Tutti gli articoli di Ennio Abate

Da “Riordinadiario 1982”

Tabea Nineo, Prova 15 feb. 2015

di Ennio Abate

Gen 1982

Appunti su Francesco Orlando (da quale lettura? Forse articolo de L’indice dei libri?) Freud rischia di leggere i testi letterari come se fossero i suoi pazienti. Tiene conto del legame tra testo e biografia, ma trascura il destinatario. Trascura cioè la differenza sostanziale tra il linguaggio dell’inconscio e  quello della letteratura. Quest’ultimo ha sempre un destinatario. Più interessanti sono i suoi scritti sul motto di spirito. Qui Freud è attento proprio al linguaggio. Dopo Freud l’attenzione maggiore al linguaggio dell’inconscio la troviamo in Lacan, sostenitore della tesi che l’inconscio è strutturato proprio come un linguaggio (di cui privilegia i significanti) e come questo ha una sua (precisa) retorica (c’è un legame tra il linguaggio dell’inconscio e la antica retorica delle figure, ripensate in epoca contemporanea da Genette; per cui più è alto il tasso di figuralità di un testo e più forte è il suo legame con l’inconscio). Orlando dà anche una visione originale della funzione della forma in letteratura. La vede come uno strumento per aggirare la censura. E di conseguenza analizza la letteratura come il luogo in cui  si ha un ritorno del represso (individuale e sociale), che, proprio grazie alla sublimazione tipica della forma letteraria, viene reso fruibile ai lettori.

Lettura. Fortini, Un’obbedienza (S. Marco dei Giustiniani 1980)

Lettura. Eco, Le forme del contenuto (Bompiani 71) Sostanza del contenuto: insieme dei concetti esprimibili sulla realtà (asse semantico, campo semantico). Non vanno confusi con la realtà.  Il contenuto è ciò che è possibile dire sulla realtà.

Un’idea per carnevale. Annunciare per una certa ora in un determinato luogo di una città un evento sorpresa

Riaccostando Proust La prefazione di Macchia. Intensa e tutta psicologica. Mi accorgo delle conoscenze di medicina, di psicologia, di estetica che aveva Proust. Vengo a sapere del suo metodico lavoro preparatorio (letture, stesura di schemi). Quando lo lessi da giovane a SA neppure lo sospettavo. Vedevo la fonte della sua scrittura quasi interamente in esperienze mondane privilegiate, che mi rendevano distante la sua figura e la sua stessa opera. Contaminazione di saggio e romanzo. (Come vorrei fare per Narratorio ?).

Feb 1982

Letteratura e psicanalisi (conferenza tenuta al[ITIS] Molinari?) Analisi strutturalista di Rosso malpelo.  Novella psicologica (vissuti, poca azione, uso raro del perfetto). Questo è il personaggio più intellettuale e autobiografico di Verga. Tempi e spazi indeterminati. Preoccupazione metastorica, esistenziale. Tempo reale, tempo narrativo: dell’evaso si racconta in breve quanto accaduto in lunghi anni (condensazione). Altri episodi (morte del padre) vengono dilatati. Sistema dei personaggi. Tutti hanno rapporti con Malpelo ma non tra loro. La struttura è incentrata sul protagonista. Gruppo oppressori e gruppo oppressi. Stratificazione sociale presentata come “naturale”.

La società come ossessione attraente. La politica come complicazione. A patto di mantenere saldo il pensiero conoscitivo.

Lettura. Patrizia Cavalli

 Parola quieta stanza/ Giovinezza è passata/ Indecifrata?

Mar 82

Sentenza strage di BS (Piazza della Loggia). Tutti assolti i fascisti imputati ( e condannati in prima istanza).

Case. Esistono in Italia 4 milioni di case non occupate (seconde case, ecc).

Scuola, Molinari. Alla prima ora passa una circolare. Alla seconda tutti gli studenti del biennio «accompagnati dagli insegnanti» sono ammassati in aula magna a sentire un prof universitario di Pavia che tiene una conferenza sull’unità europea. È sopportato. Due studenti gli fannol a domandina. Poi via.

Tazebao: Misfatti pedagogico-politici.  Carnevale. Un po’ di uova marce, un po’ di farina  o borotalco. Un’incursione di un gruppo di studenti del vicino 7° ITIS. È bastato per chiudere il Molinari per una settimana. Alcuni parlano di “vacanza”. Anche quella di Caporetto era una semplice “ritirata”.

 In due classi del biennio (1-2H) due insegnanti devono assentarsi per ben 15 giorni. Non viene nominato nessun supplente. Un esempio di “risparmio energetico” del Ministero della P.I.

Falso movimento di Wim Wenders  Personaggi senza storia. Immersi nei loro ‘io’(maschili). Angosciati dalla morte (l’industriale), dal passato (il vecchio nazista), dalla vanità (il poeta fannullone). Si comunicano tra loro soltanto dei sogni. E quando la realtà li sorprende (il suicidio dell’industriale) fuggono. Solo la donna e la fanciulla hanno volti e desideri  positivi (negati dagli altri). Troppo sturm und drang?

«Voglio morire!».

R  Fa dal spalla a uno psicologo per il caso di una ragazza (pare anoressia). Lodi. «Sei sprecata a fare l’impiegata». Eh, sì, i proletari sono sempre sprecati.

Di Bella  Parliamo di questi “tempi di piombo”. Conferma.

Mi propongo di andare a trovare in 4ta una mia vecchi alunna balbuziente.

Su Agostino di Moravia. Anche per Fornari il testo letterario è sempre un prodotto di un desiderio inconscio, che il lettore ritrova. Avrebbe una funzione conoscitiva, a volte superiore a quella possibile nel rapporto analitico. Per Fornari le classi sociali sarebbero qualcosa di immaginario e la lotta di classe è la lotta che ciascuno condurrebbe col suo essere pregenitale. L’opera letteraria sarebbe tutta simbolica e senza referenti reali.

Assemblea degli studenti. Implorano quasi guida e autorità. Hanno   fame di leader.  Gli butto giù come birilli gli interlocutori a cui intendono “chiedere aiuto”. Cerco di insistere sulla loro capacità di far da soli.

Siamo esiliati nelle nuove generazioni.

K. Pomian alla Casa della Cultura Dopo decenni di “storia immobile” si sta sviluppando un ritorno alla storia del “vissuto”.

