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Parrocchietta del Sud

Poeterie/Salierne

di Ennio Abate

Oh parrocchietta del sud, teca di vetro
dove con quei loro gracili corpi
che poco e male conoscevano
se ne stavano serrati!

Oh figurine di madonna, occhi in su
col serpente – occhi chiusi – sotto i piedi!

Oh statuina di gesso – san Giorgio cavaliere –
sempre sotto teca nella stanza in campagna
di nonna Francesca, di lancia armata
contro il drago – vita informe!

Dimenticati, gracili corpi, assetati
o fanciullescamente famelici
già divisi ora da lusinghe ora da rigori di preti
già schizzati per le vie del batticuore
in pedinamenti di ragazze!

Per abbreviare così lo spasimo dello stacco:
il guizzo ansioso di un tuffo e smarrirsi.
Ma lontano e altrove. Non più nel mare
nudi o nella dolce inconcludente lussuria
che l’aria incoraggiava e il vento sperdeva.

2000 circa

 

 

Nota 2021

Questa foto, recuperata da un amico d’infanzia,  dev’essere stata scattata  attorno al 1949-’50 forse con  qualche macchina fotografica a lampo.  L’ambiente è al chiuso: lo stanzone della sala delle adunanze della parrocchia di S. Domenico a Salerno,  frequentata  da me  e dai miei amici. Sul muro, pieno di macchie per l’umidità, il cartello del “Gruppo Audaci” (uno dei  cinque o sei in cui i ragazzi – gli aspiranti dell’Azione Cattolica – venivano suddivisi per  le attività di catechismo e di gioco).
Mi metto dal punto di vista di un osservatore che  non riconosce  nessuno dei fotografati e mi colpiscono alcune cose:
–  i ragazzi e le ragazze in alto a sinistra e in piedi su sedie o panche o  le quattro donne sedute formano una quinta  diagonale staccata dal  gruppo compatto in tonaca nera del prete  e dei  quattro seminaristi e dal giovane isolato  e in piedi sulla destra;
– questo giovane è l’unica figura che appare quasi completa e contrasta anche per questo sia dal  gruppo a sinistra che dal gruppo  in tonaca nera;
– il fotografo ha sbagliato l’inquadratura:  non solo ha escluso o tagliato i fotografati sul lato sinistro ma  ha lasciato sulla destra uno spazio inutilmente vuoto;
– tutti i fotografati, tranne  alcuni che si distraggono,  sono attirati  dalla macchina fotografica e  la  fissano; soltanto il giovane  in piedi e isolato  guarda in altra direzione o sembra assentarsi;
– i volti rivelano attesa, perplessità, sorpresa, curiosità, diffidenza; e solo due ragazzi in basso e in primo piano – quello dai capelli scuri sorridente e quello  che dietro di lui, forse inginocchiato, lo sovrasta – sembrano davvero contenti di essere fotografati.

Confrontando la  foto del  ’49-’50, inviatami dall’amico solo nel 2019,  e i versi  che, senza conoscerla, ho scritto sulla base  di ricordi miei attorno al 2000 e pubblicato  nel 2011 in “Immigratorio”, mi pare che l’immagine confermi  il senso  di chiuso, di opaco raccoglimento in sé, di attesa indeterminata  della piccola comunità parrocchiale o «parrocchietta del Sud». Dà anche evidenza  ai «gracili corpi/che poco e male conoscevano/ se ne stavano serrati» tra loro (tranne il giovane sulla destra);  e non solo per la necessità tecnica di farsi fotografare. Quello che  manca nella foto è «lo spasimo dello stacco», che è centrale nella poesia.  E’ sentimento  tutto mio,  individuale, desunto dai ricordi. E mi  fa guardare la foto col distacco di chi sa che qualcosa s’è rotto  per sempre  tra lui e i fotografati della «parrocchietta del Sud»:  sia quelli anonimi, che non ricordo, non riconosco e di cui ignoro tutto; e sia  quelli  la cui storia s’intrecciò con la mia di ragazzo e che sto ripensando e scrivendo nel mio “narratorio”. Ritornare a quel passato parrocchiale è ritornare ad un cappio e non decidersi a dichiararlo tale?  O, visto il titolo dato alla poesia, vezzeggiarlo? No, è il lavoro minimo e mai definitivo per sfuggire all’inerzia del passato.

P.s.
Forse è meglio aggiungere che il giovane isolato sulla destra è Michele Buonocore, figlio del primo sindaco di Salerno nel dopoguerra, il democristiano Luigi Buonocore, assiduo frequentatore della parrocchia di San Domenico.

Poesie

Mario Carbone ed Emilio Gentilini, Roma

di Marc Alan Di Martino traduzione di Angela D’Ambra

Runaway

My mother is sitting alone on a park bench in Villa Borghese, eating a sandwich. It isn’t an easy thing to find a sandwich in Rome in 1966. She had to root out the Bar degli Americani on Via Veneto, near the embassy, in order to find ham on white bread. No mayonnaise. Imagine that: a Jewish girl eating a ham sandwich on a park bench in Rome with no mayo. What is she doing there, so far from home? And where is home, anyway? Her parents’ home in Brookline, Massachusetts? That isn’t home. Not anymore. She ran away from that home, came to Rome via Paris via San Francisco. Anywhere but at the shabbos table with that tyrant her mother and her ineffectual father. A ham sandwich on a park bench is better than that, she says to herself as a dapper man appears, dressed in a smart black suit. She notices his teeth. Naively, she thinks he might be Marcello Mastroianni, her singular destiny to meet a movie star, fall in love, and become his wife. Live happily ever after. The fantasies that run through a young woman’s head. This man is not Eddie Fisher. Nice Jewish boy. Dungaree Doll. This man is a smooth-talker. He wants to sell her something. Realizing she is American, he begins speaking in broken schoolboy English. He turns on the charm, and she is charmed. What is he selling? Wine - what else? You are in Italy, poor girl, eating a sandwich, all alone. He overwhelms her, makes her feel like Audrey Hepburn. She, in turn, is an easy target. Not like Italian women. To get into their pants you have to go through their families. He knows. He has two sisters. He’s always beating up guys in his neighborhood for putting their hands on them. He’s got a reputation. But everyone knows American women are unmoored. Why else do they come here?  To get into trouble. To meet a Casanova. To have what they call a ‘fling’. (He learned that word in a movie.) Then they go back home and get married to a Rock Hudson or a John Wayne, have two kids and two cars and pursue their dreams of happiness. Europeans have history, Americans have dreams. That seems to him a profound insight. My mother crinkles the cellophane into a ball, rolls it in her palm, brushes the crumbs from her  skirt. He looks at her knees, the skin boldly exposed, wonders what’s beyond them. She isn’t thin, he thinks, as he absorbs her body with his eyes. He isn’t subtle. You don’t need to be in 1966. All you need to have is charm, and he has excellent charm. She decides in that moment she will go anywhere with this man. She will do anything he asks. She has nothing to lose, no one waiting for her on the other side of the ocean, no Eddie Fisher. Her brother is married to a German. Her brother the magician, who disappeared into a German woman and never came out. How she would like to disappear into this man, fall into the black hole of him, learn to curse her own parents in his tongue, allow the sensual inflections of Italian to evict the Yiddish gutturals lodged in her throat like fish bones. How she would like to learn to trill her r’s, double her consonants, put a crucifix around her neck for the sheer pleasure of seeing her mother’s dumbstruck punim, bury her alive with Roman invective li mortacci tua - fuck your dead ancestors - tear the crucifix off and flush it down the toilet, having exhausted its usefulness. She smooths her skirt, a little flushed.

Fuggiasca

Mia madre siede sola su una panchina di Villa Borghese; mangia un panino. Non è impresa da poco trovare un panino a Roma nel 1966. Aveva dovuto scovare il Bar degli Americani, a via Veneto, vicino l’ambasciata, per trovare prosciutto e pane bianco. Niente maionese. Immagina la scena: una ragazza ebrea che, su una panchina di un parco, a Roma, mangia un panino al prosciutto senza maionese. Cosa ci fa là, così lontana da casa? E, comunque, dove è la sua casa? La casa dei suoi genitori a Brookline, Massachusetts? Quella non è la sua casa. Non più. Da quella casa è fuggita, è venuta a Roma via Parigi via San Francisco. Ovunque, fuorché al tavolo dello shabbos con quella tiranna di sua madre, e il padre inetto. Un panino al prosciutto su una panchina del parco è meglio di quello, si dice quando appare un uomo azzimato, che indossa un elegante abito nero. Ne nota i denti. Ingenuamente, pensa che potrebbe essere Marcello Mastroianni, e che il proprio destino speciale sia incontrare una star del cinema, innamorarsi, diventarne la moglie. Vivere per sempre felici e contenti. Le fantasie che frullano nella testa d’una ragazza. Quest’uomo non è Eddie Fisher. Bravo ragazzo ebreo. Dungaree Doll. Quest’uomo è un adulatore. Vuole venderle qualcosa. Accortosi che è americana, inizia a parlare in un inglese scolastico. Accende il fascino, e lei è affascinata. Cosa vende? Vino; che altro? Povera ragazza, in Italia, tutta sola a mangiare un panino. La perturba, la fa sentire come Audrey Hepburn. Lei è, peraltro, un bersaglio facile. Non come le italiane. Per portartele a letto, devi passare per le loro famiglie. Lui lo sa. Ha due sorelle. Sta sempre a picchiare i ragazzi del quartiere che le molestano. Ha una reputazione. Ma tutti sanno che le donne americane sono senza legami. Sennò perché verrebbero qui? Per mettersi nei guai. Per incontrare un Casanova. Per avere quello che chiamano ‘fling’: un’avventura. (Aveva imparato quella parola in un film.) Poi, se ne tornano a casa, si sposano un Rock Hudson o un John Wayne, hanno due figli e due auto, e inseguono i loro sogni di felicità. Gli europei hanno una storia, gli americani hanno sogni. Questa gli parve una profonda intuizione. Mia madre accartoccia il cellophane in una palla, se lo fa rotolare nel palmo, spazza le briciole dalla gonna. Lui le guarda le ginocchia, la pelle audacemente esposta, si chiede cosa ci sia oltre. Non è magra, pensa, mentre ne divora il corpo con gli occhi. Non è scaltro. Non è necessario esserlo nel 1966. Tutto ciò che ti serve è fascino, e lui fascino ne ha d’avanzo. Lei, in quell’istante, decide che andrà ovunque con quest’uomo. Farà tutto ciò che le chiederà. Non ha niente da perdere, nessuno ad aspettarla dall’altra parte dell’oceano, nessun Eddie Fisher. Suo fratello ha sposato una tedesca. Suo fratello, il mago, scomparso in una tedesca, e mai più riapparso. Come vorrebbe scomparire in quest’uomo, cadere nel suo buco nero, apprendere a maledire i propri genitori nella lingua di lui, permettere alle inflessioni sensuali dell’italiano di sloggiare le gutturali yiddish alloggiate nella sua gola come lische di pesce. Come vorrebbe imparare a vibrare le proprie r, raddoppiare le consonanti, mettersi un crocifisso al collo per il puro piacere di vedere il punim esterrefatto di sua madre, seppellirla viva sotto insulti romani li mortacci tua - vaffanculo i tuoi antenati morti - strapparsi il crocifisso e buttarlo nel water, dopo che ha esaurito la sua funzione. Si liscia la gonna, un po’ rossa in viso.

“Geniza”


A scrap of parchment in the hand of Maimonides
drifts down to us quietly
through ten centuries of blood and dust
lands in the hands of a researcher
in Tel Aviv, New York, Budapest
whose eye has been trained to mend
desiccated fragments, resurrect
mummified inklings, perceive
the worth of such undertakings. Dust
to lust[1], one culture’s erasure is another’s
treasure. Here sacred suckles profane
and must be tweezed apart
so as not to alter both. Crate by crate
smuggled by steamer out of Egypt
tiptoed their way past gods and guards,
again nearly drowned in the sea.

The luck of history.




“Gheniza*[2]



Un brandello di pergamena, di pugno di Maimonide
discende silenzioso fino a noi
attraverso dieci secoli di sangue e polvere
approda nelle mani di un ricercatore
a Tel Aviv, New York, Budapest
che ha occhio allenato a riparare
frammenti essiccati, resuscitare
indizi mummificati, percepire
il valore di tali imprese. Polvere  
alla passione, la rasura d’una cultura è il tesoro
di un’altra. Qui il sacro sugge il profano
e va diviso con le pinze
sì da non alterare entrambi. Cassa dopo cassa
usciti di frodo dall’Egitto via piroscafo
cauti superarono deità e guardie,
e quasi si re-inabissarono nel mare

La fortuna della storia.

 

The Skaters
 
                   “and years - so many years”
                       - Virgil, Aeneid
 
 
The dragonflies of summer have all vanished.
      Now people warm their hands above strange fires
blazing from big green oil drums. There are holes
 
in the sides. I wonder what made them there. 
      Neighbors, mostly. Girls lacing up their skates
in packs . The smoke and spark of firesticks
 
jutting out over the lip, burning, burning.
      My parents are somewhere, walking on water
together. My sister is here, her hand in mine
 
steadying me. Off to the right is where
      the man with the Firebird lives, the one
who followed me, in those apartments over
 
there. Don’t go there by yourself. Repeat. Don’t
      go...when my father hoists me and we’re off! 
 
