragioni del conflitto (Cos’è, prego, la “lotta al terrorismo”? perché non si è fatta prima e in paesi dove i morti sono stati anche di più di quelli a New York? Perché fate improvvisamente la guerra a quelli che fino all’altro ieri erano vostri alleati: Saddam , bin Laden?), può essere solo sfogo impotente.

Dichiariamo la nostra debolezza. Non gonfiamo vanamente il petto. Non illudiamoci di poter trattenere i potenti che hanno deciso ancora di  scontrarsi. Non agitiamoci a vuoto, soprattutto. Cerchiamo di capire, prima di parlare. Sottoponiamo ad un filtro critico quello che vediamo e leggiamo. Prepariamo bene il terreno per azioni politiche veramente efficaci chissà quando contro la guerra.

(Questo è quanto ho cercato di fare in questi giorni. Qui ve ne do un resoconto, per quel che mi è possibile ragionato.)

  1. L’EVENTO: EMOZIONE, PROPAGANDA, PRIMI RAGIONAMENTI: Apocalisse o la solita guerra o un nuovo tipo di guerra?

 Un filosofo della politica – Carlo Galli, studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale , 27 sett  –  ci ha ricordatoche tutte le  tensioni della modernità sono esplose e devono essere date per «finite» dopo l’11 settembre. E sono tante: fine della fabbrica e trionfo della rete virtuale; fine del rapporto centro periferia e nuove gerarchie tra locale e globale; fine della lotta di classe tradizionale e esplosione di conflitti etnici e culturali; fine del comando della politica sull’economia; fine dello stato-nazione ma anche del diritto internazionale (sia  nella versione jus publicum europeum sia di quella bipolare della Guerra Fredda); fine del Nemico visibile e individuabile, statuale, e inutilità della coppia amico/nemico. E ha  dichiarato: «solo la teologia ci può aiutare a vedere e a capire»; e ha invitato anche lui a «rileggere i capitoli 17 [Il castigo di Babilonia] e 18 [La caduta di Babilonia] dell’Apocalisse», perché  ci manca – egli dice – un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui.

E a  molti, infatti, è venuta in mente l’Apocalisse. Hanno parlato di scenario apocalittico (Dio si sarebbe servito di un mezzo violento per far giustizia, per punire la tracotanza degli Usa). Bush e Bin Laden  vengono presentati come due eroi apocalittici della modernità  che si rimandano a vicenda le maschere del Bene e del Male (5 ott Lea Melandri). Questa immagine biblica, ridotta a «retorica» copre i conflitti reali. E anche se, scuotendosi e ragionando si ammette che non è stata apocalisse» (Rossanda, 22 sett.), – del resto siamo ancora vivi, per il momento – si insiste: l’«apocalisse» c’entra,  perché sarebbero rientrati in gioco i sentimenti elementari di  amore e odio e si cita Freud: «quel che vi è di primitivo nella psiche è veramente imperituro».

Altri – un’antropologa come Clara Gallini  (25 sett.) –  hanno insistito sullo smarrimento della ragione e fatto rilevare una sensazione di dejà vu: l’attacco alle Torri gemelle sembra avvenuto come «da copione». La cinematografia (proprio quella americana) da tempo ha addestrato l’occhio di milioni di spettatori a scene di attacco ai valori occidentali (la famiglia, la nazione). Riemersione dell’inconscio, dunque. L’arcano XVI dei tarocchi: una torre decapitata dal fulmine, il Re e l’Architetto che precipitano, il volto di dio che appare tra le nuvole (sostituibile nel caso con quello demonizzato di Bin Laden) non combacia forse perfettamente con quanto accaduto?

Di questa riemersione brutale dell’inconscio (politico occidentale) si possono trovare  altri mille esempi sui giornali, alla radio alla Tv; in questi giorni e altri ne appariranno nei prossimi. È un problema che vale la pena di approfondire.

La psicanalisi e l’antropologia non contano barzellette e sono strumenti che  fin dall’inizio del Novecento hanno dato l’allarme: attenti  alla Ragione assoluta! Non credete all’Universalismo occidentale!

Ma la riemersione dell’inconscio è cosa diversa dall’immersione compiaciuta nell’inconscio. Quando poi il fenomeno viene ridotto a pura propaganda degli Usa e al vilipendio del mondo che subisce i danni della mondializzazione, dobbiamo stare in guardia. Basta leggere (se ci riuscite…) l’articolo repellente di Oriana Fallaci. (….)

Accanto a queste posizioni che accentuano gli aspetti di catastrofe del mondo  contemporaneo, ce ne sono altre che tenacemente non rinunciano ai ragionamenti storico-politici, malgrado  lo scombussolamento delle categorie storiche e politiche.

Appartengono sia a quanti  provengono dal di fuori del mondo occidentale sia a chi ci è cresciuto dentro. Proseguono lo sforzo critico tipico della cultura nata dall’illuminismo.

È il caso di Umberto Eco […], di Sandro Portelli, di Rossana Rossanda. Con sfumature diverse  sostengono  quantomeno l’esigenza di distinguere, confrontare, tener conto dei fatti storici e della varietà delle culture, difendendo l’ibridismo, il relativismo culturale, messo brutalmente in discussione dall’attentato dell’11 settembre e dalle successive reazioni di guerra promosse dagli Usa.

In queste posizioni c’è uno sforzo di “razionalizzazione”, un saggio sforzo di spremere fino alle ultime gocce il limone della Ragione e non buttarlo via, dandolo per marcio. (A me  queste posizioni sembrano necessarie, anche se non sufficienti…)

Vorrei citare ora le obiezioni coincidenti che fanno Nedim Gürsel, scrittore turco (20 sett) : nessuno ha avuto l’idea di dire «siamo tutti algerini» quando le vittime del Fis si contavano a migliaia. Perché dirci «siamo tutti americani » ora?

E Rossana Rossanda:

Perché non abbiamo parlato di apocalisse di fronte ai 150mila sgozzati in Algeria, ai 6-700mila uccisi dagli Hutu, dei 300mila ammazzati in Irak durante l’operazione Tempesta nel deserto, al mezzo milione di bambini che vi muoiono per l’embargo, ai 35mila morti in Turchia, ai 70mila in India in questo stesso 2001? E i fondamentalismi  non li ritroviamo anche nell’ebraismo e nel cristianesimo?«Sharon non è gli ebrei, Pio XII non è i cattolici, Bush non è gli americani. (22 sett Rossanda)

Tutto lo sforzo della Rossanda tende al ridimensionamento razionale degli sfoghi «torbidi» su cui  i governi occidentali vanno costruendo la loro risposta di guerra:

l’11 settembre non è stata una guerra, non è stata l’apocalisse, non è stato l’assalto dell’Islam alla cristianità [tesi di Huntington], non è stato un attacco alla democrazia (al mercato), non è stata una vendetta dei poveri («Non è dei poveri né per i poveri la dirigenza della Jihad»).

La vera domanda: perché ora?  Fino a dieci anni fa la Jihad non era così forte e finora agiva solo all’interno dell’Islam (caso dell’Algeria) senza turbare gli occidentali. Si è pensato di allevare il terrorismo e di  servirsene. (22 sett. Rossanda).

Dicendovi quali sono i commentatori che dicoo per me cose valide e quali quelli da respingere (emblema per tutti: la Fallaci), vi ho dichiarato esplicitamente che sono contro la guerra promossa dagli Usa e a cui l’Italia ha aderito. Ma cosa significa essere contro la guerra oggi?

Rispetto, ma non mi basta il rifiuto emotivo e immediato della guerra.

Ci vuole un rifiuto ragionato, che deve nascere dalla conoscenza  della realtà d’oggi, dal recupero di certe precise memorie del passato, dalla riflessione sui problemi (economici, politici, culturali, morali) aperti e irrisolti e non dalla loro semplificazione unilaterale e di comodo.

Non bisogna affrettarsi a rifiutare la guerra a parole. Spesso ci ritroviamo a sostenerla, senza neppure accorgercene: per il semplice fatto di vivere qui, in Occidente. O per il semplice fatto di avere acquisito mentalità e stili di vita forgiati di fatto dall’americanizzazione dell’Italia cominciata almeno dal 1945.  Altre volte ci siamo ritrovati ad opporci ma nei modi rituali e praticamente inefficaci del passato. (Ricordiamo che le manifestazioni contro la guerra in Kosovo accompagnarono la guerra, non  la fermarono).

E allora  consideriamo alcuni dei problemi posti da questo ritorno della guerra:

  1. sulla novità dell’evento dell’11 sett.

Chomsky (20 sett) ha sostenuto che rispetto all’evento caduta del muro di Berlino quello dell’11 sett contiene una novità assoluta. Per il suo obiettivo. È la prima volta dal 1812 (guerra angloamericana sul confine canadese) che il territorio  nazionale degli Usa viene attaccato. Egli ha respinto il paragone con Pearl Harbour (7 dic. 1941): lì furono attaccate solo le basi militari statunitensi di stanza in due colonie. Per lui, siamo di fronte a qualcosa di «radicalmente nuovo».

Altri riconoscono che la novità in assoluto svelata dall’11 sett. è la vulnerabilità degli Usa (Parlato 16 sett), ma una cesura epocale la vedono nella caduta del muro di Berlino (1989), che con il crollo poi dell’Urss ha fatto precipitare l’equilibrio bipolare Usa- Urss e ha dato luogo all’attuale fase di disordine mondiale, di cui non si vede sbocco certo (Impero? Guerra mondiale? Guerra globale interminabile?).

Accentuare o meno la novità dell’evento non è senza conseguenze.

Affermare – come fa lo storico Chesneaux (23 sett.) e alla maniera di Benjamin – che l’11 settembre è un momento singolare, un vortice che ha messo a nudo non solo la vulnerabilità degli Usa ma di tutta la società sviluppata (il cuore della mondializzazione capitalistica), per cui tutte le grandi metropoli sono minacciate dal terrorismo di distruzione di massa, anch’esso nuovo e quindi non riconducibile a quello di inizio ‘900, che colpiva al massimo un arciduca o un presidente, può voler dire che la conoscenza della storia  passata ci aiuta poco; e che dobbiamo, invece, far fronte ad una situazione in gran parte ignota.

L’eccezionalità dell’evento non significa però affermare automaticamente che il nuovo terrorismo transazionale sia davvero il pericolo principale. Può voler dire che la mondializzazione in corso non è padroneggiata neppure dagli Stati Uniti, che pur sono la potenza militare egemone; e che il terrorismo – come  dicono  molti – è in pianta stabile all’interno stesso del mondo globalizzato. E, se un evento eccezionale richiede una reazione eccezionale, non è detto che  la giusta reazione eccezionale sia la guerra.

Una «vera guerra al terrorismo», come fatto eccezionale, visto che molti terrorismi non hanno avuto nessuna risposta (Algeria, etc) o non hanno avuto una risposta di guerra (contro Saddam si parlò di «operazione di polizia internazionale»)  dovrebbe assumere forme diverse da quelle tutto sommato “tradizionali” dell’intervento in Afghanistan.

David Held Mary Kaldor (28 sett) è convinto, ad esempio, che la guerra vecchio stile fra gli stati sia diventata anacronistica e  che la vittoria militare  sia molto difficile se non impossibile. Il rischio, dunque, è di reagire all’11 sett.  come se fossimo di fronte a una «guerra vecchia», concentrando l’azione su alcuni stati (Afghanistan, Pakistan). Con il risultato di  scatenare una «nuova guerra» tra Islam e Occidente, che non sarebbe però  più tra stati ma si svolgerebbe all’interno di ogni comunità e sia in Occidente  che in Medio Oriente.

Richard Falk (23 sett ), un teorico della democrazia internazionale sostiene che quella a cui si andrà incontro sarà «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media: «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», perché avviene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.

Troppe cose, dunque, rendono sospetto questo gridare «al lupo! al lupo!»  dei governi occidentali, che hanno parlato immediatamente  di guerra e p rima evocato  e poi negato la loro volontà di andare ad  uno «scontro di civiltà» (Huntington).

Vediamole.

  1. Cause.

Almeno dal 1989 si è parlato con entusiasmo di «fine del comunismo», di «fine della storia» (Fukuyama). Nel frattempo è andata avanti una mondializzazione finanziaria e tecnologica che ha rappresentato il feticcio a cui tutto sacrificare (stato sociale dei paesi avanzati, diritti umani in decine di paesi: dalla Cina alla Turchia, all’Algeria, alla Palestina, ecc.).