Bellone. Conferenza organizzata da Scientia Polemica con quanti parlano di «crisi della ragione» (Gargani?). Risibile la risposta di Geymonat all’insegnante che chiedeva se i programmi ministeriali li fanno i filosofi o gli scienziati: «Gli scienziati oggi pensano poco a queste cose»

 Lavoro di inchiesta con Roberto B. e Paola C. e una delegata sindacale della Rorer di Monza Ci riferisce della sorpresa dei membri del CDF [Consiglio di fabbrica] di fronte ai risultati del questionario: gli operai s’identificano con gli obiettivi produttivistici dell’azienda. Ma allora gli operai sono rivoluzionari o reazionari? Il ruolo dei capi. La rivalità tra i lavoratori. Dobbiamo aprirci e saper ascoltare cose diverse da quelle che pensavamo in passato. Non c’è solo l’antagonismo.

Per Paola e Roberto  le “cose diverse” a cui aprirsi mi  paiono a senso unico. Sono quelle per me “riformiste”. Nel gruppo di ricerca non mi pare che ci sia una comunicazione problematica e paritaria. Le loro domande dai toni aggressivi mi  mettono nel ruolo di uno studentello, di uno “che non si capisce che cosa vuol dire”. False scuse finali («Ti sei incazzato?).

Telefonata di W Lo psicanalista che aveva in analisi la sua ragazza gliel’ha “fregata”. Adesso la ragazza è combattuta tra i due.  Mi chiede se può denunciarlo. Gli chiedo: Cosa ti proponi di ottenere con la denuncia?

Sez. sindacale del Molinari.  5 persone. S. e M. giocano a far risorgere dalle ceneri il sindacato. M. spocchioso nei miei confronti: «Invece di vedere tazebao firmati  Samizdat, tanto poi la bidella panciona mi dice: è il solito prof (matto)».  Di S. ho poco da fidarmi. Sa che la sezione sindacale è intrallazzata con il preside. È lui stesso isolato, ma fa il politico opportunista («Bisogna vedere le cose in generale»).

Dramma. Cresce il mio impegno nello studio. Diminuisce il campo della comunicabilità di ciò che studio.

La mia tendenza a star solo è profonda. È una scelta. Non posso accusare gli altri di emarginarmi. Anche se da parte loro ci può essere vera miopia. Sono convinto della necessità di  assumere posizioni “eretiche”.

Giugno 1982

Il nevrotico è assediato dalla realtà, lo psicotico ne è esiliato (da Barthes, Frammenti di un discorso amoroso)

Mia tendenza a fare quasi confusione tra psicanalisi e femminismo. O tra psicanalisi e “psicanalismo” (pregiudizi corroborati da una cattiva o scarsa comprensione della psicanalisi). Tendo ancora ad attribuire più valore ad un politico, a uno storico, a un sociologo che a uno psicanalista.

Libreria CELES di Cologno, etc. Come accorgersi della decomposizione di uno stronzo che avevamo prodotto una volta. Purtroppo.

Lettura di Schnitzler. Doppio sogno. Crisi di una coppia. Racconto senza sbavature e più mosso e complesso di Fuga nelle tenebre. Capita a proposito!

Voce Eros Enc. Einaudi. Deleuze e Guattari. La pulsione di morte è rivoluzionaria quanto quella di vita, perché è «capacità di distruggere e cambiare le istituzioni» (669). Dubbi. Kristeva: Valorizzazione delle avanguardie artistiche: Artaud, Kafka, Joyce. Valorizzazione dell’infrazione linguistica (672). Penso ai testi di PDG.

Settembre

24.9.1982

[Insegnando storia al biennio] Cresce il mio interesse per la storia. È alimentato dal mio lavoro d’insegnante e dalla lettura dei manuali in uso, ma anche disturbato o bloccato dalla disattenzione e dall’indifferenza degli studenti. Finisco per leggermi e studiare il manuale per conto mio. Ma quello che ho trovato adottato (autori Di Tondo e Guadagni) è un pesante carico di nozionie senza un filo di racconto  ben individuabile.

Ho fatto un confronto con il manuale di Mario Vegetti. L’argomento della preistoria è svolto da Vegetti in 15 pagine, che comprendono anche 4 letture e 7 pagine  illustrate.  La linea del manuale è chiara: no alla storia «archivio del potere» o «favola del progresso»,; no al mito dell’«obbiettività»; necessità di una «teoria» della storia antica che ne evidenzi la diversità dall’oggi; rifiuto del mito della classicità, intesa come momento di perfezione; lettura delle società antiche alla luce dei «modi di produzione e dei rapporti sociali» (Marx). Il materiale storico proposto è ridotto e semplificato; e la narrazione dei fatti è preceduta (e quindi subordinata) alla «descrizione dei quadri sociali» permanenti per secoli.

Quello di Di Tondo e Guadagni dedica allo stesso tema  ben 46 pagine, con 26 letture (distinte in documenti e problemi) e ha 24 pagine di illustrazioni. Dà molto spazio al racconto e dichiara una volontà di aggiornamento scientifico. Ha un’esposizione per problemi e pretende d’introdurre lo studente al lavoro storiografico. Mi pare inutilizzabile dallo studente e poco adatto anche alle esigenze di aggiornamento dell’insegnante.

Non me la sento di trascurare le reazioni negative dei ragazzi né di predicare loro l’«oggettiva importanza» di studiare la storia.  Posso solo incoraggiarli a una lettura attenta di  alcuni capitoli e fargli approfondire qualche argomento con un’interrogazione maieutica. Posso anche  usare qualche loro domanda per coltivare la loro curiosità. Nulla di più.

26.9. 1982

[Ancora sul mio insegnamento della storia] Ho molte incertezze. Non so decidermi  a far studiare la storia antica a ragazzi che non ne vogliono sapere né a scegliere tra un’impostazione e l’altra. Dietro la mia difficoltà c’è anche la mia crisi di intellettuale che finora si è interessato soprattutto a un periodo limitato della storia: quella contemporanea, quella della nascita e crescita del movimento operaio. Avevo fatto la tesi sui «Quaderni rossi», tema collegato all’impegno politico degli anni Settanta. E nei primi anni d’insegnamento ho continuato a privilegiare la storia contemporanea. Partivo dalla rivoluzione industriale e arrivavo a questioni attuali. La crisi della militanza politica mi ha portato ad accettare il «programma» e a fare storia antica e medievale da sempre trascurate. E così mi sono trovato di fronte anche alle lacune sia dei miei studi liceali sia di quelli universitari compiuti da lavoratore-studente. All’università gli esami di latino e storia antica li ho fatti in fretta e male. Quello di Storia medievale dovetti ripeterlo. La resistenza dei ragazzi a studiare storia  è  solo un aspetto del problema. L’altro è la presenza di vuoti nella mia preparazione.