 
 
 
I pattinatori
 
“E anni, così tanti anni”
                 - Virgilio, Eneide
 
 
Le libellule estive sono tutte scomparse.
       Ora la gente si scalda le mani sopra strani fuochi
che ardono da grandi fusti di petrolio verdi. Hanno fori
 
ai lati. Mi chiedo cosa li abbia fatti là.
       I vicini, per lo più. Ragazze s’allacciano i pattini
in gruppi. Fumo e scintille di stecchi
 
che sporgono oltre il bordo, e bruciano, bruciano.
       I miei genitori sono da qualche parte, a camminare sull’acqua
insieme. Mia sorella è qui, la sua mano nella mia
 
a rendermi saldo. A destra è dove
       vive l’uomo con la Pontiac, quello
che mi seguì, in quegli appartamenti lag-
 
giù. Non andarci da solo. Ripeti. Non
       andare ... quando mio padre mi solleva e via, sul ghiaccio!

 

“Still”
 
 
There are still birds, still things coming to life
in unexpected ways. Still nights and days. 
Nocturnal, diurnal. Circadian rhythms
scratching an itch* at the back of the throat.
Still family, still friends. Still love
slapping you silly with its rubber tongue,
salt that makes your stomach sing a psalm,
palettes of rusted foliage, stray bees
in November, still buzzing in the lavender.
 
 
 
“Ancora”
 
 
Ci sono ancora uccelli, ancora cose che prendono vita
in modi inaspettati. Ancora notti e giorni.
Notturno, diurno. Ritmi circadiani
a raschiare un pizzicore in fondo alla gola.
Ancora famiglia, ancora amici. Ancora amore
a schiaffeggiarti, sciocco, con la sua lingua di gomma,
sale che al tuo stomaco fa cantare un salmo,
tavolozze di fogliame rugginoso, api vaganti
in novembre che ronzano nella lavanda, ancora. 

[1] Nd’A: dust to lust:è un gioco di parole “dalla polvere alla brama”:  la polvere dell’artefatto e la brama del ricercatore per le scoperte

[2] Nd’A: *la gheniza era una specie di sgabuzzino nelle sinagoga antica del Cairo dov’era stato trovato un accumulo enorme di manoscritti vecchissimi, che poi è stato trasferito a Cambridge e che contiene molti tesori letterari di natura ebraica

Marc Alan Di Martino is a Pushcart-nominated poet, translator and author of the collection Unburial (Kelsay, 2019). His work appears in Baltimore Review, Rattle, Rust + Moth, Tinderbox, Valparaiso Poetry Review and many other journals and anthologies. His second collection, Still Life with City, is forthcoming from Pski’s Porch. He lives in Italy.

Marc Alan Di Martino è un poeta nominato per il Pushcart, un traduttore , ed è autore della raccolta Unburial (Kelsay, 2019). Le sue opere sono apparse su Baltimore Review, Rattle, Rust + Moth, Tinderbox, Valparaiso Poetry Review, e molte altre riviste e antologie. La sua seconda collezione, Still Life with City, è in uscita da Pski’s Porch. Marc vive in Italia.

ANGELA D’AMBRA ha conseguito la laurea quadriennale in Lingue e letterature straniere presso l’Ateneo di Firenze (2008); un diploma di Master II in traduzione di testi post-coloniali in lingua inglese presso l’Ateneo di Pisa (2009). Si è laureata in Lettere moderne presso l’Ateneo fiorentino nel 2015. Nel 2017 ha conseguito un diploma di Master I in traduzione di testi biomedici e legali presso ICON (Pisa). Nel 2019, la LM in Teorie della Comunicazione presso la Scuola di Studi Umanistici dell’Ateneo fiorentino. Dal 2010 traduce non-profit testi poetici (En > IT). Le sue traduzioni sono state pubblicate su varie riviste italiane e straniere tra cui El GhibliSagaranaMosaiciSemicerchioJITGradivaOsservatorio Letterario. Ha pubblicato (in traduzione italiana) una selezione di testi dall’antologia poetica On Being Dead in Venice di Gary Geddes (novembre-dicembre 2019) e una selezione di testi dall’antologia poetica Dancing Birches di Glen Sorestad (febbraio-marzo 2020).

Da “Riordinadiario 1994”

di Ennio Abate

È una bozza di poesia che non ho mai più ritoccato. O semplicemente un appunto di diario che tendeva – come spesso mi capitava in quegli anni – a passare dalla prosa al verso. Fu steso appena ricevuta (da Radio popolare forse) la notizia della morte di Fortini. Presi a sfogliare «Composita solvantur», l’ultima sua raccolta di poesie pubblicata lui vivente; e molti sono i versi che ho intercalato alle mie parole. Rilevante mi sembra oggi che già nel 1994 la figura del Fortini personaggio pubblico andava per me sullo sfondo e tendevo a  collegarla a quella interiore (“sono come un bimbo che non ebbe nonno”) e – sempre problematicamente – a quella del mio padre reale – Mìneche, meridionale,  origini contadine,  maresciallo dei carabinieri, pensionato – così diversa da Fortini padre spirituale elettivo, “maestro a distanza” – toscano, origini piccolo borghesi, letterato e scrittore. Quando gli avevo telefonato verso fine giugno per un altro piccolo progetto a cui avevo pensato e che egli aveva accettato ma rimandato a dopo le vacanze estive (una mia intervista di approfondimento dei temi già toccati da Paolo Jachia nel 1993 in “Fortini: leggere e scrivere”) non sapevo che sarebbero stati quelli i suoi ultimi mesi di vita. «Ricordo l’ultima accorata sua telefonata. Aveva letto un mio testo poetico su Utopia concreta e mi aveva chiamato per questo. Ne rimasi quasi meravigliato. Ma com’era diventata fievole adesso la sua voce! Al funerale, che m’immaginai affollato da personaggi, preferii non andarci» (qui).

28  novembre 1994 [da agenda scritta a mano]
 
DOPO NOTIZIA DELLA MORTE DI  FORTINI
 
Soffoco il pianto
al messaggio
                  non sono più arrivato a vederti
                    ad ascoltarti
a Siena l’aula   ancora con il tuo cognome
                  e in sogno
                  in pianto per la morte del padre
                  avvertita
                  (sarebbe venuta un giorno/
               mi tacevo/
                                       il vuoto
                il buio, il nulla, l’illusione svuotata
                la fine della sua [nostra] religione
 
Come povero [?] ormai, come stanco
nella «stanza dove tutto è ordinato»
per la morte.
«lo scorpione mentecatto»
non fugge – cresce ( a Bihac, sotto noi [?]
ti ha invaso-
e  noi allora
«immobili indifesi
ragni esili» pendiamo?
 
dal tuo fantasma dovevo staccarmi («tu infuriavi contro te nel petto»)
e rimettermi tra donne e amici
calmo ( senza riprodurre in mezzo a loro
il calco di te rampognante/
 era l’esodo non più la lite
 a compiersi
 
non torneranno
non siederanno «nella poltrona sdruscita»
né loro, né io
 che ascoltavo assorbito
 dalla tua eloquenza e –
non importa - mi dicevo -
se parla solo e troppo-
è vecchio, ha visto solo e troppo
 io ho tempo e pazienza
 per ascoltarlo e non sono
 come gli altri
 già dentro il delirio nuovo
 che lui col suo combatte invano
 io sono contento di ascoltarlo
 come un bimbo
 che non ebbe mai il nonno, e non s’urta
                     delle nuvole [?]
 
 
e squarci d’anni segreti
 rapinati in sogno (quelli che, pag. 22)
nel passo [pozzo?] del pensieroso, nella gola della vergine, nella disperazione che a tutto acconsentì»
«dove ora siete, infelici studenti»
 
quante volte hai guardato in alto
«oltre gli orti ancora bui, le chiese e i culmini (46)
il cielo era chiaro in cima ai rami
dei platani, dei lecci e degli allori»
 
quante volte ho guardato basso
le cortecce, le foglie indolenzite

Note

1. «a Siena l’aula   ancora con il tuo cognome»: L’avevo vista pochi giorni prima della sua morte (28 novembre), quando partecipai al convegno su «Il  simbolo oggi. Teorie e pratiche» organizzato da Sandro Briosi (24-26 novembre 1994)

2. « in pianto per la morte del padre» … riferimento anche alla morte di mio padre..

3. « nella «stanza dove tutto è ordinato»»: da  pag. 10 Composita solvantur

4. «lo scorpione mentecatto»: pag. 9 Idem

5. Bihac: era il 5 agosto 1995. Bihać, la sua città al nordovest della Bosnia, al confine con la Croazia – incastonata tra i monti e attraversata dal fiume Una – durante la guerra era stata dichiarata dalle Nazioni Unite safe haven (area protetta) come altre cinque zone della Bosnia Erzegovina, ma non era né sicura né protetta. Bihać, Sarajevo, Tuzla, Goražde, Srebrenica e Žepa continuarono a essere bombardate e attaccate fino al 1995, senza che le Nazioni Unite intervenissero. ( notizie tratte da qui )

6. «tu infuriavi contro te nel petto»: pag. 19 Idem

7. «nella poltrona sdruscita»: pag. 21 Idem

8. « ha visto solo e troppo»

9. « quelli che»: pag. 21 Idem

10. « del pensieroso, nella gola della vergine, nella disperazione che a tutto acconsentì»: pag. 24 Idem

11. «dove ora siete, infelici studenti»: pag. 21 Idem

12. «oltre gli orti ancora bui, le chiese e i culmini/il cielo era chiaro in cima ai rami/

dei platani, dei lecci e degli allori»: pag. 44 Idem

Sul disagio ieri e oggi e qualche sua causa

 

Una conversazione di Ennio Abate con Vincenzo Loriga

Ripubblico questa conversazione  già uscita sul n 4 – maggio 2008 –  di POLISCRITTURE cartacea. Lo faccio sulla base di due spunti a prima vista occasionali e quasi trascurabili ma che rimandano a questioni di fondo della crisi che stiamo vivendo: –  un accenno polemico di Paolo Di Marco alle “languide analisi psicologiche” con invito a sostituire in certi casi la “psicologia” con discipline più “dure” o a ricorrevi, sì, ma “in seconda battuta” (qui); – la nota  sul “Negazionismo” che Pierluigi Fagan ha pubblicato sulla sua  pagina FB (qui e [1]) sul “dilemma del se e quanto il prossimo secolo sarà ancora americano” o dominato dalla Cina,  il cui fantasma fece capolino sul finire della conversazione del 2008. [E. A.]

Comincerei dall’esperienza del disagio che lei ha conosciuto nella sua attività di psicanalista.

Io mi sono trovato ad operare con un certo tipo di pazienti, più donne che uomini in generale, persone che andavano più o meno dai venti ai cinquant’anni. Non ho lavorato con persone più giovani e quasi mai con persone più vecchie. Noti che ho cominciato a lavorare come analista nel 1968 e ho interrotto l’attività nel 2006. Avevo, dunque, già fatto una serie di esperienze professionali e personali. Nella maggior parte dei casi ho avuto a che  fare con quella che veniva chiamata allora nevrosi di carattere, e cioè una difficoltà ad avere rapporti buoni o decenti o col partner amoroso o sul lavoro. Posso dire di aver avuto anche qualche giovane che faceva molta fatica ad entrare nel mondo sociale…

 Può accennare a qualche caso?

Ho avuto, ad esempio, alcuni casi di nevrotici coatti abbastanza interessanti; e me li ricordo in quanto il nevrotico coatto è, diciamo, più nevrotico degli altri. E, infatti, Freud, parlando della nevrosi di coazione, la chiamava «la regina delle nevrosi». Ma forse lei desidera qualche dettaglio?

 Se possibile…

Lei adesso parla con uno che non fa più l’analista e che quindi ha maturato un distacco da queste cose. Comunque, ci sono stati dei casi in cui la patologia diventava quasi divertente. Per esempio, ho avuto un paziente – premetto che il nevrotico coatto è di solito molto intelligente – il quale riteneva che le distinzioni che noi facciamo tra un oggetto e l’altro (io, ad esempio, mentre le parlo al telefono, ho di fronte a me la scrivania, poi una lampada, una libreria, una finestra…) erano irreali, perché lo spazio è unico. E questo paziente aveva anche paura di non seguire con sufficiente attenzione il battito del cuore, pensava che in mancanza d’attenzione si potesse fermare.

Le faccio un altro esempio. Ho avuto un paziente che era un comunista doc, uno stalinista. Beh, quando avvenne il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, il giorno in cui ci fu la manifestazione, qui a Roma, in piazza S. Giovanni, sia del popolo comunista che del popolo democristiano, io ero solo a casa mia – era un mercoledì pomeriggio e non lavoravo. A un certo momento questo giovane mi telefona spaventatissimo, dicendomi che mi vuol vedere. Arrivò da me in taxi. Di cosa aveva paura? Di mettersi a gridare in mezzo alla folla in piazza S. Giovanni «Viva le Brigate rosse!».

 L’inconscio lo spingeva potentemente dalla parte dei “cattivi” dell’epoca…

Sì, comunque lui ce l’aveva con tutti. Temeva anche di finire per dare uno schiaffo al suo superiore, col quale aveva almeno in apparenza rapporti cordiali. E soprattutto non tollerava l’immagine della debolezza. E una volta, mi ricordo, ebbe un atteggiamento aggressivo nei miei confronti, perché, avendo io da poco subito un’operazione chirurgica, gli apparivo più debole.

Tra gli inizi e la fase finale del suo lavoro di psicanalista quali differenze ha notato nei suoi pazienti o in lei stesso?

