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Lettura di «Ombre e vicende» di Eugenio Grandinetti

di Donato Salzarulo

                           Se incontro l’ombra che attrista il tuo viso, 
                            con questa torcia l’accerchio e confondo. 

Oltre che al poeta, desidero fare un omaggio al Grandinetti professore. Per l’occasione desidero ripetere ciò che lui ha fatto innumerevoli volte. Prendere una poesia e spiegarla, parafrasarla, commentarla. In questo caso sceglierne una sua fra le 3.500/4.000 (fonte Luciano Aguzzi) scritte in quaranta anni, mi è difficile. Anche perché onestamente non le conosco tutte. Sceglierò allora quella che Abate (un altro suo attento lettore) ha pubblicato sul sito di POLISCRITTURE nel giorno della sua scomparsa. Immagino che Abate l’abbia scelta perché abbia sentito in quei versi qualcosa di definitivo. Forse l’immagine di un ritratto. Forse l’immagine di parole, pensieri e sentimenti che riescono a comunicare, una volta per sempre, un’identità. La poesia ha per titolo “OMBRE E VICENDE” ed è tratta dalla raccolta “DISAMORARSI D’ESSERE”.

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Un’intervista su WSF (24 set. 2015)

Poesia e Arte. Ennio Abate

Artista e poeta, oggi ospitiamo Ennio Abate!
Benvenuto nelle pagine virtuali di Words Social Forum!

Chi è Ennio Abate?

L’ho scritto nella presentazione del mio blog “Narratorio grafico di Tabea Nineo» (anagramma giovanile del mio nome e cognome nome col quale ho deciso di firmare disegni e dipinti): uno che da ragazzo ha imparato a scrivere e, a un certo punto, ha imparato anche a disegnare e dipingere. E che ha poi – giovane, adulto, vecchio – continuato le due attività, conciliandole o alternandole più o meno bene. Per varie ragioni, che qui non affronto, lo spazio occupato dalla scrittura (poesia, saggistica, carteggi con amici o avversari) ha prevalso su quello dedicato al disegno-pittura. Comunque, Tabea Nineo, resta in fondo il gemello di Ennio Abate.
Accanto al carattere fin dall’inizio bifronte della mia ricerca ne andrebbe considerato un altro: ho avuto una vita “ a zig zag”, piena di deviazioni e interruzioni, essendo stato studente, immigrato, impiegato, lavoratore-studente, militante politico e alla fine insegnante. Sono stato perciò poeta e artista in semiclandestinità; e credo che i miei lavori, per un diverso modo di sentire rispetto a quello attuale o dei giovani, appariranno quasi dei reperti archeologici.

Come è iniziata la tua avventura artistica? E quella poetica?

Premessa: c’è una parte pubblica della mia “avventura artistica” e una privata. La prima è iniziata e finita presto e male. Perché, interrotti una prima volta i miei studi di lettere all’Università di Napoli e arrivato a Milano nel 1962, pur riuscendo ad ottenere maturità artistica, abilitazione al disegno e iscrizione all’Accademia di Brera (corso di scultura, c’era ancora Marino Marini), ho dovuto ancora lasciare gli studi e accettare il primo lavoro che mi capitò. La seconda – quella privata e “in solitaria”, cioè esterna agli ambienti dove si fa o si discute di arte, ha dovuto intrecciarsi con una nuova ripresa degli studi (ma di lettere) alla Statale di Milano e l’insegnamento. In pratica, mentre insegnavo italiano e storia nelle scuole superiori, ho continuato a fare i miei “disegnini” in b/n con la biro. Quasi sempre sui fogli dove scrivevo o sulle pagine dei giornali, delle riviste o dei libri che, per passione o obblighi vari, andavo leggendo. Solo di tanto in tanto ho lavorato su fogli da pacco o di disegno veri e propri; e, recentemente, su tela e col colore, soprattutto ad olio.
L’”avventura poetica”, iniziata fin dagli anni del liceo, è stata altrettanto e a lungo in ombra, ma ha poi, dagli anni Novanta, avuto maggiore attenzione da parte di amici e alcuni ambienti culturali milanesi, avendo io partecipato alla redazione di alcune riviste («Inoltre», «Il Monte Analogo», «Poliscritture»), condotto il «Laboratorio Moltinpoesia» alla Palazzina Liberty di Milano dal 2006 al 2012 (poi blog) e pubblicato presso piccoli editori cinque raccolte di poesia.