Ragionamento sui nostri antenati (2)

Borso vs Cases 1954

di Ennio Abate

Con in mente le domande[1] che mi sono posto nel primo «Ragionamento sui nostri antenati» (qui) sono andato a rileggermi «Un giovane contro il Leviatano, recensione di Cesare Cases a due romanzi brevi di Arno Schmidt, Leviathan [Leviatano, 1949] e Die Umsiedler [I profughi, 1953]» uscita sul numero di ottobre 1954 de “Lo Spettatore Italiano” e ripubblicata nel sito germanistica.net nel 2013 (qui).

Ho selezionato – le sottolineature sono mie – questi brani:

1. «Arno Schmidt ci mostra che l’esistenza di un enfant terrible, animato da sentimenti eversivi contro ogni autorità e contro le forme tradizionali, eppure (incredibile a dirsi) sincero, è ancora possibile. Di questo atteggiamento egli ci dà una nuova, notevole variante che merita la nostra attenzione proprio per la sua unicità».

2. «lo sfoggio di cultura non riesce sgradevole».

3. «si finisce per preferire coloro che, come Joyce o questo Arno Schmidt, ti offrono implicitamente la loro biografia culturale, cioè la genesi della decomposizione, spesso assai più interessante della decomposizione stessa e in ogni modo presupposto indispensabile a comprenderla».

4. «Però qui [in Schmidt] la cultura ha anche una funzione positiva, che non aveva nemmeno in Joyce: non è soltanto un’eco, ma una promessa. Nella distruzione totale dei valori, in un mondo leviatanico, i libri sono un punto di riferimento, un appiglio. Poiché il nichilismo dello Schmidt non è per nulla compiaciuto e soddisfatto».

5. «Certo nei suoi lineamenti esteriori (il ripudio di ogni autorità) esso ricorda da vicino, per esempio, gli espressionisti tedeschi; e quando si sostiene la malvagia natura leviatanica del mondo con una disordinata, ma imponente girandola di immagini astronomiche, matematiche, fisico-chimiche, dietro di esse è facile intravedere il gran maestro dei poeti scienziati della decomposizione: Gottfried Benn. Ma anche qui si rivela come il mezzo migliore per trovare la propria personalità sia quello di affrontare risolutamente le letture fatte alla luce delle proprie esperienze, senza scansare né le une né le altre per cadere nell’imitazione o nell’immediatezza. Ora l’esperienza fondamentale dello Schmidt è il nazismo, per cui egli prova un orrore profondo e genuino, rarissimo, ahimè, tra i tedeschi d’oggidì»

 6. «c’è nel suo anarchismo qualche cosa di profondo e di indistruttibile: il momento dell’indignazione giovanile, della piena del cuore ferito».

 7. Diverso discorso è da fare per il primo racconto, Die Umsiedler (Gli emigranti). Si tratta di due profughi dalla Slesia, un uomo e una vedova di guerra, che traversano il Rheinland e poi trovano una residenza stabile nel paese di lei, dove conversano interminabilmente di amore ed altre cose. Qui l’anarchismo si fissa in modo accademico. «Niente più guerra, niente più miseria! Il mio voto se lo piglia il partito che è contro il riarmo e per la limitazione delle nascite!». «Dunque nessuno?» «Dunque nessuno». Puro malthusianesimo espressionista. Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati: ci sembra più umanista quell’altro. È ancora tanto abile da introdurre nuovi felici varianti dei vecchi spunti, per esempio del motivo antireligioso. […] Fa piacere vedere che l’anarchico irriducibile non cade in certe trappole cristiano-occidentali, ma la sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: «Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)». Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche.

Questi passaggi della recensione di Cases a me – non germanista ma lettore attento – sembrano confermare  che non si possa parlare di «stroncatura», valutazione di Michele Sisto, con il quale ho trovato vari punti di concordanza (qui); e neppure di «una recensione perfidamente diffamatoria» (Borso). 

Ci sono poi i passi che Borso ha  trascritto nel suo saggio, puntualizzando o  commentando con  sue veloci battute in contrappunto a Cases. La  sue puntualizzazioni[2] si basano sicuramente su notizie più precise sullo scrittore. Borso se l’è procurate più facilmente rispetto a Cases, che ai suoi tempi, essendo  al primo approccio con questo autore, si muoveva con una scusabile (credo) approssimazione. Da cui deriva l’errore sull’età di Schmidt, per cui ne parlò e l’apprezzò in un primo momento come se fosse un giovane.

Sulle considerazioni[3] in cui Cases fa trapelare sarcasmo o incomprensione riconducibili o alla sua condizione e mentalità borghese[4] o alla sua ideologia marxista, il discorso è più complicato. Ci vorrebbero almeno accenni al contesto storico (e, dunque al nazismo, alla Guerra Fredda, alla Russia stalinista). Mi pare  insufficiente richiamare di tutto ciò solo un dato, come fa Borso (il «silenzio assoluto di Cases sui 10 milioni di profughi tedeschi sospinti verso il Reno dove oltre la metà delle cases senza esse [sic]  era stata abbattuta dai bombardamenti alleati», alludendo implicitamente ad una colpevole complicità del Cases  stalinista, senza i necessari approfondimenti).[5]

C’è un altro problema a cui ho già accennato. A uno studioso come Cases , da molti considerato tuttora un intellettuale europeo e un militante politico della sinistra marxista più critica a, possono essere mosse molte critiche. E anche quelle di Borso – l’ho detto dall’inizio di questa polmica –  sono legittime. Ma  il richiamo ai dati empirici (« solo dati e tutti dati») o alla massima di Dal Pra («prima la topica, dopo la critica») non dovrebbe essere assolutizzato rigidamente. Non ci si può fermare ai dati, come se i dati  parlassero e cantassero da soli e per tutti i lettori con una loro perfetta evidenza. Anche se dicessero che Cases era stalinista, c’è da capire che tipo di stalinista fu. Pur essendo stalinista e iscritto a lungo al PCI anche dopo il ’56 ungherese, a me non pare che Cases, come del resto il suo maestro Lukàcs, lo sia stato al 100%, come un Togliatti o un Alicata. Certo non ebbe l’indipendenza del Fortini dei «Dieci inverni» e lo vedrei più vicino alla Rossanda responsabile dopo il 1948 della Casa della Cultura di Milano. E perciò mi sento di ripetere quanto detto in un commento: ce ne fossero stati nel PCI stalinisti del genere di Cases che ebbe il coraggio e l’apertura per pubblicare, sia pur con tutto il travaglio e i compromessi che Borso evidenza ma enfatizza, il libro di uno scrittore anarchico tedesco come Schmidt. Sarebbe antistorico pretendere che Cases in quegli anni sputasse su Stalin.

