Arturo con lentezza lentezza, spinge, con una mano, un carrello ancora vuoto. Con l’altra mano impugna la lunga lista della spesa che l’Elvira gli ha preparato con minuzie. Arturo ha settantatré anni e l’Elvira sessantaquattro. Ma é Arturo quello che va ancora in bicicletta.
Donatella Di Cesare, la studiosa di filosofia che si è distinta per la sua costante e indignata attenzione alla tragedia delle odierne migrazioni e ha pubblicato nel 2017 «Stranieri residenti», un libro importante, una vera e propria «filosofia della migrazione» tesa a smantellare i pregiudizi identitari e “sovranisti” che vedono il migrante come il «malvenuto», un «essere fuori luogo» o l’accusano di «occupare il posto altrui», ha invitato a firmare una petizione indirizzata al presidente del consiglio Giuseppe Conte [tra l’altro appena dimessosi] su Change.org (qui) con questa premessa: «È possibile una tale crudeltà politica? Noi che che abbiamo ancora coscienza, sentendoci impotenti, firmiamo».
Avendo da tempo su Poliscritture affrontato la questione delle nuove immigrazioni (qui), non ho alcun dubbio nell’apprezzare l’intenzione umanitaria di questo appello. E non intendo insistere troppo sul fatto che in genere ogni appello viene ignorato dalle autorità politiche che hanno una precisa politica di strumentalizzazione delle migrazioni. Voglio però ricordare una cosa: la «crudeltà politica» che Donatella Di Cesare attribuisce a Salvini non è solo «possibile» – la si sta infatti praticando (e Salvini (Lega), con l’approvazione di Di Maio (M5S), segue le orme lasciate già da Minniti (PD) – ma non viene più affrontata politicamente da quanti a queste politiche migratorie disumane pur intendono opporsi.
Perciò prima di firmare – così ho scritto in un commento nella bacheca della Di Cesare – vorrei che si chiarisse che *accusiamo* FIRMANDO quelli che tale crudeltà politica la permettono o l’approvano. E vorrei anche che si dicesse che oggi dobbiamo ricostruire una cultura politica capace di combattere costoro con tutti i mezzi. Anche con quelli “crudeli” che essi non esitano ad usare contro i più deboli e in difficoltà. Anche se oggi non ne disponiamo. Dico questo per desiderio di vendetta? No, di giustizia. Firmare, invece, «sentendoci impotenti» e senza porsi lo scopo di costruire una potenza benefica a favore degli umiliati ed offesi, a me pare un gesto generico e senza senso (politico). Essendo il vero scandalo che da anni stiamo sopportando non la ferocia istituzionalizzata di questo o quel ministro (e non solo verso i migranti ma anche verso le classi sociali medio-basse indebolite dalla crisi in tutti i paesi) ma proprio la viltà e i calcoli da azzeccagarbugli di quanti – Salvini o chi per lui – combattono solo a parole e con vecchie, consunte “belle parole”. Posso anche considerare che siamo arrivati al punto che non sia più possibile disobbedire in massa ai loro diktat. Ma allora, al posto degli appelli generici, meglio tacere e riorganizzarsi da zero.
L’idea sarebbe quella di «partire da un’ampia alleanza di soggetti sociali che abbiano almeno la potenzialità di evolvere in senso socialista» e «nella prima fase prevedibile» è d’obbligo che questi soggetti sociali assumano un «carattere nazional-popolare e neogiacobino con l’obiettivo primario di ricostruire almeno le precondizioni (del socialismo)» che consisterebbero in una «reale partecipazione al processo decisionale e di redistribuzione del reddito». Questa, in sintesi, è la proposta del libro «Il socialismo è morto. Viva il socialismo» di Carlo Formenti che la recensione di Alessandro Visalli (qui) condivide e avalla.
Quel tumulo di suoni rococò raccolse le palpebre come briciole del pianto - un cipresso, stupito fino alle radici, sbirciava la Signora, e in penombra la sua risurrezione, a malincuore.
è una lama d’assenza che ci unisce Emilio VillaConsegna alla Sibylla il tuo oracolo non scritto,fa che l’Enigma resti inattuale e inappagato,procedi inesistente lungo la demarcazione oraleperché dell’Uno non resti il Tutto, ma un Responso.E se di frenesia s’è nutrito il Labirinto avidodopo il pasto di specchi e d’onniscienze, immacolata è la rivolta d’un oggetto che nega alla bianca pagina d’essere simile alla sua distruzione inascoltata. Il mio Testamento fu ed è un Dedalo dove Pizie e Arpiereclamano dagli Ordini la mia dissipazione, e il Cantod’una parola che crocefissa manca un fine non spiegatoo assenta il Fondamento che la genera e la nega sussistente.Antonio SagredoVermicino, 07-10/03/2005
Questo è un altro capitolo del romanzo di formazione inedito, a cui sta lavorando Franco Tagliafierro. Il primo è stato pubblicato qui [E. A.]
Arrivare a Trieste, prendere una camera in un albergo economico nei pressi della stazione, lasciare la valigia sulla panchetta apposita, darsi una rinfrescata, cambiarsi o non cambiarsi la camicia, meglio cambiarsela, scendere in strada, eccolo là un telefono pubblico, estrarre dal portafoglio il frammento di cartolina ripescato dal fondo di un cassetto, c’è scritto un numero e a fianco un nome, il numero potrebbe essere ancora lo stesso oppure no, pronto, la voce è la sua, bene, tutto più semplice, sono Orlando, tre anni fa, a Milano Marittima, la voce risponde all’istante, ma solo con esclamazioni generiche, il ricordo di lui non può non aver generato anche esclamazioni specifiche, che però rimangono mute, come di chi esita, lui dice sono a Trieste, la voce di lei si amplifica, si colora di allegria, dice questa sì che è una sorpresa, l’allegria autorizza lui a dire allora possiamo vederci, certo, anche subito, a metà strada, in piazza Unità d’Italia, vai sempre dritto per Riva 3 Novembre, fra mezzora nel Caffè degli Specchi, sarà bello incontrarci là.
Questo, che ha per tema un’accorata meditazione sui “poveri figli della droga e di altri disumani/piaceri”, è l’ultimo poemetto inviatomi prima della sua morte dall’amico Éderle che dovevo pubblicare. Molti sono i testi che in questi anni, a partire dalla morte di Gianmario Lucini, egli ha voluto mandare a Poliscritture. Non so quanto condividesse la mia scelta di metterli nella rubrica ibrida di “Poesia/moltinpoesia”, come faccio del resto con tutti i poeti che chiedono ospitalità su questo sito. So soltanto che ora tocca ai lettori – quelli che s’imbatteranno per la prima volta nei suoi versi e quelli che vorranno rileggerli – riflettere su questo lascito poetico. Per intenderlo più a fondo, al di là delle contingenze e delle distrazioni che ci assillano, nelle sue luci e nelle sue ombre. [E. A.]
Ecco il penultimo dei poemetti che Arnaldo Éderle mi aveva mandato prima della sua improvvisa morte. [E. A.]
A Tommasina
E’ rimasta solo la testa? Ma… troppo poco, anzi niente. Il corpo è lì attaccato, senza di lui il cranio non risponde è atrofizzato, lì sotto ci sono il cuore i polmoni le gambe i piedi le braccia e via dicendo, ma che saranno mai questi attributi? Non si nominano mai, ma ci sono e sono vitali come gli occhi e le mani, tutte cose che via via si adoperano. Continua la lettura di Solo la testa?→