C’è una storia dietro ad ogni tua opera?

Dobbiamo intenderci sul termine ‘storia’. Anche il mio disegnino più scarabocchiato e istintivo ha dietro una storia. In parte riferibile ad eventi quotidiani e in parte riconducibile a strati profondi (strutture atemporali, forse archetipiche). E questo vale anche per le mie poesie. Difficile è però, in entrambi i casi, rintracciarla e soprattutto indicarne i tratti principali. Di questa difficoltà ci si accorge soprattutto col passare del tempo. Perché certe immagini (nei disegni o in pittura) o certi temi (in poesia e narrazione) ritornano con leggere o evidenti variazioni ma anche contraddizioni . E ciò rende difficile parlare di storia, che per me ha comunque una direzione, un senso. Col mio “narratorio” lo vado cercando. E per ora sono riuscito appena a definire le sue tappe e a nominarle: salernitudine (le “radici”), immigratorio (il passaggio al Nord), samizdat (le tempeste sociali), esodo (un’ipotesi d’incerto futuro). Sono i nomi di una storia personale e ultrapersonale (non dico universale, concetto pomposo e oggi discutibile), che presumo di poter collegare alla storia più generale.

Qual è il tuo concetto d’arte?

Lo riassumo così: dire la complessità in modo semplice ma non banale, dando la percezione del complesso nel semplice.

Quali artisti hanno influenzato il tuo modo di fare arte?

Mi considero un figlio dell’epoca della «riproducibilità tecnica dell’opera d’arte» (W. Benjamin) e, dunque, dell’arte “massificata”. Riconosco cioè che, nel campo dell’arte, mi sono formato da solo e al 90% sulla visione di opere d’arte riprodotte e al 10% (o anche meno) sulla visione di opere d’arte originali. È una distinzione non di poco conto e gravida di conseguenze per la mia ricerca. Il mio primo impatto con immagini d’arte soprattutto riprodotte, – faccio degli esempi concreti: quelle in b/n del Carli e Dell’Acqua (manuale d’arte al liceo dei miei tempi: anni Cinquanta) o quelle a colori degli inserti sulla pittura moderna di «Epoca» e poi delle monografie delle edizioni F.lli Fabbri (anni Sessanta) -, pur avendo poi io letto e studiato i libri di Lionello Venturi, Francastel, Brandi, non poteva davvero farmi individuare i maestri che potevano aiutarmi. (I miei maestri sono stati, infatti, tutti “maestri da lontano”, nel senso che me li sono scelti io per simpatia o sintonia, mai davvero verificate; mentre ben altra cosa è avere con un artista o con alcuni di loro un rapporto reale di frequentazione e scambio). Penso perciò che da questa mia condizione mi sia venuto una sorta di “frastornamento”; e, di conseguenza, soprattutto una spinta a esplorare come potevo, da solo, la mia soggettività profonda. (Non a caso ho intitolato una mia raccolta di carboncini “Narratorio di corpi figurati e distanti”). Per non eludere però la domanda, dico che mi hanno suggestionato quegli artisti che partono dal caos e dall’informe senza però rimanervi ingabbiati. E quindi ho guardato soprattutto agli espressionisti e in misura minore ai surrealisti. Anch’io parto da uno “scarabocchio”. Punto però sempre al recupero di una figura che mantenga una qualche somiglianza con quelle della tradizione.

***

Da «Salernitudine»

O requiemm’e pe Franch’Alfane

Sette ‘e figlie e zi’ Assuntine.
Franch’Alfane, o ezzenti el,
o primm’ere e tutt’e quante.

Proprie ‘nzicch’a Lungomare,
‘nfront’ e palme, ‘nfront’o mare,
mamma noste quacch’e vote

cumm’in chiese nge purtave
dint’a banche silenziose
pe parlà cu stu nipote.

Che diceve? Nunn’o saccie.
Cert’i ccose ae piccirille
so accuvate o vanne perse.

Sule ropp’aggia capite
ca là dinte stu cuggine
faticave cui rinari.