Un amico esterno a Poliscritture 3 mi ha scritto: «l’approccio di Borso è legittimo, e vale ciò che vale. E’ il lettore consapevole che darà all’intervento il suo giusto peso. Chiaro: se si pensa che sia il modo migliore (o unico!) di fare critica militante o anche polemica “civile”, si sbaglia. E si finisce davvero in una specie di moralismo ingenuo e perverso alla grillina. Però non capisco perché dar l’impressione di attaccare chi scrive certe cose…se sono vere, che male c’è? Quanto alle valutazioni/opinioni che se ne traggono, chi scrive se ne prende intera la responsabilità. E’ il suo modo di mostrare ci che lacrime grondi e di che sangue l’industria culturale nazionale, anche ai più alti livelli. E allora? Io leggendo Borso so qualcosa di più circa Cases & co. Un grammo, un niente. Ma preferisco averlo saputo. Va da sé che guadagno anche nella conoscenza di Borso, e di chi ha un approccio come il suo. Insomma: non mi scandalizzerei più di tanto. E preferisco comunque interventi (certo discutibili, e che infatti vengono discussi) come questi di Borso alle “lenzuolate” celebrative».

Concordo. Per me un critico può anche porsi il compito di sgretolare l’immagine di un intellettuale influente o ritenuto un’autorità nel suo campo o, come si dice, regolare i conti con lui. E anche senza tenere conto del “contesto” o dando peso ad episodi specifici e documentati, ma io posso chiedermi anche dove va a parare la sua ricerca. E tener presentei rischi che essa confluisca e rafforzi una cultura di destra, com’è già accaduto con la Nietzsche-Renaissance alla fine degli anni Settanta, piuttosto che aprire ad un nuovo tipo di critica, che per ora appare confuso o indecifrabile. E, infine, dire che trovo inaccettabile che Borso mi attacchi gratuitamente, attribuendomi cose mai dette[6], malgrado abbia sempre mantenuto nei suoi confronti un atteggiamento  di apertura ragionevole.

Note

[1] «cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?»

[2] 1.Cases: «Leviathan è il resoconto di un viaggio in treno, sembra da Berlino poco prima della caduta, verso una destinazione ignota».

1.1. Borso: «In realtà da Lauban a Görlitz, cittadine della Slesia (ora Polonia) dove Schmidt, figlio di una casalinga e di una guardia notturna, abitò negli anni Trenta, prima di farsi cinque anni di guerra e uno di prigionia».

2.  Cases: «Nel treno ci sono varie persone tra cui, oltre al narratore, una ragazza cui lo legano imprecisi rapporti amorosi».

2.1. Borso: «In realtà suo grande amore delle 4 superiori, e un vecchio col quale fa “lunghi discorsi filosofici” dove la “cultura è usata in buona parte in funzione formalistica, estetizzante, per dare delle belle liste sonanti di nomi”».

3. Cases: I due «conversano interminabilmente di amore ed altre cose».

3.1.Borso: «Il romanzo è di 50 pp., occupate per 1/10 dalle loro conversazioni (Schmidt in proposito affermò: “Io ci metto il dado, i lettori l’acqua”».

[3] Cases:«Preferivamo lo Schmidt che voleva la città senza uomini a questo che la vuole con pochi uomini comodamente installati».

 Borso: «Così comodamente da patire freddo e fame, giusto come Arno e la moglie, che si nutrivano di erbe selvatiche)».

Cases: «La sua ribellione è diventata decisamente prolissa, snobistica, cinica. Ci vedi il cittadino del mondo che si fa fotografare mentre brucia il passaporto, salvo richiederne uno nuovo il giorno dopo per non aver seccature. Si è rifatto la biblioteca: ‘Ottanta volumi (dopo la prossima guerra saranno soltanto dieci)’».

Borso: «Ahimè: il nichilismo erudito, per mantenersi in efficienza, ha bisogno di nuove prospettive belliche’”. 80 voll. trasportati a mano dalla Slesia, abbandonando tutti gli altri. L’Ahimè è inqualificabile i. e. abietto.  Quanto al cittadino del mondo, de quo fabula narratur?».

Cases: «La stessa decadenza è nello stile, sempre abile, ma questa volta freddamente abile. C’è un richiamo ancestrale nel fatto che i due si stabiliscono a Bingen, patria di Stefan George (evocato anche dai caratteri «Sparta»)».

Borso: «Bingen è una delle tante fermate del treno che li porta a GauBickelheim, dove s’installano scomodissimamente. Lo Spartan ritorna qui come tedesco-ancestrale i. e. reazionario; in effetti i caratteri senza grazie coniati da George negli anni Dieci vennero ripresi alla fine dei Venti da Paul Renner, tipografo del Bauhaus che inventò il Futura, di cui lo Spartan è un’evoluzione (con buona pace dell’antiamericanismo)».

Cases: «Preferiamo continuare a credere che lo Schmidt abbia incarnato, almeno per un momento, la ribellione della genuina ‘gioventù del mondo’ contro la barbarie nazista”, sperando “si accorga che ci vuole un minimo di organizzazione anche per combattere il Leviatano. A meno che non si ritiri nell’egoistico menefreghismo malthusiano degli Umsiedler, il quale, come è ormai ampiamente dimostrato, è una delle più salde colonne su cui le tirannie leviataniche instaurano il loro sanguinoso terrore”».

Borso: «Organizzazione comunista, s’intende, come quella italiana cui Cases rimase iscritto fino a tutto il 1958, digerendo i fatti d’Ungheria del 1956 (carrista quindi) ed anzi soggiornando in DDR nel 1957».

[4] Accennati nella breve nota biografica: nato a Milano il 24 marzo 1920 a due passi dalla centralissima casa Manzoni, di agiata famiglia ebrea, liceo Parini fino alla promulgazione nell’autunno 1938 delle leggi razziali, per proseguire gli studi emigra in Svizzera sostenendosi con la retta passatagli fino all’autunno 1943 dai genitori, poi fino al rientro in Italia nell’autunno 1945 da un parente; nel 1946 si laurea in filosofia alla Statale di Milano, nel 1951 si iscrive al PCI, nel 1954 insegna alle superiori a Pisa, entra in casa editrice Einaudi come referente per la letteratura tedesca e scrive appunto la recensione, che qui epitomo intercalandovi in corpo minore puntualizzazioni tratte da Leviatano, Mimesis 2013, e I profughi, Quodlibet 2016 (entrambi a mia cura).