Adesso siamo al baklash (Chesneaux, 23 sett.), al rinculo, all’arresto del progresso (economico, tecnologico). Abbiamo voluto il «laissez faire» economico assoluto e ci svegliamo con la rete di Bin Laden che realizza l’impensabile (Chesneaux).

Chossudovsky, economista canadse, autore di «La mondializzazione della povertà» (19 e 20 sett) ha – come molto altri – fatto rilevare che Bin Laden  e la Jihad islamica sono stati sostenuti da Usa e Arabia Saudita per combattere  contro i sovietici, invasori dell’Afghanistan, allora (1979) in mano al regime comunista di Brabak Kamal. E l’hanno fatto non in modo aperto, ma usando l’Intelligence militare pakistana (Isi), che ha un apparato di 150mila uomini,  attraverso la CIA. Ed ha anche denunciato che tutta la storia del traffico di droga nell’Asia centrale è collegata a queste operazioni coperte della Cia: nei primi due anni di guerra fra afghani e sovietici «la zona di confine Pakistan-Afghanistan divenne il principale produttore di eroina al mondo, fornendo il 60% della domanda Usa. Con la conseguenza che in Pakistan, la popolazione tossicodipendente passò da quasi zero nel 1979 a 1.200.000 persone nel 1985. La Cia controllava questo traffico di eroina. La Dea (Drug Enforcemente Agency) a Islamabad evitò di pretendere grosse confische di droga o arresti «perché la politica sui narcotici Usa in Afghanistan [era] subordinata alla guerra contro l’influenza sovietica».

Chossudovsky ha anche  scritto: «Sostenuto dall’intelligence militare pakistana (Isi), che a sua volta è controllata dalla Cia, lo stato islamico talebano è stato largamente funzionale agli interessi geopolitici americani. Il traffico del Goden Crescent [la zona di produzione e smercio dell’oppio] è stato anch’esso usato per finanziare ed equipaggiare l’esercito musulmano bosniaco (a partire dai primi anni ’90) e l’esercito di liberazione del Kosovo (Kla). Esistono prove che negli ultimi mesi i mercenari mujahideen stanno combattendo nei ranghi dei terroristi Kla-Nla in Macedonia. Questo spiega perché Washington ha chiuso gli occhi sul regno del terrore imposto dai Taleban, inclusi i plateali attacchi ai diritti delle donne, la chiusura delle scuole per le bambine, i licenziamenti femminili dagli impieghi pubblici e l’imposizione delle leggi punitive della Sharia».

 E ancora: «Dall’epoca della guerra fredda, Washington ha appoggiato consapevolmente Bin Laden, inserendolo nello stesso tempo nella lista dei «most wanted» dell’FBI come principale terrorista del mondo. (L’FBI, infatti, combatte una guerra interna contro il terrorismo per alcuni aspetti indipendentemente dalla Cia che, ha, dalla guerra in Afghanistan in poi sostenuto il terrorismo internazionale attraverso le sue operazioni segrete). Per una crudele ironia, mentre la jihad islamica viene criticata per gli attacchi terroristici sul World Trade Center e il Pentagono, queste stesse organizzazioni islamiche costituiscono uno strumento chiave delle operazioni americane militari e di intelligence nei Balcani e nelL’ex Urss (cfr. Cecenia)».

Mumia Abu-Jamal (25 sett ), poeta scrittore detenuto negli Usa, ha citato le dichiarazioni di un diplomatico americano: «Non si possono immettere miliardi di dollari in una jihad anticomunista, coinvolgere il mondo intero e poi ignorarne le conseguenze. Ma noi lo abbiamo fatto. I nostri obiettivi non erano la pace e lo sviluppo del’Afghanistan. Il nostro scopo era uccidere i comunisti e buttare fuori i russi» (un diplomatico Usa, sul Los Angeles Times 4.09.96)

Anche Johan Galtung (11 ott.), sociologo e matematico norvegese, fondatore nel 1959 del Peace Research Institute Oslo (PRIO), mette l’accento sulla situazione che ha dato esca alla scelta  della vendetta. Il sentimento di vendetta (l’odio di cui sono fatti oggetto gli americani e non solo loro) è maturato «per l’uso statunitense del potere economico contro stati e popoli poveri, del potere militare contro gente indifesa e del potere politico verso i senza potere». E ricorda «i 230 interventi militari statunitensi all’estero, il quasi sterminio dei nativi americani, lo schiavismo, la responsabilità della Cia per i 6 milioni di persone uccise tra il ’47 e l”87 (secondo fonti dei dissidenti della Cia) e i 100.000 che muoiono ogni giorno all’estremo inferiore di un sistema economico identificato da molti con il potere economico, militare e politico degli Usa».

L’Occidente impone un’enorme ingiustizia al resto del mondo in politica e in economia. Secondo l‘ultimo Pnud ( Programma di sviluppo delle Nazioni Unite) il patrimonio di 15 uomini più ricchi del mondo è pari al pil dell’Africa subsahariana (700-800 milioni di persone) (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo).

Qualcuno potrebbe giudicare fastidioso questo “rimestare” nel passato della più grande potenza mondiale. Ma  la storia, che i potenti danno per «finita» non fa che riportare continuamente alla luce i massacri su cui si edificano le civiltà.

Da dove viene, dunque, il “terrorismo”?

L’attacco alle Twin towers e al Pentagono – scrive  Burgio (27 sett)  –  non nasce in un vuoto pneumatico, ma in un preciso contesto economico e politico. C’è stata e c’è sordità delle grandi potenze nei confronti delle richieste economiche dei paesi poveri e delle istanze politiche delle popolazioni oppresse. Pochi sanno che metà del bilancio militare Usa basterebbe a eliminare la fame nel mondo. E il tragico fallimento dei sistemi di intelligence  non permette di escludere un’atroce ipotesi:  quella di una «strategia intestina, di una complicità con i commandos terroristi da parte di apparati deviati interni agli Usa o ad altri paesi occidentali. [Ecelon, preparazione durata mesi del piano, sottovalutazione di informative, rapidità successiva nell’individuare presunti complici, conoscenza dei codici cifrati  del luogo in cui si trovava il presidente].

Burgio – a differenza di molti altri che presentano la risposta di guerra  di una potenza mondiale come risposta emotiva  o giusta punizione per un massacro subito ingiustamente  e senza alcun motivo (come fa Lucia Annunziata a Radio 3) –  ricorda che la guerra  come rilancio di un’economia in recessione [un keynesismo militare» secondo Raskin] è un volano per il sistema militare-industriale Usa. [Lo ha scritto anche l’economista Graziani sul manifesto del 19 sett].

Obiettando poi a quanti insistono sulla novità eccezionale dell’evento e  vogliono iscrivere la risposta Usa all’interno di una logica imperiale[1] invece che imperialista – la prima più capace di egemonia e consenso, la seconda costruita sull’esclusivo uso della forza – sottolinea gli elementi di continuità col passato della risposta americana:  l’operazione di Bush junior  non è una nuova  guerra ma  la prosecuzione coerente della guerra del Golfo di Bush padre: «il collegamento con la presenza militare nei Balcani seguita alla guerra in Kosovo – scrive Graziani – creerebbe una cintura  completa, una nuova frontiera fra occidente e oriente», un nuovo bipolarismo, una sorta di «autodifesa preventiva» contro la Cina, che nel 2017 si prevede divenga potenza militare ed economica pari agli Usa.

Sulla sua stessa linea troviamo:

– Carla Ravaioli (25 sett), la quale fa presente che le guerre hanno risolto tutte le depressioni, tutte le crisi economiche del secolo scorso: a partire dai due conflitti mondiali, continuando con la Corea, il Vietnam, il Golfo e le mille guerriglie locali. Nel processo di accumulazione del capitalismo, fondato su una logica di crescita senza aggettivi, la produzione di armi s’inserisce bene anzi benissimo in certe circostanze.

Dinucci e Di Francesco (27 sett.), che hanno sottolineato come il centro della strategia militare degli Usa si stia spostando verso l’Asia. L’attentato di N. Y. ha solo accelerato questa prospettiva, che era già pronta. [addestramento piloti a lunghi percorsi di 50 ore dalle basi del Missori all’Asia]. La Nato prosegue la sua espansione verso l’Est contro la «nuova minaccia dall’est»: ieri Milosevic, ora bin Laden]. E che la posizione strategica del’area Afghanistan-Pakistan: vicina alle due potenze emergenti dell’India e della Cina, prossima al territorio dove si prevede la «guerra degli oleodotti» [ orridoi che portano il petrolio ai paesi consumatori].

È troppo facile liquidare questi dati come ragionamenti “economicisti”. Dopotutto le scelte politiche che contano le fanno oggi proprio élites che guidano l’economia mondiale. E la guerra non è stata mai esclusa dai calcoli dei potenti.

Non dissimili le considerazioni dello storico Hobsbawm (28 sett):

 – evitare la retorica e la propaganda americana;

– finora la conseguenze più importante degli attentati americani hanno riguardato l’economia mondiale, con l’affondamento delle piazze finanziarie;

«viviamo in un mondo globalizzato.. la circolazione di persone da un oceano all’altro è il fondamento dell’esistenza del mondo d’oggi.. bisogna viverci sforzandosi  di controllare gli aspetti insopportabili del fenomeno. Il terrorismo, le mafie, il mercato delle droghe sono «figli» della globalizzazione»;

Il capitalismo trascina il mondo verso un’implosione o un’esplosione e pone enormi problemi tra cui la crescita del fanatismo e dell’irrazionalismo. Ma il rischio di una guerra mondiale «mi sembra impossibile salvo, forse un giorno, tra Stati Uniti e Cina»;

–  c‘è una sola potenza egemonica e rispunta la questione dell’imperialismo o piuttosto del colonialismo: ci sono paesi occupati la cui politica interna è nelle mani di eserciti stranieri;

– gli Usa non sono in grado di dominare un mondo «complicato, in permanente trasformazione come il nostro». I governanti degli Usa sono troppo trionfalisti. Si sono creduti onnipotenti. I governanti inglesi nel XIX sec., quanto l’impero britannico esercitò la sua egemonia, erano più realisti: non pretendevano di controllare tutto. Dovrebbero ripensare ciò che possono fare, riconoscere i loro limiti;

– il primo problema è nelle strutture dell’economia e nella dialettica tra l’ economia e i  governi; il secondo problema sta nella «sconfitta delle antiche ideologie di mobilitazione dei popoli fondate sulle grandi rivoluzioni (americana, francese, russa). Tutta la tradizione razionalista è coinvolta e «lascia uno spazio enorme ad altre forze»;

– preoccuparsi dell’India (salita vertiginosa dell’economia e delle capacità intellettuali), della Cina (il gigante economico di questo secolo), delle «regioni tragiche» (Africa subsahariana e ex Urss (qui la crisi dell’agricoltura supera quella dei tempi della collettivizzazione), delle «regioni incerte» come l’Europa (l’antico progetto europeo è in un vicolo cieco).

  1. Sugli effetti (politici, culturali, economici) prevedibili dell’evento

Senz’altro sono disastrosi sia per chi volesse “la pace e basta”, sia per chi vuole una pace qualificata da più giustizia sociale e l’incoraggiamento dei processi di liberazione.

L’evento rallenterà la protesta mondiale contro la globalizzazione:  le atrocità terroristiche sono un regalo a chi è favorevole alla loro repressione (20 sett Chomsky)

Assisteremo a un grande rilancio delle vendite del libro di Huntington sullo scontro delle civiltà (16 sett Parlato) e quindi ad un inquinamento propagandistico che distrarrà le menti dalla realtà dei problemi. (Chi parla più dei fatti di Genova? E chi parla  delle decine di migliaia di licenziamenti che stanno investendo tutti  i settori economici dopo l’11 sett.?)

 Nel disastro, alcuni sperano, ma sono quasi immediatamente contraddetti dai fatti:

Ciotti (22 sett)  si aspettava «un soprassalto di lucidità nei governi e nella coscienza collettiva, nella società civile globale, per interrompere finalmente la spirale dell’odio e del terrorismo.. sottraendosi al copione già scritto della rappresaglia […].