Mmiezz’a guerr’, dopp’a guerr’,
e cuntave, e m’pacchettave
e sapev’a chi jeven’a fernì,

chi faceven’arrecchì, a chi
nu colp’o core facevene venì.
Mmente nuje, e’ piccirille,

miezz’a vign’e zi’ Assuntine,
sott’e foglie e ezzenti ,
rirevam’e pazziavame,

mie cuggine già vereve
st’atu munne ca spuntave
e schiattav’o’ munne nuost’

cuntadine e munaciuelle,
ezzenti ell e ezzenti elle.
E accussì, quanne turnave

ra Salierne ‘n filovia
e po a piere int’a campagn’,
p’arrivà a Casebbarone,

a tristezz’e rint’o core
‘scev’e fore e ‘nziemm’a sere
astutave tutt’e cose,

astutave pur’e voce,
tutt’e cielle ro paese.
Mo’ ca e sord’e ann’a cagnate

o paese e Franch’Alfane,
mo che e cielle so fujute
e e palazze so crisciute,

je capische pecché triste
nge guardave stu cuggine.
Ere cumme nge veresse,

già cresciute pure a nuje,
a vagà pe n’atu munne
cumm’a lucciule perdute.

Sette e figlie e zi’ Assuntine.
Canuscette primme e nuje
Franch’Alfane ‘n banch’a morte.

Il requiem per Franco Alfano

Sette i figli di zia Assuntina / Franco Alfano, il ragioniere / era il primo di tutti quanti. // Proprio vicino a Lungomare, / di fronte alle palme e al mare, / nostra madre qualche volta / come in chiesa ci portava / nella banca silenziosa / per parlare con questo nipote. // Cosa diceva? Non lo so. / Certe cose ai bambini / sono nascoste o vanno perse. // Solo dopo ho capito / che là dentro questo cugino / lavorava con i denari. // In mezzo alla guerra, dopo la guerra, / li contava, l’impacchettava / e sapeva a chi andavano a finire, // chi arricchivano, a chi facevano venire un colpo al cuore. / Mentre noi, i bambini, // in mezzo alla vigna di zia Assuntina, / sotto le foglie [spruzzate] di verderame / ridevamo e giocavamo, // mio cugino già vedeva / quest’altro mondo che spuntava / e schiacciava il nostro mondo // di contadini e monaci, / di pastori e povera gente. / E così, quando tornava // da Salerno in filovia / e poi a piedi attraverso la campagna, / per raggiungere Casalbarone, // la tristezza che aveva in cuore / usciva fuori e assieme alla sera /smorzava tutte le cose, / smorzava anche le voci, / [smorzava] tutti gli uccelli del paese. / Ora che i soldi hanno cambiato // il paese di Franco Alfano, / ora che gli uccelli sono fuggiti / e i palazzi sono cresciuti, // capisco perché triste / ci guardava questo cugino. / Era come vedesse // anche noi già cresciuti, / vagare per un mondo diverso / come lucciole smarrite. // Sette i figli di zia Assuntina./ Conobbe prima di noi / Franco Alfano in banca la morte.

***

Da «Prof Samizdat»

Cultura sfoderata

Andasti sacrificale
col chiaro degli occhi sgranati
alla classica maturità;
e per giunta
con una cultura contadinella,
terroncella, paffutella,
dolcemente rimbecillita
dalla Seconda guerra e dal dopo.

Più tardi li vedesti, Samizdat,
i tuoi vicini,
il prossimo con l’unghie,
sfoderate con flemma
dalla loro mente-cartella
di buona pelle,
graffiare di segni contemporanei
i giovanili cervelli
e depositare
acidula, ferrigna, industriale
la vera Ccultura.
Altro che zucchero a velo
su comune ferita,
mio caro.

***

Da «Donne seni petrosi»

Della fanciulla che faceva capolino
nei miei sogni vorrei parlare, ma esito.
Ad ogni scricchiolio del tempo
gli amanti sventati sobbalzano
e l’eco dei gemiti digrada in rantolo.
L’albero contorto e rugoso
tratterrà fra i rami la giovane nuvola
di passaggio, il miraggio?
Così, effimeri, traballanti dichiararono i saggi
gli edifici amorosi.
E non eri forse tu di lor compagnia?
Non ne trascrivesti i detti?
Inerme, spaurita, la fanciulla mi zittisce.
Cancella questi versi.
Mi porta nell’onda del suo corpo.
Spiegheranno altri con scienza
concomitanze di luce, gradi del dolore
e l’angolazione particolare
della nostra anamorfòsi.