Il mio atteggiamento è cambiato sicuramente nel corso degli anni. Secondo me, un analista non fa che cambiare. Un analista passa il tempo a liberarsi delle cose che gli hanno insegnato a scuola o ha appreso dai suoi maestri. Poi quando si è liberato del tutto, ha finito anche di fare…l’analista!

 Lei, dunque, oggi s’è staccato dalla psicanalisi?

Beh, non la pratico più…

 Perché s’è stancato o per altre ragioni?

Il primo motivo è che mi sono stancato. Il secondo motivo è forse più penetrante…

Secondo me l’analisi ad un certo momento deve cessare. Finché uno resta impigliato nella rete analitica, tende a vedere le cose dell’animo umano – suo o anche dei pazienti – con  occhio scientifico. Ma c’è un elemento di libertà o, se vogliamo, di arbitrio, che, secondo me, nella visione scientifica propria di quasi tutta la psicologia viene sacrificato. Credo che l’unico che in qualche modo abbia reso ragione a quest’elemento sia Lacan. Io non mi sono mai sentito particolarmente vicino a Lacan, ma su alcuni punti sono d’accordo con lui. Ne ho parlato in un dibattito assieme ad altri nel volume della rivista La ginestra che risale al 1994 ed ha come titolo Castrazione e autocastrazione. Lì diciamo che, per “guarire” (orrenda parola!), cioè per sentirsi se stesso, il paziente deve essere capace di un atto d’arbitrio. Senza questo, si rimane sempre lì a rigirarsi sui propri problemi. Insomma, uno diventa se stesso, quando non pensa più a se stesso.

 Abbandonare o oltrepassare dunque la psicanalisi per altre attività?

Io attualmente scrivo. Scrivo di fantasia. Ma uno può anche fare, che so, l’imprenditore…

 Beh, se ci riesce! Non è così alla portata di molti come scrivere… Ma insisto, si deve proprio abbandonare la psicanalisi per “essere se stessi”?

Se devo essere schietto, sì.

 Posso chiederle quale attività svolgeva prima di fare lo psicanalista?

Come no! Dunque, per un certo periodo ho fatto il bohemien, il poeta. Poi ho lavorato nell’industria. E poi, a un certo momento, abbastanza tardi come ho detto, nel 1968 sono diventato psicanalista.

 La sua scelta di dedicarsi alla scrittura, abbandonando la psicanalisi, farebbe pensare che lei sia ritornato a un desiderio della sua giovinezza…

Diciamo che essermi occupato di analisi e aver fatto io stesso l’analisi mi ha permesso di vivere meglio. Vivere meglio con se stessi, vivere meglio con gli altri: questa è una cosa abbastanza importante. Però poi in questo vivere meglio si finisce per sacrificare una cosa alla quale personalmente tengo molto; e che potrei chiamare la potenza della parola. La parola, quando in qualche modo viene condizionata da una visuale scientifica, perde il suo vigore perché non ha più un rapporto diretto con l’esistenza.

 Eppure esiste un disagio anche dei cultori per eccellenza della parola, quali i poeti o gli scrittori. 

Sì, c’è questo disagio. Ma lei sa che spesso il poeta soffre d’insonnia?

 Non solo d’insonnia. Ho letto di recente su Internet un’intervista del 2005 rilasciata al Corriere della sera da Elio Gioanola. Trattava delle nevrosi di scrittori come Svevo, Tozzi, Campana e Gadda. Non la voglio condurre sull’annoso dibattito dei rapporti tra psicanalisi e letteratura, ma le chiedo: sfuggendo il disagio che può venire dall’attività psicanalitica e scegliendo la via della scrittura, non si passa comunque da un disagio a un altro?

Beh, in realtà non parlo di disagio procurato dalla pratica della psicanalisi. Se uno non ha un problema di espressione, ma di espressione vera (penso all’arte o alla filosofia) non c’è a mio avviso disagio. La psicanalisi lo può aiutare a viver meglio, favorendo fra l’altro, oltre che un rapporto migliore coi propri simili, anche una migliore armonia fra mente e corpo (cosa fondamentale; non dimentichiamo che l’inconscio freudiano, specie nella prima fase del pensiero di Freud, è in gran parte fisicità). Ma, se ci poniamo su un altro piano, la psicanalisi può essere d’ostacolo a un linguaggio vero. E per linguaggio vero intendo linguaggio libero. In che senso è di ostacolo? il suo punto di riferimento è l’Ego: quello che appunto beneficia dei vantaggi della nuova visione del mondo che la psicanalisi gli offre, ma che non ha  alcuna possibilità di accesso a un linguaggio che prescinda dall’utile.

La parola vera è quella che si propone quando il senso dell’utile viene a cadere. O meglio ancora: il linguaggio, in sé, non appartiene all’uomo, semmai lo domina. In fondo io ripeto cose già dette, ma che spessissimo vengono dimenticate. Le aveva dette Rimbaud (L’Io è un altro! Giusto, giustissimo, perché l’Io vero, che è in stretto rapporto col farsi del linguaggio, non è certo l’Ego, e i suoi movimenti per lo più ci sfuggono). Le ha ridette Lacan.  E sa chi altri le aveva dette? D’Annunzio. Non so se lei conosce, di D’Annunzio, il Di me a me stesso, un libro postumo, che contiene frasi folgoranti: «Lo stile è l’Incosciente», scritte negli anni Venti. E ce n’è un’altra che dice: «Il discorso è pieno di pericoli», perché – spiega D’Annunzio – uno sa come lo comincia, ma non sa dove e come finirà. Ma potrei citare anche Aristotele, del quale, nell’Etica Eudemia, c’è questo singolare pezzo, che stupisce poi alcuni, che a torto lo considerano un pensatore troppo aridamente razionale. Traduco alla meglio: «Muove tutte le cose il divino che è in noi. E il principio del Logos non è il Logos, ma qualcosa di più forte». Per poi aggiungere che, spesso, il poeta e il veggente vedono prima, e più rapidamente, cose che un cervello razionale elaborerà col tempo. In proposito vorrei ricordare questa importante, felice frase di Lacan: «I poeti non sanno quello che dicono, ma lo dicono prima degli altri». Io però vorrei andare oltre e rifacendomi al detto di D’Annunzio («Il discorso è pieno di pericoli») osservare che anche un filosofo autentico, quando comincia il suo discorso, non sa dove questo lo porterà. Se lo sa, è un buon volgarizzatore; tutto qui.

Ma così la ricerca non si chiude all’interno della parola o del discorso?

Voglio fare un’eccezione per Freud, che in qualche modo sta a mezzo. Da un lato fa lo scienziato, tratta o cerca di trattare il materiale psichico come un oggetto, poi però la forza del discorso lo trascina e lo porta a concepire idee – vedi per esempio la pulsione di morte – che ai suoi più burocratici allievi risulteranno sgradite. C’è una libertà in lui – la psicanalisi non per nulla è stata per più lustri una disciplina d’avanguardia – che non ritroviamo più nei suoi seguaci e nei suoi imitatori.  A me non dispiace affatto che Freud ogni tanto lavori di fantasia. Con la fantasia ogni tanto si scoprono verità importanti che spesso sfuggono al pensiero cosiddetto onesto. L’importante è che la fantasia sia tua, proprio tua, non condizionata da altri né per compiacere altri. È un po’ come con l’attore, che recitando sembra mentire, ma in realtà mette in luce punti dell’animo che di solito restano nascosti.

E il corpo, in tutto questo, non c’entra?

Ecco, l’aspettavo al varco.  Vorrei cominciare con un’osservazione che potrà sembrare un po’ singolare. Ho notato che medici e poeti tendono a trascurare il loro corpo. Gli psicanalisti meno, stanno più attenti. E sa perché lo psicanalista in genere bada di più alla propria autoconservazione di quanto non faccia il poeta o il medico? Perché la saggezza gli consiglia di risparmiarsi. Ma la saggezza non è la libertà dello spirito, rientra nella categoria dell’utile. Mi sono chiesto spesso perché il poeta trascuri il proprio corpo. Le confesso però che non sono arrivato a una conclusione sicura. Io credo che la parola forte in qualche modo agisca contro la corporeità.

 Contro?

Sì, la parola forte è corporea, prende forza dal corpo e gliela sottrae. Non così la parola piatta, o la parola segno, quella che adoperiamo negli scambi utili.

 Secondo lei, la parola che si fa corpo o carne, come afferma la dottrina cristiana, ha a che fare con questi discorsi?

(Pausa) Non le so rispondere.

 A me pare di cogliere due processi: uno di spiritualizzazione che trascura il corpo (e gli esempi di poeti – ma non soltanto – potrebbero essere numerosi); l’altro che cerca di riportare in evidenza il corpo, la carne, la materialità.

Io sul fatto che il poeta spiritualizzi ho qualche dubbio. Il poeta fa diventare idea la cosa, ma ama – e come – la cosa. Ma in cambio può dimenticare se stesso. Quanto alla chiesa  essa parla sì di un verbo che si fa carne, ma il suo atteggiamento fondamentale è sempre stato di ostilità verso la carne. La chiesa è sempre stata contraddittoria su un punto, perché in certi casi si propone come gelosa custode della natura, mentre in altri la rifiuta recisamente. Le dirò che io non ho fatto lo psicanalista a caso. L’ho fatto perché volevo una riconciliazione con la mia corporeità. E qui mi permetto di ricordare il saggio di Freud del 1908, La morale sessuale “civile”, che poi è ripreso ne Il disagio della civiltà. È un atto violentissimo d’accusa contro una civiltà repressiva. Freud osserva che la repressione della sessualità com’era attuata nella società ottocentesca fino alle soglie del primo Novecento finiva per danneggiarla. Tutto il Novecento è stato agitato dal bisogno di riscoprire il corpo. Basti pensare alla fortuna di D’Annunzio, poi ai futuristi, a Freud, all’epoca del jazz in America; e poi negli anni Sessanta i Beatles, la rivalutazione del corpo anche nel modo di abbigliarsi. Siamo stati tutti travolti da un’ondata di giovanilismo.

 Oggi però si sostiene che la psicanalisi, che pur ha contribuito a rivalutare il corpo, non serva più. La spinta liberatoria della “rivoluzione psicanalitica” sarebbe stata capitalizzata e deformata dalla commercializzazione. È l’opinione di Eli Zaretsky, un docente di storia alla New School University di New York espressa nel recente Secrets of Soul (I segreti dell’anima).  Di certo non si può contestare che, almeno in Occidente, i paradigmi forti del pensiero siano caduti e ci ritroviamo in un tipo di cultura informe.

Stiamo in una cultura che sta a metà del guado, che non è né carne né pesce. C’è un livellamento dei gusti e dello stile di vita. In questo le industrie hanno il loro peso. Ma il suo peso l’ha anche l’orientamento generale, perché poi l’industria cerca di corrispondere a delle richieste.

Ma le manipola un bel po’ queste richieste. Non crede che all’inizio esse abbiano una spinta autentica che viene tradita?

Viene anche tradita. Ma penso anche che non ci sia – come spinta autentica – in troppe persone. Mi spiega, ad esempio, perché in Italia la televisione è così volgare? E non parlo dei programmi politici. Le sembra un caso, d’altronde, che certi programmi interessanti li si veda solo dopo mezzanotte?

Perché a dirigere la Tv ci sono quelli che sollecitano i gusti più  bassi. Ma la Tv si potrebbe usare in altri modi. Talvolta succede. Ha visto Benigni recitare Dante? Un professore può storcere il naso, ma non c’è paragone con il livello dei programmi involgariti.

Ma sono seguitissimi anche questi…

 Ciò prova ancor più la potenza del mezzo.

Secondo me, c’è una corresponsabilità. Non mi addentro in dettagli. Se ci fosse una rivolta da parte del pubblico, certe cose non verrebbero più trasmesse. Basterebbe chiudere il video. Resta il fatto che anche io rimprovero alla televisione italiana di non svolgere nessuna funzione educativa.

 Di solito vengono rimproverati soprattutto gli utenti della Tv. E l’élite dirigente che tollera trasmissioni di basso livello?

Beh, capisco… La cosa andrebbe fatta con una certa gradualità. Non è che si può imporre alla gente di mettersi a leggere Aristotele.

 E sul disagio dei giovani oggi, qual è il suo punto di vista?

Glielo dico subito. Fino agli inizi del Novecento, ma anche più oltre, il principio della castrazione patriarcale funzionava. Naturalmente facendo anche dei danni agli individui più deboli psicologicamente. Adesso non funziona più. Da un certo punto di vista è stata una liberazione. Però non c’è stato nulla che abbia sostituito quel principio. Noi abbiamo una figura di padre indebolitissima e manchiamo quindi di un’etica condivisa. Ciascuno ha le sue ideologie, che sono ideologie private o di un gruppo ristrettissimo. Però non esiste più un’etica condivisa a livello di sentire. E allora succede che la maggior parte dei giovani si trovano nell’impossibilità di farsi un progetto. Ora non è che tutti siano in grado di  farselo Questo richiede già una personalità. Però la società un progetto prima glielo poteva dare. Adesso quello che la società gli può dare per i più è privo di fascino.

 È vero. Le trasformazioni del lavoro costringono a lavori flessibili, precari, intermittenti. Un giovane è costretto a dividersi tra varie occupazioni o va incontro a periodi imprevedibili di disoccupazione; e non riesce spesso a lasciare la famiglia. Figuriamoci a costruire un progetto di vita. Quando si uscirà da questo disagio?