[5] Ho cercato del materiale e sono riuscito a fare solo una prima lettura di questo saggio di Michele Sisto, (PDF) Gli intellettuali italiani e la Germania socialista. Un percorso attraverso gli scritti di Cesare Cases | Michele Sisto – Academia.edu) che fa parte di un volume di cui si danno notizie qui: (Riflessioni sulla DDR | germanistica.net). Da approfondire mi pare anche la lettura di questa intervista a Cases  della fine degli anni Novanta: http://www.germanistica.net/2013/06/10/intervista-a-cesare-cases/

[6] «ora, a te va bene un’edizione che riporta solo la metà dei pareri: tu ami la censura, e pure il tuo censore, il dott. Superio. e questo ti affumica il cervello, perché pur di salvare Cases ti fa addirittura piacere scopare sotto il tavolo metà giudizi di lettura»(db 27 Luglio 2021 alle 21:20 )

Ragionamento sui nostri antenati (1)

Il saggio  di Dario Borso, “COLPO BASSO. Cesare Cases vs. Arno Schmidt ” (qui) mette in discussione – e con salda documentazione – i limiti del giudizio  che un germanista di fama come Cesare Cases  diede di un importante scrittore tedesco del secondo dopoguerra, Arno Schmidt, considerato  invece da Ladislao Mittner, l’autore della monumentale «Storia della letteratura tedesca», «un ulisside della specie di Joyce». Non ho competenze specialistiche sulla materia affrontata da Borso.

E allora perché intervengo? Per  alcuni buoni motivi. Tranne Cases, seguito soltanto in occasione di qualche conferenza a Milano ma di cui ho letto vari libri e articoli, ho avuto modo di conoscere e incontrare nei loro ultimi anni di vita prima Fortini e poi Renato Solmi e Michele Ranchetti. Nel ‘68 seguii la polemica  cruciale tra Fortini e Fachinelli sui Quaderni Piacentini a proposito del «desiderio dissidente» e de «il dissenso e l’autorità»; e, successivamente, anche se seguii  più distrattamente e con distacco la polemica su «Minima Immoralia», divenuto  sempre più attento alla ricerca psicanalitica, ho letto vari libri di Elvio Fachinelli, di cui  tra l’altro mi parlava  con grande stima un altro dei pochi scrittori da me frequentati, Giancarlo Majorino.

Nella mia esperienza di lettore (e di militante politico), dunque, tutti questi autori hanno fatto per me parte di un’unica costellazione politico-culturale. Indubbiamente  di sinistra, area -cosa non trascurabile –  almeno fino alla fine degli anni Settanta ben distinta dalla destra. E questo malgrado le diversificazioni e le forti tensioni ideali e personali tra loro.  Leggere oggi queste  critiche contro Cases, un autore che – ripeto – ho sempre apprezzato, mi ha costretto a  farmi varie domande: cosa  è mutato e sta ancora mutando nel campo della politica e della cultura?  c’è qualcosa di cui non mi sono accorto, se  ho continuato a confermare la mia fiducia in autori (Cases tra altri) che invece dovrebbero  essere non solo sputtanati  – Borso la metta pure nei termini dei giganti e dei nani – ma dimenticati e rimpiazzati da altri ben più  acuti e non ideologici? non è che mi attardo in una storia non solo finita  ma fallita e dalla quale manco alle “buone rovine” bisogna più guardare?

Della  messa in discussione di Cases o di altri, che io considero tra i “nostri antenati” da studiare e riproporre, non mi scandalizzo. Seguo, infatti, con convinzione  la raccomandazione di Fortini. Che diceva all’incirca: prendete da quel che ho scritto ciò che vi  serve e il resto buttatelo pure.[1] Né  sono difensore d’ufficio di nessuno.  E perciò, siccome la polemica  di Borso contro Cases ha rinverdito nella mia memoria quella degli anni ’60-’70 tra neoavanguardia e intellettuali marxisti ( Pasolini, Fortini, Cases, Quaderni Piacentini, Sanguineti, Filippini, etc.)  e sotto sotto mi ha rimandato a quella vecchissima tra anarchici e comunisti,  quando ho letto i  suoi primi pezzi, ho drizzato le antenne. Disposto a prenderlo sul serio ma deciso anche a capire se quel che scrive mi convince o meno. Perché a scatola chiusa non prendo nulla. E gli ho, perciò, prima  fatto in privato alcune stringate e interlocutorie obiezioni[2]; e poi sono intervenuto pubblicamente e decisamente su Poliscrittture e su Poliscritture FB. Invitando a sentire meglio anche le altre campane. Perché schierato ciecamente con  Cases contro Borso? Suvvia. Solo perché nelle altre campane (Cases, Solmi, Sisto; e per quest’ultimo mi sono riferito esclusivamente al suo intervento su  germanistica.net qui) ci sono spunti interessanti che Borso, secondo me, ha trascurato o escluso non ritenendoli coerenti con il suo metodo critico.

Questa è la premessa della mia riflessione e mi fermo qui. Nelle  successive puntate esaminerò le prese di posizione di Cesare Cases nei confronti di Arno Schmidt riportate da Borso; quelle sulla pubblicazione di «Minima Immoralia» nell’edizione L’Erba Voglio (almeno nella parte che ho potuto consultare); e, dopo aver riportato stralci delle “varie campane”, trarrò le mie (provvisorie) conclusioni. [E. A.]

Note

[1] «…‘Vi consiglio di prendere le cose che ho detto e di buttarne via più della metà, ma la parte che resta tenetevela dentro e fatela vostra, trasformatela. Combattete!». (Le rose dell’abisso. Dialoghi sui classici italiani,  Boringhieri, Torino, 2000)

[2] Ennio: «1. Cases era un borghese ma fu comunista (male, bene: ai posteri...); 2. Il suo comunismo non era (del tutto?) dogmatico perché corretto/temperato da un anarchismo, che secondo me prendeva qualcosa anche da Brecht (magari giovane); 3.Oggi si tende a parlare della psicologia degli autori e non della cornice (ideologica e storica) in cui operarono (e il giudizio ne risente...)».

 

4 pensieri di F.F. sulla comunicazione

Da Poliscritture 3 FB/Nei dintorni di Franco Fortini

a cura di Ennio Abate
1.

Nei confronti della comunicazione e del discorso di massa occorre aumentare il grado di consapevolezza che ogni comunicazione (e tanto più quanto più è di massa) non è né immediata né spontanea né naturale, ma sempre non naturale, non spontanea, mediata, storicamente determinata.

2.