La crisi dell’11 sett potrebbe portare ad un ridimensionamento dell’ultraliberismo e ad un intervento dello stato? (Molti fanno l’esempio del risparmio sul costo del lavoro: subappalto dei controlli dei varchi negli aeroporti che ha aperto le porte alle infiltrazioni terroristiche (16 sett Parlato))

Oppure auspicano che i pacifisti più convinti dovrebbe trovarsi proprio nella comunità degli affari. Non si fondano sulla certezza delle aspettative in economia? (16 sett Parlato)

Possiamo restare appesi a queste dichiarazioni di speranza sull’America, mentre il grosso del paese e tutta la sua dirigenza politica e culturale (tranne  alcune mosche bianche: Sontag, ecc.) hanno imboccato la via del fondamentalismo proprio come dall’altra parte della galleria l’ha imboccata bin Laden?

Riporto  le riflessioni di Saskia Sassen (18 settembre):

  • i leaders statunitensi attuali non vogliono comprendere altri linguaggio che quello della guerra, si trincerano dietro il muro di prosperità e non esitano – quando intervengono all’esterno – a puntare innanzitutto sul controllo militare di un paese anche se esso non fa che aumentare la povertà della popolazione;
  • il tono dominante nei mass media è quello di chi vuole la guerra, non di chi chiede peace, not war;
  • ostilità contro il “nemico interno”: comunità musulmane e migranti in genere – razzismo rinfocolato – sicurezza:  si discute per ridare agli agenti della Cia la possibilità di eliminare fisicamente leaders e esponenti politici stranieri “nemici degli Usa”.

Mi sento più vicino a chi non crede nella capacità autoriformatrice  del capitalismo e del mondo occidentale.

 «Ci sarà più Stato» è affermazione ambigua – dice Latouche – Non è che ci sarà più Stato sociale. L’aiuto va alle imprese in difficoltà non ai «20-30 milioni di persone che negli Usa vivono sotto la soglia di povertà». Ci sarà la rinuncia al dogmatismo ideologico ma «in nome della difesa degli interessi interni degli Stati Uniti». Siamo arrivati all’ultraliberismo. Per gli Usa «la liberalizzazione va bene per gli altri… loro sono il paese più protezionista» (Cfr. negoziati Gatt e Wto)  (3 ott. Latouche, economista, autore di L’occidentalizzazione del mondo)

Né sembra che la paura del terrorismo possa avere  qualche benefico effetto, risvegliando i governi e spingendoli almeno ad un maggior controllo fiscale. Scetticismo sull’intenzione di «controllare i paradisi fiscali». È’ difficile distinguere fra un dollaro pulito e uno sporco. I paradisi fiscali servono ai terroristi ma servono anche alle multinazionali (3 ott. Latouche)

AMERICANIZZAZIONE: SIAMO TUTTI AMERICANI=SIAMO TUTTI ITALIANI  O ANTIAMERICANI  O FILOAMERICANI O IBRIDI?

Portelli, America e luoghi comuni (manif 20 ott 2001)
Lo sforzo di Portelli è quello di distinguere. «L’America è una realtà composita, complicata, pullulante» – ha scritto –  e «la vicinanza culturale, i rapporti, i contatti con gli Stati Uniti che in misura diversa tutti noi intratteniamo sono una delle ragioni per cui la strage dell’11 settembre ci ha così ferito». Una sua studentessa  gli ha confessato che«è la prima volta che un pezzo della sua memoria viene cancellato da un atto di violenza».

Pugliese 28 sett.

  • la parte più bella dell’America è che è un paese che non si è mai vergognato di definirsi paese d’immigrazione;
  • con la globalizzazione l’America è potenza militare unica, ha conquistato tutto. Tutto domina e tutto contiene in sé: i terroristi possono comprarsi un bel corso per pilota solo in America e il mestiere di terrorista l’hanno imparato dagli americani e forse in America.

 

Cartosio (20 sett) appare scisso, dilaniato  fra amore e repulsione:

  • non possiamo scagliare invettive contro gli Usa come hanno fatto la Sontag [ non è un attacco  alla civiltà, all’umanità, alla libertà, al mondo libero ma un attacco all’autoproclamata superpotenza del mondo] e Bellow [ gli Usa sono un enorme paese dei balocchi e gli americani bambini viziati che si illudono di giocare per sempre] [ma sono invettive o verità?]
  • siamo comunque più vicini alla storia degli Usa (li conosciamo, li frequentiamo, li amiamo), che ai paesi islamici o asiatici (nel nostro rapporto con questi mondi non c’è ancora nulla di intimo).

[profondità dell’americanizzazione] [ma non è una colpevole ignoranza conoscere  i luoghi degli Usa e non conoscere l’Iraq o la Palestina? Non ci dice che ci siamo spostati verso i ricchi e ci siamo allontanati dai poveri? E il giudizio politico critico verso i bombardamenti Usa, se «non smette di essere intriso dell’effetto, e quindi del risentimento», sarebbe viziato?  Dobbiamo venire a sapere dopo – quando Clinton  chiede scusa al Guatemala per i 200mila morti del golpe del 1954 – che la politica estera americana è omicida? Nei confrotni degli Usa siamo come i comunisti  del PCI rispetto ai gulag di Stalin?

Più distaccato Ceserani (20 sett):

  • reazioni della gente: tendenza puritana a chiudersi nella famiglia, a concentrarsi sul proprio lavoro e sulla propria missione al mondo [come invitano a fare Mengaldo e Ranchetti?];
  • Bush retorica rozza da sceriffo di frontiera;
  • paese ricco di capacità tecniche e intraprendenza economica, ma privo di intellettuali capaci di analisi (effetto del postmodernismo): uniche eccezioni Chomsky e la Sontag; vuoto pauroso: nessun giornale che possa assomigliare al” manifesto” o anche solo a “El pais” o al “The Guardian”; debolissime le università, poste sotto assedio da tempo dalle corporations (già “americanizzate” insomma, cioè precocemente professionalizzanti e basta);
  • si potrebbero leggere i fatti alla luce dell’immaginario sulla cospirazione (congiura di corte, società segrete d’inizio Ottocento, reti comunicative complesse e autoreferenziali  postmoderne ( es. romanzi di Philip Roth e Pendolo di Foucault di Eco)

Davvero critico  Latouche (3 ott):

la solidarietà immediatamente scattata fra tutti i paesi ricchi  che hanno fatto blocco con gli Usa (Chirac: siamo tutti americani), è la prova  che l’occidentalizzazione esiste.

L’Europa, non colpita, poteva distinguersi, ma non l’ha fatto:

– cecità americana: l’americano medio ignora il resto del mondo [Cartosio in parte…]. come possono mettersi dal punto di vista degli altri?

«Non siamo tutti americani [slogan lanciato su Corriere della sera  e Le monde] – io almeno non lo sono» .

 Siamo deboli ma possiamo dire che Bush è pazzo pericoloso, non colpirà la Jihad ma molta gente senza colpa e spingerà gli Stati Uniti a vivere assediando il mondo e ad esserne assediati.( 22 sett Rossanda)

Tonello (22 sett):

  • cosa significa essere americani è problema irrisolto: cfr Michael Walzer, Che cosa significa essere americani, Marsilio 1992
  • Hofstadter: l’incertezza ha un motivo profondo: l’America è un’ideologia, un progetto non un luogo fisico con dei confini;
  • Gleason: per essere o per diventare americano non era richiesto nessun retroterra etnico, religioso, linguistico o nazionale; l’immigrato doveva solo impegnarsi in una ideologia politica centrata sugli astratti ideali della libertà, uguaglianza e repubblicanesimo;
  • Visione autoritaria della cittadinanza: Love it, or leave it = amate l’America o andatevene [ gli indiani d’America  eliminati appunto in quanto «non americani», segregazione razziale, internamento di giapponesi e italiani durante la seconda guerra mondiale]
  • il maccartismo torna alla ribalta con il pretesto del terrorismo [etichetta appiccicata a discrezione del Dipartimento di Stato] (presentato come barbarico, privo di ragioni, irrazionale e inspiegabile [!], mentre è chiaro che si propone di punire gli Usa per il loro appoggio a Israele e ai regimi arabi «empi» come l’Arabia saudita.
  • I media dicono che si odia l’America perché ricca, tollerante e moderna. Molti invece la odiano per quel che fa in appoggio a regimi corrotti come quello saudita, per il sostegno  d’armi a Israele, per il suo disinteresse  verso chi vive nei campi profughi;
  • Fukuyama su Le monde intitolava il suo articolo l’etat uni: l’America è una sola, non più pluralista, contraddittoria, ferocemente attaccata alle libertà individuali

L’esigenza di tirarci fuori dall’americanizzazione, che danneggia gli stessi americani, è stata sottolineata da Busi 18 sett:

  • Quanto è amico Bush che ha respinto il trattato antipolluzione di Kyoto? Quant’è amica Israele che ha abbandonato la conferenza di Durban contro il razzismo?
  • Antiamericanisti sono gli americani stessi: cita Philiph Roth, La macchina umana, dove un reduce del Vietnam viene disprezzato dai suoi stessi concittadini, che non gli perdonano di essere tornato a casa, testimonianza vivente di un orrore che essi non vogliono guardare;
  • L’attentato alle Twin Towers è impensabile senza una rete di traditori in giacca e cravatta, bianchi e neri come noi, non afghani, non palestinesi, non irakeni, non coreani, non vietnamiti; una rete di connivenze che non può essere tutta e sola emanazione di Kabul e di qualche riconoscibile imam; e l’America deve interrogarsi innanzitutto sul numero di cittadini americani antiamericani;
  • Non si combatte un fondamentalismo alieno con un altro fondamentalismo;
  • L’inferno diceva Sartre sono gli altri, cioè le loro ragioni contrarie alle nostre;
  • Anche il cattolicesimo ha avuto il suo fondamentalismo e il suo bin Laden si chiamava Torquemada.
  • Il fondamentalismo islamico ha un alibi in mezzo secolo di guerre americane in Medio-oriente

FONDAMENTALISMO, TERRORISMO: fondamentalisti sono solo gli “altri”? I fondamentalisti arabi RAPPRESENTANO o NON RAPPRESENTANO I POVERI, GLI ESCLUSI? E i fondamentalisti nostrani? [pensa a Taguielff sul razzismo…]

 Gilles Kepel (autore di Jihad ascesa e declino) (2 ott):

  • Jihad significa sforzo per essere un buon musulmano (equivale al laico-borghese streben?) fino alla guerra santa contro gli empi;
  • 1. In Afghanistan la corrente salafista-jihadista nata nell’ ’80 è stata finanziata da Arabia saudita e Cia; 2. I movimenti religiosi islamici diluiscono e mascherano le conflittualità sociali  e non sono affatto omogenei («i musulmani non sono una massa di poveracci a piedi nudi; importante il peso delle classi medie: commercianti e massa di studenti; i kamikaze provengono da classi medie, hanno studiato e appartengono a buone famiglie [ dati tratti dai siti internet con le biografie dei “martiri della jihad”); 3.  La jihad  solo in particolari contesti assume la  forma di guerra santa, «provvedimento a doppio taglio che può rivoltarsi contro chi la proclama perché sospende gli obblighi che regolano la società»; 4. fortissimo per i movimenti  islamisti è il «senso di appartenenza alla modernità tecnologica» («speciale vocazione mediatica», «dimestichezza con le nuove tecnologie», molti  vengono fuori dalle facoltà di scienze applicate (ingegneria, medicina, informatica); gruppi finanziari  che usano bin Laden e sono da lui usati, database di bin Laden fin dall’88 coi dati di tutti gli jihadisti e volontari passati per i campi di addestramento); 5. I talebani si sono formati alla “scuola deobandita”, una filiazione poco nota dell’Islam e vogliono edificare una sorta di controsocietà religiosa senza stato;
  • Declino dei movimenti islamici fondamentalisti ( tesi di Kepel): l’ideale religioso è in contrasto con un progetto politico moderno. Tentativo Usa di evitare la saldatura fra talebani e masse musulmane divenute fortemente ostili agli USA per la loro politica mediorientale.