Secondo me ci vorranno decenni. Sono pessimista a breve termine, non a medio o lungo termine, anche se penso che quelli che erano i valori della civiltà occidentale è difficile ricostituirli in qualche modo, perché l’Occidente è in declino. Sul Corriere del 23 dicembre 2007 c’era un’intervista sul tema del declino dell’Italia allo storico inglese Denis Mack Smith, che in passato scrisse una storia d’Italia con dati interessanti, anche se aveva qualche tratto superficiale. Lui trova miope quest’accusa, perché, se è vero che c’è un declino, visto che i centri dinamici della nuova civiltà si trovano nel Pacifico, esso tocca tutto l’Occidente.

 Tutte le comunità che avevano un’etica condivisa, come prima lei diceva, sono oggi sotto pressione e catapultate nel vortice della globalizzazione del mercato. Commerci, migrazioni, ma anche guerre avvengono in una confusa dimensione planetaria.

È un mondo che poi, secondo me, è minacciato dall’entropia. Tutto sembra livellarsi, ma in realtà ci sono spinte centrifughe e gli uni sviluppano sentimenti molto aggressivi nei confronti degli altri.

 Il politologo Samuel Huntington parla senza esitazioni di “scontro di civiltà”. Due per il futuro sembrano le prospettive: o l’arroccamento dell’Occidente, che dovrebbe reimporsi con la forza alle altre civiltà: oppure un mondo multiverso, multietnico.

Su quest’ultima ipotesi sono pessimista. Io sono convinto che, se viene meno l’egemonia degli Stati Uniti, ne nascerà un’altra e sarà cinese.

E, in tal caso, sarebbe meglio o peggio a suo avviso?

Mah, io i cinesi li stimo; e li stimo molto, ma la loro psicologia è così diversa dalla nostra, e così i loro valori. Forse ci sentiremmo un po’ spaesati.

 Ma conta ancora la matrice culturale nazionale di un popolo o contano di più i nuovi poteri sovranazionali?

La cultura nazionale conta. Gli americani sono diventati quelli che sono anche perché erano fatti in un certo modo.

Pensa che la cultura americana sia migliore delle altre?

No, guardi… io sono molto legato alla cultura europea. Ma ritengo che attualmente la cultura europea non sia in grado di farcela da sola. Lo si vede a livello politico: non riescono a decidere. Io in America non ci sono mai stato e preferisco vivere nel vecchio mondo. Però mi rendo conto che probabilmente sono un sopravvissuto. In fondo io credo ancora nell’arte, ma temo  che l’arte, o almeno un certo tipo di arte (non certo il cinema che per altro è un’arte) non abbia un grande futuro. Ha scarse possibilità. Lei non è d’accordo?

Non so davvero come pensarla. L’arte oggi non ha la risonanza sociale che ebbe in passato nelle dimensioni cittadine o nazionali. Ma potrebbe essere un seme  di “altro”. Ma posso sbagliare.

No, no. È legittimo pensarla così.

16 gennaio 08

Vincenzo Loriga  (1922-2019)
Ha operato come psicanalista di formazione junghiana fra Roma e Milano. Cofondatore e redattore delle riviste “La pratica analitica” e “Quaderni di psiche”; fondatore e direttore dei quaderni di cultura psicanalitica “La ginestra” (Franco Angeli, Milano). Ha pubblicato il volume di saggi L’angelo e l’animale (Raffaello Cortina, 1990). Ha collaborato, come saggista, alle riviste “Il Cannocchiale”, “Pagine”, “Tempo presente”. Attualmente collabora ai “Quaderni radicali”. In campo più strettamente letterario: il volume di racconti L’igrone (Zone Editrice, 2002) e i libri di poesia: Materia (Rebellato, 1958), Regina degli Inganni (Crocetti 1985, con una introduzione di Cesare Viviani), Sulla punta delle dita (Book editore, 2004), Non sentirò più Scarlatti (Book editore, 2009), Lisboa Antigua (Quaderni del Battello Ebbro, 2013) e Non arrenderti alla luce (Book editore 2015, con una introduzione di Giorgio Bàrberi Squarotti). Su di lui nel 2014 è stato realizzato un film-documentario ideato da Agostino Bagnato e diretto da Enrique Fortaleza: Vincenzo Loriga: il poeta esce dal sogno.

[1]

Poiché  il link  alla nota di Fagan può non essere accessibile a tutti i lettori la copio qui assieme alla cartina:

NEGAZIONISMO. La negazione è un meccanismo psichico di difesa quando si deve mantenere a tutti i costi intatta la consueta struttura o ordine psichico, al costo di negare la realtà. E’ il meccanismo più insidioso per il necessario sforzo adattivo. Questo, infatti, presuppone l’esame obiettivo della realtà per poi porre in essere i necessari cambiamenti adattivi. Più o meno, siamo tutti affetti da una qualche forma di negazionismo. In forme blande, è la semplice difesa da un continuo ed estenuante esame auto-critico sulle nostre mancanze di adeguazione quotidiana. Ma ci sono casi e ci sono momenti in cui tale meccanismo diventa una vera e propria psicosi.

Questa cartina girà su Internet. Mi arriva tramite Ignacio Ramonet che è fonte affidabile (Le Monde Diplomatique) e che riporta come fonte prima il the Economist. Per ogni Paese specifica il primo partner commerciale tra 2000 e 2020, non specifica se “partener commerciale” lo si intende per l’import o l’export o una media di entrambi. Ad occhio però, penso fotografi bene il cambiamento di stato economico del mondo degli ultimi venti anni, sapendo che i prossimi trenta saranno anche più severi con l’egemonia americana ed occidentale dominante nel XIX e XX secolo.
Stante questa informazione che sembra inequivocabilmente provenire dalla realtà dei fatti, vien da domandarsi perché molti geopolitici occidentali continuano pensosi a proporre il dilemma del se e quanto il prossimo secolo sarà ancora americano ed il come “isolare la Cina”? Se non sembra esserci alcun dilemma perché i fatti dicono che il XXI secolo certo non sarà americano e pare improbabile isolare una potenza economica in crescita a base 1,4 mld di persone che ti ha accerchiato, perché continuano a proporre questo item?
E qui interviene la negazione. Pur di non rivedere la struttura intellettiva delle loro credenze, continuano a ragionare come se la realtà fosse quella che hanno in testa loro e non quella che è fuori di loro. Pur di non render esplicito ai loro interlocutori lo stato della realtà, continuano come se questa fosse trascurabile ed al suo posto regnasse l’immaginazione.
Ma il problema non riguarda solo i geopolitici. E’ più in generale occidentale questa negazione al servizio di una mentalità novecentesca o spesso addirittura ottocentesca, che non si vuol portare in cantiere per seri lavori di profonda ristrutturazione. La mentalità ma ovviamente anche la forma sociale a cui corrisponde.
Dopo aver storicamente impostato le nostre strategie adattive sulla potenza dell’ordinatore economico a base di mercato che trascinava il politico, il militare e il culturale, se prendessimo atto che il primato commerciale e produttivo, oggi e per i prossimi decenni appartiene ed apparterà ad altri, dovremmo concluderne che saremo subordinati ad altre leadership come la nostra ha a lungo subordinato gli altri. Il puro orrore.
Quello che non si vuol ammettere è che se continuiamo a tenere intatta la struttura delle nostre forme di vita associata quali ereditiamo dalla storia recente e meno recente, il nostro adattamento al mondo nuovo sarà ben problematico. Noi vogliamo invece mantenere quella forma in cui l’economico domina ogni altra funzione anche se è un gioco in cui non siamo e non saremo più leader indiscussi. Ma qualcuno pagherà un prezzo per questa negazione.
Il prezzo sarà ulteriore disoccupazione e sottoccupazione, diseguaglianze ulteriori, disordine e depressione sociale, conflitto interno ed esterno, decadenza culturale poiché anche gli intellettuali sono chiamati a fornire ragioni di negazione invece che promuovere una nuova stagione creativa di diversa ri-progettazione delle nostre società.
Così, cosa fa un potere quando sta perdendo potenza? Quale il suo mantra? “Negare, negare sempre anche davanti all’evidenza”. Una volta sdoganata questa alienazione nevrotica dalla realtà, il negazionismo si riprodurrà a cascata in mille ed una occasioni poiché se il gioco sociale è barare, allora vinca chi bara meglio e di più. Se la convenzione sociale rimuove la realtà, allora perché credere esistano davvero problemi ambientali-ecologici e climatici? O problemi di convivenza con altre culture? O problemi di convivenza con virus molto diffusi?
Il mondo sta profondamente cambiando ma quando ci domanderanno perché non ce ne siamo accorti, dove eravamo, perché non abbiamo fatto nulla, diremo “Credevamo non fosse vero”.
Passeremo alla storia come la generazione che credeva che la realtà fosse una fake news.

Memento per i nipotini di Chiaromonte in crescita


Nei dintorni di Franco Fortini

a cura di Ennio Abate

In margine a questo articolo di Matteo Marchesini (qui)  e alla “riscoperta” di Nicola Chiaromonte. Per documentarsi e inquadrare meglio il testo di Fortini, oltre alla lettura del libro di Frances Stonor Saunders riportato nell’immagine, di cui si trovano on line varie recensioni, può servire anche  ascoltare un’intervista del 2015 ad Aldo Masullo sul clima di quegli anni (qui).
 
 
«A quella data non c’era ancora la rivista “Tempo presente”, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte (sarebbe comparsa due anni più tardi) ed “Encouter” in Gran Bretagna, diretta da Stephen Spender e- come non molti anni fa egli stesso ha dichiarato – finanziata dalla CIA. Una pubblicazione alleata a quelle usciva a Parigi, “Rencontres”. Quelle riviste erano collegate con l’associazione degli intellettuali *Per la libertà della cultura* che si opponevano frontalmente alle iniziative internazionali degli intellettuali che invece fiancheggiavano i comunisti. Fra gli animatori dell’associazione anticomunista erano presenti non pochi scrittori e artisti che erano stati attivi dalla parte della repubblica nel periodo della guerra civile spagnola: per l’Italia Chiaromonte e Garosci. Quando mi accadeva d’incontrarli non mancavano di lasciarmi intendere che mi consideravano una spia o un nemico. Il luogo ideologicamente e politicamente decisivo di tutti costoro era stato il progressismo americano rooseveltiano e filotrockista (non a caso Garosci è il traduttore di quel gran libro che è *Le memorie di un rivoluzionario* di Victor Serge in italiano nel 1956). La storia della loro attività e discendenza è uno dei più importanti episodi, credo, della storia della seconda metà del secolo.
Ne leggo in questi giorni su di una rivista piuttosto prossima agli ex comunisti sotto il titolo *Il Congresso per la libertà della cultura. Una storia della guerra fredda*. Ci si riferisce ad alcuni libri sull’argomento comparsi fra il 1989 e il 1990. Credo davvero che la ricerca storica sia il solo strumento capace di ricostruire quegli eventi, non solo intellettuali, di un quarantennio. Leggo che si dovrebbe uscire dalle interpretazioni “ideologiche”. È la solita solfa. È da una interpretazione ideologica, ossia di scelta e di parte, che può essere scritta, o riscritta, la storia della guerra fredda. Che dico: la storia. Leggo che quella del *Congresso per la libertà della cultura* sarebbe stata “una storia di obiettivi e tentativi non univoci che si intrecciarono e si sovrapposero: quello della Cia di usare la cultura democratica come grimaldello per incrinare l’egemonia degli intellettuali filosovietici; quello di dar vita ad un movimento politico fiancheggiatore dell’occidente (e quindi della politica statunitense) impegnato in una lotta che si riteneva mortale e frontale; quello di creare un polo di riferimento neutralista capace di resistere alla logica di schieramento prodotta dalla guerra fredda; quella di riaffermare l’impegno della cultura nella realtà contemporanea ponendo il rispetto per la verità e la difesa dei diritti e dei valori umani più universali come fondamento di un’azione degli intellettuali realmente autonoma da pressioni politiche”. (Marcello Flores, «Linea d’ombra», X, 67, gennaio 1992, p.17).
Se la materia non fosse così seria, ci sarebbe da ridere. E non per la “colpevole non curiosità” circa i finanziamenti di quella associazione internazionale, come la chiama Sidney Hook, con elegante eufemismo; ma perché erano inconciliabili l’appoggio alla politica degli Usa e il neutralismo, e inconcepibile una “azione” intellettuale autonoma da pressioni politiche. Chi, come me, ha vissuto col massimo possibile di coscienza critica l’età in cui si è sviluppata quella associazione e l’ha sempre considera avversaria; chi come me, era un “intellettuale filosovietico”, che – avessero potuto – i sovietici, ossia la loro polizia, avrebbero immediatamente deportato a morte, pensa che il discorso sia ancora quasi tutto da fare. Scrivo queste parole e mi rendo conto che, in versi o in prosa, le mie risposte le ho già date e che non sono state solo mie; ogni volta che si porranno scelte altrettanto intollerabili, altri torneranno a scoprire entro di sé non diverse dalle nostre le domande e le risposte».
1953
 
(Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro, pagg. 134-135, Quodlibet, Macerata 2006)

“Minima (im)moralia”

Ragionamento sui nostri antenati (3)

a cura di Ennio Abate

Riprendo il mio ragionamento sui nostri antenati e  pubblico a mo’ di documentazione  gli aforismi di Minima (im)moralia presentati da Elvio Fachinelli nel n. 26 (giugno-luglio 1976) di L’ERBA VOGLIO. (Il PDF completo può essere scaricato qui). Avverto  che  dopo l’infelice conclusione del  confronto con Dario Borso su Cases, Schmidt, etc. non seguirò più il filo del discorso che avevo previsto e non risponderò ad alcun eventuale commento di db . [E. A.]