…nel nostro paese, come in tutte le nazioni cosiddette avanzate, è stata seguita la via [della] distruzione dell’efficacia dei messaggi mediante la loro liberalizzazione, la loro moltiplicazione…

3.

… una cosa ripetuta tutti i giorni entra probabilmente nella testa e nei riflessi di chi l’ascolta. Il mito della spontaneità e dell’autenticità ha impedito a sinistra qualsiasi organizzazione in […] senso sistematico di una educazione o di una resistenza […] Ad esempio la stampa ed anche i mezzi radio-televisivi di sinistra non si pongono mai il problema della ripetizione ma solo quello della variatio: hanno scelto questa, tra le possibilità retoriche, perché credono che promuoverebbe al massimo l’autenticità, mentre la ripetizione sarebbe autoritaria, dittatoriale e deprimente

4.


In via di principio non posso essere contrario a dilatare l’accesso alla comunicazione; a condizione che non si abbia inutile rispetto “democratico” per la imbecillità. Non abbiamo forse ascoltato, in riunioni e trasmissioni, il periodico richiamo a “lasciar parlare tutti”? Ci siamo accordi che non sappiamo, in nome della democrazia, come fare per togliere la parola agli idioti e ai provocatori?

 

(Da Franco Fortini, "Il mito dell'immediatezza" in "Un dialogo ininterrotto. Interviste 1952- 1994", pagg. 206-215, Bollati Boringhieri, Torino 2003)

Poesie

di Yuri Ferrante

UNA STANZA 
 
Non condividiamo nulla
se non l’aria di una stanza,
le stesse leggi della fisica,
la gravità che ci schiaccia.
 
E allora cosa cerco in quelle braccia?
Cosa mi spinge a raccontarti cose
che non hanno mai avuto parole,
che i pensieri non sanno contenere,
che io non so di contenere.
 
Non volevo abbandonarmi,
non volevo ribellarmi
alla morsa del gelo.
Ma più mi avvicino al calore del tuo sangue
più brucia la solitudine
di questa pelle.
 
 
 
IN NATURA
 
Ogni giorno più distanti dalla terra,
dalla sabbia che ci forma,
dalla roccia e dall’argilla.
Ogni gesto, ogni momento,
un sasso sopra l’altro
monumento a sé stesso
a memoria del vagito del creato,
di un istante sopito,
soppresso, svanito.
 
Si osserva la natura intorno
come sconosciuta, imprevedibile
sorpresa, non racchiusa
nella programmazione standard
di elettronica provincia.
 
Sarebbe meglio stare fermi, alzare le braccia,
lasciare scorrere clorofilla sulle labbra.
 
Mentre il pino ci osserva, ed anche la quercia,
è vigile il gallo, la capra, la merla,
la rosa, il cavallo, non dicono niente
ci notano e basta, sospirano, belano,
infine appassiscono, si fanno toccare
da mani e pisciare da cani, bagnare da gocce
di pioggia, e noi, in mezzo alla folla
copriamo la testa, i capelli, la faccia,
con vesti, ombrelli, giornali e diciamo
convinti la nostra parte, ci piace farla
a regola d’arte, e in punto di morte
ci spogliamo nudi, per ricordare
chi siamo, da dove veniamo
e senza parola, poiché muore anch’essa
in gola, e torniamo al gemito,
al fremito, all’imbrunire, a sentire
l’acqua scorrere tra le pupille
e sfiorare la vita, in punta di dita
che premono il senso animale, perduto,
nascosto per anni, inumato, muto.
 
E all’ultimo tocco
un picchio
da dietro un vetro,
ci guarda
e ci riconosce.
 
 
I TEMPORALI
 
Ci sono lampi che non si spengono
nemmeno quando le luci muoiono,
quando i corpi riposano
per poche ore
o per spazi eterni.
Sono voci di temporali
da qualche parte, dentro di noi
continuano ad esplodere,
bagliori all’orizzonte
ora vicinissimi
ora inarrivabili.
 
 
 
UN GIORNO
 
Vorrei vivere il dolore
come lo vive una farfalla.
 
Così poco tempo
per volare,
per amare,
non c’è spazio
per il male.
 
E se il volo
dura un giorno,
quanto vale
ogni secondo.

Prof Samizdat (prova 2)

di Ennio Abate

Ah, se al Pacco Nord ci fosse stato anche l’Autonomo! Lui, sì, che non si lasciava intimorire da leggi e circolari. Sulle cose sindacali si destreggiava da dio. Ne sapeva le asperità i trucchi i trabocchetti. E dove non arrivava da solo, si consigliava con magistrati e avvocati amici suoi. Le prime volte prof Samizdat e l’Autnomo s’erano incontrati alle porte della Marelli di Sestosangiò. Volantinavano. Ciascuno per  la propria Compagnia: Aò l’uno, Ellecì l’altro, che prima ancora era stato uno dei fondatori della Cigieellescuola. Lo si era saputo dopo il suo arresto. E veniva da ridere. Perché  nei collegi rissosi di quei tempi il Flautista, che era il segretario picci-no della Cigiellescuola d’Istituto, ogni volta che l’Autonomo parlava, interveniva – palloso e pignolo – per denigrarlo e presentarlo come “il distruttore del sindacato”.
Prof Samizdat e lui avevano fatto un po’ amicizia. Anche allora non era facile capirsi. Ci provavano tutti di più però. E  – carne e ossa, saluti e battute –  spesso scendevano a patti e collaboravano. Di solito, però, stavano sempre a discutere e a litigare. Tra loro e con altri: “sinistri” e “destri”, sia studenti che insegnanti o ittippì. E sia nei corridoi che sui marciapiedi all’uscita della scuola. Continuando poi, instancabili e monotoni, all’ingresso di questa o quella fabbrichetta dell’hinterland. Dove facevano ‘sto famoso “lavoro operaio”. Distribuivano, cioè, sotto varie sigle i verbosi e male inchiostrati volantini dei loro minipartiti.  Tutti con  giri di parole pesate e ripesate e complicate per distinguersi  tra loro ma soprattutto dalla nazionalpopolare Picci-neria.  Che non li sopportava, li ostacolava in modi puliti e sporchi, li seppelliva sotto valanghe di altri volantini, manifesti, editoriali di giornalisti famosi. Tanto che, se all’inizio  qualcosa spostarono almeno nelle grandi fabbriche con quel loro “lavoro operaio”, presto i loro volantinaggi si ridussero a un complicato modo di mandare a se stessi segnali d’incoraggiamento e di sfida. Per durare, insomma. Eh, sì,  tranne  qualche decina di operai – le ricamatissime “avanguardie di fabbrica” –  che si fermavano a parlare  con loro, il flusso della folla ignota sospettosa e sfuggente – oh, sfinge impenetrabile della Classe Operaia! – come prima li scansava,  entrando  o uscendo dai cancelli di fabbrica in fretta.  Anche se prendeva tutti i volantini: di Ellecì-Aò-Pidup-Potop e della Picci-neria.