Sull’ambiguità del fondamentalismo:

  • fondamentalisti sono gli Usa (a livello di cultura popolare); e nel mondo islamico, a parte i talebani, lo è l’Arabia Saudita, stato-cliente degli Usa dalle sue origini: Negli anni 80 gli estremisti fondamentalisti islamici erano i favoriti degli Usa, perché erano i migliori killer che si potessero trovare. (Chomsky 2o sett);
  • terrorismo e guerra. Sinonimi: il terrorismo è una variante, una manifestazione della guerra (Bascetta 16 sett);
  • Parafrasando Clausewitz: il terrorismo è la continuazione della guerra con altri mezzi… (Parlato16 settembre);
  • Bidussa (28 sett): Contro Panebianco (Corriere della sera 26 settembre) che esprime «uno stato d’animo» presente anche in molti settori della sinistra, non basta l’ironia, la considerazione semiseria o la citazione giusta: accettare il relativismo culturale equivale a svendere la propria identità e non possederne una [aggiungi Galli Della Loggia: la crisi del patriottismo non va cercata nel fascismo ma nella crisi dopo l’8 settembre e quindi nell’antifascismo, (Dal Lago 29 sett)];
  • Richiama Veca (un liberale “intelligente”) che afferma «Noi siamo fatti di cose in prestito» e Ernst Gellner (Ragione e religione, Il Saggiatore che sostiene la stretta parentela fra fondamentalismo e relativismo;
  • Il fondamentalismo non è la rivincita della tradizione contro la modernità ( come parrebbe bin Laden) ma l’adesione a una forma IDEALIZZATA di civiltà. L’autoreferenzialità (narcisistica) sostiene la mentalità fondamentalista ma anche quella relativista, nominalmente disponibile e aperta al confronto: l’esempio di Robinson Crusoe, che si crede cittadino del mondo, esterofilo, attratto dall’esotico e dall'”altro”, ma la cui massima aspirazione è «invecchiare a casa propria» [cfr Umberto Eco…) Per lui l’incontro con l’altro è solo un «corpo a corpo da cui si esce o sconfitti o vincenti». La posta in gioco è l’inclusione dell’altro o l’esclusione. Non è prevista nessuna metamorfosi o trasformazione dell’identità. Una figura mista, in questa dinamica, non ha senso;
  • Chesneaux (23 sett):

Ci sono migliaia di siti internet integralisti, una prova dell’irresponsabile feticismo della mondializzazione finanziaria e tecnologica considerata come base principale della liberazione umana. L’avvenire radioso tutto tecnica e soldi, come dopo la caduta dell’Urss, la fine della storia di Fukuyama. Si è voluto il «laissez- faire economico assoluto e ci svegliamo con la rete di bin Laden che realizza l’impensabile»;

  • Huntington non ha ragione: non siamo allo scontro di civiltà. L’Islam non è unito e neppure l’occidente è unito;
  • Siamo allo scontro fra ricchi e poveri?

Islam=povertà? «L’Islam è in effetti la forma più organizzata, elaborata e dinamica del mondo della miseria. Vorrebbe rappresentare una contropartita alla mondializzazione tecnologica e finanziaria, ma non credo si possa sostenere che l’islam sia il rappresentante principale di questo mondo della miseria» È ambiguo [ ma non lo era anche il comunismo, le dirigenze leniniste erano forse operaie?]

  • C’è un Islam che non accetta di rispettare la società civile, di fare della religione un fatto privato, ha mire totalizzanti. È un problema.

[perché solo gli Usa possono essere terroristi o manovrare terroristi [George Monbiot (7 nov): Se  bisogna eliminare al-Queda come terrorista, perché non eliminare la Scuola delle Americhe, che dal 1946, a Fort Benning in Georgia, ha “laureato” terroristi, torturatori e dittatori latinoamericani?]  e altri no? È giustificata la loro pretesa di potere imperiale? Il loro monopolio della forza? ottenuto come? Cosa ha di così diverso dalla guerra il terrorismo? I  terroristi di oggi non rischiano di diventare gli statisti di domani?

Bascetta (16 sett):

–     la riscoperta del patriottismo non è una benedizione ma è devastante;

  • antiamericanismo e filoamericanismo: ottuse semplificazioni fondamentaliste;
  • liberismo dogma simile a quello coranico: Scuola di Chicago=scuola coranica;
  • movimento antiglobal l’unico antidoto efficace (?). non ha bisogno di essere né americano, né antiamericano;

Saskia Sassen,  autrice di «Global City» (18 sett.):

  • non ogni povero è potenziale terrorista; ma la scelta terrorista è parte dello scenario attuale fatto di miseria-povertà – interdipendneza economica;
  • Accelerazione verso un potere unico mondiale che fa svanire l’equilibrio conflittuale tra Usa e Europa;
  • Y. concentrato di competenze ineguagliabile; la distruzione delle Twin Towers farà abbassare i prezzi dei terreni e degli immobili, possibile una free zone per spregiudicate operazioni immobiliari.E adesso? Pace  si dice, guerra si fa

 sui risvolti filosofici (di filosofia politica) dell’evento

Tutto è simile e tutto è diverso dall’inizio della modernità, leggermente diverso, ma quanto basta perché sia completamente diverso.

Quelli erano tempi di teologia politica: bisognava creare un ordine a partire da un bisogno di secolarizzazione, facendo «come se Dio non ci fosse». Oggi è il contrario, tutti sembrano agire «come se Dio ci fosse», mentre la sovranità politica [la politica] decade irreversibilmente. .. (Carlo Galli,  manifesto 27 sett. 2001)

 Salamon: nessuna forma d’immaginazione supera negli uomini quella del male = è più facile e meno faticoso fare il male piuttosto che il bene (16 sett Parlato)

[Vedi anche Sofsky, Sulla violenza  e Revelli, Oltre il Novecento]

Siamo al grande ritorno delle religioni: non più oppio ma cocaina dei popoli (16 sett Parlato)

Anche i latini dicevano che era giusto morire per la patria e per chi ci crede la religione è più importante della patria (16 sett Parlato) [ Vedi anche Saramago]

 Viviamo in un mondo dove il rischio è ormai generalizzato:«All’uomo contemporaneo, e la cosa non è stata mai così forte nella storia come ora, può succedere o in ogni momento qualcosa di totalmente imprevisto. Abbiamo insomma tutto da perdere. E questo fa la forza del sud, dei deboli: loro non hanno nulla da perdere». (3 ott Latouche).

Johan Galtung,  Il pacifismo tra i Cruise e la Jihad, (manif. 11 ott.):

Invita a non sottostimare il grado di solidarietà nel «resto del mondo» e  la solidarietà della «classe superiore mondiale», ben evidente in questi giorni [Latouche anche]

Riconosce che «la catena della violenza e della vendetta è un fatto umano» [Sofsky]..

La prospettiva è quella pacifista: «l’uso della violenza contro la violenza è controproducente (Gandhi).

Si deve fare affidamento «sulle popolazioni e sulla società civile» non sui governi dell’Occidente o su quelli del Sud: «sono troppo legati agli Stati uniti e troppo timorosi di incorrere nell’ira americana».

Concordanza sull’analisi. Scetticismo sulle potenzialità della cosiddetta società civile. A me pare che l’attore pacifista nelle nostre società arrivi sempre troppo tardi e neppure riesca più a frenare dinamiche di conflitto che da tempo sono state predisposte per lo scontro. [Grande attenzione alle posizioni, che sarebbe ingeneroso chiamare “economiciste” di Burgio, Ravaioli, Dinucci]

Del resto il pacifismo – è bene ricordarlo – convive in una scomoda posizione coi governi di guerra qui in Occidente e all’ombra del cosiddetto “terrorismo” nei paesi arabi.

Può far poco.  L’immagine del vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro.

 L’esempio dell’impotenza dei pacifisti in Israele.

Per noi l’esser dentro la situazione materiale e culturale dell’Occidente -quindi non in una posizione di impossibile equidistanza – spinge i pacifisti nel ruolo di  consiglieri ragionevoli di governi che hanno dalla loro la ragione della forza.

 (Cosa devono fare i militanti pacifisti? «Riportare  sulle loro agende questi problemi: la povertà e la fame nei paesi poveri; il disprezzo e l’ignoranza dell’Occidente verso le culture e le religioni non cristiane come fonte di odio; una memoria storica dei conflitti, dalle  crociate alla conquista dell’America alla distruzione dell’Africa allo schiavismo, alla guerra dell’Oppio, alla conquista britannica dell’Afghanistan, ecc.»( Galtung).

Ma questi sono consigli a governi “nostri” che non li ascoltano.

Cosa sarebbero in grado di consigliare ai popoli oppressi e rassegnati o a quanti in quei popoli sono tentati di «ricorrere alla violenza»?

Di fronte alla distanza fra noi e gli oppressi, la lingua si secca…

C’è da aspettare che la guerra produca la stanchezza dei combattenti [Sergio Bologna ai tempi del Kosovo]. Allora i pacifisti potranno dire «L’avevamo detto…».

Profeti disarmati…

Shafique Keshavjee, Oltre la tragedia americana, (manif 14 ott):

Mette in risalto l’intrico di interessi economici e politici fra Stati Uniti, Arabia Saudita e Europa e cioè le «alleanze economiche e strategiche perverse che legano americani, sauditi, europei e… terroristi» [L’Europa sul piano dei bisogni dipende dai sauditi e dai paesi del Golfo per il suo approvvigionamento in energia e dalla loro partecipazione nella vita delle imprese e delle banche con centinaia di miliardi di petrodollari; il governo saudita ha bisogno della sicurezza americana e dei suoi dollari…]

E conclude: «La rivelazione è che siamo solidali non solo con le vittime americane, ma anche con un sistema di cui profittiamo ampiamente e che ha causato il loro dramma».

In questo noi siamo per forza compresi anche noi: pacifisti o esodanti.

Il problema è come scioglierci dall’abbraccio soffocante dell’Occidente, dei nostri governi, delle nostre comunità impaurite o gregarie.

Imporre combattivamente la pace anche a costo della violenza contro chi con la violenza ci impone la guerra? Una volta questo era chiaro. Sentite queste parole di Fortini:

“A me è stato insegnato, e lo insegno, che la vita di ogni uomo, di ogni essere umano è un valore infinito perché è la mia medesima vita, e perché è un progetto, un futuro, una possibilità di tutti. E, nel medesimo tempo, e non in contraddizione con questo, mi è stato insegnato, e lo dirò adesso con le parole di Lenin[2] “che quando decine di milioni di uomini vengono mandati ad uccidersi sui campi di battaglia per sapere se questo o quel mercato debba appartenere ad un bandito francese o ad un bandito tedesco, può essere necessario sacrificare una generazione, e prima di ogni altro se stessi, nel tentativo di fermare quei massacri e di distruggere quei banditi”.

Questa è la situazione tragica dell’esistenza umana: essere uomini significa questo. Chi non vuole vedere, chi vuole consolarsi credendo che il pane che mangia non è sottratto a chi muore di fame, in questo caso lo faccia pure. Nessuna violenza è giustificata, mai, ma ogni violenza può essere inevitabile; credo che quanto dico stia scritto anche nel cuore della tradizione cristiana.[…] La nostra morale non è quella di Renzo Tramaglino, nota? è quella di chi ha nelle orecchie le urla degli innocenti torturati nei processi degli untori. Dunque noi non deprechiamo i tumulti, deprechiamo i tumulti inutili; ci sono forme di disobbedienza all’ingiustizia che noi dobbiamo imparare ad usare e praticare non perché si sia, o  almeno non perché io sia un non-violento per principio metafisico o religioso, ma proprio perché non vogliamo subire la violenza che è pronta a colpirci.”

( Franco Fortini, Violenza e non violenza, in  Non solo oggi, Editori Riuniti, 1991, pp.303-)

Si dovrà formare un movimento o un partito contro la guerra,  capace di smuovere corpi e menti per imporre un progetto razionale?( Progetto che esiste o no?) [ Cfr. De Carolis]

De Carolis  (26 sett):

  • L’unica ragione che giustificherebbe un intervento sarebbe un progetto plausibile di nuovo ordine globale. Ma esiste? Esiste sul piano economico, informativo e scientifico. È il presupposto sia del terrorismo che della reazione internazionale. È fondato sul privilegio di una élite ridottissima e sull’esclusione della grande maggioranza del pianeta.
  • Le due alternative per le potenze egemoni: avviare una riforma che rimuova storture e diseguaglianze del sistema e legittimare la lotta contro il terrorismo in base a questa riforma (« e si direbbe che questa strada sia stata scartata in partenza»; «blindare la soglia fra inclusi ed esclusi, estendere all’intero pianeta il modello segregazionista del vecchio Sudafrica», accantonando ogni problema di legittimazione e manipolando la comunicazione pubblica.
  • Solo in un prossimo futuro, i movimenti ora criminalizzabili, potranno far sentire la loro voce a patto di passare dalla protesta al progetto costruttivo.