Minima (Im)moralia

Al termine della sua introduzione all’edizione italiana dei Minima Moralia di Adorno (Einaudi, 1954), Renato Solmi poneva una brevissima nota: «Questa traduzione non riproduce interamente il testo dei Minima Moralia. Sono stati tralasciati gli aforismi di contenuto specificamente tedesco, ricchi di allusioni che sarebbero rimaste incomprensibili al lettore italiano, o che avrebbero richiesto note lunghe e ingombranti». Venendo dopo uno scritto di sessanta pagine, queste righe sembravano alludere a qualche taglio marginale, anche se era difficile immaginare un Adorno a tal punto labirintato nella Selva Nera da riuscire irraggiungibile. Ora, che cosa è «specificamente tedesco» nella quarantina di aforismi «tralasciati», di cui presentiamo ai nostri lettori un primo campione (li pubblicheremo tutti in un volumetto. edizioni L’erba voglio, a settembre)? Il sesso (le donne)? La politica? La riflessione incauta? Come i lettori possono agevolmente constatare, questi aforismi sono doppiamente interessanti: in se stessi, nei loro nessi (recisi) col resto del grande libro di Adorno; e, soprattutto, come testi propriamente censurati, che nel loro emergere ora indicano con chiarezza ciò che ha prodotto la loro censura. Nel loro insieme, essi tracciano una mappa significativa di ciò che la cultura italiana di sinistra di quegli anni – ma solo di quegli anni? – ha temuto o addirittura non visto, e quindi escluso. Per ironia e necessità storica, ciò che appariva allora, secondo i casi, sbagliato, pericoloso, dannoso, «fuori luogo», risulta oggi di gran lungo più vitale del movimento che lo ha condannato (Elvio Fachinelli)

(27) On parle français. Chi legge pornografia in una lingua straniera, impara quanto intimamente s’intreccino sesso e linguaggio. Leggendo Sade nell’originale non si ha bisogno di alcun dictionnaire. Anche le espressioni, riferite all’indecente, più inconsuete – espressioni la cui conoscenza non è trasmessa da alcuna scuola, da alcuna casa patema, da alcuna esperienza letteraria – si comprendono, procedendo come sonnambuli, al modo in cui nell’infanzia le manifestazioni e le osservazioni più discoste del momento sessuale si riconnettono in un’esatta rappresentazione: come se le passioni prigioniere, chiamate per nome da quelle parole, facessero saltare sia il muro della propria repressione, sia quello delle parole cieche e violentemente, irresistibilmente urtassero nella cellula più intima del senso che loro somiglia.

(55) Posso osare (1) – Quando, nel Girotondo di Schnitzler, il poeta si avvicina teneramente alla dolce, frivola fanciulla, rappresentata come l’antitesi leggiadra della puritana, essa gli dice: «Via, non desideri suonare il piano?» Essa, come non può avere incertezze circa lo scopo dell’arrangement, neppure offre propriamente una resistenza. Il suo impulso va più a fondo dei divieti convenzionali o psicologici. Esso denuncia una frigidità arcaica, l’angoscia dell’animale femminile innanzi all’accoppiamento che non gli reca se non dolore. Il piacere è un’acquisizione tarda, non più antica certo della coscienza. Se si osserva il modo in cui, costrittivamente, sotto un sortilegio, gli animali s’incontrano, allora l’affermazione secondo cui «la voluttà è stata concessa al verme», si palesa essere un pezzo di menzogna idealistica, almeno per ciò che concerne le femmine, alle quali l’amore capita in assenza di libertà e che non altrimenti lo conoscono se non in quanto oggetti di violenza. Di ciò qualcosa è rimasto alle donne, principalmente a quelle della piccola borghesia, fin dentro l’epoca tardo-industriale. La memoria dell’ antico ferimento sopravvive ancora, mentre il dolore fisico e l’angoscia immediata sono tolti dalla civiltà. Nessun uomo il quale esorti una fanciulla povera ad andare con lui disconoscerà, in quanto non si renda del tutto ottuso, il momento leggiero del diritto nella sua riluttanza, unica prerogativa che la società patriarcale lascia alla donna, la quale, una volta persuasa, dopo il breve trionfo del no, subito deve pagare lo scotto. Essa sa di essere fin dai tempi più remoti, come colei che concede, l’ingannata. Ma se, per questo, essa è avara di sé, allora, si, è ingannata sul serio. Ciò è implicito nel consiglio alla novizia che Wedekind pone in bocca alla tenutaria d’un bordello: «In questo mondo non c’è che una via per essere felici, e cioè fare di tutto per rendere gli altri quanto più felici è possibile». Il piacere proprio ha come presupposto quel gettarsi via illimitato, di cui le donne, a causa della loro arcaica angoscia, sono tanto poco capaci quanto gli uomini nella loro boria. Non solo la possibilità oggettiva – anche la disposizione soggettiva alla felicità fa parte propriamente della libertà.

(1) Allusione ai versi pronunciati dal Faust di Goethe (nella «Parte prima», scena della Strada (I»: «Mein schiines Friiulein, dar! ich wagen, / Meinem Arm und Geleit Ihr Anzutragen ?»(N. d. T.).

(78) Al di là dei monti. (1) – Più compitamente di qualsiasi fiaba, Biancaneve esprime la mestizia. La sua immagine pura è la regina che guarda attraverso la finestra la neve e desidera una figlia secondo la vivente bellezza senza vita dei fiocchi, la nera afflizione del telaio della finestra, la puntura del dissanguamento; (2) e poi muore di parto. Di questo però neppure il lieto fine porta via nulla. Come l’esaudimento si chiama morte, la salvazione rimane apparenza. Infatti l’osservazione più profonda non crede che si sia ridestata colei che, simile ad una dormiente, giace nella bara di vetro. Non è forse il boccone di mela avvelenato (3), che per le scosse del viaggio le esce dalla gola, piuttosto che un mezzo di assassinio il residuo della vita perduta, della vita proscritta, dalla quale essa solo ora si salva davvero, ora che nessuna ingannevole messaggera l’adesca più? E come suona caduca la felicità: «Allora Biancaneve gli volle bene e andò con lui». Come è revocata dal malvagio trionfo sulla malvagità (4). Così, quando speriamo nella salvezza, una voce ci dice che la speranza è vana, eppure è essa, essa soltanto, la speranza impotente, che ci permette di trarre un respiro. Ogni contemplazione non può fare di più che ridisegnare pazientemente in figure ed approcci sempre nuovi l’ambivalenza della mestizia. La verità non è separabile dall’ossessione che dalle figure dell’apparenza emerga pure infine, senza apparenza, la salvezza.

(1) Lo specchio fatato dice alla Regina:
«Regina la più bella qui sei tu
ma al di là dei monti e piani
presso i sette nani
Biancaneve lo è molto di più»
[trad. da Grimm di C. Bovero]

(2)«Una volta nel cuor dell’inverno, mentre i fiocchi di neve cadevano dal cielo come piume, una regina cuciva seduta accanto così bello su quel candore, eh ‘ella pensò: così, cucendo e alzando gli occhi per guardar la neve, si punse un dito, e caddero nella neve tre gocce di sangue. Il rosso era così bello su quel candore, ch’ella penso: “Avessi una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e dai capelli neri come il legno della finestra!”». [id.]

(3) Il principe, pur credendo morta Biancaneve, chiede ai nani di poterla trasportare nel suo castello nella sua bara di vetro «per onorarla ed esaltarla come la cosa che gli era più cara al mondo». «Il principe ordinò ai suoi servi di portarla sulle spalle. Ora avvenne che essi inciamparono in uno sterpo e per la scossa -quel pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva trangugiato, le uscì dalla gola». [id.]

(4) «Ma alla festa [nuziale] invitarono anche la perfida matrigna di Biancaneve. (… ) Dapprima non voleva assistere alle nozze, ma non trovò pace e dovette andare a vedere la giovane regina. Entrando, riconobbe Biancaneve e impietri dallo spavento e dall’orrore. Ma sulla brace eran già pronte due pantofole di ferro: le portarono con le molle, e le deposero davanti a lei. Ed ella dovette calzare le scarpe roventi e danzare finché cadde a terra morta». [id.] (N. d. T.).

 (112) Et dona ferentes. In Germania i filistei paladini della libertà sono sempre stati particolarmente fieri della poesia sul Dio e la bajadera (1), con la sua fanfara finale secondo cui gli immortali elevano al cielo con braccia di fuoco i figli perduti. Non ci si può fidare di questa approvata magnanimità. Essa è propria fondamentalmente del giudizio borghese sull’amore mercenario, in quanto essa consegue l’effetto della comprensione e del perdono divini solo denigrando come perduta, con un brivido estatico, la bella tratta in salvo. L’atto di grazia è soggetto a cautele che lo rendono illusorio. Per meritarsi la redenzione – quasi una redenzione meritata fosse ancora tale -, alla fanciulla è concesso di partecipare alla «festa gioconda del talamo» «non per denaro o voluttà». E perché mai poi? L’amore puro che le viene attribuito non offende forse sgraziatamente l’incanto che i ritmi di danza di Goethe intrecciano intorno alla figura, incanto che certo non si lascia cancellare neppure dalle parole sulla sua profonda corruzione? Ma essa pure deve diventare, ad ogni costo, un’anima buona tale che solo una volta ha peccato. (2) Per venire ammessa nell’ambito chiuso dell’umanità, la cortigiana, che l’umanità si vanta di tollerare, deve anzi tutto cessare di essere tale. La divinità si compiace dei peccatori ravveduti. Tutta l’incursione fin là dove sono le ultime case è una sorta di slumming party metafisico, un allestimento della volgarità maschile per atteggiarsi in maniera doppiamente grandiosa, dapprima accrescendo smisuratamente la distanza tra lo spirito maschile e la natura femminile e poi, successivamente, sventolando come bene supremo- il potere assoluto di revocare la differenza da esso stesso creata. Il borghese ha bisogno della bajadera non soltanto per amore del piacere, che egli al tempo stesso le invidia, bensì per sentirsi davvero Dio. Quanto più egli s’avvicina al margine del suo ambito e dimentica la sua dignità, tanto più spudorato è il rituale della violenza. La notte ha il suo piacere, la puttana, però, viene bruciata. Il resto è l’idea.

(1) Der Gott und dìe Bajadere: così s’intitola la ballata di Goethe alla quale questo aforisma si riferisce.

 (2) Allusione ai versi 12065/12066 del Faust di Goethe dove è contenuta la lode di Gretchencome «,gutel Seele, / Die sich einmal nur vergessen».

(105) Solo un quarto d’ora. (1). – Notte insonne: se ne dà una definizione come di ore tormentose, tese senza la prospettiva d’una fine e dell’alba nello sforzo vano di dimenticare la vuota durata. Ma orrore, piuttosto, procurano le notti insonni nelle quali il tempo si contrae e scorre sterile fra le dita. Qualcuno spegne la luce nella speranza di lunghe ore di riposo, che gli possano recare conforto. Ma, mentre non sa acquetare i pensieri, il salutare patrimonio della notte gli si dissipa ed egli, prima che sia capace di non vedere più nulla negli occhi serrati, brucianti, sa che è troppo tardi, che presto il mattino lo desterà di schianto. In maniera simile, inarrestabili, inutili trascorrono forse i momenti estremi di chi è condannato a morte. Ma ciò che si rivela in tale contrarsi delle ore, è l’immagine speculare del tempo adempiuto. Se in questo il potere dell’esperienza ‘spezza il sortilegio della durata e raccoglie passato e futuro nel presente, così nella notte precipitosamente insonne la durata suscita insopportabile orrore. La vita umana diventa istante, non già togliendo la durata, bensì rovinando nel nulla, destandosi alla sua vanità al cospetto della cattiva infinità del tempo. Nel rumoroso ticchettio dell’orologio l’insonne percepisce la derisione degli anni-luce per il breve corso della propria esistenza. Le ore, che già sono trascorse come secondi, prima che il senso interiore le abbia afferrate e lo trascinano nella loro caduta, gli danno avviso di come, insieme ad ogni memoria, egli sia votato all’oblio nella notte cosmica. Gli uomini se ne accorgono oggi in maniera coatta. Nella condizione della compiuta impotenza, ciò che ancora gli è stato lasciato da vivere appare all’individuo come una breve dilazione innanzi al patibolo. Egli non si aspetta di vivere la propria vita fino in fondo. La prospettiva, presente a ciascuno, della morte e del martirio violenti, si prolunga nell’ angoscia perché i giorni sono contati, la lunghezza della propria vita dipende dalla statistica, perché l’invecchiare è diventato, per così dire, un vantaggio sleale, che va carpito con astuzia alla media statistica. Forse si è già dato fondo alla percentuale di vita messa revocabilmente a disposizione dalla società. Tale l’angoscia che il corpo registra nella fuga delle ore. Il tempo vola.

(1) Nur ein Vìertelsttìndchen: il titolo dell’aforisma allude al motto ricamato sui cuscini dei divani nel salotto borghese tedesco dell’ottocento. Tale motto è citato anche nella seguente osservazione del Zentralpark di Walter Benjamin: «Per il pensiero dell’eterno ritorno ha la sua importanza il fatto che la borghesia non osava più guardare in faccia il prossimo sviluppo dell’ordinamento produttivo da essa posto in opera. Il pensiero di Zaratustra dell’eterno ritorno e il motto della fodera dei cuscini: “Solo un quarto d’ora” sono complementi» (in: W.B., Gesammelte Schriften, I, 2, Frankfurt a. M. 1974, p. 677). (N.d.T.).