Ora però l’Autonomo era un fantasma di memoria. L’avevano di botto rinchiuso nel carcere speciale di Cun.  E loro, per fortuna ancora fuori, sempre a scrivere volantini  e documenti. Tra l’altro non più sugli aumenti salariali uguali per tutti,  la selezione di classe che spezzava le gambe ai figli degli operai, ma sul pezzo della loro storia subito deperita e in via di incarceramento o di dispersione al vento. Scrivevano: voi dovete immaginarvi cosa sono queste carceri speciali! E pensavano: non volete saperlo, eh? No, quasi nessuno, neppure i loro simpatizzanti o quelli che non rifiutavano i loro volantini, volevano saperlo. Le carceri, speciali o meno, servivano. L’avevano detto sui giornali e alla TV. C’era un’emergenza. C’era la notte della Repubblica. E bisognava  spegnere per bene i cervelli. E le bocche pure.
Tuttavia, dal carcere pur speciale l’Autonomo era riuscito subito a far avere a prof Samizdat e ai «colleghi dell’ITIS» una sua lettera. Aspra, spigolosa, urtante. Come la sua mente. La premessa era la classica analisi desiderante di una decina d’anni prima. Alla francese. (Senti che mi scrive questo! Che la scuola  è un guscio svuotato dalla polpa viva del Movimento. Che la società è una prigione dalle sbarre invisibili controllata da sorveglianti punitori). Poi, a metà lettera, s’addolciva e mandava un saluto affettuoso a un collega del serale molto malato. Ma  a tanta delicatezza d’animo in uno, che per quasi tutti ormai era un terrorista – lo martellavano i giornali e la TV – chi ci credeva più? Prof Samizdat, pignolo ma stralunato, insisteva: vedete che è presunto! Presunto non terrorista accertato? Ma figuriamoci! Badate a queste sottigliezze giuridiche? In tempi  così rabbuiati? Suvvia, non possiamo permetterci il lusso di intelligenze  alla Beccaria.

La lettera, perciò, era girata con flemmatica circospezione tra i docenti democratici per un po’ di giorni. E letta, era stata letta. E pure riletta. E sottoposta al vaglio della vigilanza  della stessa Picci-neria d’Istituto. Non andava – chiarissimo – la sua  conclusione: un’artigliata dell’Autonomo contro i suoi  ex-studenti di quinta. Troppo vogliosi di diploma e di carriera, secondo lui. E mancava  un nobile für ewig alla Gramsci. Ma che si crede? Questo solo di nude cose sapeva parlare. E esprimeva una corporalità scomposta. Un linguaggio-corpo?  Eh, sì. Che male, ahi! Non toccatemi! State male anche voi, perdio! Pro/muovetevi!

Donchisciottino, angioletto di periferia con lo sguardo volto al passato sessantottino (il quadro di Klee, Benjamin, sapete, no?), ai colleghi democratici prof Samizdat ripropose, come un fesso, lo stampo etico in lui ormai indelebile: prepariamo una risposta collettiva. Ma i colleghi della Picci-neria,  che un po’ lo sopportavano, perché un po’ teneva a bada anche lui quel diavolo di Autonomo – ora che nei conciliaboli della Docenza Seria era circolato il titolo dell’infamia: «Terrorista è!» , «Di sicuro?», «Certo, lo capivi dai discorsi che faceva in  collegio» – non ne vollero sapere. Eh, sì, gli interventi dell’Autonomo  avevano  quel taglio tanto aggressivamente futurista. E non contro il chiaro di luna, ma contro la Picci-neria e il Compromesso Storto.  Dunque?  Ora te la sogni una risposta  “garantista”, mio caro prof Samizdat. Te la sogni la lettera firmata da  quindici o venti docenti democratici e garantisti. Noi restiamo coi piedi a terra e  svegli, ché siamo già dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, eh!

«Meglio che uno s’incarichi di scrivere poche cose, ufficiali, normali e poi chi vorrà firmerà» – aveva concluso in gloria il Flautista. E l’incontro, riservato a un ristrettissimo e silenzioso drappello democratico di pii e pie docenti in via di accartocciamento, che era stato convocato su uno spelacchiato giardinetto lontano da occhi indiscreti, per discutere su cosa non volevano fare, ebbe il risultato prevedibile e previsto.  Nessuno fiatò più. La faccenda dell’Autonomo per loro moriva lì. Voleva distruggerci? Tiè, lo distruggiamo  noi e lo Stato che siamo Noi!

Prof Samizdat rimase col cerino acceso della lettera in mano. Lo spense e pensò a  come rispondere lui, da solo. Che gli dico adesso a  questo pezzo di me/noi, compagno  o mezz’amico, finito in prigione, al fantasma che mi scrive, chiede, interpella, incalza? E più di prima, di quando, cioè, eravamo un po’ amici e un po’ avversari politici, un po’ in competizione e un po’ alleati nelle faccende di scuola o nei capannelli davanti alle fabbriche.  Prima che cominciassero gli spari e il sangue scorresse, non era detto che dovesse rispondere per forza all’Autonomo e alle sue provocazioni. Ma adesso si sentiva in dovere di rispondere.  Toh, adesso? Come! Proprio tu, che finora non hai avuto niente a che fare né coi lottarmatisti né coi fiancheggiatori né coi picci-ni e la loro fregola di farsi Stato? Ma indossala anche tu ‘sta casacca del sincero democratico, avanza nella carriera, fatti accogliere nella Docenza Seria, curati la famiglia, i figli,  le cene con gli amici, procurarti  un’amante. Perché ritrovarti solo come  quando  arrivasti a Mi dal Sud? Potrai contare sì e no sull’appoggio di Nuccia e Gigilà. Il resto – tutti, compagni e colleghi –  è stato lesto a distrarsi in mille cosucce ariose e per loro l’Autonomo  è fantasma assoluto, scomparso dalla vista e dai pensieri, fine!