Da sempre ci sono posizioni ragionevoli, ma inascoltate…

Un esempio? Ferrajoli, Una sfera pubblica globale, manif. 14 ottobre:

Parla di un triplice vuoto di politica e di diritto pubblico internazionale:

  • «Contro la minaccia di un terrorismo fanatico e ramificato, non servono armi nucleari né scudi stellari né alleanze militari di parte come la Nato, bensì quella forza di polizia internazionale che è prevista dal capo VII, ancora inattuato, della Carta dell’Onu»;
  • «La seconda carenza è più specificamente politica. dobbiamo domandarci quanto abbia contribuito allo sviluppo del fanatismo e del terrorismo una politica dell’Occidente informata unicamente a interessi economici e geopolitici: dalla mancata soluzione della questione palestinese.. fino all’invadente presenza americana nell’area e agli ambigui rapporti intrattenuti con lo stesso fondamentalismo islamico, dapprima allevato e utilizzato in funzione antisovietica e poi rivoltatosi contro i suoi vecchi protettori»;
  • «La terza e più importante lacuna è l’assenza totale di garanzie contro i giganteschi squilibri e le tremende ingiustizie provocate da una globalizzazione senza regole. Benché non ci sia un nesso diretto tra queste ingiustizie e il terrorismo, dobbiamo ammettere che i focolai dell’odio e della violenza traggono sicuro alimento dal contrasto sempre più vistoso e visibile tra la ricchezza spensierata dell’Occidente e le condizioni disumane di miliardi di esseri umani. Dobbiamo pur chiederci se sia realistica l’aspirazione alla pace e alla sicurezza in un mondo in cui ottocento milioni di persone, cioè un sesto della popolazione, possiede l’83%, cioè i cinque sesti del reddito mondiale».

23 sett Richard Falk ( teorico della democrazia internazionale):

  • la guerra che avanza è «una guerra senza soluzioni militari, in cui la ricerca della vittoria quasi certamente è destinata a intensificare la sfida e a diffondere la violenza» mediante un’alleanza scellerata fra governi e media. «siamo in bilico sul ciglio di una guerra globale tra civiltà senza campi di battaglia né confini», che viene dopo il crollo dell’ordine mondiale basato su stati sovrani.
  • Bisogna fare qualcosa ma non c’è niente da fare. Dobbiamo presumere che la rete terroristica abbia previsto la rappresaglia già prima dell’attacco, e abbia preso ogni misura possibile per «scomparire» dal pianeta» [mia discussione con Renato Solmi]
  • I nostri  leader avranno la capacità di astenersi dall’uso della forza contro innocenti?
  • La sola sicurezza realizzabile è la «sicurezza umana». «Tuttavia la notizia non ha raggiunto Washington e le altre capitali del mondo… Mentre il sole tramonta su un mondo senza stati, il sole del militarismo appare pronto a bruciare più splendente che mai!»

È pessimismo? O realismo?

I potenti  non hanno le nostre paure (ne hanno altre), non hanno le nostre incertezze… Hanno logiche che  ci sovrastano e prevedono anche la nostra distruzione. Anch’essi sono  “pazzi razionali”… organizzano le loro emozioni secondo una logica razionale strumentale contrapposta a quella che le organizza per  la vita [biopolitica…]. Non siamo gli unici depositari della ragione. La ragione occidentale è scissa… La ragione del potere  prevede la distruzione anche della gente comune, dei  “civili”, si contrappone alla ragione della gente comune.

27 settembre Carlo Galli  (studioso di Schmitt e autore di Spazi politici. L’età moderna e l’età globale):

  • questa non è una guerra mondiale ma «globale» e non ne conosciamo il funzionamento: è tendenzialmente interminabile [lettera a Solmi];
  • ci manca un pensiero all’altezza della crisi del sistema, e ci manca perché le condizioni di un nuovo ordine globale non ci sono. Abbiamo domande, non risposte. La tragicità della situazione sta qui. [Anche queste considerazioni mostrano la debolezza  in cui si viene a trovare chi vuol lottare per la pace…]
  • La trappola è che la coppia amico/nemico venga riempita su base identitaria e diventi scontro Occidente/Islam. La coazione identitaria va combattuta.
  • L’attentato alle Twin Towers ha ucciso la «buona» globalizzazione [quel precario ma fantastico laboratorio di cosmopolitismo che è Manhattan] ma anche la «cattiva»: che bastino gli interessi del capitale e del mercato a dar ordine al mondo [lettera a Solmi]

Santomassimo (27 sett):

  • Con l’operazione «libertà duratura» gli Usa chiedono una cambiale in bianco al mondo intero.
  • Lo «scontro di civiltà» (Huntington) è in atto da secoli. Scelta: non identificare «civilizzazione» con occidentalizzazione» (Berlusconi) ma relativismo culturale: «Siamo occidentali – cos’altro dovremmo essere? – ma il nostro Occidente non è il West. È quello di Kant e di Voltaire, non quello di John Wayne» [la posizione che Marramao trovava debole e a cui contrapponeva un universalismo delle differenze o pluriversalismo]

Marramao (21 sett):

  • Il nemico assoluto non esiste, esiste un sistema di cause ed effetti, strategie e responsabilità, poteri e scelte soggettive. bin Laden è solo uno dei poli di una rete, di un network terroristico. Non si sa chi sia il soggetto di tutto ciò.
  • Novità del conflitto: non siamo più nella convenzione del conflitto fra stati-nazione ( si può pensare agli atti di pirateria, alle dinamiche della colonizzazione)
  • La Jihad è solo l’involucro, il referente simbolico del terrorismo, che ha invece origini (Voltaire: L’occidente ha introdotto in altre civiltà del mondo forme di conflitto che quelle civiltà non conoscevano»). Ha ragione Chomsky: le armi che l’Occidente ha puntato contro il mondo gli si sono rivolte contro. Le tecniche usate sono quelle della razionalità calcolante: il corpo umano diventa componente tecnologica di una bomba intelligente [la mia poesia.. colpiti dalla nostra intelligenza…]. Si ha una sintesi fra cyborg (tecnologia avanzata) e mistica del corpo della Umma (quando si tratta di compiere una missione non si è più proprietari del proprio corpo che appartiene al corpo mistico della Umma. Il paradigma utilitaristico della scelta razionale coincide con il sacrificio di sé. Non è più utilitarismo).
  • Il nemico nel mondo globale non è più politico, ma morale; ecco la differenza da Schmitt.
  • Intelligence, Cia, Fbi hanno troppe e non poche informazioni, ma non hanno la chiave per interpretarle. C’è un abbassamento del livello culturale del personale politico, diplomatico. Non ne capiscono la struttura motivazionale.
  • Declino degli stati sovrani, bisogno di governare la globalizzazione. Necessità di una visione universalistica al posto del multiculturalismo che accetta le differenze come ghetti contigui. Non basta riverniciare l’universalismo illuministico-kantiano. Bisogna cercare un nuovo universalismo in altre culture: un multiversalismo, una politica universalistica delle differenze, che contrasti tanto la politica antiuniversalistica delle differenze, quanto quella universalistica della identità.
  • Il cuore di tenebre di bin Laden appartiene a noi occidentali. La ferocia dell’Islam è nata come reazione alle crociate.
  • Il colpo al movimento antiglobal è stato micidiale: ha perso pregnanza simbolica: di fronte al crollo delle Twin Towers che peso può avere sull’immaginario un bancomat rotto o un Mac donald’s assaltato ? [ mia lettera a Solmi)

Note

[1] I discorsi sull’Impero [Negri] risultano mitologici. Lo scenario è nuovamente mutato. Invece del mitico Impero, si avrà una nuova inquietante sfida Occidente- Oriente. Su posizioni simili è anche Rossanda… L’unificazione capitalistica non  fa degli Usa un impero. Non ne hanno le capacità di assimilazione e di mediazione. «Considero che gli Stati uniti stiano facendo ancora una politica imperialista che ferisce altre popolazioni e si rivolterà contro loro stessi: sono antimperilista» [critica a Negri] 22 sett Rossanda

[2] Lenin, Nikolaj, pseudonimo di Vladimir Il’ic (1870- 1924), uomo politico e pensatore russo, guida della Rivoluzione del 1917 contro il regime degli zar.

Riordinadiario 1-5 settembre 2021

di Ennio Abate

1 settembre

Una polemica su Moresco sulla pagina FB di un “amico”

X
Sostengo da un po’ che Antonio Moresco sia tra i pochi autentici scrittori che abbiamo avuto negli ultimi trent’anni. Non giudico la sua reprimenda ma sicuramente ha la caratura per poterla fare.

ESPRESSO.REPUBBLICA.IT
«Basta con questa storia per cui i romanzi italiani sono tutti uguali. Il mio lavoro dimostra che non è vero» (qui)

Ennio Abate
Dopo San Precario, protettore dei precari che sono rimasti precari, ora abbiamo San Moresco, protettore degli scrittori condannati all’ombra eterna.

X
cosa vuoi dire?

Ennio Abate
Che i Santi prosperano sulla venerazione dei fedeli.

X
mah!

Ennio Abate
Mah? Uscendo dalla battuta provocatoria iniziale, a me pare che la ambigua “reprimenda” di Moresco faccia parte in piena regola dei rapporti tra potere e sottopotere degli attuali addetti alla letteratura. Usando quel suo tono vittimistico ed egotistico, chiede un riconoscimento in più, che secondo i rapporti di forza e le regole dell’attuale sistema non gli è stato dato e non gli verrà dato. Non ci vedo niente di particolarmente nobile e chiedere per sé individualisticamente una cooptazione non mi pare politicamente interessante.

Y
non sono d’accordo. È consapevole del proprio valore e ha tutto il diritto di competere e di denunciare cose che in molti sappiamo. Turbare la comunicazione del regime culturale, che esalta se stesso e ignora l’esistente, è sempre lecito e auspicabile. In alternativa Lei cosa propone?

Ennio Abate
E io non sono d’accordo con lei. Moresco ha “il diritto di competere e di denunciare cose che in molti sappiamo”? E chi glielo toglie? Ma non turba affatto, se non in superficie, “la comunicazione del regime culturale”. E questo lo sa lui come lo sanno quelli a cui rivolge la sua risentita e patetica “reprimenda”(=invocazione: dai, cooptatemi, per favore! Su, non vi accorgete di come sono bravo IO?). A lei va bene? Si accomodi. E non chieda a me: “in alternativa Lei cosa propone”, perché non ho nessuna proposta da rivolgere a chi si muove nella logica cooptativa di Moresco.

Y
invece glielo chiedo: se non propone nulla e si scaglia pure contro chi ha qualcosa da obiettare, forse Le sta bene la situazione che c’è, le stanno bene i faccendieri che tentano di farsi strada nell’ombra cupa e velenosa delle redazioni scambiando favori, presenzialismi, umiliandosi per un giorno umiliare, coltivando spicchi di potere, lavorando sottopagati, tenendo in piedi scuole e agenzie per integrare e promuovere inesistenti vendite a scapito di sprovveduti? Propone silenzio, sottomissione, rassegnazione all’esclusione da ogni comunicazione? Sinceramente non ho capito dove vuole andare a parare e cosa la infastidisce tanto in chi denuncia tutto questo e oltre all’esclusione dovrebbe sobirsi anche la beffa di udire intellettuali e accademici ndranghetisti lagnarsi del panorama culturale amorfo della cultura contemporanea? Parli, suvvia…

Ennio Abate
Se legge bene quel che ho scritto, non mi “scaglio” contro Moresco, ma prevedo che la sua “reprimenda” non turberà affatto “la situazione che c’è”. E ho spiegato perché. Che poi se uno non è d’accordo con lei, vuol dire che gli stanno bene “ i faccendieri etc”, è un modo di polemizzare che non apprezzo: sono illazioni sue e gliele lascio tutte. E proposte le le faccio solo quando i miei interlocutori hanno voglia di interrogarsi e dubitare e non di sbattermi in faccia le loro verità assolute.

X
ma qual è questa logica cooptativa di Moresco? Per quanto mi riguarda mi affido esclusivamente al valore delle opere (allo stesso modo per altri autori). Quanto al rimarcare l’EGO, l’IO in modo sostanzialmente negativo, non ne afferro la logica. L’autore parla per sé riguardo ad un preciso articolo e a un dato fenomeno. Dov’è il problema? Tra l’altro egli fa riferimento non solo alla sua persona ma anche ad altri autori probabilmente nella stessa condizione. Oppure dobbiamo credere a un NOI autoriale? E se sì, quale sarebbe? Quale luogo abiterebbe?