(108) La. principessa Lucertola. (1) – Proprio quelle donne accendono l’immaginazione, alle quali l’immaginazione manca. Di luce più viva splende l’aura di coloro che, del tutto estroverse, sono affatto sobrie. La loro attrattiva proviene dalla mancanza di coscienza_di sé, anzi dalla mancanza di un Sé in generale: è in relazione a ciò che Oscar WiIde ha trovato la definizione di «Sfinge senza enigma». Esse somigliano all’immagine convenuta: quanto più sono pura apparenza, non disturbata da alcun impulso proprio, tanto più sono simili ad archetipi – Preziosa, Peregrina, Albertine -, che appunto fanno supporre come mera apparenza ogni individuazione e che pure, per via di ciò che sono, debbono sempre nuovamente deludere. La loro vita viene afferrata come serie di illustrazioni oppure come una perpetua festa infantile ed una tale percezione fa torto alla loro povera esistenza empirica. Questo è il tema che Storm ha trattato nel suo profondo racconto per ragazzi: «Paolo il burattinaio».
Il fanciullo della Frisia s’innamora della bambina dei nomadi bavaresi. «Quando alla fine tornai indietro, vidi farmisi incontro un abituccio rosso; ed ecco, sì, era la piccola burattinaia; nonostante il suo vestitino sbiadito, essa mi parve cinta di uno splendore di fiaba. Mi feci coraggio e le parlai: «Vuoi fare una passeggiata, Lisetta?» Essa mi guardò diffidente con i suoi occhi neri. «Passeggiata?» ripeté strascicando la voce. «Una buona idea, davvero!» «E dove vorresti andare, poi?» – «Dal mercìaìo!» «Vuoi comprarti un vestitino nuovo?», le chiesi un po’ goffamente. Rise forte. «Ma va! Figurati! – No, solo degli stracci». «Stracci, Lisetta?» – «Sì, certo! Soltanto scampoli, per i costumi dei burattini; mica costano molto». La povertà induce Lisetta a scegliere ciò che è consunto – «stracci» -, benché preferisca altre cose. Senza capire, essa deve considerare con diffidenza eccentrico tutto ciò che non si giustifica praticamente. L’immaginazione offende la povertà. Infatti ciò che è consunto possiede incanto solo per l’osservatore. Eppure l’immaginazione ha bisogno della povertà, alla quale essa reca violenza: la felicità, cui essa si abbandona, è inscritta nei tratti del dolore. Così la Justine di Sade, che passa da una tortura all’ altra, viene definita notre intéressante héroine, e analogamente Mignon nel momento in cui viene battuta è chiamata l’interessante bambina. La principessa di sogno è nello stesso tempo la bambina maltrattata, e di ciò essa nulla sospetta. Tracce di questo esistono ancora nel rapporto dei popoli nordici con quelli meridionali: i puritani benestanti cercano invano nelle brunette dei paesi stranieri ciò che il corso del mondo, da loro dettato, toglie non solo a loro stessi, ma propriamente anche ai nomadi. Il sedentario invidia il nomadismo, la ricerca di freschi spazi erbosi, e il carrozzone verde è la casa sulle ruote, il cui viaggio segue il cammino degli astri. L’infantilità, confinata in un moto disordinato, relegata nella spinta momentanea, infelicemente errabonda, a continuare la vita, sostituisce il non sfigurato, l’adempimento, e però li esclude, simile nell’intimo all’autoconservazione dalla quale si illude di redimere. Tale è il circolo della nostalgia borghese per l’ingenuo. La mancanza dell’anima, grazia e strazio ad un tempo, in coloro ai quali, ai margini della cultura, il quotidiano vieta l’autodeterminazione, diviene fantasmagoria dell’anima per i ben piazzati, i quali dalla cultura hanno appreso a vergognarsi dell’anima. L’amore si perde in ciò che è privo d’anima come nella cifra dell’animato, poiché per esso i viventi sono scenario per la disperata brama del salvare, la quale solo in ciò che è perduto possiede il suo soggetto: all’amore l’anima si dischiude solo nella propria assenza. Così, umana è proprio l’espressione di quegli occhi i quali sono i più prossimi a quelli dell’animale, a quelli della creatura, lontano dalla riflessione dell’Io. Alla fine l’anima stessa non è che l’anelito dell’inanimato alla salvezza.

(1) La fiaba della Principessa Lucertola racconta la vicenda di una crudele e graziosa principessina che trascorre le sue giornate nel parco del castello paterno, divertendosi ad infliggere ogni sorta di tormenti ai piccoli animali che cadono in suo potere. Colta però da un sortilegio nell’atto di tagliare la coda ad una lucertola, essa è trasformata in lucertola a sua volta, ed è costretta a lunghe e dolorose peregrinazioni per il mondo, infine, seguendo il consiglio del saggio Re degli Gnomi, ritorna al suo paese d’origine e, dopo aver subito a sua volta il supplizio del taglio della coda, ritrova la forma primitiva. (N. d. T.)

(117) Il servo padrone. (0) – Solo attraverso una permanente regressione le classi subalterne divengono capaci delle prestazioni ottuse che la cultura del dominio esige da loro. Proprio il deforme in loro è un prodotto della forma sociale. La generazione di barbari da parte della cultura, però, è sempre stata da questa utilizzata per mantenere in vita la propria essenza barbarica. Il dominio delega la violenza fisica, sulla quale esso poggia, ai dominati. Questi, mentre viene procurata loro la soddisfazione di sfogare come giusto e sacrosanto per il collettivo i propri istinti piegati e distorti, apprendono a perpetrare ciò di cui i nobili abbisognano affinché possano concedersi di rimanere nobili. L’autoeducazione della cricca dominante, con tutto ciò che essa esige quanto a disciplina, soffocamento di ogni impulso immediato, scepsi cinica e cieco piacere del comando, non riuscirebbe, se gli oppressori, tramite oppressi assoldati, non preparassero a se stessi una parte dell’oppressione che essi preparano per gli altri. Per questo le differenze psicologiche tra le classi sono tanto minori di quelle oggettive, economiche. L’armonia dell’inconciliabile torna a profitto del persistere della cattiva totalità. La volgarità del comandante e l’arroganza del soldato semplice vanno d’accordo. Dai domestici e dalle governanti, i quali in obbedienza alla serietà della vita sottopongono ad angherie i bambini di buona famiglia, passando attraverso gli insegnanti del Westerwald che li disavvezzano dall’uso dei termini di origine straniera non meno che dal piacere per qualsiasi lingua, attraverso i funzionari e gli impiegati che li mettono in fila, attraverso i caporali che li calpestano, una linea retta conduce agli aiutanti dei boia della Gestapo e ai burocrati delle camere a gas. Alla delega della violenza agli inferiori corrispondono fin da principio gli impulsi dei superiori. Colui che trova ripugnante la buona educazione dei genitori, fugge in cucina e si riscalda alle espressioni forti, volgari, della cuoca, espressioni le quali rendono segretamente il principio della buona educazione parentale. Le persone fini sono attirate da quelle grossolane, la cui rozzezza promette loro illusoriamente ciò di cui le priva la propria cultura. Essi non sanno che il grossolano, che sembra loro anarchica natura, non è se non il riflesso della costrizione alla quale sono riluttanti. Tra la solidarietà di classe dei superiori e la loro comunella con i deputati della classe subalterna fa da mediatore il loro giustificato sentimento di colpa nei confronti dei poveri. Ma chi ha appreso ad adattarsi ai disadattati, colui al quale il: «Qui si fa così- è penetrato fin nell’intimo, questi è alla fine egli stesso divenuto tale. L’osservazione di Bettelheim sull’identificazione delle vittime con i carnefici dei lager nazisti contiene il giudizio sulle elevate serre della cultura, sulla inglese Public School, sulla germanica accademia dei cadetti. L’assurdità si perpetua attraverso se stessa: il dominio si trasmette e si continua attraverso i dominati.

(O) In italiano nel testo. (N. d. T.). T. W.Adorno \ (Trad. di Gianni Carchia)

Al volo. Afghanistan (1-6)

Scrap-book da Facebook

a cura di Ennio Abate

1. Damiano Aliprandi

Hanno fatto la guerra, sconfitto apparentemente i talebani, ma senza ragionare a lungo termine. Per essere pragmatici, la sola soluzione per l’Afghanistan era di lavorare con le tribù e i leader provinciali per creare una reazione ai talebani. Invece hanno creato un esercito nazionale del tutto innaturale, talmente innaturale che è evaporato all’istante appena i talebani hanno fatto “Buh”! E ora gli occidentali scappano , per gli Usa non vale più la pena rimanere lì. Trionfa il cinismo. Ma essere cinici davanti a queste donne, penso a quelle giovani che sono nate in questo ventennio, ci vuole davvero uno stomaco forte.

(Damiano Aliprandi, commento a
Lanfranco Caminitihttps://www.facebook.com/lanfranco…/posts/3143256582576179)

2. Roberto Buffagni

E’ andata male – che sia andata male lo prova il fatto che non vi sono né vi saranno basi americane in Afghanistan – per le ragioni che Andrea [Zhock] riassume e probabilmente anche per quelle che spingono invece te a dire che “gli americani non hanno perso”, ossia perché evidentemente il “complesso militare industriale” americano non ha testa, non ha un centro direttivo strategico coerente come lo ebbe l’Impero britannico, ma agisce in modo acefalo secondo imperativi endogeni, cristallizzazioni di interessi e spinte istituzionali che i centri direttivi strategici imperiali non riescono a influenzare e guidare in modo sufficiente. Perché le cose stiano così non lo so. Forse perché il ceto dirigente USA non si raccoglie più intorno a una egemonia WASP e anglofila, molto coesa, come un tempo. Fatto sta che le cose stanno così, e che quindi gli americani hanno perso ( = se non raggiungi l’obiettivo strategico della guerra hai perso). Sono settant’anni che gli USA non vincono una guerra.

(da https://www.facebook.com/roberto.buffagni.35…)

3. Stefano Azzarà

Più realista del re e incapace di apprendere, la Sinistra Imperiale italiana – indifferente alla tragedia di un popolo ritenuto incapace di intendere e di volere – invoca gli Stati Uniti affinché proseguano l’occupazione e la spoliazione dell’Afghanistan, in nome della democrazia liberale occidentale e richiamandosi oscenamente a Gino Strada.
Anche alcuni di coloro che 20 anni fa si erano opposti alla guerra sembrano ormai completamente vinti e conquistati dall’ideologia dirittumanista.

4. Ennio Abate

* La bomba cade
la bomba cade l’afghano
muore
il mercante d’armi brinda il papa prega
il terrorista si prepara il pacifista manifesta
il poeta scrive versi ispirati
alla bomba che cade
all’afghano che muore
al mercante d’armi che brinda
al papa che prega
al terrorista che si prepara
al pacifista che manifesta
contro la bomba che cade
sempre su un altro: afghano, irakeno, kosovaro, ceceno, etc.
che muore
che non brinda che non manifesta che non scrive versi
che lontano, lontano
riceve solo la bomba della nostra intelligenza.
Dicembre 2007

P.s. 2021
Ahi noi, neppure più “il pacifista manifesta”…
5. Brunello Mantelli
L’analogia Kabul 2021 – Saigon 1975 mette l’accento su chi si ritira (gli USA), mentre l’analogia Kabul 2021 – Phnom Penh 1975 mette l’accento su chi entra (Khmer Rossi 1975, Taliban 2021). IN entrambi i casi, ed al di là dei lessici usati dagli uni e dagli altri, si tratta di eserciti formati da contadini che si rovesciano sulle città, sottomendole e puntando a distruggerle in quanto simbolo della negatività, di ciò che si contrappone a valori altri di cui essi si fanno portatori.
Che poi un paese come l’Afghanistan, ancorché arretrato, possa sopravvivere senza città centro di commercio, senza borghesia del bazar, senza – in particolare – donne inserite in pieno nel tessuto sociale e produttivo (ancorché oppresse, diseguali, costrette a conciarsi come spaventapasseri) è ovviamente opinabile.
Di donne istruite ed attivamente inserite non può fare a meno l’Iran (sebbene governato da una clerocrazia maschile e maschilista), non possono fare a meno gli Emirati del golfo (quantunque governati da emiri degni di un’operetta viennese del XIX secolo), ne può per ora (!) fare a meno la sola Arabia Saudita, che compra la subalternità delle donne saudite con i privilegi che può loro garantire grazie e al petrolio, e allo sfruttamento di una massa di iloti senza diritti fatti venire dagli altri più poveri paesi musulmani.(DA https://www.facebook.com/brunello…/posts/4791260787568841)

6. Gianfranco La Grassa

Credo che non stiano accadendo al momento cose terribili in Afghanistan. Vedremo se i talebani manterranno o meno quanto detto. Ma ciò non dipende affatto da un loro novello spirito “aperto”, ma da quello che non sappiamo circa i motivi del ritiro americano, di qualche accordo che sicuramente c’è stato ben al di là di quello ufficiale di pura facciata (e quindi non mantenuto con la piena consapevolezza dei dirigenti USA), ecc. ecc. Staremo a vedere. Gli USA hanno dovuto comunque accettare di farci una qualche figuraccia.

(DA https://www.facebook.com/gianfran…/posts/10220214549944012)

Da “Riordinadiario 1981”

 

di Ennio Abate

18 marzo 1981

Letture che non mi soddisfano. Dovrei delimitare il campo a quello che posso fare con loro [Attilio Mangano e DP]. No al vecchio rapporto di ascolto paziente delle loro beghe interne. Non essere satellite. Sviluppare ‘Samizdat Colognom’ o qualche iniziativa con insegnanti delle superiori.