***

Da «Immigratorio»

Esodo

Dove andare? e correre ancora?
o ubriacarsi dondolandosi sulla soglia?
I troppo lucidati intelletti
hanno esaminato da vicino i corpi senza amore
e tramortiti ambiscono, in latino e in rancore
solo a quelli gloriosi.
Ma alla femminetta, all’animosa
guizza la capriola dell’esodo
quel dolce affanno che si brucia
nell’altro della contingenza.
E va, si consuma in sorriso
già più non oscilla.
Smesso l’assillo
al chiarore d’altra luna e altro sole
è sbucato accanto a lei
il muso dell’antica, buona bestia.
Nell’esodo, dunque.
La tana di sempre sfondata.
La gabbia approntata da secoli
aperta, finalmente deserta…

***

Da «La pòlis che non c’è»

Dattilografica torre

questo chicchirichì
di gallo / ch’io
distinguo / fioco / fra
fruscii meccanici di
motori / e questo so-
gno / (due fratelli in
cammino sul ciglio
di un burrone / uno che
procede spedito / ed
è subito in basso / al
sicuro / l’altro inve-
ce barcollante / sul
viscido manto d’erba /
s’aggrappa ad un uli-
vo contorto / o altro
albero storto / pian-
tato proprio là / sul-
l’estremo ciglio /
e guarda / l’abisso
che così facilmente
pensa / quasi tutti
normalmente discendo-
no/ e guarda vicinis-
sime / le sue mani in-
debolite mollare la
presa) / son momenti
che potrei lasciar per-
dere / o prendere ap-
pena sul serio/ spun-
ti per una poesia (che
ormai é cosa fatta) /
e d’una particolare
presentazione gra-
fica / d’uno scritto-
re impietrito / sulla
sua olivetti studio
/ che / voi lettori
avrete adocchiato già
prima di leggere /
costruttore di questo
muro / di parole-mat-
toni / grafica torre /
oh steimberg! / che
lo rinchiuderà

Nato a Baronissi (Salerno) nel 1941. Vive a Cologno Monzese (Milano) ed ha insegnato nelle scuole superiori. Ha pubblicato cinque raccolte di poesia: Salernitudine (Ripostes, Salerno 2003), Prof Samizdat (E-book Edizioni Biagio Cepollaro 2006), Donne seni petrosi (Fare Poesia 2010), Immigratorio (CFR 2011), La polìs che non c’è (CFR 2013). Ha anche tradotto dal francese, curato manuali scolastici sulla Commedia di Dante e con Pietro Cataldi ed altri è coautore di DI FRONTE ALLA STORIA (Palumbo 2009). Suoi testi di poesia, disegni, saggi e interventi critici sono apparsi su varie riviste (Allegoria, Hortus Musicus, Inoltre, Il Monte Analogo, La ginestra). Dal 2006 al 2012, all’interno delle iniziative della Casa della Poesia di Milano ha condotto il Laboratorio MOLTINPOESIA e cura i blog Poliscritture, Immigratorio e Narratorio grafico.

“Sonjuscka mio passerotto”