Ennio Abate
Per me la voglia (più ancora della logica), che Moresco ha di essere riconosciuto e cooptato proprio da quegli ambienti di potere editoriale che lo hanno finora escluso, trasuda da tutto lo stile della sua lettera. E dà (politicamente) da riflettere. Specie per uno che, mi pare, da giovane era nella IV Internazionale trotzkista. Perché il valore delle sue opere – lo dice lui stesso – gli è stato riconosciuto da «scrittori e lettori giovani, che fanno il passaparola di persona e in rete [gli] hanno dedicato decine e decine di tesi di laurea», da «coraggiosi amici di elezione», da «rare figure che stanno dentro l’establishment ma che ci stanno con libertà e autonomia di giudizio», eccetera.
E allora, perché vuole essere ammesso a tutti i costi nei «compendi generali» o nei «giri culturali riconosciuti»? Perché si lamenta che «in Italia le [sue]opere ci sono ma è come se non esistessero»? Perché vuole che entrino «nel raggio visivo di questi eterni lamentatori, ai quali fa comodo pensare che non ci sia niente perché se no non potrebbero svolgere l’unica funzione che è a loro congeniale»?
Non ti pare voglia di cooptazione (se non peggio) questa? Tu la scriveresti una lettera pubblica rivolta a gente di potere che consideri ostile, ottusa e con una «attitudine coloniale, fratricida e suicida»? E invitandola (pateticamente) a leggere i tuoi libri: «Li legga, ma li legga davvero, per intero», quando sai che per costoro conta il vendibile e non la qualità artistica o etica del libro in sé?
Sul «rimarcare l’EGO, l’IO in modo sostanzialmente negativo», il discorso non posso affrontarlo qui. L’ho svolto in varie occasioni in articoli di Poliscritture (rintracciabili on line) e lo farò ancora pubblicando a giorni la recensione a «Io», il romanzo dell’amico Massimo Parizzi.

Y
io non vedo logica cooptativa in Moresco, questa è una Sua interpretazione malevola. Scrivere “Dopo San Precario, protettore dei precari che sono rimasti precari, ora abbiamo San Moresco, protettore degli scrittori condannati all’ombra eterna” non è scagliarsi contro? È malevolenza gratuita verso di lui e tanti altri scrittori e scrittrici italiani di alto livello, accademici e non, cui non è riconosciuto il diritto all’esistenza nel panorama culturale italiano, quando le librerie sono invece piene di tanta cartaccia. Dire “io ci sono, ho settant’anni, scrivo da una vita, faccio ricerca, all’estero sono apprezzato, sono italiano, vivo in Italia: perché l’Italia mi ignora e mi tiene ai margini?” Cos’ha di cooptativo questo semplicissimo e onesto discorso? Non è che io non mi metta in discussione, sarei anche disposta a cambiare idea, se Lei fornisse delle alternative. L’unico argomento da Lei espresso è che Moresco scalfirebbe solo sulla superficie un sistema di cui, in realtà, vorrebbe fare parte. Può darsi, ma cosa potrebbe fare? Fondare una casa editrice, fare impresa culturale, organizzare un festival, emigrare? Non tutti hanno pragmatiche capacità per queste cose. In Italia è tra l’altro difficilissimo farle in modo libero e indipendente, con l’impresa che è subalterna ogni giorno di più alla politica. Che “politica” attuerebbe Lei, quella del blog condominiale a vita? Non capisco, sinceramente: è Lei che immotivatamente non vuole confrontarsi.

Ennio Abate
Credo che sulla «logica cooptativa in Moresco» ho detto la mia opinione rispondendo a X. Quanto alle «alternative», in teoria potrei anche non averne, ma questo non sminuirebbe il valore della mia obiezione ( “la sua “reprimenda” non turberà affatto “la situazione che c’è”). Ma quelle che ho escludono il pragmatismo spicciolo che intravvedo nelle sue (fondare una casa editrice, fare impresa culturale, organizzare un festival, emigrare); e vanno in una direzione opposta a quella individualistica di chi vuol tirare la giacca ai potenti d’oggi (in tutti i campi) per farsi notare. I miei modelli sono stati e sono altri.

4 settembre

Uno scambio su vaccinazione,  proteste no vax,  governo Draghi, scienza

Ennio Abate

Cara X,
si possono avere 1000 dubbi sulla vaccinazione ma è rischioso e fallimentare pensare che quanti stanno cercando di sfruttare politicamente il malcontento abbiano ragione o un’alternativa credibile e seria. Tanto più che i rapporti di forza non permettono nessuna “spallata”. Vedi quanto scrive Lanfranco Caminiti sulla sua pagina FB, una persona seria e politicamente preparata:

il consenso che draghi sta accumulando è enorme – è diventato il cavallo su cui tutte le istituzioni, politiche, economiche, di informazione stanno puntando: la profezia che si avvera. la “trappola di maggioranza” in cui si sono infilati tutti i partiti non lascia molti margini di distanziamento, di manovra, e la stessa prosecuzione del contagio, e della campagna di vaccinazione, fanno di questa maggioranza un “obbligo”: fuori da questa sei fuori dalla dialettica politica parlamentare – uno sciamannato no-vax. per quanti puntini sulle i si possa provare a mettere. la polarizzazione – la stessa enfatizzazione del “pericolo no-vax” – funziona tutta a vantaggio del governo. non c’è alcuno spazio per una argomentazione critica, per sollevare obiezioni, per manifestare perplessità. tutto questo funziona solo con draghi – che tiene i cordoni della borsa dei fondi europei ben stretti e passetto dopo passetto smussa ogni dissenso e incamera il consenso di ogni forza politica nel governo. nessun altro potrebbe ereditare questo “sistema”.”

X
Le preparazioni scientifiche le hanno anche altri scienziati che non possono parlare..non c’è mai stato un contraddittorio democratico su questa faccenda. Conosco personalmente persone che sono state minacciate se raccontano ciò che hanno visto accadere negli ospedali durante la prima ondata. un riguardo certo andrebbe fatto per i fragili ,ma non certo quello che stanno attuando nei centri vaccinali ( esclusi rari casi).io non ho intenzione di farmi un vaccino sperimentale e tanto meno scaricare un green pass. A coloro che dicono che gli ospedali si intasano meno, vorrei poterci credere..vedremo, me lo auguro di cuore.in ogni caso rammento che pochissimi sono i soldi in arrivo dall’ Europa stanziati per gli ospedali e le scuole. io non sono no vax; a mio tempo ho utilizzato farmaci per mie questioni personali ( ma dopo molti anni di sperimentazione) sono una persona che si informa, che pensa e confronta nel tempo i dati su cui faccio ricerca e quello che raccolgo nei miei incontri con molte persone di diversa provenienza. a vantaggio del governo va tutto, poiché tutto lo rendono vantaggioso non facendo un confronto.il gruppo medici di terapie domiciliari ha dato al ministero più di 30.000 firme per mostrare le loro vite fruttuose fatte su migliaia di persone e chiedere di cambiare protocollo Tachipirina e viglile attesa…e non ne gatto menzione nessuna TV. Subiremo tutti in un modo o nell’ ‘ altro le scelte di questo governo…io cercherò nel possibile la mia strada

Ennio Abate

RAGIONARE

1. “Le preparazioni scientifiche le hanno anche altri scienziati che non possono parlare..non c’è mai stato un contraddittorio democratico su questa faccenda”

Non è mica una novità. Su qualsiasi questione (emigrazione, reddito di cittadinanza) e anche su questa ci sono schieramenti politici contrapposti e il prevalere di una posizione su un’altra non dipende mai dall’apparente “contraddittorio democratico” ma dallo scontro di interessi reali organizzati o male organizzati e dai rapporti di forza tra gli schieramenti politici.

2. “Conosco personalmente persone che sono state minacciate se raccontano ciò che hanno visto accadere negli ospedali durante la prima ondata”

Anche questa non è una novità. Vedi il caso Assange etc. Se gli episodi denunciati da queste persone ( vedi nella prima ondata di pandemia il caso di Alzano Lombardo: https://www.dinamopress.it/news/il-focolaio/…) non trovano una buona sponda politica vengono seppelliti e dimenticati. Perciò è fondamentale in quale cornice politica viene iscritta una denuncia singola o collettiva. Sono sconcertato dai molti riferimenti (non solo tuoi) a fonti d’informazione quasi esclusivamente “all’opposizione” (a parole) ma riferibili alla “destra” o comunque ad un’area sociale che non ha idee chiare sulla realtà. Non dico che bisogna informarsi esclusivamente da fonti governative o “di sinistra” ma, essendo l’incertezza assoluta anche tra gli scienziati, che – in teoria – dovrebbero essere meno “ideologici”, a me pare meglio valutare le informazioni provenienti da tutte le fonti mantenendo un sano scetticismo. E fare con la massima pridenza la propria scelta pratica – vaccinarsi/non vaccinarsi – in base al criterio di precauzione o del rischio minore.

3. “Subiremo tutti in un modo o nell’ altro le scelte di questo governo…io cercherò nel possibile la mia strada”.

E anche questa non è una novità. I governi hanno un potere che non avete né tu né “il gruppo medici di terapie domiciliari” [che] ha dato al ministero più di 30.000 firme per mostrare le loro vite [?] fruttuose fatte su migliaia di persone e chiedere di cambiare protocollo” né quelli che stanno strumentalizzando la protesta senza avere un’alternativa.

Proprio per questo bisognerebbe essere cauti e non confondere il proprio discorso con quello degli avventurieri. Come singoli poi non c’è nessuna strada alternativa. O ti vaccini e fai il green pass o ti associ e protesti con questo movimento ambiguo e senza un vero progetto alternativo.

Sì, l’attuale opposizione sfrutta il malcontento, ma non ha una reale alternativa di governo della pandemia. Il malcontento, il dire no, il criticare le scelte (ambigue o di parte) del governo non basta purtroppo a creare un’alternativa. Anche ammesso che le “ terapie domiciali” fossero scientificamente valide ( per la maggioranza dei casi a rischio) non esiste oggi una forza politica organizzata per imporre questa scelta all’attuale governo. O fare un altro governo che cambi strategia. Con la realtà si fanno i conti. Non saltandola e guardando solo al malcontento.

5 settembre

Dalla pagina FB di Doriano Fasoli

Tutte le persone incontrate nella vita che hanno un potere di fascinazione su di noi, sono nella realtà parti scisse di noi stessi che abbiamo rimosso e che ci sono riportati indietro. Quindi, se preferiamo non farci ingannare dalle nostre stesse illusioni, dovremo osservare attentamente ogni forma di fascinazione per ricavarne, come quintessenza, un frammento della nostra personalità, e ci renderemo un poco conto che, lungo il cammino della vita, non facciamo che incontrare sempre di nuovo noi stessi, sotto mille travestimenti.

(C.G. Jung, “La psicologia della traslazione”)

Il punto di vista di “OFFICINA Primo Maggio” su pandemia, Pnrr (piano nazionale di ripresa e resilienza), politica e iniziative della società civile (qui).