Aprile 1981

Lettura di Per Marx di Althusser. Nota finale alla lettura:  Lettura decisiva: – per “tornare” a Marx; – per sottoporre a critica le posizioni di Negri; – per confrontare marxismo e correnti critiche del marxismo.

Lettura  di filosofia della storia di Alfredo Morosetti in F. Papi La filosofia contemporanea, Zanichelli 1981. Il saggio  mi aiuta a superare incertezze e diffidenze rispetto agli ultimi sviluppi della storiografia (Annalès, ecc.). Punti in evidenza: 1) non esiste la Storia, ma le storie (260); – le filosofie della storia sono… reperti archeologici (243); – il sapere dello storico è quello del senso comune (249) ; il “quantitativo” è l’elemento di riferimento della storiografia più aggiornata ( 250)

10 giugno 1981

Attilio  fa l’entrismo in DP: ma con una rivista si può vincere un congresso di partito? E l’entrismo lo vai a fare in un partitino? Il suo   tertium datur non mi convince. Meglio una marginalità cosciente: la mia dal 1976 in fondo. L’”anima” dell’ex ’68 non si quieta in un impegno professionale né partitico. Non mi muovo da solo. Vedi G., B., Circolo vizioso, S., etc. Fino a che punto  seguirli nella loro crisi? Rimangono appendici.  Gironzolare attorno a DP o rientrarvi sarebbe arretramento. Ma non mi convince neppure l’ex Autonomia.

Novembre 1981

Tre giovani detenuti in attesa di giudizio  – Paparo, Valentino e Pironi – a San Vittore hanno iniziato da mesi uno sciopero della fame. Il 3 nov. 1981 ho mandato un telegramma al Giudice istruttore Forno del  tribunale di Milano: «Sollecitiamo libertà provvisoria per gravi motivi di salute di Ciro Paparo Gianni Valentino Roberto Pironi», firmando «Famiglia Abate».
Ho messo anche un cartello nell’atrio del Molinari. Indifferenza. Non ho più nessuno con cui parlare di questa vicenda. La seguo come posso e conservo stralci da il manifesto e da Rinascita. Ne ha parlato Luigi Pintor (manif 24 nov. 1981) quando lo sciopero della fame dei tre  durava  ormai da oltre 50 giorni. Pintor ricorda che i giudici sono divisi tra loro, ma che tutti non ritengono i tre «pericolosi» e che le perizie  testimoniano  della loro «malattia». Dice pure che la solidarietà  verso di loro  è umana più che politica. Il 28 novembre sempre sul manifesto leggo che Stefano Rodotà, «giurista e deputato della sinistra indipendente», ha proposto una nuova legge sulla libertà provvisoria, per riaffermare una «umana interpretazione» della legge contro «una logica legislativa che ha deliberatamente e assurdamente ristretto le possibilità di libertà  provvisoria». (Siamo nel clima della “falsa guerra civile»…). Accanto all’articolo  sull’iniziativa di Rodotà, c’è un’intervista a Ferruccio Giancanelli. Per anni ha diretto l’ospedale di Colorno a Parma ed è uno degli psichiatri che hanno collaborato con Basaglia per «aprire i manicomi». Commenta la richiesta del ministro della giustizia Darida di applicare il Tso «per gravi malattie di mente, per pazienti in stato acuto di malattia» ai tre detenuti in sciopero della fame. E ipotizza come  potrebbe comportarsi un medico per attuare un provvedimento del genere: «Dovrà alimentarli. Tenterà di farlo con flebo punture e tutto l’armamentario  solito. Dovrà fare i conti indubbiamente con le loro resistenze. Quindi userà la forza: somministrerà calmanti, li legherà. Ma questo non servirà a salvarli. Nella migliore delle ipotesi riuscirà a non farli morire. Non a rimettere veramente in moto le funzioni generali dell’organismo. Diventa, alla fine, un gioco di forza, tra chi vuole tenerli vivi e chi ha scelto la morte. Un gioco dall’avvenire assolutamente incerto».

Pintor il 29 novembre  ha scritto ancora un articolo intitolato «Ministri e topi». Si scaglia contro «i giudici, i legislatori, i politici che in questi giorni si sono rimbalzate le responsabilità e si sono nascosti dietro capziose interpretazioni» indicandoli come «l’altra faccia del terrorismo, il segno della sua penetrazione nelle pieghe e nella logica delle istituzioni».

L’11 dicembre, Stefano Levi dalle pagine di Lotta Continua sottolinea anche lui questa concordia discordans tra  Stato e «armati»: «’O infame o prigioniero politico’ dicono gliarmati; ‘o pentito o terrorista’ dicono la legislazione e il magistrato. Su una cosa gli armati e lo  Stato continuano da anni a essere d’accordo: se non sono dei nostri, sono dei vostri. O con lo Stato o con Le BR: cosa vecchia e tuttavia sempre rinnovata. E l’hanno confermata con la tenaglia con cui hanno stretto, da lati opposti eppur concordi, il movimento per la qualità della vita a San Vittore: gli armati con l’assassinio dell’agente di custodia Rucci, attacco dichiarato al “riformismo” del nuovo movimento nelle carcerario; il ministro [Darida] e l’apparato carcerario attraverso il massacro del 23 settembre e la deportazione dei protagonisti di  quel movimento».

Anche  i giovani della FGCI  hanno diffuso un volantino dove chiedono «la decisione, a tempi rapidi, della data dei processi per i tre detenuti in nome della lotta che in questi anni abbiamo combattuto in prima fila contro il terrorismo» e chiedevano pure che venissero fatte «tutte le scelte necessarie, non esclusa, la libertà provvisoria».

Per reagire all’indifferenza con cui a scuola hanno accolto il mio cartello,  ne scrivo un altro e lo metto  accanto alla porta della sala professori.  Nel prepararlo ho in mente Swift e « La modesta proposta» per eliminare la povertà cucinando e mangiando i bambini poveri:

 «Cari Paparo, Pironi e Valentino,
vi preghiamo di concludere velocemente il vostro sciopero della fame. Insomma, non mangiare per più di 65 giorni! Noi siamo dei bravi studenti del Molinari e la vostra insistenza ci dà fastidio. Abbiamo cose ben più importanti di cui occuparci in questo periodo. E meno male che la nostra scuola è piena di persone perbene e indaffarate (in consigli di classe o d’istituto) e che nessun insegnante ha avuto la faccia tosta di parlarci del vostro sciopero della fame. È comparso soltanto uno striminzito cartello nell’atrio che è stato accolto da tutti con la giusta indifferenza a cui ci educano i nostri insegnanti. Noi siamo orgogliosi di leggere solo giornali sportivi e parlare di figa e di moda. E saremo la futura classe dirigente liberata dai condizionamenti del passato. Democrazia? Diritti dei detenuti? Costituzione? Non ce ne frega.  In attesa della vostra morte, ci andiamo a sbafare un bel cappuccino  con briosche e vi porgiamo distinti saluti». La maggioranza silenziosa del Molinari»

Nota 2021

Reagì al mio cartello con un suo una studentessa indignata, una certa Anna. Non dispongo  più del suo ma soltanto della mia replica:

LETTERA  AD UNA STUDENTESSA

«Cara Anna,
sono soddisfatto per il tuo indignato cartello. Era quello che mi aspettavo (o desideravo). So che molti hanno trovato pesante e di cattivo gusto la mia provocazione. E altri, più superficiali, mi avranno dato del fascista. Ma meglio lo sdegno e le critiche che il silenzio e l’indifferenza. Ora non voglio tranquillizzarmi o tranquillizzarvi troppo presto. Il mio cartello, infatti, non era uno “scherzo”. E neppure la caricatura di un modo di pensare diffuso. Se l’ho firmato «La maggioranza silenziosa» è perché sono convinto che le idee che vi ho riportato sono oggi sempre più popolari nel nostro Paese e, di conseguenza, anche al Molinari. 
Del resto è stata proprio la maggioranza degli italiani che silenziosamente nelle urne elettorali ha bocciato in occasione degli ultimi Referendum (maggio 1981) la proposta di abolizione dell’ergastolo.
C’è un “cancro” che ci rode. I suoi sintomi sono la paura, l’indifferenza, il cinismo. E fanno sentire i loro effetti  non solo sulla complessa questione giuridica dei detenuti politici incarcerati per sospetto terrorismo ma di fronte ai  tanti casi di giovani che muoiono per consumo di eroina, di operai licenziati o dei terremotati  della Campania abbandonati a se stessi.

Col mio cartello, mi  sono proposto di far capire che nella nostra società stanno prevalendo comportamenti reazionari. E ho pensato di usare il linguaggio tipico dei reazionari esponendolo in tutta la sua oscenità e il suo cinismo. Certo, il mio cartello – come si dice – “può essere controproducente”. Ma è l'unico modo che ho di denunciare lo scandalo di un Paese democratico che, di fronte alla notizia di questo sciopero della fame fa passare due mesi e poi dichiara di voler seguire per bocca del suo Ministro di Giustizia l’esempio della signora Thatcher che ha fatto morire [8 maggio 1981] in carcere Bobby Sand, il militante dell’Ira nordirlandese, che anche lui ha rifiutato il cibo per 66 giorni in segno di protesta contro le sue condizioni detentive.»

10 dicembre 81

 Visita a Carlo Oliva. Per discutere di  carcere. Intenzione di  studiare alcuni temi: garantismo classico, vita carceraria, diritti umani, significato del carcere e delle pene. [Pensavo-pensavamo ad un’antologia di testi? E ad alcuni colloqui per orientarmi. Con Moroni, Sergio Spazzali, Rambaldi, Molinari, Fortini]

11 dicembre 81

Sul documento di Stefano Levi [presentato forse al “Circolo Vizioso”?]. Responsabilità degli intellettuali che  avevano informazioni ma non le hanno fatte circolare e magari si sono autocensurati. Luoghi comuni della sinistra “intelligente”. ( L’influenza del taglio  da Circolo vizioso è fastidiosamente presente nella mia testa…).

Innestare nel vivo del corpo sociale ( nel nostro caso la scuola) il dibattito sul tema del carcere e della repressione finora confinato in circoli intellettuali. Mia ipotesi: la tendenza autoritaria è penetrata nello stesso pensiero dei difensori delle libertà civili.

14 dicembre 1981

Visita a Fortini. Necessità di raccogliere  dati dal carcere. Valutazione degli spazi politici offerti anche solo strumentalmente dai partiti. Necessità di avere la forza politica per muoversi, Non basta autoconfermarsi.  Il potere militare paralizza quello politico. Sprecato muoversi solo in una scuola (al Molinari). Puntare sugli studenti. Rivolgersi agli insegnanti di filosofia  dei licei classici e scientifici. O a quelli di diritto (negli istituti tecnici). Sua diffidenza verso la comunicazione “per provocazione”. Puntare alla persuasione. Limite della iniziativa tenutasi  al cinema Cristallo [?] con Levi [Stefano?] ed altri. Era per lui senza forza politica.

Dicembre 81

Un po’ d’illuminismo lombardo ( e meridionale), signori!/ per seguire il dibattito sul sistema carcerario/ per incontrarci con magistrati, politici, familiari di detenuti/ per indagare dal punto di vista “umano”, psicologico, politico ,legale/ per non ridurre i detenuti a “mostri”/ per sensibilizzare l’opinione pubblica (mostra, audiovisivo, film). [Comitato contro la repressione palazzina Liberty?]

 “Riflessioni sulla repressione. Appunti ( dic 1981 – feb 82)

Lettura. Introduzione  di Ricci e Salerno a “Il carcere in Italia” del 1971. Non mi dice molto. Mi paiono  due ricercatori di formazione illuministica che oscillano fra rivoluzione e riformismo e se la cavano ribadendo la loro fiducia nella conoscenza.

Lettura. “Il sovversivo” di Corrado Stajano del 1975.  Ha condotto un’indagine puntuale sulla breve vita di Franco Serantini. Viene fuori la sua infanzia povera vissuta in una famiglia che l’aveva adottato. Stajano  parla della vita negli orfanatrofi e nell’istituto di rieducazione di Pisa, del passato fascista della città, del ’68 pisano e della  politicizzazione del ragazzo povero, della sua militanza anarchica (aveva abbandonato Lotta Continua), del comizio fascista e delle violenze della polizia. E  ha raccolto le testimonianze degli ultimi compagni che lo videro vivo. Poi descrive la sua agonia in carcere e il funerale. Accenna anche alla crisi di un commissario di   polizia  che «non riusciva a spiegarsi perché Serantini non  fosse scappato» (125).

Non mi piace di Stajano la sua voglia di nobilitare la figura di Serantini inserendolo  nello sfondo democratico-resistenziale.  E poi ha un atteggiamento paternalistico e  da esterno. Sottolinea  fin troppo la vita culturale medio borghese di Pisa e senza mai ipotizzare che ci fosse un’estraneità o una subordinazione (non buona) del giovane a quella cultura. Perché, infatti, aveva abbandonato Lotta Continua?

Lettura. Un articolo di Alberto Ferrigolo sul  manifesto del 7 febbraio 1982. I fermati  per sospetto fiancheggiamento delle BR vengono interrogati con una benda sugli occhi «così da ridurre il senso dell’orientamento» e  tenuti in stanze semivuote alla presenza di psicologi. Con questi sistemi e «senza violenze, l’effetto voluto si raggiunge in breve tempo».

Gente di Colognom

Prenarratorio  1982

di Ennio Abate

1.