L’Autonomo l’avevano arrestato per «reati associativi». Da un giorno all’altro. Dopo la prima lettera a prof Samizdat, dove chiedeva di indirizzare la risposta ad uno fuori dal carcere, che gliel’avrebbe poi fatta avere, gliene scrisse altre. Era stato sequestrato dieci giorni in una caserma di T. Poi aveva passato 15 giorni d’isolamento nelle celle “giù” del carcere di S. E quindi “in comune”. E si doveva dare coraggio da solo. Tenace lo era. Il suo mondo non se lo faceva cancellare. Anche se sconfitto? Questo lo pensavano gli altri, non lui. Lui  contro i giudici che l’interrogavano aveva continuato a portare con foga non le sue piccole ragioni ma quelle del Gran Movimento, che continuava e che, secondo lui, i giudici  – a tentoni ma con metodo – tentavano di  incasellare nei loro ordinati schemi secolari.

Il carcere, scriveva l’Autonomo, non è la fine del mondo. Anche se tra i “politici” aveva trovato una situazione avvelenata. Delazioni e pentimenti. Qualcuno fidato però ancora c’era. Diceva. Ma lui, che era abituato a girare per Milano, a conoscere da vicino le fabbriche dove, nell’ultimo decennio, erano fermentate lotte o quasi lotte o presunte lotte, ora, come quasi tutti, aveva solo le informazioni che passavano giornali, radio e TV. Aveva perso ogni aggancio con quelli che prima frequentava. Di colpo, zac! Prof Samizdat – diceva – era il primo a cui scriveva.

Prof Samizdat ripose la lettera  nella busta, la poggiò sul suo tavolo  e andò a cercare altre notizie sull’Autonomo in carcere. Andò  dalla ex-moglie, l’unica che aveva avuto dai giudici il permesso di vederlo. Le  fece domande banali: come sta? come e cosa scrivergli? Lei gli raccontò qualcosa delle due sue prime visite. A prof Samizdat pareva impaurita reticente circospetta sospettosa. Ed era lenta nel parlare. Forse per altri  pensieri che doveva nascondere dietro le prime parole pronunciate a  voce bassa. Come se riferisse fatti delicati di  malati gravi o di pazzi o di moribondi. Eppure erano soli in casa. Una bella casa. Vicino a un grande parco. Borghese per prof Samizdat.  Sì, di quelle che lui mai aveva abitato o mai avrebbe potuto abitare. Prof Samidat niente sapeva della relazione troncata e ora ripresa tra l’Autonomo e lei. Di come s’erano conosciuti, sposati e poi separati. Di mezzo era nato  un figlio. E ‘sto figlio ora era uno dei tanti  adolescenti allo sbando. Quella donna aveva ricevuto colpi e delusioni. E non solo dall’Autonomo. Si capiva. E però, ora che lui era finito in carcere, se ne occupava. Di malavoglia. Anche questo si capiva.

Alla fine, uscendo dal palazzone, prof Samizdat si ritrovò pensieri più ingarbugliati di quando c’era entrato. Quella donna metteva, sì, da parte  il brutto della sua storia mal digerita con l’Autonomo, si costringeva ad aiutare l’ex marito, ma non si fidava di lui. Temeva di essere strumentalizzata? E forse covava pure pensieri di vendetta. Una generosità contorta e combattuta. Neppure di prof Samizdat si fidava. Anche se ebbe l’impressione che se lo studiava per capire se poteva servirsene. E per un attimo prof Samizdat  ebbe il pensiero che lui pure  non si fidava né dell’Autonomo né, ora che l’aveva vista, della sua ex moglie. E che pure lui forse temeva di essere strumentalizzato da entrambi. Che casino la vita. Queste mezze e amare conclusioni  che prof Samizdat ricavò dalla visita le mise com’erano – fredde –  accanto a quelle gelide e sotto sotto disperate della lettera di lui. Non era bella la situazione.

E vabbè, assistilo tu il tuo Autonomo in carcere. Immaginati  quel che ti riesce, ma a noi la vita ci chiama e, per favore,  lasciaci vivere.  Ti freghi da solo. Resti impigliato nel sogno di una generazione che non era neppure la tua e da quel’incubo non uscirai più. L’Autonomo  dal carcere delirerà –  è pezzo di mondo diverso dal fuori il carcere! – e tu a stargli dietro delirerai con lui. Inseguirai i suoi pensieri. Che  ora saranno  ancora  più spigolosi e urtanti.  E starete in due a a confrontarvi i vostri pezzi di storia che  manco  combaciano.  Che c’entra  uno con l’impronta di Aò con lui che ha l’impronta di Ellecì? E la vostra pagina di storia  Picci-neria e Dicci-neria e Mondo  Sovrastante  non l’hanno mai neppure guardata. No, non hanno voltato pagina, l’hanno strappata! T’intestardisci a rileggerla, a rimuginarla? Ma non c’è più.

Scrutare meglio gli indizi che  la sua mente carcerata m’invia. Guaderò correnti impetuose. Muovermi nella fanghiglia politica di questi anni.  Pensare a saltellare sui sassi più matematici,  più solidi e incensurabili. Spero che non cedano all’impatto del mio  piede. Non lasciarsi fregare dal giudice che leggerà la nostra corrispondenza. Non sono  poche le insidie e le temo. Certo che rileggerò.

Un ragazzo del secolo scorso


di Ennio Abate

Stamattina appena letto questa perla saccente del giovane critico Matteo Marchesini:”Come correttivo all’inserto del “manifesto” su Mario Tronti, consiglio il ritratto veridico e spietato che ne ha fatto Alfonso Berardinelli in “Stili dell’estremismo”” ho lasciato su POLISCRITTURE 3  FB  questa nota: Continua la lettura di Un ragazzo del secolo scorso

A Vocazzione (prova 1)

Narratorio (versione 2021)

di Ennio Abate

DAL CAPITOLO I: BRACIERE, FREDDO, LETTURA, PREGHIERE, PAURE

Madre e figli si scaldarono durante le sere invernali attorno a quel braciere. L’aveva usato a Casebbarone  nonna Fortuna e prima di lei altre ignote nonne. Ora asciugava un po’ l’umido della stanza, che restava freddissima.  Ogni tanto Nunuccie o Eggidie mettevano sulla brace scorze di mandarino per sentire, mentre bruciavano e facevano fumo,  l’odore acre che gli piaceva. Si scaldavano loro tre. Il cielo – gli squarci di cielo nelle finestre – era scuro.  I ragazzi avevano geloni violacei sulle orecchie e la pelle sul dorso delle mani gli si screpolava. Nannìne, per combatterlo quel maledetto freddo, lavorava coi ferri gomitoli di lana grezza e giallastra per dare ai figli  maglie pesanti. Per tenergli il petto al caldo, anche se pungevano sulla pelle quando i ragazzi le indossavano. Continua la lettura di A Vocazzione (prova 1)