Come non mettere oggi al primo posto di tutti i pensieri e di tutte le azioni il cambiamento del modello di sviluppo? Come non porre questa come discriminante delle scelte politiche? Modello di sviluppo ma anche assetto istituzionale. Non è possibile andare avanti con uno Stato in balìa di sedicenti “governatori”. Perché Stato deve esserci, altrimenti che senso ha parlare di “servizio pubblico”? Perché solo il potere concentrato di un intervento pubblico può modificare un modello di sviluppo. Un potere statale bilanciato dalla rete di comunità autogestite, autodeterminate, consapevoli. […] Osservando lo spazio pubblico della politica, vediamo che nessuno degli ambiti di attività che abbiamo evocato e ritenuto essenziali alla sopravvivenza di una società civile è presente nei discorsi che là dentro circolano. E questo dà la misura dell’abisso che separa la politica dalle cose che contano. Ma ancora più preoccupante sembra la fiducia riposta nei “tecnici” come possibile rimedio all’insulsaggine del discorso politico, fiducia che poggia sull’illusione che essi abbiano ancora potere, che la loro “integrità” possa avere la meglio sulle beghe di partito, che la loro “lontananza” dalla politica possa conferire autorità alle loro decisioni. Da qui tutta la fiducia messianica nel profeta Draghi. I suoi tecnici potranno scrivere sulla carta i programmi più sofisticati del mondo ma a metterli in pratica saranno i lestofanti, i minus habens delle mille istituzioni dove i partiti hanno riempito gli organici del personale. Per cui ha ragione il Forum Dd di Fabrizio Barca a dire che salvare il salvabile è possibile solo se i tecnici vengono affiancati, supportati, consigliati, dalle tante istanze della società civile, che bene o male nel loro sforzo quotidiano di controllo dei comportamenti della Pubblica amministrazione talvolta riescono a evitare il peggio. Non c’è dunque una parola sul lavoro nel Pnrr, perché sanità, scuola, industria, cultura, in trent’anni di colpi di piccone sono stati ridotti a settori residuali.
È davvero surreale la noncuranza con cui i “tecnici” hanno evitato qualsiasi confronto con i corpi intermedi. “Non c’era tempo”, dicono. Magari qualcuno pensa che avevano ragione, tanto… che sangue ci cavi dalle rape dei corpi intermedi? Non è vero, basta leggere la spietata disamina del Pnrr scritta qui da Matteo Gaddi per constatare che persino il tanto bistrattato sindacato ha da tempo abbozzato delle idee di politica industriale, buone o cattive che siano con esse ci si può misurare. E quelle avanzate da tante istanze ambientaliste, per esempio sulla politica energetica, non hanno forse un certo peso? I corpi intermedi sono ridotti male, d’accordo, ma l’Italia è piena di iniziative della società civile, della ricerca, che continuano a sfornare ragionamenti utili a modificare almeno in parte il modello di sviluppo. Niente. […]Prima della pandemia il Paese ci appariva, dal punto di vista del lavoro e delle prospettive delle nuove generazioni, nettamente spaccato in due: quelli che hanno il privilegio di una formazione di alto livello che se ne vanno all’estero e quelli ai quali non resta che cercare in Italia una pseudo-occupazione nella gig economy. Tra i due lo strato pervasivo, sempre più infestante, di coloro che pian piano occupano ruoli direttivi non per merito ma per cooptazione praticata dai partiti. Su queste tre gambe, sempre più traballanti, si regge il lavoro in Italia. Quindi necessariamente lo strato più consapevole, più aperto, più disponibile, più competente – il vero grande patrimonio umano della nazione – è costretto a cercarsi uno spazio extraistituzionale di espressione e di azione, non sempre intercettato dalla rete delle comunità (che non sono né debbono essere solo comunità di cura). In questo Paese ci si ritrova a sentirsi ai margini, si finisce per diventare apolidi. Sensazione fortissima in questo periodo in cui le restrizioni imposte dalla pandemia hanno tagliato le gambe al conflitto, cioè alla forma di azione collettiva che maggiormente ci restituisce ancora il senso di una cittadinanza.
Ma questa condizione forse è in via di superamento grazie alle campagne vaccinali, non vediamo l’ora di poter riprendere l’agibilità di strategie conflittuali. Non vediamo l’ora di poterci misurare ancora con lo stato d’animo, con le idee delle persone, con le tante tantissime esperienze che nel sociale e nella ricerca militante riescono ad impedire che questo Paese scivoli nel baratro. Sugli obiettivi da perseguire abbiamo ora le idee più chiare. La pandemia ha messo a nudo quelle realtà scomode che tante volte avevamo denunciato. Certo, il rischio che questo Pnrr, proprio per le ragioni qui esposte, dia il colpo di grazia a un Paese già provato da scelte disastrose, c’è. Ma non è detto che debba sempre finir male. Dipende anche da noi.

Contro lo snobismo di massa


NEI DINTORNI DI FRANCO FORTINI 1989

Nel 1989 esisteva a Cologno Monzese l’associazione culturale ipsilon e invitammo Franco Fortini, uno scrittore che per tutta la vita si è occupato di cultura. Tenne una conferenza in Villa Casati che registrammo e pubblicammo in LABORATORIO SAMIZDAT, IV, n. 7, novembre 1989, col titolo da lui scelto: “Contro lo snobismo di massa”. Il testo è stato antologizzato anche in “Franco Fortini, Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952-1994” a cura di Velio Abati, Bollati Boringhieri, Torino 2003. [E. A.]

Si parla molto di cultura di massa, quella che si presenta attra­verso i cosiddetti mass-media. Non stiamo a discutere stasera sul significato delculturla parola «cultura». Sarebbe però interessante notare che cosa è accaduto nell’uso, nell’accezione comune di questo ter­mine. Per esempio, una volta – mi riferisco a molti anni fa – la parola «cultura» aveva un significato che conserva ancora ma solo per certe ricerche di tipo sociologico o antropologico. Esso indi­cava il complesso delle forme con le quali gli uomini producono.

Questa nozione di cultura aveva a che fare certamente con la tra­dizione marxista, anche se non coincideva necessariamente e del tutto con essa. È una nozione che abbiamo usato normalmente, così come si parlava della cultura di determinati popoli o della cul­tura della filosofia tedesca o dell’Illuminismo. O si parlava della cultura del metalmeccanico, intendendo alcuni specifici sistemi, modi, forme, entro i quali costui lavorava e, in definitiva, viveva. Oggi noi vediamo che, mentre questo significato continua ad essere usato a livello della ricerca e delle specialità, nell’ accezione corrente – quella che ci viene trasmessa dalla stampa, dai giornali e dalla televisione – cultura sta ad indicare soltanto un certo settore della comunicazione e delle forme, che ha a che fare soprattutto con le ar­ti e con la letteratura. Nel gergo delle emittenti televisive un pro­gramma «culturale» è un programma dove, invece di avere i balletti oppure un concorso a premi, si parla di letteratura o si discorre sul­l’ultima grande esposizione di pittura fiamminga a Parigi o a Roma.

D’altra parte non è che possiamo inventare in questo momento per nostro uso una definizione migliore. Non è questo il punto. E semplicemente necessario tener presente questa forma di impove­rimento della nostra cultura e capire che non è innocente. Non per caso è avvenuto così. È avvenuto perché rientrava in un disegno, che si propone due cose apparentemente contraddittorie, ma che non lo sono affatto: per un verso omogeneizzare i linguaggi, il sa­pere, le ideologie della gente; dall’altro, il processo, simultaneo e solo apparentemente opposto, è quello della valorizzazione o estre­mizzazione dell’individuo.

La tendenza di quello che conviene chiamare «tardo capitali­smo» è oggi rivolta a queste due mete solo apparentemente con­traddittorie. Per un verso, dunque, ci vogliono tutti simili o uguali: consumiamo gli stessi prodotti, tendiamo a leggere gli stessi libri (o a non leggerli) consumiamo gli stessi elaborati. È quella che chia­miamo «cultura di massa», al suo livello inferiore. Ma, per un altro verso – e basta guardare la pubblicità dei prodotti che riempiono i settimanali e le trasmissioni televisive – si tende a proporre un mo­dello di individuazione estrema: non essere come gli altri, sii di­verso, più bello, più forte ecc.; mettiti nella condizione di gestire il tuo tempo libero in modo originale, fatti una «cultura» …

Questo doppio movimento rientra perfettamente negli interessi del modo di produrre, di vendere, di consumare del mercato capi­talistico. I risultati li vediamo. Sono – come è stato ricordato -1′ al­largamento di un’ area di deprivazione, di neoalfabetismo o di anal­fabetismo di ritorno; e non solo qui in Italia, ma anche negli stessi Stati Uniti. È un fenomeno che riguarda, quindi, un allontana­mento dalla stessa cultura di massa; esso interessa una frangia della popolazione, i cosiddetti esclusi, i marginali. Abbiamo invece una estesissima parte del corpo sociale, alla quale sono destinati saperi, forme artistiche o di intrattenimento, forme di realizzazione di se stessi.

E qui viene un punto molto importante.

Se ci riportiamo al passato – diciamo a venti anni fa o anche solo a dieci – il mio discorso potrebbe finire qui. Avevamo i grandi mec­canismi che formavano prodotti di seconda qualità; e quella era la «cultura di massa», qualcosa che stava tra la divulgazione e i fascicoli della storia della letteratura universale, della religione o della geografia venduti nelle edicole. Il discorso allora sembrava abba­stanza facile, tant’è vero che, se uno come me tendeva a dire: stiamo attenti, dobbiamo lottare contro la falsa ricchezza dell’informa­zione o della cultura e dell’arte «per tutti», veniva immediata­mente bloccato da quelli che replicavano: ma tu sei un aristocratico della cultura e vuoi che determinate opere siano precluse a coloro che ne hanno fame e sete. Nel corso di un convegno, tenutosi a Ve­nezia non troppi anni fa sul tema del rapporto tra letteratura e masse, rammento che nel corso della discussione mi accadde di but­tare lì una battuta, che scandalizzò orrendamente i progressisti se­duti accanto a me. Dissi: «non esiste il “Petrarca per tutti” ». Vale a dire: il tentativo di rendere accessibili alcune opere, che sono state create in un certo contesto storico e che hanno una definibile funzione non può valere per tutti. Concludevo cosi una discussione che andava avanti da venti anni. Venni immediatamente aggredito. Qualcuno mi chiese: «E allora, tu al popolo che cosa faresti leg­gere?». lo evitai di polemizzare sull’uso della parola «popolo» (che mi faceva venire i brividi, considerando che l’interlocutore aveva in tasca la tessera di un partito dalle origini marxiste) e risposi, in modo ancora più scandaloso: «lI Vangelo». Poi spiegai (anche se sono certo di non essere stato capito) che cosa volessi dire riferen­domi al Vangelo. Indicavo, cioè, un libro che – indipendentemente dall’essere credenti o meno – ha le caratteristiche di non essere (o almeno di non essere facilmente) riconducibile all’ordine di un genere letterario. Non è di storia, non è cronaca, non è poesia. È molto difficile dire che cosa sia tutto quell’insieme che noi chia­miamo Vangelo e il tipo di rapporto che richiede al lettore è molto diverso da quello richiesto dalla lettura di Guerra e pace oppure da un’opera filosofica. È un rapporto completamente diverso, perché tende a chiedere in modo prepotente un certo tipo di adesione o di risposta alle domande che pone e che hanno molto a che fare con quelle domande e quei problemi di fondo, di cui abbiamo sentito giustamente lamentare la scomparsa nel corso dei nostri anni. Ma tutto ciò che vi ho detto fino ad adesso e tutto ciò che si riferisce a questo aneddoto ha a che fare con una situazione che non è più quella reale che abbiamo di fronte.

Oggi, cioè, non si tratta più di polemizzare contro una cosid­detta «cultura di massa», contro una volgarizzazione, una riduzio­ne dell’alta cultura per i poveri. Stiamo attenti. La situazione non è più questa, ma è assai peggiorata.

In che senso?

Non posso qui dimostrarvelo. Posso soltanto enunciare quella che è una mia opinione. Sebbene non solo mia. Nella società avan­zata, che è la nostra (ma potrei riferirmi soprattutto a certi paesi dell’Europa e agli Stati Uniti), abbiamo – per utilizzare una parola molto approssimativa – la «zona» delle istituzioni accademiche e degli istituti di ricerca al più alto livello (culturale o letteraria, arti­stica e scientifica … ).

Ora mentre una volta da parte di coloro che producevano a que­sti livelli c’era un atteggiamento di mediazione e distribuzione ver­so gli altri (così è stato certamente il secolo scorso e così è stato per una parte del nostro secolo), quando si è avuto il precipitoso allar­garsi di una cultura di massa, che è diventata essa stessa nel suo complesso un argomento di tale potenza e articolazione da non aver più bisogno, per sopravvivere, del contatto diretto con la cul­tura che potremmo chiamare creativa – la cosiddetta alta cultura universitaria – si è imposto il divorzio, la separazione.

Nella pratica, per un verso cresce il numero dei ricercatori ad al­tissimo livello, che sempre meno forniti di cravatta e di boria acca­demica si dispongono quotidianamente a farsi intervistare, sull’ul­timo avvenimento del giorno (e li vediamo alla TV questi scienziati, padri della fisica, della medicina, della chimica contemporanea, rispondere – in modo estremamente democratico – con delle bana­lità alle banalissime domande che vengono loro poste); mentre, per un altro verso, sappiamo benissimo che la distanza tra la vera ricer­ca ed il resto degli umani non solo è diventata, ma è mantenuta, enor­me, astronomica.

Al di fuori di questa «zona» c’è l’immensa massa, l’immensa pro­duzione, che veniva chiamata «cultura di massa» e che oggi si arti­cola e si gestisce in modo separato, ricreando naturalmente al pro­prio interno delle gerarchie. Facciamo un esempio banale. Stiamo per avere le trasmissioni via satellite. Se si guarda il primo elenco che è già proposto al consumatore, ci accorgiamo che, pagando ovviamente una certa tassa (ma non è questo il punto importante), noi possiamo fruire del programma A, invece che B o C, e che tra questi programmi ci sono delle differenze fortissime di livello e di orientamento culturale. La discriminazione, quindi, avviene ed è fortissima all’interno della stessa cultura di massa.