La vecchia e i bambini

Il cortile era un rettangolo di prato verdastro chiuso dal muro basso dei box per le auto. La luce del caldo pomeriggio era intensa e, tranne il gatto nero acquattato sotto l’ombra del roseto, lì c’era solo quel gruppo di cinque bambini e bambine. Trasportavano dei vecchi mattoni, forati, sporchi di calcina e depositati giorni prima accanto al muro del condominio in attesa d’essere trasportati in discarica. Volevano costruire un loro immaginario fortilizio. Ci avevano lavorato da un bel po’, quando dal retro della panetteria che dava sul cortile spuntò d’un tratto la prestinaia. Era una anziana bassa, con le labbra piccole e lo sguardo maligno. I bambini l’osservarono. Dapprima allarmati. Videro che avanzava armata di una zappa. Poi, raggiunto il muretto di mattoni che avevano appena messo su, glielo distrusse, sbraitando. Ed era rientrata nel suo negozio, ancora chiuso al pubblico per l’intervallo di mezza giornata, acquattandosi su una sedia, affannata ma forse pronta a tornare all’attacco. Non voleva che i bambini costruissero qualcosa in quel cortile. Non voleva che vi scendessero di pomeriggio dai vari appartamenti. Non voleva che esistessero.

I bambini s’erano dispersi. Poi i più grandi e tenaci avevano deciso di continuare. Ripararono il danno e ripresero il lavoro di prima. La donna allora era risalita in ascensore nel suo appartamento al sesto piano del condominio e dopo qualche minuto aveva buttato due secchiate d’acqua dal balconcino del ballatoio. In risposta sberleffi .

Persino alcune ore dopo, quando avevano smesso quel gioco e si divertivano a tirar calci a un pallone, era rispuntata con in mano una scopa e aveva cercato di colpire di sorpresa il biondino che le voltava le spalle.

2.

La madre e la bambina

La bambina in cortile.  Era un riquadro di prato. La madre alla finestra della cucina al primo piano. Ogni tanto s’affacciava e la sorvegliava. In un modo asfissiante. Come una che, a sua volta, si sente continuamente sorvegliata e deve dar conto. E per questo, la bambina in mezzo al gruppo era impacciata. Occhi più spauriti di quelli delle altre e la voce così fievole da rimanere soffocata. La madre era riapparsa varie volte col suo faccione apprensivo. La bambina percepiva il disprezzo delle amiche. E queste avevano colto il viscido filo che la tratteneva alla madre. Dopo un po’ cominciarono a canzonarla. Allora sua madre s’affacciò ancora e inveì contro di loro, rabbiosa e isterica. Afferrò dal cestino dell’immondizia una buccia di banana e la gettò con forza contro le bambine. Quella colpita reagì e ributtò la buccia di banana contro la donna. La colpì in pieno viso e tutte si misero a ridere. Allora la donna gridò: maleducate! E richiamò la figlia costringendola a rientrare in casa. La bambina salì di corsa le scale. Piangeva, mentre da fuori si sentiva un crudele canto di vittoria. La donna tirò giù la tapparella e sgridò la figlia appena se la vide davanti. Di tanto in tanto raggiungeva la finestra e di nascosto spiava tra le fessure della tapparella le bambine che continuavano indifferenti a giocare.

3.

I bambini parlavano del cortile come di un territorio che dovevano continuamente difendere dagli adulti invasori. I nemici più insidiosi erano i negozianti al pianoterra del condominio: la barista, che si lamentava per i danni alle sue piante; il fruttivendolo, che voleva tenere sempre pulito il pavimento dell’ingresso di servizio del suo negozio; la prestinaia, che nell’intervallo pomeridiano dormiva e non voleva sentire schiamazzi o urla. E pure un nugolo di mamme, sorelle, nonne – e a volte padri – era spesso in agguato da finestre e balconi. Per sorvegliare, sgridare, intervenire pro o contro qualcuno, richiamare.

4.

In un solo anno s’era indurita. E aveva fatto in successione scelte che nella opacità di quelle esistenze di periferia apparvero drastiche. Finché durante l’occupazione delle case aveva tentato il suicidio. Eppure mesi prima sembrava stesse sbocciando. Impiegatuccia al suo primo lavoro e studentessa in una scuola serale di Milano, era arrivata nella nostra sede per farsi aiutare a preparare il suo primo volantino. E s’era fermata ad ascoltare – in piedi, in un angolo – quella gente strana che, seduta, ammucchiata attorno a un tavolo, fumava e criticava padroni e sindacati. Per farla partecipare a qualche riunione serale, la coppia dei compagni già con figli avevano dovuto parlamentare con sua madre – una donnina piccola, vestita di scuro, tutta dolore, frastornamento e diffidenza. Poi s’era isolata. O l’avevano isolata. E mai si seppe come fosse arrivata al tentativo di uccidersi. Ne parlarono tutti nel giro. Vagamente e sottovoce. Qualche ragione, chi la sapeva se la tenne in segreto. Schizzata fuori dal giro dei compagni di Colognom, la si vide alle manifestazioni delle femministe. Era con le più accese e separatiste. – Me ne vado, mi licenzio, vado in Brasile. Me lo disse all’uscita della metropolitana in Duomo. Una volta che accettò di fermarsi quando la riconobbi e la chiamai. S’era trascinata con sé anche la sorella più piccola. E circolarono notizie brevi, raccontate frettolosamente. Su viaggi in gruppo di donne attraverso paesi sudamericani; e storie di droga e di violenza in cui erano finite. La ritrovai, anni dopo, una sera. Benzinaia a un distributore sulla tangenziale. Il volto sotto il berretto era ancora più affilato e duro. Avrebbe messo da parte un po’ di risparmi e sarebbe ancora ripartita. Poi – ma quando? – qualcuno disse che era morta. Per un po’ vidi ancora passeggiare – separati – per alcune strade di Colognom suo padre e sua madre. Lui fumava e guardava nel vuoto a quell’incrocio di strade, dove c’era un semaforo e le auto si fermavano una decina di secondi e poteva osservare i volti degli automobilisti. La madre girava tra passanti e auto e il vuoto neppure lo guardava.

5.

Il capogruppo consiliare del PCI

Adesso era il capogruppo consiliare del PCI. Occhialuto. Incanutito. Un figlio. Abitava in un appartamento di sua proprietà. Viveva come prima. in fondo in una condizione di modesto benessere impiegatizio. Non dissimile dal suo.  Eppure  rimaneva una tensione  sotterranea tra loro, quando s’incontravano. Negli ultimi  anni  il sudario della sconfitta aveva aveva avvolto  i compagni del  prof: gli estremisti, i mau mau. Così li chiamava la gente che voleva  invecchiare tranquilla. O nel sopore mite delle cene in famiglia o nel frastuono  dei televisori con il volume a palla. Subito dopo, però, dallo stesso sudario erano stati  fasciati stretti  anche loro:  i compagni delle sezioni, i consiglieri, i funzionari mummificati del Partito. Se in uno dei loro casuali e rari incontri per strada avessero accennato a certi argomenti – la Polonia di Walesa, le declinanti Brigate Rosse, i sindacati avviliti, i giovani piegati e piagati dal ritorno al già provato e alla ripetizione – quelle  due loro esistenze,  dall’esterno così simili e ormai opacizzate, sarebbero state di nuovo squarciate. Come da un cono di luce  irritante, insopportabile. E  quali parole avrebbero cercato per dire quel magma che si sedimentava giorno dopo giorno nei riti ombrosi di una quotidianità che per tutti si era   caricata di equivoci, complicità, stanchezze, tolleranze, non detti? Se smossa,  la polvere sottile di una storia bloccata, divenuta quasi sopportabile in assenza ormai dei venti impetuosi  da cui si erano lasciati  sfiorare o trascinare solo una decina d’anni prima –  avrebbe mostrato ad entrambi sempre quelle stesse parole. E, se le avessero pronunciate – ma ora col fiato in gola quasi strozzato – si sarebbero ancora aspramente  divisi e contrapposti.

 6

Una casalinga

La giovane aveva da accompagnare le bambine alla scuola materna. Per la nevicata inattesa l’auto  – una Renault vecchiotta – aveva difficoltà nel partire. L’aria invernale era gelida. E lei, innervosita, avrebbe voluto  rivolgersi al meccanico, che aveva proprio lì a pochi metri l’officina già aperta. Ma quello dalla soglia la guardava indifferente, come se non s’accorgesse della  pena di lei che cresceva. Allora aveva fatto scendere le bambine, aveva chiuso con rabbia le portiere e con la più piccola in braccio e le altre due che la seguivano calme s’era diretta sullo stradone con gli alberelli spogli ai lati. Faticava a non scivolare.

Rientrando trovò le stanze in subbuglio. I letti sfatti avevano le lenzuola consunte  e macchie di sporco. Bambole, libretti  illustrati e altri giocattoli sul pavimento. In cucina sul tavolino di marmo c’erano i resti della colazione da sparecchiare. Si sentì improvvisamente stanca e addolorata. Il marito era partito per uno dei suoi soliti viaggi. Accanto al letto sul comodino aveva lasciato un portacenere pieno  mozziconi e una bottiglia di vermouth quasi vuota. C’erano i soldi  per la droga che dovevano cercare. Si stese sul letto con il cappotto ancora addosso e s’accese una sigaretta. Dall’esterno i vetri delle finestre filtravano i rumori del traffico. Pensò ai due giovani mormoni americani che sarebbero venuti al pomeriggio per proseguire con lei i colloqui religiosi iniziati da qualche mese.

7.

 L’autoscuola

Se ne stava seduta dietro la scrivania bassa, strappata da qualche vecchia casa d’impiegati e che lì sfigurava tant’era  fuori posto rispetto al resto dell’arredo. Teneva sempre addosso il suo cappotto marrone. E aveva capelli spettinati. Il suo faccione grasso pareva una molle prigione per i suoi  piccoli occhi. Nell’autoscuola c’era solo lei.  Di fronte alle sedie plastificate e ben allineate. Sul muro in fondo grandi tavole illustravano la sezione interna di un’auto con le sue parti meccaniche evidenziate da colori diversi. Sull’altro muro il manifesto pubblicitario enorme con un’auto del primo Novecento  e una donna sorridente accanto. E, ancora più sproporzionato per la vicinanza al manifesto, un calendario con le immaginette dei santi. Quando vide che il marito   posteggiava l’auto dei praticanti con dentro, sui sedili posteriori, altri due clienti che dovevano esercitarsi per la patente, si alzò e con furia si accostò alla portiera che quello stava aprendo urlando: – Porco! Sei un porco! Lo devo dire a tutti. Il marito scese e  rimase quieto e silenzioso. Come se da tempo fosse abituato alla scenata. Alcuni studenti della media si erano fermati a guardare la donna che ancora  lo minacciava.

8.

 Un vecchio

Entrò nel bar per comprare  una bottiglia di vino. La solita che suggellava i momenti di accordo con lei. Un segnale di scherzosa solennità per entrambi. E subito restò imbarazzato. A un tavolino era seduto P. Aveva davanti a sé un bicchiere di whisky e guardava,  assente, due adolescenti che macchinavano attorno al jukebox. Lo salutò ma restò catturato da pensieri contraddittori. In quei pochi attimi sentì come rantolava opaca l’esistenza dell’ex compagno. Omosessuale mascherato e ora alcolizzato e disprezzato da parenti e vicini, nella oscura  deriva dei suoi ultimi anni, era stato spinto adesso  proprio in quel bar.  Finì per non ricordare più la marca di vino che aveva tante volte comprato. L’aiutò,  elencando e andando per esclusione, il barista. Dopo aver pagato, prima di uscire, tornò a salutare P che rispose con voce fredda e lontanissima. Quando riferì dell’incontro, lei gli disse che l’avevano cacciato dalla cooperativa che  amministrava e che sempre più spesso se ne restava a casa. In malattia.

9.

Lui, in tuta da meccanico, ordinò due caffè. Lei, biondastra e invecchiata, gli stava dietro, ma poi si staccò e in disparte prese a parlare con la barista. Anche lui, mentre gli preparavano i caffè, si rivolse ad alcuni  seduti ai tavoli del bar che lo conoscevano. Con una voce dura, rauca, lenta, dialettale.  Quando se ne andarono, quelli che  l’avevano ascoltato fingendo attenzione, ridacchiarono sornioni. Era uno che in modi oscuri e quasi mai puliti s’era arricchito.  Proprietario adesso di una villetta che pareva una fortezza.  La sua autorimessa aveva adesso anche un’officina per le riparazioni  e il forno per la verniciatura. Spesso i carabinieri venivano a fargli visita e lui li accoglieva con familiarità ossequiosa. Era arrogante e pronto a menare le mani. Di lei dicevano che  era stata  battona.

10.

Immobile per ore sul marciapiedi vicino al semaforo dove c’era la vecchia  biblioteca. Guarda fisso  la successione dei rossi, dei gialli, dei verdi? Com’è ingrassato! Per medicinali penso. Gli occhi scrutano assorti. Quando gli passo accanto è come se si risvegliasse. Un attimo di leggera sorpresa. E di allarme. Dai bui metafisici della sua mente in disordine ha intravisto il mio volto? E l’ha riconosciuto? Abbozza un sorriso, ma troppo meccanico. Non  so  se mi riconosce al presente. Un passante che ha visto altre volte. O gli si riaffaccia il volto che avevo quando  – lui studente al biennio –  feci da supplente per una settimana nella classe che frequentava al VII ITIS? O  mi vide in qualche riunione politica al Centro studi di Viale Lombardia?