di Rosa Luxemburg

Ho letto in questi giorni, e ringrazio un amico per la segnalazione, una lettera che Rosa Luxemburg, inviò dal carcere ad un’amica, moglie di un suo compagno di lotta incarcerato, nel dicembre 1917, due anni prima della sua morte, di cui quest’anno ricorre il centenario. “Sonjuscka mio passerotto” è un testo bellissimo e, nella sua semplicità, molto profondo e persino enigmatico…Anche un bel esempio di prosa-poesia. Con essa, Rosa Luxemburg intende confortare l’amica, ma penso anche se stessa mentre si trova a vivere rinchiusa in una buia e fredda cella, e infondere quella calma interiore “…che smentisce ogni male e ogni tristezza e li trasforma in trasparente chiarezza e felicità”. Immagino che Rosa Luxemburg, con questi pensieri, tenesse in animo, saldo come una roccia, il suo progetto di vita e rinfocolasse gli ideali rivoluzionari per cui tanto lottava…Proprio in virtù di tali ideali e valori, aveva coltivato la sua umanità e l’amore per gli altri, la natura e l’arte, ma anche sondato le brutture dell’animo umano e gli orrori che ne derivano, allora più che mai scatenati e dilaganti in tempo di guerra…Individuava le cause di tali mali dell’ingiustizia umana nella cieca violenza e nello sfruttamento dei poveri e, proprio nel carcere, si trovò nella situazione di riconoscere in uno dei poveri bufali ferocemente domati e deportati dalle libere praterie rumene in Germania per svolgere il duro lavoro di traino, in sostituzione dei cavalli, una delle vittime più indifese e, nello stesso tempo, simbolo di tutte le vittime . Quando l’animale, nel cortile del suo carcere, viene bastonato e perde sangue, la scrittrice soffre con lui e vede, nella tristezza dei suoi “dolci occhi neri”, il volto rosso per il pianto di un bimbo maltrattato…Lo chiama “fratello” e, a lui che non sa piangere, presta le sue lacrime…La commossa rievocazione di questo episodio mi ricorda, tra l’altro, una poesia di V. Majakovskij (“Come ci si comporta bene con i cavalli” 1918 [già pubblicata su Poliscritture qui) dove il poeta russo descrive la sua compassione e solidarietà per un vecchio cavallo deriso crudelmente quando stramazza a terra, durante una parata, chiamandolo “bambino”…Due scritti quasi contemporanei, chissà se i due rivoluzionari e animalisti si conoscevano? [Annamaria Locatelli]

Per il testo di Rosa Luxemburg rimandiamo al link sotto nel rispetto della volontà dei redattori de “IL GIORNALE DEL RICCIO” che della lettera hanno curato una bella pubblicazione on line con l’avvertenza che riportiamo:  VIETATO COPIARNE IL CONTENUTO ANCHE PARZIALE SU ALTRI SITI. CHIEDIAMO GENTILMENTE DI CONDIVIDERE DIRETTAMENTE IL LINK DELL’ARTICOLO E DEL RELATIVO FACEBOOK. GRAZIE PER LA DIFFUSIONE.
https://ilgiornaledelriccio.com/2017/01/15/rosa-luxemburg-oh-mio-povero-bufalo-amato-fratello-la-lettera-a-sonja-liebknecht-del-1917/

Per ricordare l’incontro di oggi 19 settembre

[...]  Questo io se n’è andato da solo, anche quando è stato in mezzo agli altri. La città (o le città o i luoghi) in cui è vissuto, le persone con nome e cognome conosciute, i fatti accaduti in società dilaniate dalle tensioni sociali e politiche restano quasi innominati. Sono stati sottoposti ad un procedimento di ascetica estraneazione, che alla fine ne mostra esclusivamente l’inconsistenza (e si potrebbe pensare a quanto avvenuto in pittura con l’astrattismo).

[E. A., Appunti su «Viaggi» di Eugenio Grandinetti, in POLISCRITTURE
 (QUI)]  

«Ragazzi tanto per staccarci un po’ dall’intellettualità…»

Riordinadiario 2011

Ennio Abate a Lucio Mayoor Tosi (11 febbraio 2011)

Siamo, infatti,  passati, quasi senza accorgercene, dal ”Siamo tutti intellettuali” (ai tempi di Gramsci, quando essere intellettuali era un privilegio per pochi e un’aspirazione per molti) all’ “Abbasso gli intellettuali” (ai tempi nostri, della TV, del Web, della società dello spettacolo). E nella nostra mailing list serpeggiano eufemistici o sibillini messaggi, che in sostanza dicono: Gli intellettuali  sono non-concludenti.(Con il mio intelletto, traduco: inconcludenti; e cioè parlano e parlano ma non concludono un c…). La stessa solfa viene ripetuta in varie dosi. Con gran spreco d’intelletto e abbondanza di fumo, secondo me. Perché chi scrive un post  o mette quattro frasi in fila di commento, di un po’ d’intelletto pur necessita.

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L’intellettuale da asporto

di Canio Mancuso

 Il riciclo secondo lo spazzino
 
 I testi sono chiari:
 non ti lasciano
 soltanto le persone;
 anche gli oggetti
 alla fine del gioco
 allineati lì sulla banchina
 per dirti un addio allegro. 
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