Questa è, dunque, la premessa del mio discorso: non esiste la cul­tura di massa, esistono delle forme molto differenziate all’interno di strumenti che sono, quelli sì, veramente di massa. E tali strumenti sono quelli che vanno, a rigore, dalla scuola, che è uno strumento di acculturazione – diciamo così – di massa, fino all’ editoria (libraria, giornalistica, periodica ecc.), alla pubblicità, che è un grande feno­meno di cultura di massa, e naturalmente a tutte le forme degli au­diovisivi.

Diventa inevitabile a questo punto dire che viviamo un partico­lare momento, destinato a durare, di concentrazione economico­finanziaria di tale complesso di mezzi; e diventa, quindi, sempre più difficile una fuoriuscita dal sistema attuale, che si fondi su quelle forme ascetiche, che io stesso una decina d’anni fa sono venuto proponendo. Quando parlavo di una riduzione della molteplicità, chiamando questo «ecologia della cultura» (o della letteratura), conservavo, non voglio dire delle illusioni, ma avevo ancora molto viva per delle ragioni biografiche la memoria di una possibile ridu­zione della varietà inutile, appunto.

Alcuni degli autori qui nominati, quelli della Scuola di Fran­coforte (ma potrei aggiungere autori come Brecht oppure Simone Weil. .. ) avevano proposto un simile ascetismo nei confronti della cultura, persuasi (giustamente) che vi fosse più cultura nella capa­cità di fabbricare una sedia che non nella lettura della Critica della ragion pura. Avevano assolutamente ragione; ma i fatti, cioè l’evo­luzione del capitale mondiale nel tardocapitalismo, hanno dato loro radicalmente torto. E, nel frattempo, non si legge più (se non per un esame universitario) La critica della ragion pura e nessuno sa più fabbricare una sedia, fatta eccezione per pochissimi artigiani.

La via della rinuncia ascetica continua a sembrarmi valida sol­tanto come itinerario individuale, per così dire, al bene. Come ci sono delle persone, che la mattina fanno un certo tipo di ginnastica piuttosto che un altro o che consumano solo certi prodotti diete­tici, perché pensano che faccia bene alla salute, così certamente fa molto bene rinunciare alla molteplicità inutile, non passare troppe ore davanti alla TV oppure non rincorrere tutte le novità librarie o non mettersi in coda con migliaia di persone per vedere sette qua­dri di impressionisti, cosa che avviene in questo momento un po’ dovunque in Europa.

Questo possiamo farlo, ma in questi termini, la cosa non va al di là della pia pratica individuale. Appena uno osasse spostarsi al di là e proporla come linea di gruppo, immediatamente saremmo assa­liti da dieci filosofi accademici arruolati dai principali quotidiani, che ci accuserebbero – non sto inventando, sono cose reali che si possono vedere ogni giorno – di essere persone che – attraverso la linea dell’ascetismo, la drammatizzazione della storia, l’ostacolare il godimento dei consumi – vogliono in realtà l’oppressione, la tirannia, il gulag.

Forse non hanno tutti i torti. Non perché chi vuole queste cose desideri il gulag, l’oppressione o la tirannia, ma perché volere quei processi ecologici (che non riguardano soltanto l’industria inqui­nante, il buco di ozono o la foresta amazzonica, ma la testa della gente) significa – per me certamente – scatenare un certo tipo di conflitti, che possono avere, oltre a quelle positive, anche delle conseguenze estremamente negative, cioè quelle che noi chiamia­mo le tirannie o le tragedie storiche.

Non siamo affatto garantiti (come vogliono farci credere i nostri governanti e i loro portaspada o portavoce o portacroce) dalla democrazia. No, non siamo protetti. La democrazia è un complesso di tecniche per l’accertamento delle volontà, per la guida politica di un gruppo, di un popolo, di una nazione, ma non si applica ai va­lori. Per dirla molto sinteticamente, come diceva un mio amico, il poeta Giacomo Noventa, «l’esistenza di Dio non si vota a mag­gioranza». Ma neanche si votano a maggioranza infinite altre cose, che hanno a che fare, appunto, con i valori, cioè con le ragioni che – come si diceva una volta – ha l’uomo di vivere e di morire. La democrazia in queste cose non funziona: i più non hanno ragione sui meno. In tutte le questioni veramente essenziali della nostra esistenza appunto: la vita, la morte, la malattia, l’amore – non vale la regola della maggioranza. Ed ecco perché, allora, sono assoluta­mente persuaso che una lotta per una «ecologia» della cultura, del sapere, ossia per una riduzione del superfluo, qualora fosse portata avanti (cominciando innanzitutto dalla lotta per stabilire cosa è superfluo e cosa non lo è … ) porterebbe a tali conseguenze e così dirompenti che l’ipotesi di una possibile susseguente oppressione (tirannia o violenza) va presa in considerazione. Non per appro­varla, ma per sapere che ad ogni sforzo verso una verità e una vita superiore o migliore corrisponde la possibilità del suo contrario. Detto altrimenti: chi vuole evitare la tragedia, come condizione della vita umana, può farlo. Ma, a questo punto, apra il televisore e se lo guar­di fino al momento della morte.

Chi sono – mi chiedo ora, avviando mi alla conclusione – i padri della lotta contro la massificazione? Si può andare molto in là nel tempo, risalire al Romanticismo; ma quelli che hanno visto questi fenomeni nella loro ampiezza e complessità drammatica sono cer­tamente i filosofi della Scuola di Francoforte. I fenomeni, che Ador­no, Marcuse ed altri avevano già intravisto nella Germania degli anni di Weimar, essi li verificarono in modo drammatico negli Stati Uniti, durante il periodo della loro emigrazione. I libri che ci hanno formato sono stati scritti negli anni quaranta. Hanno ormai mezzo secolo di vita. Rimangono fondamentali – mi guarderei bene dal negarlo – ma le situazioni sono cambiate. Allora il «mostro» della massificazione si presentava come volgarizzazione e come vol­garità. Adesso non è più contro i programmi Tv particolarmente volgari o la letteratura da edicola che dobbiamo lottare. Dobbiamo lottare, invece, contro quella che si presenta come la Cultura con la maiuscola. È quella che veramente, in modo profondo, ci distrug­ge, perché uno dei suoi dogmi è lo sviluppo della «corsa dei topi» culturale, cioè la creazione di uno snobismo di massa. Vogliono fare di noi, di tutti, degli snob, ossia delle persone che tendono conti­nuamente a fingersi quelle che non sono. Da qui la necessità di creare continuamente mode e modelli dietro i quali farci correre. Oggi la «cultura di massa» – usiamo le virgolette – somiglia straor­dinariamente a quella vera, quasi come certi prodotti surgelati somigliano a quelli non surgelati.

Ma, allora, quali armi abbiamo? C’è almeno l’ombra di una pro­posta in quanto ho detto?

Mi pare che le conseguenze siano queste: fintanto che pensiamo di contrapporre un sapere ad un altro, un libro ad un altro, un film ad un altro – starei per dire: un’emittente Tv ad un’altra – pos­siamo arrivare nella migliore delle ipotesi a quella che è la situa­zione in cui già viviamo, visto che siamo in un paese democratico, dove già abbiamo un’opinione non maggioritaria e una certa tradi­zione di «sinistra».

Che cos’è, invece, che ci pone al di fuori?

E l’azione politica, intesa come scelta di comportamenti non in­dividuali, i cui motivi non vanno cercati e neanche verificati esclu­sivamente sul sapere o sulla cultura, ma si fondano – almeno ini­zialmente – sul già saputo, su quello che sta dentro di noi – come si dice – o anche fuori (per me è lo stesso). E questo «qualche cosa», che già sappiamo, ci viene dalla nostra esperienza vitale. E un «qualche cosa» nel quale la sofferenza per 1’ingiustizia e 1’oppres­sione subita il giorno prima si mescola al ricordo di ciò che abbiamo imparato e saputo da quando avevamo cinque anni. Questo «in­sieme» è il nostro sapere, non quello che sta «dopo e fuori», che si aggiunge in seguito e può essere consumato o appreso, può diventa­re «carne e sangue» a condizione che vi sia quel momento iniziale.

E che cos’è l’operazione politica per eccellenza? Trovare i propri compagni, riconoscersi, unirsi, decidere di fare alcunché, fosse anche una conversazione come quella di stasera o una iniziativa come quella che qui è stata proposta.

Ed è veramente il caso di dire in questa occasione che da cosa nasce cosa e che qui siamo, per il momento, ancora fuori dai pro­blemi della cultura, di massa o non di massa.

Infatti i problemi dei libri, del sapere, si pongono immediata­mente dopo quelli che Mao chiama dell’inchiesta, cioè della ricerca per capire com’ è fatto il mondo nel quale vogliamo muoverci e che vogliamo in qualche modo modificare.

Ripeto la mia conclusione: mentre nel decennio in cui, in Italia con notevole ritardo, si sono sviluppate le forme della cultura di massa si è pensato soprattutto a controbattere la degradazione culturale, oggi credo che si tratti di lottare prevalentemente più a monte, in ter­mini di accumulazione di forza politica. Basta pensare alla corpora­zione giornalistica, e soprattutto ai giornalisti della TV, a quelle migliaia di persone che la RAI paga molto spesso per non far nulla (e si parla di dieci-ventimila persone … ). Sarebbe interessante che si stu­diasse il contratto nazionale dei giornalisti e si vedesse la condizione di privilegio incredibile che essi hanno nei confronti di altre catego­rie. Si scoprirebbe, forse, che nel nostro paese vi sono settori, nei quali esistono fasce di privilegio cultural-politico non molto diverse da quelle del mandarinato cinese o della nomenklatura sovietica.

È mia convinzione profonda che proprio nell’ambito di quella che Gramsci chiamava, con parole dimenticate, «l’organizzazione della cultura» la lotta politica oggi può dare risultati, che non poteva dare trenta o quarant’anni fa.

Fino a quando esisteva una classe operaia nel senso marxiano e leniniano della parola, depositaria (o ritenuta tale) di valori uni­versali, sì che, se essa non li affermava, l’intera società deperiva, si poteva avere dell’organizzazione della cultura l’idea che ne ebbero Lenin e Gramsci, e cioè l’idea di un qualche cosa di sostan­zialmente subordinato al potere economico-politico. Ma oggi, non possiamo più usare i termini con i quali Lenin e Gramsci descris­sero gli intellettuali. Oggi gli intellettuali non sono più quelli del tempo di Lenin e Gramsci. Sono invece quegli intellettuali «di massa» o intellettuali-massa, di cui il ’68, con eccessivo anticipo, dichiarò l’esistenza, quando non c’erano ancora; mentre oggi ci sono e nessuno più ne dichiara l’esistenza. Intendo riferirmi a tutti i docenti, i tecnici, gli addetti alla riproduzione del sapere, al gior­nalismo, alla TV, alla pubblicità. È una fascia straordinariamente importante del «nuovo terziario», senza la quale non si fa nulla.

Nella guerra civile – se vogliamo chiamarla così – o lotta di classe la «linea del fuoco» passa oggi attraverso le scuole, le redazioni, gli uffici dove si elabora un sapere che – ripeto – è «di massa», ma non ha più le caratteristiche di trenta-quaranta anni fa.

Ho pensato anni fa che i primi «caduti» di questa lotta si sareb­bero avuti nelle redazioni al momento in cui – così come gli operai di centocinquanta anni fa, affrontando lo sciopero, affrontarono non solo i fucili dei carabinieri ma il licenziamento e, quindi, la fame loro e delle loro famiglie – uno di quei mezzi busti della TV prenderà la parola alle ore tredici e dirà una verità non prevista dal copione. Sarà immediatamente cacciato. Quel giorno si potrà dire non che ci sarà stato un singolo eroe, ma che sarà avvenuto qual­cosa capace di rompere la profondissima omertà nel campo del­l’informazione di massa. E la stessa cosa vale per molti altri settori della comunicazione e del sapere. Il mio è quindi un messaggio di speranza abbastanza ironica e – come potrei dire – autosorvegliata. Perché conosco l’estrema difficoltà di questa strada e, tuttavia, cre­do che essa esista.